lunedì, novembre 30, 2009

La follia di Alfonso Cortés

Maria Luisa Cortés, scrisse nella biografia di suo fratello (Biografia di Alfonso Cortés):

Una notte, a metá del mese di Febbraio del 1927, dopo diversi giorni di bevute si alzó a mezza notte e disse a mio padre: “papá non so che cosa mi succede, ma mi sento come se non fossi io, mi sembra di essere il Papa o l'Anti-Papa. Mi vengono idee orribili, non posso dormire”. Mio padre rispose: “Figlio mio, hai mangiato qualche cosa di indigesto con tutto quello che hai bevuto in questi giorni, ti daró un purgante”. A partire da quel momento ci alzammo da letto e nessuno riuscí piú a dormire in tutta la casa. Lui iceva. “Venite qui con me che da quella parte c'è l'inferno, ci sono i dannati. Ecco il confine. Allontanatevi sorelline, venite con me qui è la Gloria”. Cosí passammo tutto il resto di quella tragica notte vivendo con lui dentro la Divina Comedia fino al mattino. Il giorno dopo furono chiamati i medici: il dottor Abraham Marín suo padrino di battesimo e il dottor Fernando Cortés Rocha, suo cugino che dichiararono che era impazzito.

p. 74

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Nella “Prefazione” al suo libro: “Il Poema quotidiano (e altre poesie) scrive Alfonso Cortés:

Come risultato, in quei giorni della perdita dell'essere piú amato che della nostra vita, delle lotte mentali combattute e dello squilibrio economico della casa paterna, mi accadde di aver dovuto soffrire uno stato confusionale, che si avvicinava alla follia e che non era nient'altro che la teratologia che suole colpire frequentemente gli intellettuali che lavorano intensamente e profondamente. Siccome capitó a me in modo tale che provvocó non poco disordine mentale e nervoso, ebbene, dovetti sopportare in quei momenti lo spettacolo extra-naturale di una visione terrorizzante como quella che riferisce il profeta Giobbe nel suo libro, e mio padre decidette di trasferirmi alla clinica dell'Ospedale per Malati di Mente della capitale dove, dopo lunghe cure potei ritrovare la salute. (Il poema quotidiano, p. 11).

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Ernesto cardenal sostiene che la follia di Alfonso la provvocó la sua intimitá con Dio. Scrive Cardenal: “Deve essere una intimitá terribile, quella di Dio per rendere folle: - Non voglio piú sentire il solletico di Dio nel mio cervello - grida Alfonso in una delle sue poesie. ... è un tipo di follia non ancora conosciuta dalla scienza e che si chiama “solletico di Dio nel cervello”.

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Alfonso Cortés perse la ragione ma non la poesia.
Carlos Tunnermann

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Negli ultimi anni della sua vita la sua follia diventó tranquilla in modo che fu possibile che le sorelle che ebbero sempre cura di lui lo trasferissero alla sua casa di León. nei primi anni, invece, la sua follia aveva momenti di furore per cui i suoi genitori dovettero incatenarlo a un asse del tetto, tanta era la sua furia che giunse a piegare le sbarre che proteggevano la finestra. Scrive ancora Ernesto Cardenal: “ricordo i suoi occhi pallidi, celesti e la sua barba rossastra, quando con i compagni di scuola passavavamo per casa sua prendendolo il giro... allora non sapevamo e non lo sapevano nemmeno i grandi che quell'uomo era uno dei piú grandi poeti della lingua castigliana”.

A cura di genseki

giovedì, novembre 26, 2009

Alfonso Cortés

In questa foto Cortés ha ventisette anni. Poco dopo la follia improvvisa lo condannerà a vivere ventidue anni legato a una trave della sua casa.

Altre traduzioni di Cortés si possono leggere qui

genseki

Alfonso Cortés

La pietra è una delle forme estreme che la ricollocazione dell'Io raggiunge nella poesia del Nicaraguense Alfonso Cortés. Unpoeta la cui personalità si confonde con insostenibile intensità con l'immensitá del cosmo. Cortés colloca il suo Io nell'intimitá della pietra attraverso l'osservazione allucinata dello scorrere del tempo. La pietra è ció in cui il tempo sembra raggiungere il limite massimo di viscositá. La coscienza allucinata della pietra è coscienza di un quasi limite del tempo.

genseki


Le pietre


Le pietre, ahimé, le pietre hanno un segreto
Dolor che appare come in carni vive
Quando con egoismo sofferente e discreto
Sembra che la vita abbiano a sdegno
E s'oppongano al tempo tenacemente schive
Come se volessero interromperne il regno.

Son mute e rassegnate con il vento
E con l'acqua, non nutrono altro intendimento
Che ribellarsi contro la lor sorte
E sopportar con disdegno il fato,
Ben oltre l'acqua, il vento il fuoco irato
Senz'ansia, forza, vita, senza morte.


È un prometeico supplizio senza nome,
D'essere bestia o albero peggiore
Enti di un'era all'uomo anteriore
Condannate da una vendicativa norma
In sé prigioni – forse perché un giorno
Tolsero al caos il dono della forma.

Vantando invano un simbolo vero
All'apparir del volto della luna
Indagano le cose del mistero,
Aprono al vento che audace le flagella
Le bocche atroci prive di favella
Alzano teste senza alcun pensiero.

E forse in una forma di esistenza
Piú ampia della personalitá,
Vive la natura nella loro coscienza
E ignorano, tanto a lungo han consevato
In sé gli Annali dell'Eternità,
Ch'oblio non v'è ove memoria è spenta.


La pietra viva


La pietra si sveglió (pietra pur era
Come le altre che stanno nel monte
Muschio la pelle e edera le vene)

Gli occhi dischiuse (In quell'ora rara
Che s'illumina il sole come un rogo
Per scaldar la capanna del pastore).

Ecco due passi, intanto, (Era sonora
E barbara la pendice montagnosa
Il vento pettinava la sua cupa chioma).

In tremito interiore si inquietava
La pietra fin che l'ansia
Aperta fe la bocca ai suoi pensieri:

Dove sei mai? Dove sei mai, distanza?
Irrelata de il tempo smisurato,
E quello che Dio è, sola fragranza?

Svestitemi vi prego questa tunica
Con essa l'esser mio non è che cosa,
E la forma il carcer della vita.


Trad. genski






martedì, novembre 24, 2009

Aforismi di Hugo

Se volete restare forti, restate piccoli. Siate il nulla. Il serpente che riposa, coricato in spire circolari, simboleggia insieme l'infinito e lo zero.


Victor Hugo
L'uomo che ride



La promessa

Da ognuna di queste note traspariva
La bellezza del Tuo sorriso
Mentre pronunciavi la promessa
Che a compiere verrai il giorno tremendo
In cui tutte le promesse
Saranno sangue, cenere e sgomento
Con lo stesso sorriso.

genseki

lunedì, novembre 23, 2009

Lucian Blaga

L'eone dogmatico

Posto di fronte al mistero metafisico, lo spirito credette in un certo momento che avrebbe avuto il diritto di formularlo anche senza comprenderlo. Questa sfida supera tutte quelle mai lanciate dal pensiero degli uomini. Normalmente l'intelletto formula solo ciò che si può ridurre a termini e relazioni logiche. Oppure anche fatti di intuizione, che, nel caso in cui non siano pensabili logicamente, risultano comunque organizzabili attraverso l'incorporazione del concreto alogico in nozioni. (L'alogico puó essere trattato in questo modo). Esso, tuttavia, non cerca di formulare prorio nulla se non è data nessuna di queste possibilitá. Per l'intelletto qualche cosa è “formulabile” nele senso ampio del termine, quando è “razionalizzabile”. Ogniqualvolta pensó di trovarsi di fronte a un oggetto non razionalizzabile, trascendente o empirico, la filosofia rinunció a qualunque formulazione. Solo la metafisica dogmatica osó proporre formule che stessero in disaccordo con le funzioni logiche dell'intelletto. La metafisica ebbe i suoi grandi momenti in India e in Grecia. Un tema seducente, come sappiamo, sul quale sono state scritte moltissime variazioni. A qualcuno è venuto in mente qualche volta di parlare, in questo contesto, cioè in un contesto puramente filosofico e “comme il faut”, anche del dogma di Filone, degli Gnostici o dei Cristiani? I Santi Padre, oltre il pensiero magico, nel quale caddero con una certa frequenza, e della produzione ingenua nella quale si compiacquero, mostrarono anche un senso singolarmente profondo per la metafisica che merita di essere messo in rilievo. Il dogma, e non parliamo di un dogma determinato ma del dogma come metodo di pensiero, è un procedimento metafisico per eccellenza, non è l'unico, certo, ma ha in sé il significato di un punto di arrivo, di una conclusione di tutti gli altri metodi, ne è come la corona. La mente greca, brillante per la sua curiositá, i doni plastici e metaisici si azzardó fino solo sul limite della scienza “Dell'aldilà”, ivi compreso Plotino, un gran maestro della riflessione metafisica, che comunque non restò completamente tagliato fuori dal dogma.
In un certo senso, tuttavia i Padri della Chiesa sono solo contingentemente metafisici. I loro costrutti sono moltompoco orientati cosmicamente, troppo unilaterali centrati in elementi singolari ibridamente mescolati con elementi non filosofici. Paradossalmente, risultano essere invece dotati della più profonda attitudine metafisica. Dal punto di vista filosofico, la metafisica di Plotino è indiscutibilmente piú monumentale, matura e libera da elementi che minaccino la purezza della filosofia di quanto non lo sia la metafisica patristica. La maniera di enunciare dei padri, la loro abilitá nel mettere in evidenza il mistero senza razionalizzarlo, la fredda rinuncia alla logica una volta che se ne siano esaurite tutte le sottigliezze, l'estrazione dei concetti dal loro ingranaggio logico per dotarli di poprietá differenti, sono aspetti della spiritualitá patristica in grado di impressionare ancora oggi. Non negheremo che i dogmi menzionati, cristiani o non cristiani, risultino per il loro contenuto, strani. E non perché siano “assurdi”, bensí perché sembrano caduchi. “L'assurdo”, nel significato speciale che assume nella sfera dogmatica, non è un motivo sufficiente per rifiutare una formula. Nei dogmi in discussione si concentra un materiale molto antico. Inoltre nei loro elementi costitutivi i combinano, secondo un criterio che urta contro la nostra mentalitá, sequenze di pensiero astratto con sequenze magiche e mitologiche, con molte delle quali non abbiamo ormai piú nessuna affinitá spirituale. Ai momenti mitici si attribuisce lo stesso valore che a quelli astratti. La supposta equivalenza tra logo e mythos compromette, secondo noi piú i dogmi in questione che non il metodo dogmatico in se stesso. Non avremmo nessun problema ad accettare dogmi che si situino esclusivamente sul piano mitico, e neppure dogmi elaborati esclusivamente sul piano concettuale. Tuttavia non con dogmi - giochi incoerenti – in cui i due piani si sostituiscono capricciosamente e si confondono ad ogni passo. ecco perché, tra molte altre ragioni, i dogmi analizzati e altri simili non possono in alcun modo i nostri dogmi. La domanda è se coloro che rifiutano i dogmi per il loro contenuto caduco comprendono a sufficienza l'ateggiamento spirituale che portó alla loro elaborazione. Pensiamo di no. Fino ad oggi non si è intrapresa una analisi minuziosa della struttura dei dogmi e dei loro procedimenti. Se si fosse intrapesa, almeno nella misura in cui lo si fa in questo saggio, si sarebbe notato che, a parte i dogmi che provocano rifiuto per il loro contenuto, c'è anche uno spirito dogmatico, un metodo dogmatico, che, una volta attualizzato potrebbe generare nuovi dogmi miracolosamente convergenti con le necessitá spirituali del nostro tempo: dogmi, cioè, forgiati con elementi mitici o concettuali estratti dalla coscienza dell'attualitá.
A noi i dogmi del passato possono appena servire come pretesti per stabilire un “tipo di conoscenza” o di “ideazione”, se si preferisce. È possibile qualche cosa del genere? Per centinaia di anni i filosofi pensarono così. Lo si verifica con la storia alla mano. Se fu possibile un tempo, si debe ammettere che l'atteggiamento spirituale che serví di sostrato in quell'occasione, potrá riapparire nel corso della storia, con la stessa forza e con le stesse conseguenze creatrici che durante l'eone patristico. Per la loro vocazione spirituale, i Padri della Chiesa possono essere considerati, per tanto, anche i rappresentanti simbolici di una possibile metafisica del futuro.

