martedì, maggio 30, 2006

SonettiIl tuo volto si staglia su una foglia Miniata in luminosa meraviglia Di colore marino ove le ciglia Son ali di gabbiano ed una soglia E' l'iride screziata che assotiglia Il raggio dove l'anima si spoglia D'ogni sua volontà, d'ogni sua voglia Per solcare il tuo mar con nova chiglia. Mare d'amor disdegna la memoria E 'l navegante mai non lascia traccia Del suo passaggio over della sua storia Perché colui che il disio allaccia Perde se stesso e nulla lo minaccia Che non sia risvegliarsi in quella gloria. * Tra quelle rocce che, aride e sparse Nutrono macchie di licheni gialli, Nella rete di crepe grige ed arse Ginestre secche frammenti di talli E ruggine di felci ed erbe scarse Su cenge frali di scisti e cristalli D'orme miniate di speci scomparse Dove s'incrocian le creste delle valli I miei ultimi passi vo' guidando A mesurar l'arena solitaria Con gli occhi bassi, in me stesso mirando E me stesso non vedo nella varia Corrente di pensier che spumeggiando Vuota si va frangendo in luce ed aria. * Foglie che liete all’aria trasparenti Cedete la sostanza del colore Che verdeggiare vi fece insolenti Quando del bosco eravate l’onore Sciami di voci al fremere dei venti Dei grigi tronchi sillabe sonore E della fresca vita fiamme ardenti Che le chiome incorona di dolore. Or vi dissolve la luce quieta Come le nostre mani il vecchio sangue Rami del corpo ormai più non disseta Or vi manca la linfa e sulla creta Vi lasciate cadere e con voi langue L’anima nostra che vede la sua meta. * I cavei d’oro attorti come vite Stringe i rami rugosi dell’ulivo Della memoria alle foglie spaurite Fanno di me sol l’ombra di quel vivo Tronco che le radici presso un rivo Di purpureo licor inumidite Affondava nel grasso sol boschivo Ebbro del pullular di tante vite Dolci e taglienti, impietosi lor fili Sono una rete che ben salda serra Il Cuore alla sostanza della terra, E Tu l’intessi con le dita ostili, O Tempo, alle speranze più gentili, Per renderLo alla morte che l’afferra. * Il tempo vive solo nella mente Che l'alimenta come proprio figlio Restando immota nel mare del presente All'assalto dell'ore non dà appiglio Onde d'istanti s'infrangono lente Or con fracasso, ora in un bisbiglio In spruzzi di pensieri contro il niente Da cui sorge la brama ed il consiglio. Essa permane quieta nell'eterno Carosello che genera il momento Come colei che di se stessa è perno; Né il tempo può causarle nocumento Ché l'effetto non può, se ben discerno, Di sua causa produr l'annullamento. * Voyage à Cythère Uniti nel vascello di un abbraccio Navighiamo nel mar color del vino Vela è l'amore e qual chiglia di pino Offende il nostro petto duro ghiaccio Che il Tempo Antico stringe come un laccio Al doppio cuore che ritma il cammino: Bussola rossa: comune destino. Regge il carneo timone un solo braccio; Viola è la meta di questo sghembo viaggio L'accarezzano i drappi della pioggia Screziato la cinge un caldo raggio Illesa degli scogli dall'oltraggio La prua dei nostri corpi, infine, poggia Sull'arena dell'Isola di Maggio. * WANSHI Sonetto della meditazione seduta dalla Massima del maestro Wanshi Shogaku. Del fenomeno aver pura conoscenza, La cosa rischiarar che non sta inante Davvero è ben sottile sapienza Quando pensier non v’è discriminante; Ove non ha il fenomeno apparenza Maraviglia la luce abbacinante. Se nella mente non v’è differenza Questo sapere non ha simigliante. E’ diafana l’acqua fino al fondo Ed il pesce vi nuota lentamente Libero e lieto nell’umido suo mondo; Il falco sale nel cielo profondo In larghe rote con ala possente Di sé s’oblia nel volo suo giocondo. La dinamica essenziale dei risvegliati è l’essenza dinamica dei patriarchi, essa conosce i fenomeni senza macchiarli, illumina l’oggetto senza averlo di fronte. Conoscendo l’oggetto senza macchiarlo questa conoscenza è in se stessa sottile. Rischiarando l’oggetto senza averlo di fronte, questa chiarità è in se stessa meravigliosa. Questa conoscenza è in se stessa sottile, poiché in essa non v’è pensiero discriminante. Questa chiarità è in se stessa meravigliosa perché non ha la minima apparenza fenomenica. Non avendo il minimo pensiero discriminante, questa conoscenza è indefinibile e senza pari. Non avendo la minima apparenza fenomenica questa chiarità e completa e non afferra. L’acqua è trasparente fino al fondo; il pesce vi nuota tranquillamente. Il vasto spazio è senza limiti; lontano vi vola l’uccello. Massima della meditazione seduta del maestro Wanshi Shogaku Dal Zazenshin del maestro Dogen. * Ruben Dario Conchiglia Sulla spiaggia ho trovato una conchiglia d'oro Massiccio, con un fregio di perle, vago, fine Europa l'ha toccato con le mani divine Mentre varcava l'onde sovra il celeste toro Ho portato alle labbra il mitile sonoro Risuscitando l'eco delle diane marine L'ho accostato alle orecchie e le azzurre colline M'han narrato la storia d'un segreto tesoro Così a me giunse il salso di quegli amari venti Che della nave Argo gonfiarono la vela Quando Giason godette dei Celesti il favore Odo i suono dell'onde, i lor segreti accenti E l'aroma profondo che nel soffio si cela (La conchiglia sonora ha la forma del cuore). Trad. genseki * Sulla soglia Ecco la soglia che s’apre sul mare Conchiglia rosa tra l’alghe, barbaglio Che alla pupilla intermittente appare Stillando vino acre come un taglio Aperto in cielo tra le nubi chiare. Lo sguardo va colpendo come un maglio Quel ricamo lucente che dispare Ad ogni urto in disperato abbaglio Ah! Se potessi aprirmi alla freschezza In un getto di luce come faro Sboccar nell’oltre frastagliato e spoglio Graffiato dagli artigli d’ogni scoglio Ubriaco di sale viola e amaro Per riposare, infine, alla tua brezza. * Sonetto del deporre Lascia che il tempo segua la sua fama Tagli d’un colpo le gemme del ricordo Cali su ogni promessa la sua lama Spenga ogni suono in un gemito sordo Che nulla duri di ciò che si ama Né il pioppo lieve, né il volo del tordo Né il biancospino né il grembo della dama Né l’eco bianca del limpido accordo. Resti l’anima nostra vuota e spoglia E s’intessa dei raggi d’ogni stella Tremando al vento come fosse foglia Vento che soffia dal gorgo alla soglia Ove si forma quello che s’appellaI l sé che lieto di se stesso si spoglia. * José Garcia Nieto Alla tua riva Son giunto alla tua riva. Con un autunno, un passero E una voce arrocchita. Mi attendi: un fiume, Una passione e un frutto. Possiede il nostro incontro Il volo e la corrente, sicuri proclamati Son giunto alla tua riva con le braccia distese Ed ora sono l'erba che non termina mai Il fango dove l'acqua dispone i suoi messaggi E la curva dell'alveo per mescere il tuo sogno. Dimmi se ho meritato col mio duro lavoro Se basta alle tue orecchie il mio verso tristissimo, Se sotto la mia ombra vive in Maggio il tuo corpo. Lascerei la tua riva se ora mi dicessi Che il mio amore è l'amore comune a tutti gli uomini Che suona la mia voce come quella di tutti. Trad. genseki * Il tuo sogno A M.J. Per il tuo sogno penetro nel tuo mare Tra l'alghe del tuo sonno mi rinfresco Sfioro il velluto di meduse rare In succo d'ambra e di giada mi invesco. Per il tuo mare nel tuo sogno mi stendo Come nel fresco d'una bara d'occhi Verso il pelo dell'acqua mi protendo Prima che l'ansia nel tremore sbocchi Nel tuo sonno ritrovo la mia veglia E con l'orecchio sulla tua conchiglia Ascolto l'eco della tua risacca Ecco fremente al porto va la chiglia Il suo terso splendore l'onda abbaglia E con urto di vento, infine, attracca. * Joachim Du Bellay Sonetto La nostra vita è una breve giornata Nel cerchio eterno e l'anno nel suo corso Ne caccia i giorni né mai volge 'l dorso Ché tanto frale è ogne cosa nata. Che pensi, dunque, anima 'mprigionata Che ti compiaci in questo cupo giorno Se per volar a più alto soggiorno Hai pur di penne un'ala ben dotata? Lassù è quel bene ch'ogne spirto desira, Lassù il riposo cui ciascuno aspira, lassù l'amore ed il piacere ancora. Al Sommo Ciel guidata, anima mia, Vi potrai riconoscere l'idea Della beltà che questo mondo adora. Trad. genseki *