Lucia Blaga
Trad genseki

Claude Debussy: Harmonies du soir

Armonia della sera

Per Shirakumo

Ecco venire il tempo quando sul proprio stelo
Ogni fior si consuma come fosse d'incenso;
Suoni e profumi danzano nell'aria della sera;
Un valzer melancolico di languida vertigine!

Ogni fior si consuma come fosse d'incenso;
freme il violino come un cuore che si affligge;
Un valzer melancolico di languida vertigine!
È triste e bello il cielo come un altare immenso.

Freme il violino come un cuore che si affligge,
Tenero cuor nemico al nulla vasto e nero!
È triste e bello il cielo come un immenso altare;
Il sole s'è sommerso nel suo sangue rappreso.

Tenero cuor nemico del nulla vasto e nero,
Dell'ieri luminoso raccogli ogni vestigio!
Il sole s'è sommerso nel suo sangue rappreso.
Riluce il tuo ricordo come chiaro ostensorio.

Baudelaire
trad. genseki

sabato, novembre 21, 2009

The Akathist - Akathistos Arabic - Ἀκάθιστος - المدائح

Seduto sotto il mango

Seduto soto il mango
I piedi immersi nella polpa verde
Del mare ribollente come mosto
Solo fissavo il tuo volto affumicato
I chiodi arruginiti delle tempie
Le spine che cucivano le labbra
Il ritmo dei tuoi cauri mi scuoteva
al battito delle catene percepivo
La vorticosa presenza dei galli
Il loro splendore tolemaico
Le stelle che brillavano di anice.
O pelle di cipolla, pelle arata
Ho solcato di lacrime le lame
Cosparso di cannella le ferite
Marinato nel rito passi e fianchi
Seduto sotto il mango
Dimentico delle mele e della salvia
Aspra saliva raccolsi tra i tuoi denti
Permettendo che il grido dei palmizi
Mi penetrasse alto e frastagliato
Della mia dignitá facendo strazio.

genseki

mercoledì, novembre 18, 2009

Angela

La meraviglia di questi marosi
Era il rumore dei loro colori
Fragorosi come il vino acido
Sibilanti come scie di perle
La loro frequenza crepitante
Come una pergamena tra le pale
Di un vecchio rotore.
La meraviglia di questi marosi
Era la loro natura mentale
La loro rivoluzione inarrestabile
Su di assi tanto corti.
Potevano infrangersi tranquillamente
In un angolo del mio studio e
Poteva contenerli il palmo della mia mano.
Li vidi tra le ciglia di Vimalakirti
Quando giocava a bocce con i Kalpa
Tra foglie secche nell'autunno di Langa,
Quando i miei zoccoli risonavano sull'acciotolato
I marosi erano veri e propri universi conflagrazioni di Sutra
Fu allora che tu apristi l'ombrello con un gesto
Tanto grazioso
E restasti nuda sotto il baldacchino di berillo
Vasto come l'universo del Buddha Cariasuryapratibha.
Nuda come la poesia
Sulle piazze di Mondovì le Mamiwata
Sgozzavano i galli per il rito
E il sangue fresco tingeva i capelli dei bambini della colonia polacca.
O Cristo, dove li hai lasciati i tuoi sandali
La tunica fragrante di trigo
Tutte le segretarie di Fossano tornavano dal lavoro
Tutte nel medesimo istante spingevano le chiavi nelle toppe
Sul mio quaderno nuovo scorrevano i Sutra
Come sullo schermo segnaletico dell'autostrada
Avevo scelto il veicolo del Bodhisattva
E mi rtrovavo su un treno locale,
Le gocce di pioggia sul finestrino sporco
Erano ciascuna un universo perfetto
Lontano, tra le luci delle fabbriche
Tu sorridevi, un lupachiotto al seno
Marosi
Marosi
Che meraviglia!
Come velluto sul palmo della mia mano

genseki

sabato, novembre 14, 2009

Gesú e Maria nell'Islam

Molte persone non sanno che Gesú (Isa) è uno dei profeti più importanti profeti e messaggeri dell'Islam. Mettere in risalto i valori rappresentati da questo profeta che,secondo Ibn Arabi è il sigillo della santità, significa, in un certo modo compartire con i cristiani e con la societá giudeocristiana in generale i suoi valori piú alti e solidaristici.


Allah ci dice en Qur'an che Gesù, la pace sia con lui, fu un profeta ispirato da Lui, che la sua stazione spirituale è quella dello spirito santo...


Gesú è Ruh al Quddús, spirito di santitá, Gesú, inoltre perfeziona la legge e supera la religione dei predecessori, la forza dell'abitudine religiosa per mezzo dell'amore e ci permette cosí la realizzazione spirituale.


La rivelazione di Gesú nel Vangelo (Inyil) secondo i Qur'an ha come tema centrale la nascita del verbo, della parola dopo una lunga gestazione nel cuore prima che il senso si articoli nella nostra gola. La parola che emette il profeta non è solo discorso eloquente, ma il verbo creatore stesso, la parola divina capace di conformare il mondo e la visione umana, capace di articolare i nomi di Dio nel mondo visibile per poter ricordarlo. Questa parola ci prepara per l'incontro con il messagio di Muhammad, la pace sia con lui, al termine del nostro viaggio sui sentieri dei profeti e dei santi.


I Sufi dicono che svegliare Gesú nel nostro significa significa accedere al linguaggio creatore che sgorga dal cuore illuminato.


Tra i musulmani c'è una speciale venerazione per Maria, la pace sia con lei. Secondo quanto dice il Qu'ran nel sura della casa di Imrám, la madre di Maria la concepì per consacrarla al servizio divino. La sua tutela fu affidata a Zaccaria, la pace sia con lui, che era suo parente. Egli la visitava nel tempio e sempre trovava accanto a lei alimenti e provviste. Quando le domandava dadove venissero lei rispondeva: “Da Allah, certamente, egli povvede senza limite a coloro che ama”.


Il Qu'ran ci spiega anche come Maria diede alla luce un figlio, Gesú, un profeta che sará conosciuto come Isah Ibn Mariam, Al Masih, l'unto, che è un riferimento al suo lignaggio allo stesso tempo profetico e regale. La sua preminenza è valida tanto in questa vita come in quella futura, Gesú, la pace sia con lui, discendeva per linea paterna dalla casa di david, e, per parte di sua madre, Mariam, dalla casa di Aronne, la pace sia con loro. Unisce nella sua genealogia il mulk e il malakut, il cielo e la terra, mediante un barzak che solo è posibile per mezzo di una parola purificata.


Nel Qu'ran, Gesú, la pace sia con lui, ci parla fina dalla culla, perché la sua rivelazione è il verbo creatore e questo non è il discorso di un essere umano con una biografia e con una storia, bensí l parola dell'essere umano realizzato. Allo stesso modo la parola non è solo la vibrazione della gola, ma ha bisogno del fiato, del prana, del significato, per potersi articolare, così il Gesú del nostro essere non è soltanto la capacitá di comprendere e diffondere la lingua ma la possibilitá di trasmettere la rivelazione, il significato attraverso lo spirito e la compassione universali.


La adorazione umana ha bisogno della parola perché Dio organizzó la nostra natura in questo modo, la nostra natura è la stessa natura di Adamo, capace di riflettere al suo interno le luci e i suoni del mondo, le pulsioni dell'universo e il sentire di Dio.

Grazie a questa sua capacitá di nominare il mondo e riflettere così la creazione, Allah ci dice nel Qu'ran che per Lui la natura di Gesú è come quella di Adamo, la pace sia con loro.


...


Il messaggio di Gesú, ome quello di Muhammad, la pace sia con loro, è universale, per tutta l'umanitá...


La compassione che è un sentimento spirituale e un valore per tutte le religioni acquisisce cone Gesú, la pace sia con lui, una nuova potente dimensione.

Tale compassione è ralazionata con il fatto di compartire un destino, una visione, cercando di comprendere coloro che percorrono altri sentieri spirituali.


Oggi sono più necessari che mai i luoghi di contatto di incontro, angoli di mondo dai quali poter guardare il futuro con una cetta speranza collettiva. Proprio per questo avvertiamo l'immenso valore che acquisisce oggi il messaggio di Gesú.


Hashim Cabrera

Webislam 10/01/05

trad. genseki




venerdì, novembre 13, 2009

Francis Bebey

Francis Bebey lo conobbi a Yaoundé al principio degli anni 80, durante e dopo un concerto. Era rimasto colpito dal mio livello di camerunizzione, di mimetizzazione linguistica e gestuale che faceva di me una specie di comico bianco innegrito dalla gestualitá islamica e dalla gandura che si voleva impeccabile. Insomma lo facevo ridere. Il gin mi produceva allora una bulimia incipiente e una pecoce caduta dei capelli. Non avevo incontrato Khidr Elia e stufo della ignominia dei missionari europei in cui i toccava immergermi quasi tutti i giorni ritornai in Italia con una sciabola fulbé, un cappello del Burkina Faso e una gandura da cerimonia, pochi mesi dopol'incontro.
Rividi Francis Bebey a Ceriale, durante un concerto per una qualche disgustosa ONG succhiafondi. Era un concerto, quello che tenne di musica, direi, etnologica eseguita con correttezza professorale. Non era il scintilante cabaret camerunese che avevo conosciuto molti anni prima. Chiesi a gran voce Agata. non la cantó. Ci rivedemmo dopo in una birreria. Continuava a trovare molto comico il mio cipiglio da bianco innegrato e musulmano. Disse che Agata non si poteva cantare in Italia perché il testo è difficile da capire se non si è letto il romanzo. Ci scambiammo i numeri di telefono. Me lo chiese lui e mi disse che probabilmente non ci saremmo mai telefonati. Fu proprio così.
genseki

Francis Bebey Agatha

Andiamo Agata
Non mi mentire
Si, hai capito bene
È tuo marito che te lo dice
Sono io che ti ho detto di mentire eh?
Tuo figlio, quello la
Tutti lo vedono che non è il mio
Ma con che faccia tosta vieni qui
A contarmi delle storie
Agata, andiamo tu sei nera dalla testa ai piedi
Come me
E allora! Come hai fatto a mettere al mondo un bambino bianco
E mio per di più?
Ma dai!

Mi prendi per scemo eh!
Ascolta! Il diritto di versarmi da bere ce l'hai
Ma non quello di mentire.

Agata, tuo figlio è nato da un mese
E non ha ancora deciso di prendere il colore locale
E tu vuoi dire che quello è mio figlio
Ci fai Agata? Ma dammi da bere va!
Il vino non mente!
La povera mamma me lo diceva
Figliolo tua mogli
Te en fará vedere di tutti i colori
Te lo dico io!
Di tutti i colori te en fará vedere.

Sei fortunata Agata
Sai?
Un bambino,
Che lo mandi il diavolo o il buon Dio
Che sia bianco o giallo
E persino rosso
Un bambini è sempre un bambino
C'hai una bella fortuna va!
Perché Re Salomone
Proprio lui in persona mi ha detto
Che lo devo tenere il bambino
Come fosse mio
Eh!
Ma attenta! Non mi contar più storie
Se mi fai un altro figlio, verde!
Dimmelo cheè verde, dai!
Non mi far credere che è nero.

Francis Bebey
trad. genseki

mercoledì, novembre 11, 2009

La Fable du Monde


Supervielle

La poesia da me tradotta nel post precedente è tratta dal Libro "La Fable du Monde" di Jules Supervielle. Jules Supervielle, banchiere, nato in America del Sud è stato un cancellato della poesia francese del secolo XX. Credo soprattutto per il carattere immediatamente non avanguardistico della sua poesia. Un cancellato come a suo tempo e per molti decenni lo fu Hugo. La letteratura francese suol essere un bosco di cancellati. Sarebbe lungo cercare di darne le esaustive ragioni, Lungo e noioso. anche Ronsard fu cancellato! A suo tempo. Essere cancellati significava essere ridicoli, cioè, per dirlo meglio, si era cancellati attraverso il ridicolo. Non so se sia ancora così, oggi che la poesia è stata complessivamente cancellata come funzione civile dalla societá "occidentale". Affermare il propri interesse, che so per "La Légende des Siècles" voleva dire essere ridcoli. I cancellati trovano, qui a Baige, una ospitalitá minima, che forse lascerá una tracciolina in google alla centoventimilionesima pagina. Finora nessuno è giunto a Baige cercando Hugo. Molti cercando "Topa nuda". Hugo è un caso raro di un intellettuale di sinistra ridicolizzato dalla destra nella persona di Ionesco e la cui cancellazione fu largamente accettata dai suoi confratelli progressisti con la sola eccezione di Aragon. anche questa anomali andrebbe approfondita. Hugo occultato, che so, a profitto di Sade,

geneki

Jules Supervielle

Traduzioi di genseki da "La fable du Monde".

La goccia di pioggia
(Dio parla)

Io cerco una goccia di pioggia
Appena caduta nel mare
In rapida verticale
Che più della altre brillava
E sola tra tutte le gocce
Sembrava che avesse capito
Che, dolce, nell'acqua salata
Doveva per sempre sparire.
Da allora la cerco nel mare
La cerco per soddisfare
L'incerto ricordo del quale
Son io il solo custode.
Invano, perché ci son cose
Che nemmeno Dio puó fare
Per quanti si sforzi davvero
E goda del valido aiuto
Dell'aria del cielo e del mare.

La congiura degli spagnoli contro Venezia

Quarta parte della traduzione dell'opera di Saint-Réal.
Per le altre tre parti cliccare qui

Don Pedro fece avanzare il Maresciallo di Campo Gambalotta verso Crema con alcune truppe, fece montare ventiquattro pezzi di artiglieria a Pavia perché, secondo quanto dichiarava dovevano accompagnare un corpo di ottomila uomini al comando di Don Sancho de Luna. Inoltre, il viceré di Napoli, che attraversava il Mediterraneo con la flotta spagnola e minacciava di attaccare il Duca di Savoia da Villafranca e bloccava tutti i rinforzi che potevano giungere alla Repubblica per il mare, considerava come un suo dovere entrare tutti i giorni nel golfo per tenere in iscacco la flotta veneziana.

I ministri veneziani avevano reclamato presso tutte le corti contro la violenza di questi metodi, il marchese di Bedmar cercó di giustificarli; credette che fosse molto importante rovesciare le fondamenta della venerazione che tutta l'Europa da tanti secoli nutriva per questa republica, che era considerato il piú antico e il piú libero di tutti gli stati. Tale libertá era stata appena messa a prova e innalzata ancora piú in alto in occasione del conflitto con il papa da molti scritti che sembravano ancora inconfutabili anche se la parte avversa non mancava di abili pubblicisti che avevano ben saputo rispondere. L'ambasciatore si era messo a leggere queste opere e in pochi capitoli aveva saputo confutare i numerosi volumi degli autori veneziani, senza degnarsi di citarne nemmeno uno, e siccome tra questi temi non v'è niuno che un uomo abile volendo non possa rendere un garbuglio, con il fine pretestuoso di stabilire il diritto dell'Impero su Venezia, mostró che l'indipendenza di questa repubblica era chimerica e chimerico era il suo impero marittimo. Siccome per i suoi fini era molto meglio ch'egli non fosse noto come l'autore di questo libello, lo fece pubbllicare in modo cosí abile che durante tutta la sua vita non si seppe che avesse qualcosa a che fare con esso. Sembra strano che nessuno lo sospettasse; ma si deve credere che i veneziani ancora non lo conoscessero bene, i suoi modi vivaci e impulsivi, con i quali si presentava, non permettevano loro di pensare che un uomo con un carattere cosí impetuoso potesse essere l'autore di una satire di stato di gran raffinatezza e sottigliezza. L'equità e la buona fede sembravano dominare questo testo; le dichiazioni contro i delitti dei veneziani che vi si trovavano, erano sempre nei termini di una apparente moderazione, che sola bastava a renderle plausibili. Quest'opera che ebbe per titolo: “Squittinio della libertá veneta” fece molto discutere. Non sapendo chi ne fosse l'autore il sospetto cadde naturalmente sulla corte romana, per via di altri scritti simili precedenti. Gli esperti del senato credettero che tutti ne sentissero la forza quanto loro stessi; se ne spaventarono di piú di una battaglia perduta, Frate Paolo ebbe l'ordine di esaminarla. Costui, che si era preso gioco di altri scrittori del partito avverso, dichiaró che in questo caso non conveniva rispondere, perché si sarebbe potuto farlo solo spiegando cose che era meglio lasciare sepolte nelle tenebre dell'antichitá e che se, tuttavia, il senato riteneva che la dignitá della repubblica soffrisse di questo oltraggio, egli si incaricava di mettere la corte di Roma in uno stato di tale ansia difensiva, che non avrebbe piú nemmeno pensato ad attaccare. Questo parere, che fu subito accettato nel fuoco del risentimento, permise a Fra' Paolo sarpi di pubblicare la sua amata “Storia del Concilio di Trento” che altrimenti non sarebbe stata pubblicata durante la sua vita. L'anno 1616 passó senza che nessuna delle due parti conseguisse un vantaggio considerevole. Il Duca di Savoia e i Veneziani, che non volevano far correre rischi di sorta alla gloria conquistata, diedero a Gritti, ambasciatore veneto a Madrid il mandato di riaprire i negoziati. Gli Spagnoli, indignati per la resistenza incontrata avanzarono proposte tanto irragionevoli, che la cosa non ebbe seguito. Gradisca restó bloccata, si continuó a battersi per tutto l'inverno, e gli eserciti si misero in campagna, giunta la primaver, a con un ardore tale che prometteva imprese ancora più grandi di quelli dell'anno anteriore. La tregua in Olanda aveva reso inutili quasi tutte le truppe di quello stato e ridotto gli avventurieri francesi e tedeschi a cercare impiego altrove. I conti di Nassau e di Lievenstein condussero ottomila olandesi e walloni al soldo della repubblica. Gli Spagnoli si lamentarono molto con il Papa del fatto che in questo modo i Veneziani esponevano l'Italia all'infezione dell'eresia veicolata da questi uomini d'arme; ma l'ambasciatore veneziano fece presto comprendere che non era tanto la devozione religiosa che faceva parlare gli Spagnoli quanto piuttosto il timore di vedere due grandi repubbliche unire le forze contro di loro. Il marchese di Bedmar avrebbe avuto dei bei problemi se il Papa avesse obbligato i Veneziani a licenziare quegli eretici. Siccome la maggior parte degli uomini d'arme quando servono un principe straniero non hanno in vista che il loro tornaconto, egli sperava di arruolare per i suoi fini queste truppe mercenarie, con un poco di denaro e la speranza del saccheggio di Venezia. Per negoziare questo affare mise gli occhi su di un vecchio gentiluomo francese, tal Nicolas de Renault, uomo di sapere e prudenza e che era rifugiato a Venezia per qualche oscuro motivo che non si riuscí mai a scoprire. Il marchese di Bedmar lo aveva frequentato a lungo presso l'ambasciata di Francia ove risiedeva.