Sonetto dell'Unione

Il tuo volto si staglia su una foglia
Miniata in luminosa meraviglia
Di colore marino ove le ciglia
Son ali di gabbiano ed una soglia
E' l'iride screziata che assotiglia
Il raggio dove l'anima si spoglia
D'ogni sua volontà, d'ogni sua voglia
Per solcare il tuo mar con nova chiglia.
Mare d'amor disdegna la memoria
E 'l navegante mai non lascia traccia
Del suo passaggio over della sua storia
Perché colui che il disio allaccia
Perde se stesso e nulla lo minaccia
Che non sia risvegliarsi in quella gloria.

*

Tra quelle rocce che, aride e sparse
Nutrono macchie di licheni gialli,
Nella rete di crepe grige ed arse
Ginestre secche frammenti di talli
E ruggine di felci ed erbe scarse
Su cenge frali di scisti e cristalli
D'orme miniate di speci scomparse
Dove s'incrocian le creste delle valli
I miei ultimi passi vo' guidando
A mesurar l'arena solitaria
Con gli occhi bassi, in me stesso mirando
E me stesso non vedo nella varia
Corrente di pensier che spumeggiando
Vuota si va frangendo in luce ed aria.

*

Foglie che liete all’aria trasparenti
Cedete la sostanza del colore
Che verdeggiare vi fece insolenti
Quando del bosco eravate l’onore
Sciami di voci al fremere dei venti
Dei grigi tronchi sillabe sonore
E della fresca vita fiamme ardenti
Che le chiome incorona di dolore.
Or vi dissolve la luce quieta
Come le nostre mani il vecchio sangue
Rami del corpo ormai più non disseta
Or vi manca la linfa e sulla creta
Vi lasciate cadere e con voi langue
L’anima nostra che vede la sua meta.

*

I cavei d’oro attorti come vite
Stringe i rami rugosi dell’ulivo
Della memoria alle foglie spaurite
Fanno di me sol l’ombra di quel vivo
Tronco che le radici presso un rivo
Di purpureo licor inumidite
Affondava nel grasso sol boschivo
Ebbro del pullular di tante vite
Dolci e taglienti, impietosi lor fili
Sono una rete che ben salda serra
Il Cuore alla sostanza della terra,
E Tu l’intessi con le dita ostili,
O Tempo, alle speranze più gentili,
Per renderLo alla morte che l’afferra.

*

Il tempo vive solo nella mente
Che l'alimenta come proprio figlio
Restando immota nel mare del presente
All'assalto dell'ore non dà appiglio
Onde d'istanti s'infrangono lente
Or con fracasso, ora in un bisbiglio
In spruzzi di pensieri contro il niente
Da cui sorge la brama ed il consiglio.
Essa permane quieta nell'eterno
Carosello che genera il momento
Come colei che di se stessa è perno;
Né il tempo può causarle nocumento
Ché l'effetto non può, se ben discerno,
Di sua causa produr l'annullamento.

*

Voyage à Cythère

Uniti nel vascello di un abbraccio
Navighiamo nel mar color del vino
Vela è l'amore e qual chiglia di pino
Offende il nostro petto duro ghiaccio
Che il Tempo Antico stringe come un laccio
Al doppio cuore che ritma il cammino:
Bussola rossa: comune destino.
Regge il carneo timone un solo braccio;
Viola è la meta di questo sghembo viaggio
L'accarezzano i drappi della pioggia
Screziato la cinge un caldo raggio
Illesa degli scogli dall'oltraggio
La prua dei nostri corpi, infine, poggia
Sull'arena dell'Isola di Maggio.

*

WANSHI
Sonetto della meditazione seduta dalla Massima del maestro Wanshi Shogaku.
Del fenomeno aver pura conoscenza,
La cosa rischiarar che non sta inante
Davvero è ben sottile sapienza
Quando pensier non v’è discriminante;
Ove non ha il fenomeno apparenza
Maraviglia la luce abbacinante.
Se nella mente non v’è differenza
Questo sapere non ha simigliante.
E’ diafana l’acqua fino al fondo
Ed il pesce vi nuota lentamente
Libero e lieto nell’umido suo mondo;
Il falco sale nel cielo profondo
In larghe rote con ala possente
Di sé s’oblia nel volo suo giocondo.

La dinamica essenziale dei risvegliati è l’essenza dinamica dei patriarchi, essa conosce i fenomeni senza macchiarli, illumina l’oggetto senza averlo di fronte.
Conoscendo l’oggetto senza macchiarlo questa conoscenza è in se stessa sottile.
Rischiarando l’oggetto senza averlo di fronte, questa chiarità è in se stessa meravigliosa. Questa conoscenza è in se stessa sottile, poiché in essa non v’è pensiero discriminante. Questa chiarità è in se stessa meravigliosa perché non ha la minima apparenza fenomenica. Non avendo il minimo pensiero discriminante, questa conoscenza è indefinibile e senza pari. Non avendo la minima apparenza fenomenica
questa chiarità e completa e non afferra. L’acqua è trasparente fino al fondo; il pesce vi nuota tranquillamente. Il vasto spazio è senza limiti; lontano vi vola l’uccello.
Massima della meditazione seduta del maestro Wanshi Shogaku
Dal Zazenshin del maestro Dogen.
*

Ruben Dario

Conchiglia

Sulla spiaggia ho trovato una conchiglia d'oro
Massiccio, con un fregio di perle, vago, fine
Europa l'ha toccato con le mani divine
Mentre varcava l'onde sovra il celeste toro
Ho portato alle labbra il mitile sonoro
Risuscitando l'eco delle diane marine
L'ho accostato alle orecchie e le azzurre colline
M'han narrato la storia d'un segreto tesoro
Così a me giunse il salso di quegli amari venti
Che della nave Argo gonfiarono la vela
Quando Giason godette dei Celesti il favore
Odo i suono dell'onde, i lor segreti accenti
E l'aroma profondo che nel soffio si cela
(La conchiglia sonora ha la forma del cuore).
Trad. genseki
*

Sulla soglia
Ecco la soglia che s’apre sul mare
Conchiglia rosa tra l’alghe, barbaglio
Che alla pupilla intermittente appare
Stillando vino acre come un taglio
Aperto in cielo tra le nubi chiare.
Lo sguardo va colpendo come un maglio
Quel ricamo lucente che dispare
Ad ogni urto in disperato abbaglio
Ah! Se potessi aprirmi alla freschezza
In un getto di luce come faro
Sboccar nell’oltre frastagliato e spoglio
Graffiato dagli artigli d’ogni scoglio
Ubriaco di sale viola e amaro
Per riposare, infine, alla tua brezza.

*

Sonetto del deporre

Lascia che il tempo segua la sua fama
Tagli d’un colpo le gemme del ricordo
Cali su ogni promessa la sua lama
Spenga ogni suono in un gemito sordo
Che nulla duri di ciò che si ama
Né il pioppo lieve, né il volo del tordo
Né il biancospino né il grembo della dama
Né l’eco bianca del limpido accordo.
Resti l’anima nostra vuota e spoglia
E s’intessa dei raggi d’ogni stella
Tremando al vento come fosse foglia
Vento che soffia dal gorgo alla soglia
Ove si forma quello che s’appellaI
l sé che lieto di se stesso si spoglia.
*

José Garcia Nieto

Alla tua riva

Son giunto alla tua riva. Con un autunno, un passero
E una voce arrocchita. Mi attendi: un fiume,
Una passione e un frutto. Possiede il nostro incontro
Il volo e la corrente, sicuri proclamati
Son giunto alla tua riva con le braccia distese
Ed ora sono l'erba che non termina mai
Il fango dove l'acqua dispone i suoi messaggi
E la curva dell'alveo per mescere il tuo sogno.
Dimmi se ho meritato col mio duro lavoro
Se basta alle tue orecchie il mio verso tristissimo,
Se sotto la mia ombra vive in Maggio il tuo corpo.
Lascerei la tua riva se ora mi dicessi
Che il mio amore è l'amore comune a tutti gli uomini
Che suona la mia voce come quella di tutti.
Trad. genseki
*

Il tuo sogno
A M.J.

Per il tuo sogno penetro nel tuo mare
Tra l'alghe del tuo sonno mi rinfresco
Sfioro il velluto di meduse rare
In succo d'ambra e di giada mi invesco.
Per il tuo mare nel tuo sogno mi stendo
Come nel fresco d'una bara d'occhi
Verso il pelo dell'acqua mi protendo
Prima che l'ansia nel tremore sbocchi
Nel tuo sonno ritrovo la mia veglia
E con l'orecchio sulla tua conchiglia
Ascolto l'eco della tua risacca
Ecco fremente al porto va la chiglia
Il suo terso splendore l'onda abbaglia
E con urto di vento, infine, attracca.

*

Joachim Du Bellay
Sonetto

La nostra vita è una breve giornata
Nel cerchio eterno e l'anno nel suo corso
Ne caccia i giorni né mai volge 'l dorso
Ché tanto frale è ogne cosa nata.
Che pensi, dunque, anima 'mprigionata
Che ti compiaci in questo cupo giorno
Se per volar a più alto soggiorno
Hai pur di penne un'ala ben dotata?
Lassù è quel bene ch'ogne spirto desira,
Lassù il riposo cui ciascuno aspira,
lassù l'amore ed il piacere ancora.
Al Sommo Ciel guidata, anima mia,
Vi potrai riconoscere l'idea
Della beltà che questo mondo adora.
Trad. genseki
*

lunedì, maggio 29, 2006

Tudor Arghezi


Cherubino Malato

L’angelo mio ancora si ricorda
Della sua felicità di un tempo
Ora che il cielo gli versa nella bocca
Sorsi di latte inacidito, amaro
Gli nega le bandiere delle stelle
Le sue sacre orifiamme
Il vento della sera non lo innalza
Negli aromi dell’olio e del vino
I campi ed i frutteti hanno perduto
I fiori, i frutti, le foglie ed i colori
Le acque nere sotto il cielo ardente
Traggono fanghi di pece bollente
Ovunque cerchi di posare il capo
Crescono spine e l’erba si fa dura
Vanno pel cielo senza lui le gru
E il loro volo non è più richiamo
La vita eterna, il nido dell’ogiva
Hanno cessato di nutrirne il cuore
S’insinua poco a poco nel suo intimo
Nel tempo che si sbriciola, la noia
Segretamente comincia a germinare
Nel corpo bianco un terrestre bubbone.