César Vichard Abbé de Saint-Réal.

Trad. genseki

lunedì, novembre 09, 2009

Gaspard de la Nuit

Il Vespro

Quando a Pasqua o natale la chiesa verso sera
Si riempie di passi confusi e di ceri profumati.

Victor Hugo
Canti del crepuscolo

Dixit Dominus meus: Sede a dextris meis
Vespro


Trenta monaci spulciavano foglio per foglio i loro breviari unti come le loro barbe, lodavano Dio e mandavano il diavolo al suo ninferno.

"Madamina, le vostre spalle sono un mazzolino di rose e di gigli." E il cavaliere, inclinandosi cavò un occio al suo valletto con la punta della spada.

"Vi fate beffe di me!" - mormorava la smorfiosetta - "Vi divertite a farmi perdere il segno".
"Madamina, è l'Imitazione di Cristo, quella che state leggendo?"
"Macchè, è il Oracolo di galanterie amorose".

ma già i salmi erano stati cantati. Ella chiuse il libro e si alzó. "Andiamo, per oggi abbiamo pregato abbastanza."

A me, povero pellegrino inginocchiato in disparte proprio sotto l'organo parve che si udissero gli angeli scendere melodiosamente dal cielo.

Feci appena in tempo a cogliere da lontano un poco di profumo di incenso e Dio permise che potessi spigolare i chicchi del povere al fondo della sua ricca mietitura.

Aloysius Bertrand
Trad. genseki

Wolfram von Eschenbach


Se il dubbio fa il suo nido

Nei pressi del cuore
Ecco che presto nascerá amarezza.

Parzifal


domenica, novembre 08, 2009

Far pulizia per mezzo del vuoto

Il monaco raggiunge io suo scopo quando i suoi pensieri si calmano e non quando ha studiato molto. O voi che cercate lo spirito per mezzo ello spirito apprendendo dagli altri voi non fate altro che prendere e apprendere. Ma dove pensate di potr andare in questo modo? Gli antichi erano ben vivi. A loro bastava aver compreso una parola sola e smettevano di studiare, cosí si è detto di loro che erano discepoli pigri "che non facevano più nulla dato che non studiavano più". Oggi tutti vogliono sapere molte cose e imparare sempre di più. Si progettano grandi programmo di ricerca testuale sui sutra e questo lo si chiama "pratica", ma si ignora che le conoscenze teoriche troppo estese finiscono per trasformarsi in un coperchio soffocante. Quando si da molto latte da bere a un bebe, si dovrebbe sapere se sará in grado di digerirlo oppure no, Invece sempbra che non se ne sappia niente. I discepoli dei tre veicoli sono fatti tutti così. Soffrono tutti di indigestione, una indigestione di nozioni teoriche che è un po' come un avvelenamento, un'intossicazione che si manifesta in ció che è sorto per sparire. Nella quiddità non succede niente del genere. "Lame di questo ttipo non ne ho nel mio tesoro reale".
Bisogna "far pulizia per mezzo del vuoto" di tutte queste vecchie teorie. Quando non c'è più nessuna discriminazione si cade nel vuoto dell'embrione del Tathagata. L'embrione del Tathagata, che non è sporcato dal minimo granello di polvere, è la manifestazione nel mondo del "re della spiritualità che invalida l'essere". Quando il Buddha dice di "non aver trovato nessuna realtá" in Dipamkara, la sua sola intenzione è quella di liberarvi dei vostri affetti e delle vostre teorie intellettuali. "L'uomo senza qualitá" è colui che ha lasciato che la superficie e il fondo si fondano fino al punto in cui le passioni spariscano nell'assenza assoluta di un punto di appogio.

Huangpo
Dialoghi
Trad. a cura di genseki

Le altre parti della traduzione si possono leggere cliccando su Huangpo in fondo a questo post.

venerdì, novembre 06, 2009

Nicola Cusano III

Dell'apice della teoria parte III

Le altre parti si possono leggere cliccando su Nicola Cusano in fondo a questo post.

genseki

Pietro

Vedo le cose che dicesti, sebbene superino le mie capacità. Infatti che cosa potrebbe saziare il desiderio della mente se non il potere stesso, il potere di ogni potere senza il quale nulla si può? Infatti se qualcosa potesse essere senza il potere stesso in che modo lo potrebbe senza potere? E se senza potere non potrebbe, così dal potere stess avrebbe ciò che può.

Non si sazia la mente se non comprende ciò di cui nulla è migliore. E questo non può essere che il potere stesso, cioè il potere di ogni potere. Vedi bene dunque che solo il potere stesso è ciò che da ogni mente è cercato, il principio del desiderio mentale, poiché di cui nulla vien prima, e il fine di quel desiderio mentale, nulla oltre il potere stesso potendo essere desiderato.

Il Cardinale.

Ottimamente. Vedi ora Pietro, quanto ti giova la consuetudine dei colloqui e la lettura dei miei opuscoli, affinché tu mi comprenda meglio. E non dubito che tu vedrai intorno al potere stesso quelle stesse cose che io vedo non appena vi applicherai la mente. Infatti presupponendo ogni domanda intorno al “può” il potere stesso non vi si può opporre nessun dubbio; nessun dubbio infatti sfiora il potere stesso.

Chi infatti si domandasse se il potere stesso sia, subito, non appena vi riflettesse, vedrebbe che la domanda non è pertinente, non potendo senza potere cercare il potere stesso. Meno ancora si può ricercare se il potere stesso sia questo o quello, giacché il potere stesso presuppone e il poter essere e il poter essere questo e quello. Così il potere stesso precede ogni dubbio che possa sorgere. Non vi è infatti nulla di più certo di quello, dal momento che il dubbio stesso non può che presupporlo, né alcunché più sufficiente o più perfetto quello può essere trovato. Così nulla può esservi aggiunto né tolto o sottratto.


Trad genseki

mercoledì, novembre 04, 2009

Mondi intermedi

Victor Hugo

Da: L'Uomo che ride

Il sonno frequenta cupe compagnie fuori dalla vita; sopra i dormienti fluttua il pensiero in decomposizione, un vapore vivo e morto si combina con il possibile che forse, in qualche modo, pensa nello spazio. Da qui i grovigli. La fitta nuvola del sogno si sovrappone alla trasparente stella dello spirito. Sopra le palpebre chiuse, dove la visione ha preso il posto della vista, una disgregazione sepolcrale di sagome e figure si dilata nell'evanescente. Una misteriosa dispersione di esistenze si mescola alla nostra vita sul bordo mortale del sonno. È nell'aria che larve e anime si intrecciano. Anche chi non sta dormendo avverte su di sé il peso di quella vita sinistra. Lo attornia una chimera, realtà intuita, e lo turba. L'uomo sveglio che cammina attraverso i fantasmi del sonno altrui, respinge confusamente forme che gli passano accanto, e ha, o crede di avere, l'orrore vago dei contatti ostili con l'invisibile, e a ogni istante avverte l'urto oscuro, l'inesprimibile incontro che dilegua. Camminare nella notte popolata di sogni è come attraversare una foresta.


I piedi

Dreiser Cazzaniga era un feticista al contrario, ci deve essere un termine tecnico per indicare qualche cosa del genere ma non lo conosco. Dreiser Cazzaniga detestava i piedi, in ispecie quelli femminili. I piedi sono inevitabilmente una parte del corpo, non hanno nessuna possibilitá di essere considerati altro che una parte del corpo, Questo era ció che Dreiser Cazzaniga non riusciva proprio ad accettare: i piedi come due animali dotati di vita propria appiccicati ad un corpo con pretese di bellezza. Due animaletti ben capaci di moine graziose e di espressioni accattivanti ma pur sempre due animaletti, due ciechi grumi di materia cioè di morte in un corpo che si pretende oggetto e soggetto di amore, coè di soggetto e oggetto dello spirito. I piedi non riescono mai a giungere alla fisionomia però ne sono spesso la caricatura. Naturalmente detestava ancor più le unghie dipinte, specialmente di blu o di verde. Dovettero passare molti anni perchè infine potesse accettare con una certa calma di avere anche lui due piedi. ma sol come poderosi supporti della corsa, prese dell'energia della terra, li accettava solo immaginandoli come radici. Nonostante tutto finì per esser un viandante in sandali, Anche in stagioni poco propizie come l'autunno.
genseki

lunedì, novembre 02, 2009

domenica, novembre 01, 2009

Corpo narrato, corpo salvato

Per l'uomo, che vive nel linguaggio e per il linguaggio, la sola maniera di accettare di possedere un corpo, di vivere in un corpo biologico con la sua fisiologia atroce è di sovrapporre ad esso un corpo simbolico. Un corpo simbolico che, in qualche modo, funzioni da intermediario tra la coscienza e il corpo fisiologico. la coscienza non può mai essere brutalmente e direttamente coscienza di un corpo biologico. Essa ha bisogno della mediazione del simbolo.