*

Salmo

Davvero son colpevole, Signore
Ché tutti i beni sempre ho desiderato
Di notte ho penetrato le fortezze
Ho saccheggiato nel sonno e nel sogno
Il braccio teso ed il pugno serrato
Sul marmo era silenzioso il mio passo
Come se camminassi sull’argilla
La bandiera notturna dispiegata di stelle
Copriva le mie gesta
Dormivano le guardie nelle calli
Appoggiate alle lance
Fuggivo cavalcando col bottino
Con una donna dai capelli bruni
I seni scuri gli occhi di rondinella
Le tentazioni dolci, quelle facili
Non furono mai la mia scelta
Nella mia ciotola come nella mente
Io cerco il gusto avvelenato, forte
Il mio bagno è nel ghiaccio
Sui sassi il mio giaciglio
Dove c’è buio attizzo le scintille
Dov’è silenzio scuoto le mie catene
Con i miei ceppi infrango le porte
Dalle alte vette suscito pericoli
Cerco il sentiero stretto per passare
Sulle mie spalle porto interi monti.

Ma il mio vero peccato, imperdonabile
È di aver cercato, o Signore
Di trafiggerti con il mio arco.

Ladro di cieli a me stesso ho giurato
Di saccheggiare con le aquile il tuo cielo
In segreto bramando tutti i beni
Nel segreto ho udito il tuo divieto.

*

trad. genseki

giovedì, maggio 25, 2006

Poesie di genseki

Mantello verde che di varchi azzurri

Mantello verde che di varchi azzurri
Disseminato copri questo mondo
Come dell’orso fulvo la pelliccia
Copre la calda densità del corpo
Copri la mente mia che verticale
Scorrere lascia tutti i sentimenti
Coprila col tuo freddo senza verbo
Estraneo nel tuo morbido lamento
Che si disgreghi infine in ogni foglia
Esperimenti in ogni cellula il morire
Del carbonio partecipi alle doglie
Che ricombinano alte leggi feconde
Gocciolo come pioggia dalla gronda
Sui sassi esplodo in mille gocce grigie
Che riflettono ognuna interamente
Le nervature che tessono il mondo

*

Si sbriciola la sfoglia della vista
Al vento verticale che la investe
E vede da ogni scheggia che si stacca
Tutta la verde vita che rinnova

*

È morbida la vita senza verbo
Zattera sono nella sua corrente
I secoli attraverso dolcemente
Tra i dorsi di testuggini e caimani
E guardo le mie mani che si formano
Mutando squame e piume in dita in unghie
I miei occhi che creano quella sfera
Che si screpola in rami di molecole
È una spugna pulsante non un frutto
Gonfio di sangue e di brividi elettrici
Il mio cervello che lento si aggomitola
In grotte di granito in cavi ceppi
È il grido di un varano che mi sveglia
All’umida coscienza del fluire
Madido d’ogni liquido del mondo
Che utero mi fu di muschio e stelle

*

Con luce in scoppi mi scorgo avvistato
Da un volto in cui mi accorgo del mio volto
Apre la bocca ed io odo il mio grido
Nel fiato suo m’accoccolo in me stesso
L’odio e mi creo in crepe di volere
Come distante dal viscoso abbraccio
Dell’indistinta unità di fame e caccia
Mi raddrizzo mi accorgo dei miei piedi
Eretto infine brandisco lampo e rabbia
Mi afferro a un ramo ed una lancia scaglio
Sento la pietra tra le dita il bronzo
Uccidendo mi intaglio sullo sfondo
Dell’essere screziato che trascorre

*

23/05/2006 22.26
genseki

*

Se c’era Dio è piovuto questa notte
Se disfatto in rovesci e cataratte
Poi l’alba è giunta in un velo di gocce
A dissetare il mondo appena nato
La pozzanghera riflette le galassie
Tutte le cime son gonfie di latte
S’apre l’umida valle al caldo soffio
Del vento fresco carico di semi

lunedì, maggio 22, 2006

Congedo dall'Universo vegetale

Adesso lasciami andare

adesso lasciami andare
Scioglimi dall’abbraccio vegetale
Da questo adesso che si sforza ovunque
Da questa ora che afferra il trascorso
Lasciami solo
Solo per il piatto
Solo per la forchetta e per la sedia,
Per il bollire della caffettiera
Per alzarsi da letto e andare in bagno
Scegliere un libro
Oliare le catene
Stringere i denti
Stridere all’incrocio
Solido e solo
Come di potassio
Sciolto da ogni edera e verbena.

*

13/05/2006 20.55
genseki

*

Guardo il sofà

Guardo il sofà
Cosciente di sparire
Senza cercare l’ombra delle gambe
Che il sole delinea sulle piastrelle
Di marmo del soggiorno
La domanda è comunque
La stessa:
Tutto questo giustifica Beethoven
Dietro il filo spinato
I gommoni che odorano di vomito
La traccia amara di vino nei flutti
Un piede tranciato dall’elica
I capelli crespi?
Il quadro alla parete raffigura una piazza alberata
Che si estende su due continenti.
Uno è il mio.
L’altro del mio occhio.
A quale, infine, posso appartenere?

*

13/05/2006 20.55
genseki

*

Finita infine questa finitudine

Finita infine questa finitudine
Tra la crema e lo spazzolino
Tra il capello e la condanna
Del rasoio
Il riflesso dello specchio rotto
Appena
Posso ora posso
Mi insinuo nella crepa
Mi raddoppio
La seguo dove si fa gocciolio nero
E mi sento coronato
Di quercia:
Goccia dopo goccia
Il prezzemolo appassisce
Nel bicchiere
E finisco e finisce
La finitudine:
La sfera.
*
C’è un’altra domanda forse su Beethoven
Sullo spazio dell’erba
Sulla traccia?
Non conosco altro passo
Che il riflesso
Altro movimento che il coltello
O aggiustare le pieghe d’un vestito
Quando non c’è più polvere
All’altare.
*
Ala invoco
E mi ritrovo il becco
Il rostro l’artiglio
E forse il coccio
Gorgoglia l’orzo nel bricco di alluminio
Il muschio copre il rame
Il raggio e il volo
Alla finestra scende a squama
E stuolo.

*

13/05/2006 22.19
Genseki

*

Queste parole tracciano un perimetro

Queste parole tracciano un perimetro
Lo tracciano intorno a un vuoto
Bianco
Lo tracciano poco a poco
Bisogna naturalmente immaginarsi il vuoto
E non è facile e immaginarsi le parole unite
E l’inchiostro
E la ghiandola
Che lo secerne
E poi tutto il resto
E stare attenti ai tiri birboni
Che

giovedì, maggio 18, 2006

Lo scarabeo



Lo scarabeo non conosce i battelli
Le carezze della schiuma, il sole delle valve
Dolce come le fragole in battigia,
S’adagia invece dove stagnano fanghi
Dove si vende il sangue
La vita le ore i sospiri e il senso
Dove si indeboliscono gli argini
A ridosso dei quartieri più sfavoriti
In modo che si infiltrino che si infiltrino
Negli acquedotti e che le infiltrazioni
Imputridiscano negli acquedotti
Marcendo i paragrafi di inchiostri scaduti di postille lacerate
Di carezze febbrili di strette ai fianchi tra lenzuola madide
Lo scarabeo è un ciottolo stridente
Che si condensa nei baci – delle filatrici –
Delle frese
Dei giocattoli cinesi a uneuro, nelle camicie
Di infima qualità dei mercati rionali
Dove ai tempi dell’Impero si quotavano sete e pece
Mirra e cloroformio
Quando il mare odorava di rabarbaro
E le onde erano lingue vinose che leccavano i tronchi dei pini
Lo scarabeo si posa sulle dita
Si posa sulle dita, sugli asparagi
Sulle dita più delicate
Sulle dita dei bambini
Sulle dita
E le sfiora
Come fossero cose.

*

A questo punto lo scarabeo
Dovrebbe infrangersi
Separarsi negli elementi che lo costituiscono, dividersi, insomma,
Farsi analisi delle sue rette dei
Vettori,
Degli ausiliari, degli specchi, delle spinte, delle suppliche
Di tesi e virgole,
- sarebbe un bel carosello di virgole vuote –
Davvero,
Penetrare lo spazio in un solo punto con tutti questi frammenti
E le speculazioni dell’industria farmaceutica
Trovarsi qui
E al tempo stesso di sopra
Come sasso e geranio, come mano e conchiglia, come foglia e chiocciola,
Lo scarabeo è dialettica e consiglio
Lampo rupe
Palma e dirupo
Si apre (come nel ’77) e scricchiola
Se è una buona annota
Ma non è una parola
Al massimo soltanto un accento.
Talvolta.

*

Cella cellula, cranio
Stupore
Scarabeo, arnia
Adesso apri la porta – dai! –
Vedrai che meraviglia:
Lavorano tutti! – Là fuori –
Cinesi marocchini sciiti; alla massicciata
Tra voli di scarabei
Porosi.

*

Parlavo della democrazia, allora
Parlavo della Democrazia, allora
Mi torcevo le mani
Recidevo fiori
Garantivo rimborsi
Correvo sui balconi
Sulle terrazze
Sugli spalti
Sui merli
Sulla biancheria stesa
Parlavo dell’Impero, allora
Lo esportavo
Per carità, non dimentichiamo la nonviolenza
Tagliavo qualche orecchio
Ascoltavo la radio spesso
In macchina
Nella cabine del telefono
Nella scatolette di tonno
Entravo in Europa, allora
Uscivo dalle bottiglie
Scorrevo a fiotti, poi
Fin dove scattano gli inizi,
Sfregiavo gatti.

*

Quello che non mi aspettavo
Quello che non mi aspettavo
Era ritrovarmi nell’orto
Ritrovarmi allo scoperto
Ritrovarmi senza orologio
Ritrovarmi più forte
Anche se avevo perso quella fluidità di movimento
Tanto caratteristica
Ma sempre rigorosamente bipartizan
Nel ritrovarmi dicotiledone
In un paese spaccato in due
Con una piccola coda
Come uno dei lombrichi meccanici
Del cugino Buckminster.

*

genseki

sabato, maggio 13, 2006

Grandizo Munis

Dalla Padella nella brace

Da molti decenni,ormai, ogni progresso e ogni sviluppo della società appare impossibile per via nazionale. Chi i promotori dell'indipendenza invochino Allah a quattro zampe, Geova battendola testa contro il muro del pianto, la versione cristiano oppure Marx e la rivoluzione atea, non cambia molto. Il risultato, in caso di vittoria e indipendentemente dalla buona fede di quanti servono da carne da cannone, è contrario all'emancipazione della grande massa dei poveri.

...

Bisogna gridarlo a pieni polmoni e senza tergiversazioni: i palestinesi non hanno diritto a costituirsi in nazione, a possedere un territorio e uno Stato. Il Diritto del Capitalismo,in un modo o nell'altro finirà per concedergliene uno con l'approvazione di Israele. Ma è proprio quedstoil Diritto che si deve abolire se si vuole parlare senza imbrogliare di rivoluzione.
La prova inconfutabile di quanto detto è Israele stesso, il popolo perseguitato per eccellenza, quello dell' "Olocausto" nazista, il popolo "senza distinzione di classe", immagine del povero ebreo errante perseguitato dall'inizio della dominazione religiosa del cristianesimo, appena costituito in entitànazionale, organizza uno stato semi-teocratico,super equipaggiato militarmente come le grandi potenze, dipendente da uno dei blocchi imperialisti e incapace, per esclusivismo nazionalista e ristrettezza mentale da "popolo eletto",di offrire ai propri coinquilini palestinesi una situazione economica e politica migliore di quella che esisteva prima della formazione dello stato di Israele. Questo sarebbe stato facile senza nemmeno rompere con la meschinità ebraico-capitalista. Il "Problema palestinese" avrebbe allora cessato di esistere in quanto tale. Sarebbe allora apparsa chiaramente la possibilità immediata - espressione della necessità sociale - di una lotta a-nazionale comune ai lavoratori israeliani e palestinesi contro i loro sfruttatori la cui umana personificazione attuale è quella di Begin e Arafat e che ideologicamente sono rappresentati dal giudaismo e dall'islamismo.
...
E' chiaro che neppure gli ebrei avevano il diritto di andare a vivere dove gli pareva e in modo particolare dove i loro antenati abitavano prima della diaspora; come i palestinesi giunti dopo nello stesso territorio. Creare una nazione è prima di tutto organizzare lo sfruttamento dentro frontiere determinate e crearsi le possibilità per sfruttare anche al di fuori di esse...
trad. genseki
testo del 14 settembre 1982
*

Georg Steiner

Nazionalismo

La unica cittadinanza dell'intellettuale e' un umanesimo critico. Questo non solo sa che il nazionalismo e' un tipo di follia, un'infezione virulenta che conduce i gruppi al reciproco massacro; sa pure che il nazionalismo significa una rinuncia al pensiero libero e chiaro e alla ricerca disinteressata della giustizia.