Credo che questa possa essere una delle ragioni del successo delle medicine alternative più eccentriche.

Normalmente esse fanno appello a potenti forme simboliche che si sovrappongono anche graficamente al corpo.

Questa è la funzione per esempio dei chakra che da elementi circondati da un qualche alone esoterico sono diventati parte del linguaggio e dell'immaginario di qualunque apprendista pettinatrice.

Il nostro corpo puó e debe essere letto grazie a strumenti di questo tipo. E la possibilitá di leggerlo è giá una garanzia di guarigione. Guarigione dal fatto di essere un corpo fisico. Nessuno può incontrarsi con il corpo fisico, con il reale corporale senza esserne annientato. Ammesso che sia possibile accedere al reale corporale senza l'intermediazione del linguaggio. Il corpo deve poter essere narrato perché si possa concepire che possa essere guarito. Apparentemente questa sembrerebbe anche la funzione dell'erotismo. Un corpo erotico è un corpo-linguaggio, un corpo-racconto, un corpo-parabola. Il corpo sessuato è il reale atroce che la pornografia cela facendo come se lo disvelasse. Perché la veritá del corpo è la morte e la sola certezza di immortalitá è il verbo.

genseki

sabato, ottobre 31, 2009

Apparizione

Fu in un negozio cinese
Uno di quelli che chiamano
“Tutto a un euro” fu in uno

Di questi negozi che lo avvicinò
Per la prima volta con le nocche
Pallide per la tensione
La fronte sudata e i lunghissimi capelli
Falsi come un film di Zeffirelli
Con una mano reggeva un cuore fiammeggiante
Pericolsamente vicino a tutte quelle tute di acrilico
Lo vide in mezzo ai portaincensi
Ai budda canini dai ventri dorati
Alle borsette della Pukka
Era vestito di velluto o di panno
Dapprima non udì la sua voce
Sommersa tra le grida dei guerrieri cinesi
Che si battevano su uno schermo piccolissimo
Davanti agli occhi della grassa bottegaia
Poi le sue parole si materializzarono proprio nel centro
Della sua fronte forzandola a corrugarsi:

  • Perché mi hai dimenticato?

  • Perché mi fuggi?

E non c'era dolore in quella voce
Ma uno sfrigolio come di mosche
Incenerite da una di quelle macchine azzurre

  • Non ti ho dimenticato – rispose,

  • Tu sei dentro di me come il dolore e la pace,
    Tu sei l'Unico che mi consola ma non torneró
    Sono condannato alla gnosi islamica e buddista
    É lo stesso, il tuo amore mi lava nel sangue
    Il tuo cuore è la lampada che rende lebbrosa la mia pelle
    Tra i denti ti serro mia manna, ostia mia
    Ma non posso tornare!

Continuava sfrigolando un po' sfuocato
E lui vide allora che tutti gli oggetti del negozio
Erano tumori, groppi di dolore, nodi di oppressione
E il Nemico rideva dei bambini e degli storpi
Ma era tardi anche solo per prendere un caffé con lui
Il Tram per il suburbio stava per arrivare
Comprò una bic per giustificarsi
La cassiera aveva le unghie dei piedi
Dipinte di rosa e un violoncello tatuato
Sulla caviglia appena sopra la ciabatta a forma di coniglio.

giovedì, ottobre 29, 2009

Dreiser Cazzaniga e la gioventù

La gioventù è sempre vergogna. Certo è una vergogna assolutamente inespiabile quella di essere stati giovani, E nessuno la puó evitare. Dreiser Cazzaniga ebbe la sventura di dover sopportare alla soglia del suo tramonto una doppia vergogna: quella di essere stato giovame, che, appunto è un peccato ineludibile e quella di esserlo stato vergognosamente. Essere stato cioè un giovane idealista, bavoso e predicatore come un vecchio parroco di periferia. Non si può espiare la gioventù, certo, ma si può viverla con gradi diversi di ignominia. Dreiser Cazzaniga visse la sua gioventù strisciando coscienziosamente sul fondo del pantano. La gioventù dovrebbe almeno essere spietata, carnivora, ambiziosa, brutale, rapida, egoista. La gioventú di Dreiser Cazzaniga fu tutta un rivoltarsi nel fango dell'idealismo, del "vogliamo cambiare il mondo, vogliamo un mondo migliore", dell'altruismo e della militanza (si, quella di sinistra). Insomma, uno schifo! Uno schifo la cui più immediata conseguenza negativa fu una vita sessuale all'insegna della masturbazione. Dreiser Cazzaniga non riusciva a venire a patti con la sua gioventù. I ricordi del suo corpo e della sua mente degli anni di universitá gli provocavano un sudore freddo sotto le ascelle. Dreiser Cazzaniga non fu mai innamorato se non di qualche eroina dei fumetti.

genseki

mercoledì, ottobre 28, 2009

La luna

La luna soleva chiamarla Tiresia
Terso serpente all'ora del caffé
Nel candore della tazzina andava
Cercando il rifugio del suo ventre amaro
Macchia, latte condensato, seme
Quel giallo di luna disciolta sulle lenzuola
Stingeva sull'estate dell'infanzia
Tiresia soleva chiamare Tersilla accorreva
Con la sua voce da opera buffa e le scarpine di velluto
Farfalletta da minuetto e baffi di crema
La luna soleva chiamarla
Tiresia accorreva
L'alone era di sangue rosa
Sul lenzuolo di altre infanzie.

genseki

Agalma

A J.L.

Era un gioiello musicale
Una perla di gesso, quella che teneva
Nella mano come un cristallo
Sonoro mentre andava screpolandosi
Tutto il guano depositato da eoni di invidia
Sulla pelle della sua dolcezza
Era un gioiello sonoro
Lo si sarebbe detto alato, Tiresia
Stesso lo trasse dal ventre
Della sua temporale femminilitá
Un gioello incrinato come il fischio
Della luna, come il fruscio della nebbia
Come la catastrofe del mare
Un gioiello
Tutto interiore
Interiore alla sua stessa interioritá
Risuonando in diversi firmamenti di silenzio
Per infiniti silenzi avvolgendosi
Fino a sparire nella sua assenza
Un gioello così,
Meraviglioso
Era quello che teneva, ora,
Nelle mani giunte per sempre ...

genseki

Incontri precoci con la poesia di Dreiser Cazzaniga

Quando si sforza di ricordare Dreiser Cazzaniga si inoltra in una macchia mediterranea atrocemente spinosa, si sente come durante un'escursione in Gallura, coi pantaloni corti. Si riposa guardando con una certa sodisfazione le piaghe che decorano i suoi polpacci mentali. Non perde occcasione per ricordarsi che i suoi polpacci fisici, quelli si, sono un prestito che sta per scadere e non si puó riavere dalla sopresa della certezza che sono destinati a restare piantati nella terra come gli steli dei carciofi in Ottobre o quelle canne che sostennero i filari dei piselli, piantati così, inutili, fino alla polvere. Comunque ricorda. Ricorda i suoi incontri precoci con la poesia. Il primo libro lo lesse nel dicembre del 67, forse era il 26. Il libro era il gatto con gli stivali, non erano versi. Il ricordo stenta ad avviarsi. I primi versi, invece, gli udì, forse alla radio, ed erano di Juan Ramón Jimenez e parlavano delle felci rosse nell'autunno, dell'anima e forse di una noria, o la noria era di Machado, va a sapere. Quando ricorda questi versi Dreiser Cazzaniga è proiettato sulla strada campestre che passava al lato della scuola, una lieta stradina bianca ad una svolta della quale si scorgeva appena un po' sotto il borgo odoroso e fumante. C'era una festa, nel borgo, durante la quale le viuzze, le crose e i vichi erano pavesati con fronde fresche di castagno.
Comunque quei versi se li ripeteva, bambino, durante tutte le passeggiate autunnali con il suo papá. Poi venne l'infinito di Leopardi, ossessivamente rivissuto sdraiato nell'erba marcia di novembre osservando tra la nebbia il mare lontanissimo o il cielo di ardesia. Venne poi Quasimodo: quel figlio crocifisso al palo del telegrafo gli provvocava una dolcezza torbida per essere così sonoramente amato da una madre. Anche lui avrebbe voluto essere crocifisso a un palo del telegrafo per godere di una simile manifestazione di affetto. La madre di Dreiser Cazzaniga apparirá in altri ricordi e probailmente in questi rappresenta una oscura minaccia fortunosamente disinnescata. La voce di Ungaretti quella sì, era come un torrente recitando: "M'illumino di immenso" con tutte le consonanti della parola mamma così lattosamente suzionate. Che invidia! La poesia gli si faceva latte e mamma e gli apriva una possibilità di attesa.

genseki

martedì, ottobre 27, 2009

Mellin de saint-Gelais (1490-1538)

Canzone Prima

Quando verrà chiarezza
Dall'amorosa fiamma
Che liberi gli amanti
Come le loro donne
Che volga in riso i pianti
E gli invidiosi schianti.

Piaccia a Dio che quel giorno
I seguaci d'amore
Godano di piú stima
Presso le loro donne
Che i severi mariti
E i gelosi puniti

Che compilar si possa
Un apposito modulo
Per sposare colui
Che s'ama e si desidera,
Saremo allor guariti
E i gelosi puniti.

E se alcuni ostinati
Interpongono appello
dalla dama più bella
Che si trova in Parigi
Siano alfin convocati
E i gelosi umiliati.

trad genseki

lunedì, ottobre 26, 2009

Dreiser Cazzaniga

Inizia con questo "post" la pubblicazione delle memorie di Dreiser Cazzaniga a cura di genseki

Dreiser Cazzaniga si confessa

Giunto al confine della vecchiezza Dreiser Cazzaniga sapeva alcune cose con una commendevole precisione. Una era che il suo io si faceva sempre più sfuggente. Il suo sfozo di unificare tutte le percezioni, i pensieri e le sensazioni era giunto quasi a sfinirlo, il racconto, la storia il filo conduttore che doveva unire ogni passo di lui alla luce, al pane che aveva appena comperato, alle notizie del giornale, ai ricordi suoi o di altri era degradante. Avrebbe voluto che questo barzakh mentale seguisse il suo corso, montasse e smontasse il tendone del suo barnum, senza coinvolgerlo più in nessun modo. Non essere più in nessun altro modo che una lieve sensazione di solletico, una sottile consapevolezza del fluire da qui al nulla di tutta questa luce appena civettuola, frastornata di quando in quando al movimento delle foglie scure dei bagolari. Dreiser Cazzaniga letteralmente si lasciava andare, e una delle cose cui si lasciava andare era appunto la corrente dei ricordi.