Georg Steiner
da "Passion no spent"
*

venerdì, maggio 05, 2006

José Carlos Mariàtegui




César Vallejo
Trad. genseki

Il primo libro di César Vallejo, “Gli Araldi Neri” è l’alba di una nuova poesia in Perù.

Vallejo è il poeta di una stirpe, di una razza. In Vallejo si trova, per la prima volta nella nostra letteratura, il sentimento indigeno sorgivamente espresso. … Vallejo, …, ottiene nella sua poesia un nuovo stile. Il sentimento indigeno ha nei suoi versi una propria modulazione. Il suo canto è integralmente suo. Al poeta non basta recare un nuovo messaggio. È necessario portare una tecnica e un linguaggio egualmente nuovi. La sua arte non tollera l’equivoco e l’artificiale dualismo dell’essenza e della forma. Il sentimento indigeno … in Vallejo è qualche cosa che affiora pienamente nel verso stesso cambiando la sua struttura. … Vallejo è un creatore assoluto.
Classificato all’interno della letteratura mondiale, questo libro, “Gli Araldi Neri”, appartiene, naturalmente per il suo titolo, al ciclo simbolista. Il simbolismo è però di ogni tempo. Il simbolismo, d’altra parte, si presta meglio di ogni altro stile all’interpretazione dello spirito indigeno. L’Indio, animista e bucolico, tende ad esprimersi in simboli e in immagini antropomorfe o contadine. Vallejo inoltre è solo in parte simbolista. Nella sua poesia – soprattutto della prima maniera – si trovano elementi di espressionismo, di dadaismo e di surrealismo. Il valore sostanziale di Vallejo è quello del creatore. La sua tecnica è in elaborazione continua. Nella sua arte il procedimento corrisponde a uno stato d’animo. Quando Vallejo, agli inizi, prende in prestito, per esempio, il suo metodo a Herrera e Reissig, lo adatta al suo lirismo personale.
Tuttavia fondamentale, caratteristico nella sua arte è il tono indio. In Vallejo c’è un americanismo genuino ed essenziale ; non un americanismo descrittivo o vocalista. Vallejo non fa ricorso al folklore. La parola quechua, il giro vernacolo non si inseriscono artificiosamente nel suo linguaggio; in lui sono prodotto spontaneo, cellula propria, elemento organico. Si potrebbe dire che Vallejo non sceglie i propri vocaboli. Il suo autoctonismo non è deliberato. Vallejo non si immerge nella tradizione, non si inoltra nella storia, per estrarre dal suo substrato oscuro emozioni perdute. La sua poesia e il suo linguaggio emanano dalla sua carne e dalla sua anima. Il suo messaggio è in lui. Il sentimento indigeno opera nella sua arte forse senza che egli lo sappia o lo desideri.
Uno dei tratti più chiari e netti dell’indigenismo di Vallejo mi pare la sua frequente attitudine nostalgica. … l’evocazione in Vallejo è sempre soggettiva. Non si deve confondere la sua nostalgia concepita con tanta purezza lirica con la nostalgia dei passatisti. Vallejo è nostalgico ma non puramente retrospettivo. Non rimpiange l’Impero come come il passatismo codino rimpiange il vicerè. La sua nostalgia è una protesta sentimentale o metafisica. Nostalgia d’esilio, nostalgia d’assenza.

Altre volte Vallejo presenta o predice la nostalgia che verrà.
Vallejo interpreta la stirpe in un istante in cui tutte le sue nostalgie, stimolate da un dolore di tre secoli si esacerbano. Tuttavia – e anche in questo si identifica un tratto dell’anima india -, i suoi ricordi sono pieni di questa nostalgia di mais tenero che Vallejo gusta malinconicamente…
Vallejo ha nella sua poesia il pessimismo dell’Indio. La sua esitazione, la sua domanda, la sua inquietudine, si risolvono tipicamente in un “a che scopo!” In questo pessimismo si trova sempre un fondo di umana pietà.. Non v’è nulla di satanico e neppure di morboso… . E’ il pessimismo di un’anima che soffre ed espia “il dolore degli uomini” come dice Pierre Hamp. Questo pessimismo non ha un’origine letterario. Non traduce una romantica disperazione di adolescente turbato dalla voce di Leopardi o Schopenhauer. Riassume l’esperienza filosofica, condensa l’atteggiamento spirituale di una stirpe, di un popolo. Non si cerchi una parentela con il nichilismo o lo scetticismo intellettualistico occidentale. Il pessimismo di Vallejo, come il pessimismo dell’Indio, non è un concetto ma un sentimento. Ha una vaga trama di fatalismo orientale che lo avvicina, piuttosto, al pessimismo mistico e cristiano degli slavi. Non si confonde mai, però, con questa neurastenia angosciosa che conduce al suicidio i personaggi di Andreiev e Arzibachev. Si potrebbe dire che così come non è un concetto non è nemmeno una nevrosi.
Questo pessimismo si presenta pieno di dolcezza e di carità. Il fatto è che non lo genera un egocentrismo, un narcisismo, disincantati e disperati, come in quasi tutti i casi del ciclo romantico. Vallejo sente tutto il dolore umano. Il suo dolore non è personale. La sua anima “è triste fino alla morte” della tristezza di tutti gli uomini. E della tristezza di Dio.

Altri versi di Vallejo negano questa intuizione della divinità. Nei “Dadi Eterni” si rivolge a Dio con amarezza e rancore. “Tu che sei stato sempre bene, non senti nulla della creazione”.