Per Dreiser Cazzaniga quasi da vecchio non aveva più nessuna importanza di chi fossero i ricordi, poteva seguire il filo di ricordi multipli come quelli della bambina caduta nel pozzo seguendo l'aquilone, o quello del guerriero dago che sentiva il freso dell'erba sulle gonadi mente accoccolato aspettava il passaggio del cervo. Legata ai ricordi era la sua seconda convinzione: l'errore, il suo grande errore di stile era stato quello di cercare la libertá tentando di fuggire alle regole più soffocanti del conformismo sociale. Questo proprio non poteva perdonarlo a quello che restava di lui. E non c'era piú rimedio, fino all'agonia. La libertá stava nel conformismo, nell'adeguamento, nel pensare con la “massa”, nel com-pensare collettivo. Insomma per essere libero avrebbe dovuto cercare di diventare un cardinale o almeno un banchiere e non un poveraccio, eccentrico con la pensione minima e un sorriso da brava persona.

Ariel Ramírez - Giuseppe Ungaretti- Sanctus

Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l'uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell'amore non vano.

Cristo, pensoso palpito,
Astro, incarnato nelle umane tenebre,
Fratello che t'immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l'uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D'un pianto solo mio non piamgo piú,
Ecco, Ti chiamo Santo,
Santo, Santo che soffri.

Ungarettii
da: "Mio fiume anche tu".
Il Dolore

domenica, ottobre 25, 2009

Terra maiala II

Nessuna classe è mai stata o è piú cosciente della sua posizione economica di quanto lo siano i contadini. L'economia determina o influenza in modo cosciente ogni decisione che il contadino prende nel corso di una giornata. La sua peró non è l'economia del commerciant e nemmeno l'economia politica borghese o marxista. L'autore che ha scritto con maggior conoscenza di causa, basandosi sulla sua esperienza personale, fu un agronomo russo Chayanov. (...).
Il contadino non giunse mai ad immaginarsi che quello che si estraeva al suo lavoro era plusvalore. Si puó dire che nemmeno il proletariato privo di coscienza politica è cosciente di creare plusvalore per i suoi padroni; tuttavia questo paragone è equivoco, siccome l'operaio che vive in un'economia monetaria può essere facilmente ingannato rispetto al valore di quello che produce, mentre la relazione economica del contadino con il resto della societá è sempre stata trasparente. Da un lato la sua famiglia produceva o cercava di produrre quello di cui aveva bisogno per vivere, dall'altro, vedeva che chi non aveva lavorato si approriava di una parte del suo prodotto, del risultato del lavoro della sua famiglia. Il contadino sapeva perfettamente quell che gli si toglieva ma non lo considerava plusvalore e questo per due ragioni una materiale e l'altra epistemologica.
- Non era plusvalore perchè le necessitá della sua famiglia non erano ancora garantite;
- Un plusvalore è un prodotto finale, il risultato di un processo finito di lavoro e del compimento di certi requisiti.
Per il contadino, invece, gli obblighi imposti dalla società prendevano la forma di un ostacolo preliminare che a volte era insuperabile ma era all'altro lato rispetto a questo che operava l'altra metá dell'economia del contadino quella per cui la sua famiglia lavorava la terra per garantire le sue proprie necessitá.
Il contadino poteva pensare che le imposizini erano un dovere naturale o una ingiustizia inevitabile, ma comunque erano qualche cosa che gli toccava subire prima di iniziare la lotta per la sopravvivvenza. Se era mezzadro, la porzione del raccolto del padrone si anteponeva alle necessitá basiche della sua famiglia. Se non fosse un termine troppo soave per il lavora inimmaginabile che pesa sulle spalle del contadino, si potrebbe dire che i suoi obblighi prendono la forma di un handicap permanente. Era "nonostante" questo che la famiglia doveva iniziare la lotta contro la natura per guadagnarsi la propria sussistenza mediante il lavoro.

Così il contadino una volta superato l'handicap permanente degli obbighi sociali doveva vincere, nella metá dell'economia dedicata alla sua sussistenza tutti i rischi dell'agricoltura: cattivi raccolti, tormente, siccitá, inondazioni, piaghe, incidenti, impoverimento del suolo, pestilenze e sopratutto, stando alla base, alla frontiera, con una protezione minima, doveva sopravvivere alle catastrofi sociali, politiche e naturali: guerre, piaghe, incendi, scorrerie, etc.

La parola "sopravvissuto" ha due significati. Denota qualcuno che ha vissuto e superato momenti molto duri. Denota anche la persona che ha continuato a vivere quando altri erano morti. Quest'ultimo è il senso in cui impigo questa parola in relazione al mondo contadino. I contadini erano coloro che continuavano a lavorare, a differenza dei molti che morivano giovani, emigravano o finivano nella più totale povertá. In certi periodi i sopravvissuti erano una minoranza. Le statistiche demografiche ci danno un'idea della dimensione dei disastri. La popolazione francese nel 1320 era di diciassette milioni, poco più di un secolo dopo era di otto milioni, verso il 1550 era di nuovo di venti milioni. Quarant'anni dopo era d nuovo scesa a diciotto milioni,

John Berger
Trad genseki

venerdì, ottobre 23, 2009

Tora san II

Tora san è il personaggio principale di una serie di film giapponesi, più di quaranta dal titolo: "Otokowa tsura yo" che in italiano si potrebbe tradurre come
"Mannaggia quant'è duro essere un uomo!" o qualche cosa del genere. Tora san è un venditore ambulante che viaggia per tutto il Giappone con una valigia piena delle sue merci, è goffo, imbranato e buono, nei piú remoti angoli della provincia si innamora sempre di una bella signora che non lo corrisponde mai. Tora san non ha famiglia, la sua parente più prossima è la sorella Sakura che vive a Katsushita Shibamaka con il marito e che possiede una piccola bottega tradizionale. L'amore melanconico e infelice è il tema del tenero Tora san, che può molto vagamente essere paragonato a Totò ma solo per quel sorriso di trasognata bontá, per quell'appartenere al popolo con tutto il corpo e tutta l'anima rappresentandone la parte migliore e serenamente rasegnata.
Ho incontrato Tora san durante il mio primo viaggio in Giappone. Il mio arrivo a Tokyo coincise con la morte dell'attore che lo interpretava Atsumi Kiyoshi. In realtá i morti erano due Kiyoshi e Tora san.
Tokyo era immensa e rovente nel mese di Luglio, non capivo quasi una parola di giapponese e avevo i soldi per nutrirmi solo delle bevande energetiche che si compravano nei distribitori automatici delle sazioni ferroviarie. Viggiavo sui tren delle linee suburbane nella tarda mattinata, quando sono semivuoti dai finestrini vedevo le silhouttes di cartone di Tora san alle finestre degli appartamenti, sulle porte dei caffé e dei ristoranti, agli incroci. I treni erano limpidi e puliti, avevano qualche cosa di erotico e di freddo. Non mangiavo abbastanza ma avevo abbastanza soldi per comprare una bicicletta di seconda mano. Le strade erano bordate di Ginko Biloba, passavo giorni senza parlare con nessuno, i fumetti l leggevo recuperandoli dai bidoni della raccolta differenziata alle stazioni del bus. Il caffé lo bevevo gratis nella hall di qualche grande centro commerciale, agli angoli delle strade all'ombra dei pali stracarichi di cavi di tutti i tipi mi apparivano le silhouettes funebri di Tora san. La sera tutte le televisioni trasmettevano film di Tora san di cui non capivo quasi niente ma che non era difficile seguire. Erano storie universali. La storia del vagabondo dal cuore spezzato, della Madonna e della solitudine. Tora san era il mio unico amico.
Un santo forse a cui rivolgermi quando la solitudine mi provvocava una specie di strana narcolessia.
Mia moglie e il suo amante se la spassavano su di una qualche isola greca, non sapevo ovviamente quale, e io cercavo il sorriso di Tora san nello spietato calore estivo di Tokyo in mezzo a onde di uomini di affare dalle camicie inspiegabilmente bianche e profumate, alla svolta di ogni strada.
genseki