Questo gran lirico, questo grande soggettivista, si comporta come un interprete dell’universo, dell’umanità. Nulla nella sua poesia ricorda il lamento egolatrico e narcisista del romanticismo. Il romanticismo del secolo XIX fu essenzialmente individualista; il romanticismo del 900, invece, è, spontaneamente e logicamente, unanimista.
Quest’arte segnala la nascita di una nuova sensibilità. È un’arte nuova, un’arte ribelle che rompe con la tradizione cortigiana di una letteratura di buffoni e di lacché.
Vallejo, nella sua poesia è sempre un’anima avida di infinito, assetata di verità. In lui la creazione è, allo stesso tempo, ineffabilmente dolorosa ed esultante. Questo artista non aspira che ad esprimersi in modo puro e innocente. Per questo si spoglia di ogni ornamento retorico, si sveste di ogni vanità letteraria. Giunge alla più austera, alla più umile, alla più orgogliosa semplicità di forma. È un mistico della povertà affinché i suoi piedi conoscano la durezza e la crudeltà del suo cammino.

*

martedì, maggio 02, 2006

Vallejo



Vallejo
Da: "Poemi Umani"
trad. genseki

Ma prima che finisca
Ma prima che finisca
Tutta questa fortuna, perdila, accorciala,
Prendine la misura, se superasse il tuo cenno, superala
Guarda se ci sta, distesa nella tua estensione.
Ben la so dalla chiave,
Anche se spesso non so se la fortuna
Vada sola, appoggiata alla disgrazia,
O suonata, solo per darti gusto,
Nelle falangi tue.
Ben la so unica, sola,
In solitaria sapienza.
Nella tua orecchia bella è la cartilagine
E per questo ti medito e ti scrivo
Nel sogno ricordati di pensare che sei felice
Che profonda è fortuna al terminare,
Ma seco reca al giungere un aroma
Caotico di asta morta.
Fischiando alla morte
Cappello ad alta tesa,
Bersaglio ti defili a vincere la pugna delle scale,
soldato dello stelo , filosofo del seme, meccanico del sogno
(Animale mi senti?
Mi lascio comparare in quantità?
Taci e silente mi fissi
Attraverso le età della parola).
Schivando la fortuna, tornerà
A chiamarla la tua lingua, a congedarsi
Fortuna disgraziata nel durare.
Prima terminerà violentemente,
Dentata, dura stampa,
Allora sentirai come vo’ meditando
Come l’ombra tua è questa mia svestita
Allora fiuterai quanto ho sofferto.

*
Confida nella lente e non nell’occhio

Confida nella lente e non nell’occhio;
Nella scala, giammai nello scalino;
Nell’ala, non nell’uccello
E in te solo, in te solo, in te solo.
Nella malvagità confida, non nel malvagio
Nel bicchiere ma non nel liquore;
Nel cadavere, non nell’uomo
E in te solo, in te solo, in te solo.
Fidati dei molti non di uno;
Dell’alveo, giammai della corrente
Dei pantaloni, e non delle gambe
E in te solo, in te solo, in te solo.
Fidati della finestra, non della porta;
Della madre, ma non dei nove mesi;
Del destino, non del dado d’oro,
In te solo, in te solo, in te solo.

*

Due bambini anelanti

No. Non hanno spessore le sue caviglie; Non è il suo sprone
Dolcissimo, che colpisce le due guance.
Solo la vita è, vestaglia e giogo.
No. Plurale non ha la sua risata,
né per essere uscita da mollusco perpetuo, agglutinante,
Né per essere entrata in mare scalza,
Essa è quella che pensa e va, ed è finita.
È la vita; nient’altro che la vita.
Lo so, lo intuisco cartesiano, automa,
Moribondo, cordiale, infine splendido.
Nulla v’è
Sul crudele sopracciglio del teschio;
Nulla tra ciò che diede ed afferrò con guanto
La colomba, e con guanto,
L’eminente lombrico aristotelico;
Nulla davanti e nulla dietro il giogo
Nulla resta del mare nell’oceano
E nulla
Nell’orgoglio severo della cellula.
Solo la vita; tale; ed audacissima.
In estesa pienezza
Portata astratta, fausta, effettivamente,
glaciale ed impetuosa, della fiamma;
Freno del fondo, coda della forma.
Ma quello
Grazie al quale son nato, ventilandomi
E crebbi con affetto e dramma propri,
La mia fatica lo rifiuta,
Lo avvolgono i miei sensi e la mia anima.
Solo è la vita stabile e teatrale.
Su questa rotta,
L’anima mia estingue la serie dei suoi organi
E per questo indicibile cielo indemoniato,
Il mio apparato di sibili tecnici,
Passò la sera nel mattino triste
E palpito e mi sforzo e sento freddo.
*
Compagno, serve ancora po’ di calma
Compagno, serve ancora un po’ di calma
Un molto immenso, nordico, completo,
Feroce, d’una calma piccolina,
Al servizio minor d’ogni trionfo
All’audace servizio dello scacco.
Ubriaco fin troppo, e non havvi
Tanta follia nella ragione quanto
Questo tuo muscolare raziocinio, né
Fallo più razional che l’esperienza.

Ma, per parlar chiaro
A ben pensarci, sei fatto d’acciaio
Se sol tonto non fossi
A rifiutare
D’entusiasmarti tanto per la morte
E per la vita, sol con la tua tomba.
Occorre che tu sappia
Contenerti in volume senza correre né affliggerti,
La tua realtà molecolare intera
E più oltre, la festa degli evviva
E meno oltre, gli abbasso leggendari.
Tu sei fatto d’acciaio, come dicono,
A patto che non tremi, e che non fugga
A crepare, compare
Del mio calcolo, enfatico figlioccio
Dei miei Sali luminosi!
Vanne, nient’altro; decidi,
Considera la crisi, somma, avanti,
Tagliala, abbassala, guastala;
Il destino, le intime energie, i quattordici
Versetti del pane: quanti diplomi
E poteri, al bordo fededegno del tuo slancio!
Quanto dettaglio in sintesi, con te!
Quanta pressione identica ai tuoi piedi!
Quanto rigore e quanto patrocinio!
Idiota è
Questo modo di patire,
In luce modulata e virulenta,
Se solo con la calma fai segnali
Seri, caratteristici, fatali.
O uomo andiamo, fammi dunque vedere;
Dimmi quel che m’accade,
Che io anche se grido, resto sempre ai tuoi ordini.

*

Questo…

Questo
Avvenne tra due palpebre; tremai
Nella mia guaina, collerico, alcalino,
Immoto accanto al lubrico equinozio
Al piè del freddo incendio in cui m’estinguo,
Scivolata alcalina, vo dicendo,
Di qua dell’aglio, sciroppo sopra i sensi,
Più dentro, molto più di queste ruggini,
Quando va l’acqua al ritornar dell’onda.
Scivolata alcalina
Anche e soprattutto, nel montaggio ciclopico del cielo.
Che dardi e arpioni lancerò, se muoio
Nella mia guaina; sboccerò in foglie di banana sacra
I miei cinque ossicini subalterni,
E nello sguardo il medesimo sguardo
(dicono edificarsi nei sospiri
Tattili fisarmoniche di ossa,
Che morendo così quanti si estinguono,
Muoiono ahimé fuori dall’orologio,
Afferrando una scarpa solitaria)
Se tutto lo comprendo, il colonnello
E il resto, nel lacrimoso senso della voce
Da solo mi torturo, e tristemente estraggo,
Nella notte, le unghie;
E poi non ho più nulla e parlo solo
Correggo i miei semestri
E per gonfiar le vertebre mi tocco.

*

Al cavillar la vita, al cavillare

Al cavillar la vita, al cavillare
Pian piano nello sforzo del torrente,
Allevia, e un seggio offre all’esistenza,
Condanna a morte;
Cade tutto ravvolto in stracci bianchi,
Cade come pianeta
Bollito il chiodo nella pesantezza; cade!
(La mia sinistra, acredine ufficiale;
E tasca vecchia, in sé considerata, questa destra).
È tutto lieto, tranne la mia gioia
E tutto, lungo, meno il mio candore,
La mia incertezza!
Se giudico la forma, tuttavia vado avanti,
zoppicando all’antica,
Per le lacrime mi dimentico degli occhi (Interessantissimo)
Salgo fino ai miei piedi da una stella.
Tesso ; d’aver filato, vo tessendo.
Cerco ciò che mi segue nascosto tra arcivescovi,
Sotto l’anima mia e dietro il fumo del mio alito,
Tale era la delusione sensuale
Della vergine capra che ascendeva,
esalando fatidici petroli,
Ieri domenica in cui persi il mio sabato,
Tale la morte, con suo audace consorte.

*

Chitarra

Il piacer di soffrire e di odiare, mi tinge
La gola dei suoi plastici veleni,
Ma la setola che impianta ordini magici,
e taurina grandezza, tra la prima
E la sesta
E l’ottava mendace, tutte soffre.
Il piacer di soffrire… Chi? Per chi?
Chi, i denti? Per chi la società?
I carburi di rabbia dell’alveolo?
Come essere
E star senza dar collera al vicino?
Vali più del mio numero, uomo solo,
E valgon più che tutto il dizionario,
Con la sua prosa in verso,
Con il suo verso in prosa,
La tua funzione aquila,
Il tuo congegno tigre, dolce prossimo
Il piacer di soffrire
Di aspettare speranze sulla mensa
La domenica con tutte quelle lingue,
Il sabato d’ore della Cina o del Belgio,
La settimana con i suoi due sputi.
Il piacere di attendere in ciabatte,
Di attendere contratto dietro un verso,
Di attendere con forza a mala rabbia;
Il piacer di soffrire: inganno di femmina
Morta con una pietra alla cintura
E morta tra la corda e la chitarra,
Piangendo i giorni mentre canta i mesi.

*

Per il puro calore ho tanto freddo

Per il puro calore ho tanto freddo
Sorella Invidia!
Leccano i leoni la mia ombra
E il topo morto mi rosicchia il nome,
Madre, anima mia!
All’orlo dell’abisso vo,
Cognato Vizio!
Tintinna il bruco la sua voce,
E la voce tintinna il suo bruco,
Padre, corpo mio!
Mi sta innanzi il mio amore,
Nipotina colomba!
In ginocchio, il terrore
Di testa, la mia angoscia
Madre, anima mia!
Fin quando un giorno senza due
Tomba mia sposa,
Risuoni il mio ultimo ferro
Di vipera dormiente,
Padre, corpo mio!

*

Son restato a scaldare l’inchiostro in cui mi affogo

Son restato a scaldare l’inchiostro in cui mi affogo
Ad ascoltare la mia grotta alternativa,
Notti di tatto e giorni di astrazione.
Rabbrividì l’incognita in amigdala
E crepitai d’annua melanconia,
Notti di sole, dì di luna, tramonti di Parigi.
Ed ancora, oggi stesso, verso sera,
Digerisco sacratissime costanze,
Notti di madre, giorni di pronipote
Bicolore, lasciva, urgente, bella.
E ancora
Giungo fino al mio aereo da due posti,
Nel mattino domestico brumoso
Che emerse eternamente da un istante.
E ancora,
Anche ora
In fondo all’aquilone ove ho raggiunto
Il bacillo felice e dottorale,
Eco che caldo, udente, terro, sole e luno,
Incognito attraverso il cimitero,
Prendo a sinistra, fendo
L’erba con alcuni endecasillabi,
Anni di tomba, litri di infinito,
Inchiostro, penna, laterizi e perdoni.

*

La ruota dell’affamato

Dentro i miei propri denti vo fumando,
Dando voce, spingendo,
Calandomi le brache …
Vuota stomaco mio, vuota budella,
Dai denti miei mi tira la miseria
Con uno stecco infilzato ad un polsino.
Una pietra ove sedermi
Non c’è per me?
Nemmeno la pietra in cui inciampa la donna che ha partorito,
La madre dell’agnello, la causa, la radice,
Non ci sarà adesso per me?
Oppure l’altra
Che ha trafitto l’anima piegandosi!
Almeno una calcarea o cattiva (umile oceano)
O quella che non serve nemmeno per tirarla contro l’uomo,
Datela a me, quella li!
Almeno quella che troveranno sola e trafitta in un insulto,
Datela a me, quella li!
Almeno la contorta o coronata, ove risuona
Solamente una volta il passo di rette coscienze,
o, almeno, quest’altra, che gettata in degna curva,
Va a cader da se stessa,
Professando da autentica interiora,
Datemela adesso quella li!
Un pezzo di pane! Non v’è neppure quello ora per me!
Ormai essere devo ciò che sempre sarò,
Ma datemi
Una pietra per sedermi,
Datemi
Per favore, un pezzo di pane ove sedermi,
Datemelo,
In spagnolo
Qualcosa che io possa infine bere, mangiare, vivere, riposare,
Poi me ne andrò…
Trovo strana la forma, strappata
E sporca la camicia
E non ho proprio nulla, e questo è orrendo.

*
30/04/2006 22.21

*