mercoledì, ottobre 21, 2009

Tora-san Meets the Songstress Again

John Berger

John Berger

Terra maiala

La vita contadina è una vita dedicata per intero allas sopravvivenza. Questa è forse l'unica caratteristica totalmente condivisa da tutti i contadini in lungo e in largo nel mondo. Le loro capanne, i raccolti, laterra, i padroni possono essere differenti, tuttavia, indipendentemente dal fatto che lavorini in una societá capitalista, feudale, o in qualche altra piú difficile da classificare, indipendentemente dal fatto che coltivino riso a Java, grano in Scandinavia o mais in Sudamerica, dappertutto si puó definire la classe contadina come una classe di sopravvissuti. Nel corso dell'ultimo secolo e mezzo la testarda capacitá dei contadini di sopravvivere ha confuso le classi dirigenti e i teorici. Ancora oggi si puó dire che i contadini costituiscono la maggioranza degli abitanti del globo. Questo fatto, peró, ne nascnde un altro ancra più importante. Per la prima volta nella storia la possibilitá che questa classe di sopravvissuti possa cesare di esistere è concreta. Forse fra un secolo non ci sranno piú contadini. In Europa occidentale, si le cose andranno come prevedono gli economisti in venticinque anno non ci saranno piú contadini.
Fino a poco tempo fa l'economia contadina era contenuta dentro un'atra economia. Questo rese possibile la sua sopravvivenza nel vortice delle trasformazioni globali che accaddero nel cuore dela macroeconmia in cui era inserita: feudale, capitalista, e persino socialista. Cn queste trasformazioni il metodo di lotta per la sopravvivenza fu modificato, ma i cambiamenti definitivi si forgiarono attraverso i metodi impiegati al fine di estrarre da esso plusvalore: lavori obbligatori. decime, mezzadria, imposte, mutui, interessi sui mutui, norme di produzione, etc.
A differenza di qualunque altra classe laavoratrice e sfruttata, la classe contadina si è sempre manenuta da sé, e questo la convertí in una classe a parte. In quanto produceva plusvalore si integrava nel sistema economico-culturale storico. In quanto si manteneva da sé ne stava ai margini e questo, mi pare è vallido anche per quelle epoche e per qui luoghi in cui i contadini rappresentavano la maggior parte della popolazione.
Se pensiamo che la stuttura gerarchica delle societá feudali o asiatiche era piú o meno piramidale, i contadini ne formavano la base. Questo sgnificava, come nel caso di tutti i popoli di frontiera che godevano di una protezione minima. Per questo dovevano arrangiarsi da soli; nel seno della comunitá o della famiglia allargata. Mantenevao e sviluppavano le proprie leggi e codici di comportamento taciti, i propri riti, le proprie credenze, le proprie conoscenze e una saggezza propria trasmesa oralmente, la propria medicina, le proprie tecniche e in certi casi lingue proprie. Sarebbe un erore pensare che tutto questo costituisse una vita indipendente non toccata dalle trasformazioni tecniche, sociali, economiche della cultura dominante. Nel corso dei secoli la vita contadina ha sofferto cambiamenti, ma le prioritá e i valori contadini (la loro srategia per sopravvivere) costituirono una tradizione che sopravvisse a qualunque altra nel seno della societá. La relazione di questa tradizione contadina con la cultura delle classi dominanti è sempre stata, in generale, sovverisiva e eretica. "Non fuggire nulla" - dice un proverbio russo "ma non fare nulla". La fama di furbi che si attribuisce universalmente al contadino è un riconoscimento di questa riservatezza sovversiva.

trad. genseki

martedì, ottobre 20, 2009

La sfera e le galassie

Ciò che io chiamo Schwarmerei di Platone, è l'aver proiettato su ciò che io chiamo il vuoto impenetrabile, l'idea del sommo bene. Diciamo che si tratta solo di indicare il cammino giá percorso, quello che con alti e bassi, e con una intenzione dichiarata ho cercato di sviluppare; IO HO CERCATO DI SVILUPPARE IL RISULTATO DEL RIFIUTO DELLA NOZIONE PLATOICA DEL SOMMO BENE CHE OCCUPA IL CENTRO DEL NOSTRO ESSERE. Può essere che per ritorvare la nostra esperienza, ma questa volta in forma critica, ho preso le mosse in parte da quella che si puó chiamare la svolta aristotelica in rapporto a Platone che per noi, sul piano etico è qualche cosa di ormai sorpassato per noi; ma a questo punto, dovendo spiegare la sorte storica delle nozioni etiche a partire da Platone (certo il riferimento aristotelico) l'Etica Nicomachea è essenziale. Ho dimostrato che è difficile seguire quanto questa opera costituisca un passo in avanti decisiva nell'edificazione di una riflessione etica, e nello stesso tempo non vedere che comunque essa ha mantenuto la nozione di sommo bene pur cambiandone profondamente il senso. Con un movimento di riflessione inversa esssa fa consistere il sommo bene nella contemplazione degli astri, la sfera più esterna del mondo esistente, assoluta, increta, incorruttibile. È proprio perché per noi la sfera si è proprio volatilizzata nella polvere cosmica delle galassie che costituisce l'ultimo orizzonte della nostra ricerca cosmologica, che si puó prendere il punto di riferimento aristotelico come il momento critico di quello che nella tradiione antica è la nozione del sommo bene alla quale siamo infine giunti.
Questo passo in avanti ci ha messo con le spalle al muro, quello stesso muro contro cui si sbatte da quando si cerca di elaborare una riflessione etica; il fatto è che dobbiamo assumere proprio quello che la riflessione etica non ha mai saputo sbrogliare, cioè che vi è bene (good, gut) che a partire da qui. Dobbiamo proprio, insomma cercare qual è il principio del Wohl tat, il principio ell'agire bene. Per inferenza è permesso dire che non si tratta della B.A., la buona azione, anche portata alla potenza kantiana della massima universale. Se dobbiamo prendere sul serio la denuncia freudiana della fallacia delle soddisfazioni dette morali, dal momento che vi si nasconde una agressivitá che compie l'impresa di strappare a quello che la esercita il suo godimento, mentre il suo errore si ripercuote infinitamente sui suoi partners sociali (quello che indicano queste lunghe condizionali circostanziali è l'equivalente esatto del Disagio della civiltá nell'opera di Freud) allora dobbiamo domandarci come dobiamo fare per operare onestamente con il desiderio; cioè come preservare il desiderio in relazione a una azione nella quale egli piuttosto che realizzarsi colassa e che al massimo gli si presenta come un'impresa, come un eroismo, come preserva il desiderio cme preservare una relazione sana tra il desiderio e questa azione.

Lacan
Transfert
Trad. genseki

lunedì, ottobre 19, 2009

È finita per sempre

Le grandi filosofie romantiche hanno cercato di dare ragione, di articolare la relazione tra finito e infinito. In realtà l'espressione piú esatta di questa relazione è una frase tipica per esempio dei fotoromanzi Lancio che leggevano le giovani "pettinatrici" dell mia prima adolescenza, quelle che facevano le "messe in piega" con quegli incredibili caschi sorreti da un palo. Chi non ha sognato una fidanzata parrucchiera che leggesse un fotoromanzo Lancio per vivere con lei un amara storia Lancio?
Comunque la frase è, è appunto quella del titolo: "È finita per sempre". Si, perchè è proprio qui, è proprio così che il finito incontra l'infinito, nell'evidenza dell'essere infinito del finito; dell'essere per sempre del finito.
Certo è il fatto che il finito sia finito infinitamente è quello che produce l'angoscia nella coscienza, La coscienza forse puó essere considerata proprio come la coscienza dell'infinitá del finito. del suo essere per sempre finito. La coscienza si staglia sullo sfondo dell'infinito della sua finitezza, della sua imposssibilitá di essere infinita se non proprio in quanto finita. Essere finito per sempre è la forma con la quale il finito si fonde nell'infinito e in questo fondersi rende possibile che l'infinito stesso sia infinito, Senza il finito l'infinito non sarebbe pensabile come tale per mancanza del termine di paragone. Il finito e l'infinito sono i modi, le modalitá l'uno dell'altro.
la coscienza è coscienza di una sola di queste modalitá, quella per cui il finito è infinitamente tale, per questo si percepisce come infinitamente finita, come finita per sempre, Se la coscienza potesse percepirsi come finitamente infinita scomparirebbe come tale, si dissolverebbe nella grande rosa luminosa. Quale ne sarebbe la formula?: "'È infinita adesso!", forse. "È infinita qui, proprio ora, per sempre mai piú".

genseki

domenica, ottobre 18, 2009

Gilles de Rais

Gilles erra nelle foreste che circondano Tiffauges, foreste oscure e fitte, come se ne trovano ancora in Bretagna, per esempio a Carnoët.
Singhiozza mentre cammina, disperde, smarrito, i fantasmi che si avvicinano, guarda e di colpo si rende conto del'oscenitá degli alberi piú antichi.
Sembra che la natura diventi perversa davanti ai suoi occhi e che la sua sola presenza basti a depravarla; per la prima volta comprende, l'immutabile lussuria dei boschi, scopre priapo tra i cdui.
Qui, l'albero gli appare come un essere vivente, in piedi, la tesa in giú, nascosta tra la capigliatura delle radici, con le gambe all'aria, spalacate, che poi si dividono in altre cosce ancora ce si aprono a loro volta e diventano sempre piú piccole mano a mano che si allontanano dal tronco; proprio li, tra quelle gambe, si tprva piantato un altro ramo ancora in un coito immobile che si ripete sempre piú miniscolo i ramoscello in ramocello, fino alla cima; e lassù, ecco che il fusto sembra un fallo che cresce e scompare sotto una sottana di foglie o se ne esce all'inverso da un ciuffetto verde e di muschio per penetrare il ventre di velluto della terra. Vi sono immagini che lo terrorizzano. Rivede la pelle degli adoloscenti. la pelle lucida delle pergamene, nelle scorze lisce e pallide degli alti frassini; ritrova l'epidermide elefantiaca dei mendicanti nell'involtorio nero e rugoso delle querce piú antiche; poi, dopo la biforcazione dei rami, dei buchi spalancati, degli orifizi ove la scorza si rigonfia in fenditure ovali, iati pieghettati che simulamo immomde cloache o spalancati sessi bestiali. ai gomiti dei rami altre visioni, fosse brachiali, ascelle pelute di licheni grigi; ecco, persino i tronchi degli alberi hanno ferite che si allungano in grandi labbra, sotto ciuffi di velluto rosso e mazzetti di muschi!
Ovunque le forme oscene sorgono dalla terra, sgorgano verso il firmamento che si satanizza, le nuvole si gonfiano in capezzoli, si fondono in natiche, si arroondano in ventri fecondati, si disperdono in zampilli lattei; si accordano con la cavità cupa della macchia dove non vi sono piú che immagini di cosce gigantesche o nane, triangoli femminili, grandi V, bocche di Sodoma, cicatrici che si slabbrano, umide perdite! - L'abominevole paesaggio muta, ecco che Gille vede sui tronchi inquietanti polipi, sanguisughe orribili. Constata tumori e ulcere, piage taglate nette, tubercoli cancerosi, carie atroci; è per gli alberi una clinica venerea per gli alberi in cui sorge alla svolta di un viale un frassino rosso.
Davanti a queste foglie porporini che cadono, si crede bagnato da una pioggia di sangue; diventa rabbioso, sogna che sotto la scorza abita una ninfa forestiea, e vorrebbe impastare la carne della dea, trucidare la Driade, violentarla in un organo sconosciuto alle follie degli uomini.
Invidia il boscaiolo che potrá ferire, massacrare questo albero, si spaventa, si agita, ascolta, selvaggio, la foresta che risponde alle grida dei suoi desideri con i sibili stridenti dei venti; si abbatte, pinage, riprende il suo cammino fino a che giunge al castello e crolla sul suo letto come un tronco caduto. Ora che dorme, i fantasmi si definiscono con piú precisione. I lubrichi abbraci dei rami, il coito delle essenze differenti dei bosci, i crepacci che si dilatano, le forre che si dischiudono spariscono; le lacrime delle foglie frustate dalla tramontana, si seccano; gli ascessi bianchi delle nuvole si riassorbono nel grigio del cielo; e - in un grande silenzio - sono gli incubi e i succubi che passano.
I corpi che egli ha massacrato e di di cui ha fatto gettare le ceneri nei fossati risuscitano allo stato di larve e lo attaccano nelle parti basse. Si dibatte, si schizza di sangue, si sveglia di colpo e acoccolato si trascina a quattro zampe, come un lupo, fino al crocifisso di cui morde i piedi, ruggendo.
Poi uno sconvolgimento immediato lo travolge, trema davanti a questo Cristo il cui volto convulso lo contempla. Lo scongiura che abbia pietá, lo supplica di risparmiarlo, singhiozza, piamge e quando non ne può più geme sottovoce, ascolta, terrificato piangere nella sua stessa voce le lacrime dei bambini che chiamavano le loro madri e chiedere pietá!

genseki

mercoledì, ottobre 14, 2009

Altre poesie di genseki

No, non era quando cominció a disfarsi
Che apparvero tutti quei problemi
E le farfalle direttamente dai grumi di terra
Accoccolati seguivano vegliando
Coperti di fango ocraceo con gli occhi
Fluidi come i fiumi e la pelle increspata
Come l'erba di altri soggiorni
Dammi la mano diceva, proprio allora
Notammo che cominciava a disfarsi
Dapprima solo in voli di insetti
Poi in molti riflessi neri a volte come mosche
Il cui volo non seguiva le leggi di una geometria
A tre dimensioni.
No, non fu allora
Ma io ero già per due terzi scomparso
Con lui e con altri meno avvinti
E quello che ero stato, che era stato
Giaceva in qualche luogo più solo
Di una promessa spuntata
Alla fiera degli ultimi crepuscoli.
*
Sputa! sputalo adesso!
Lo sai che hai fallito, quanto sforzo
Per conseguire la vette dell'insuccesso
Il limone in bocca, sputalo!
Le sanguisughe sotto il gomito
Le lenzuola sporche di povertá
Le croste di formaggio che di nascosto
Ti passava la nonna del droghiere di Via Istria,
Quella con il pappagallo dall'ala bruciata
Le unghie degli alluci conservate per anni
In barattoli giallastri e i biglietti ordinari
Dei treni come reliquie.
Sputa! Sputalo via!
Il suo odore il suo sesso, il mercuriocromo
I microsolchi di Petrolini
Lo strazio di jeanvaljean
Le mutande di lana con i ponpon.
Sputa! Sputalo via!
Tutto!
È della tua vita che si tratta.

genseki

martedì, ottobre 13, 2009

Garcilaso de la Vega

La poesia petrarchista offrì per piú di un secolo un modello di forma poetica a tutta l'Europa. Pochi temi stilizzati poch parole ammesse, quasi tutte tratte dall'ambito dell'anatomia e della botanica, un numero limitato di colori e una serie di regole che stabilivano le relazioni tra questi elementi costiuirono un gioco sublime, cangiante, segreto e raffinato.
Molte lingue furono poeticamente di nuovo fuse nel crogiolo del petrarchismo: il francese, il castigliano, il catalano, l'inglese, il portoghese.
Gacilaso d la Vega fu uno dei primi e più grandi petrarchisti spagnoli e quello che segue uno dei suoi testi piú noti.
Tradurre un poeta petrarchista all'italiano pone di fronte a un'alternativa: si puó cercare di riprodurre i suoi stilemi nel lessico proprio dl petrarchismo italiano coevo, ricostruendo il testo dell'imitatore con il lessico e la sintassi che egli volle imitare. L'interesse di questa operazione sta nel gioco di riflessi e di rimando che ci permetta di istituire. Si tratta di una specie di traduzione "en abîme". Oppure si può tentare di confrontare questa voce poetica con un lessico e una forma più attuale e di ascoltare come la sua eco risuona in un nuovo scrigno.

A Dafne giá crescevano le braccia
Ed in rami nodosi si torcevano
Vidi la chioma più tersa dell'oro
Volgersi in verdi foglioline tenere

Scorza rugosa le membra ricopriva
Molli che ancora appena palpitavano
Teneri piedi la terra penetravano
In ritorte radici trasformati.

E chi di tanta pena fu la causa
Con la forza del pianto alimentava
Quell'albero che di lacrime bagnava

Che triste condizione! Estremo male!
Che grazie al pianto suo cresceva tanto
La causa e la ragione del suo pianto.

trad genseki

Altri aforismi di Victor Hugo

La morte ha bisogno di un velo, la tomba richiede pudore.

*

La morte è sfrontata quando si mostra all'opera. Essa oltraggia ogni serenità dell'ombra lavorando fuori dal suo laboratorio, la tomba.

*

Ci sono delle realtà quaggiù che sembrano sbocchi sull'ignoto, da dove può uscire la ragione e precipitarsi l'ipotesi. La congettura ha il suo "compelle intrare". Quando passiamo in certi luoghi e davanti a certi oggetti, non possiamo fare altro che fermarci in preda ai sogni, lasciando che lo spirito vi si avventuri.

*

La materia davanti a cui si trema è una rovina d'anima. Se la materia inerte ci turba, vuol dire che dentro vi ha vissuto lo spirito.

*

Quando l'immanenza che incombe su noi, cielo, abisso, vita, tomba, eternità, ci appare evidente, proprio allora noi sentiamo che tutto è inaccessibile, tutto proibito, tutto murato. Niente chiude in modo più formidabile dell'infinito quando si apre.

*

Il morto guarda con tutta quanta la testa, ed è spaventoso.

*

Nella mano del sonno c'è il dito della morte.

*

La fine sempre imminente, nessun trapasso dall'essere al non essere più, il ritorno nel crogiolo, la scivolata sempre possibile, questo precipizio è la creazione.

Victor Hugo
Trad. genseki



venerdì, ottobre 09, 2009

Hilary Hahn - Schoenberg Violin Concerto (mov2)

Hilary Hahn - Schoenberg Violin Concerto (mov1) - part1

La Promessa

In qualche modo sono sempre stato convinto che nel cuore della nostra vita c'è stata una promessa. O meglio, c'è stata la Promessa.
La Promessa che non siamo davvero carne perduta, groppi di desiderio e paura, che non siamo solo questo.
La Promessa, forse, ha preceduto la nostra nascita, forse la abbiamo ricevuta e accolta nella prima infanzia ma è solo per essa che possiamo accettare e vivere il dolore, il tramonto, il dissolversi, la polvere, e l'amore.
Nella Promessa è suggellata la nostra dignità per questo in qualche angolo del nostro cuore sappiamo che tutto quello che va perduto in realtá è per sempre e infinitamente guadagnato.
In virtù ella Promessa possiamo spalancare le mani e accettare, lasciare il nostro appiglio e cadere, con le mani aperte dare e dare ancora fibra a fibra.
Ci scorticheremo la pelle strisciando sulla rugosa superficie della realtá impossibile.
In virtù della Promessa siamo davvero niente, diveniamo niente, insomma, non siamo proprio, eppure nella pochezza di questo non essere la accogliamo, grati la andiamo scoprendo e accettando poco a poco.

genseki

giovedì, ottobre 08, 2009

Passione, terrazza

Che tenerezza la carena d'uccelleto
Del corpicino dai capezzoli a chicco
D'uva, distesa nuda come gatta
All'abbraccio delle ombre mattutine
La tua brezza allora sarei stato
A sollevarti tra i ricami della toppia
Abbagliato dal pallore delle unghie
Dei tuoi piedi piegati come in croce
Quante piaghe si aprirono sulle nubi
E piovve sangue di venerdí santo
Stretti l'uno all'altra nei nostri caldi fiati
Ci riscaldava uno strato di fango

Basilico alla finestra

Allora le finestre profumavano di basilico
Le dita delle mani di aglio e lampone
Alla parete di fronte s'aggrappava
Un'edera alcolica e polverosa,
Fino alle ossa venerate un tempo
Ora dimenticate in quella nicchia
Persino un po' sudicia tra i piccioni
Poi lo sguardo sdrucciolava nel cortile
Dove c'erano sempre canottiere
E un vecchio furgone nero dismesso
Che nauseava di caucciú sotto il sole
Le sue ascelle si aprivano al basilico
La menta nel cavo delle sue ginocchia
Nella stretta si dibatteva alla finestra
Le canottiere avrebbero voluto volare
Il santo sbriciolato nella teca godeva
Al palpitare dell'ostia nelle tempie.
Odore di basilico, erano biscotti
E il vestito a peonie fruste fruste
Quante carezze mi rubò quell'uomo
Quello che morí con il naso nel muschio
Le bottiglie di birra erano gialle,
E i tappi appicicosi lasciavano il gusto
Di limone muffito sotto le unghie
Tra il basilico e il limone accoccolata
Spiavi alla finestra i canti della voliera.

genseki

Se avessi lasciato

Se avessi lasciato trascorrere
Ancora qualche luna
Mi sarei ritrovato ad affrontarlo
Mutato
In diverso timore
Questo tumore verdognolo
Questa ghianda che serra
Sicuramente un'antica pianta
Nalle membrane vegetali di tutte le sue potenzialità
Ma le lune che scorrrevano
Richiamando l'acqua dai pozzi
L'acqua bianca come lo sperma
Delle generazioni inghiottite
Dalle parole,
Consumavano il mio istinto
La mia determinazione, quello che restava del mio desiderio
Di non separarmi da me.
Alla finestra, dalle terrazze, sui balconi
Quel popolo festoso continuava
A guardare la televisione
E io mi lasciai finalmente marcire
Come un fagiolo appena seminato.

genseki