lunedì, maggio 30, 2016

La Coscienza

Dal testo di Romano Guardini: La coscienza


Abbiamo dimenticato che quanto riflette lo spirito è di una nobiltà molto esigente e che il comprenderlo è possibile solo a certe condizioni. Che i diversi interessi del mondo spirituale esigono di volta in volta un diverso modo diparlare e di ascoltare; richiedono uno spazio interiore diverso, nel quale possano svolgersi questo parlare e questo ascoltar

Il bene non diventa realtà, se non lo attuo.

Il bene non è una legge morta. È la vita infinita che vuol essere inserita in questa realtà. Nella sua pura essenza questa vita è per noi inesprimibile; appunto perché è infinita e nello stesso tempo semplicissima. Ma essa vuole assumere una figura terrena, umana. È ciò che avviene nell’azione morale. L’attività morale ha in sé qualche cosa di misterioso

Nell’attività morale si tratta di render reale, umanamente reale quello che ancora non lo è. Si tratta di dar forma terrena a qualche cosa di eterno e di infinito.


Ma poi, con le opere, dobbiamo trasfondere il bene nella realtà, altrimenti esso resta aspirazione infeconda. Bisogna che ne imprimiamo la forma nella materia nella realtà che ci circonda: nella situazione. Ciò vuol dire che dobbiamo afferrare ciò che è nuovo; quello che qui mi sta attorno: uomini, avvenimenti, cose, circostanze. Tutto ciò arriva, diviene, si articola, qui, adesso - e in questo momento bisogna che lo afferri. Devo vedere: che cosa importa per me tutto questo che mi circonda? A quali cose devo rivolgere il mio sguardo? Il mio giudizio? Che cos’è qui il bene? Vedere, giudicare, deliberare, fare tutto ciò;chiaramente, magnanimamente, ponderatamente, risolutamente; con atto energico e netto, che abbia sangue e colore, lo slancio del cuore e la sicurezza della mano -questo significa fare il bene. Agire moralmente significa quindi creare qualche cosa; non in pietra o in colore o in suono, ma nella materia reale della vita.

La vita morale è disertata su larga scala. Le forze creatrici si sono trasferite al servizio di un’arte raffinata, di un’attività politica sfrenata, di un’economia pura o di qualsiasi altra cosa. È tempo che riconosciamo di nuovo che l’attività morale è una creazione e vi convogliamo di nuovo le vive energie morali.


Così la coscienza è anche la porta, per la quale l’eterno entra nel tempo. È la culla della storia. Solo dalla coscienza sgorga «storia», la quale significa ben altro che non un processo naturale. Storia significa che, in seguito a libera opera umana, qualche cosa di eterno entra nel tempo.

Ogni situazione si presenta una unica volta. Per cui anche quello che deve avvenire in essa non è mai avvenuto e non tornerà più. Bisogna dunque che venga divinato e plasmato per la prima volta.

La coscienza è dunque l’organo per l’eterna esigenza del bene, che deve venir attuato: la coscienza è per l’uomo come una finestra aperta sull’eternità. Una finestra però che allo stesso tempo dà anche sul coro so del tempo e sugli avvenimenti quotidiani. La coscienza è l’organo, che trae l’interpretazione del comandamento del bene, eterno e sempre nuovo, dai fatti concreti; l’organo col quale sempre di nuovo si riconosce in qual modo il bene eterno ed infinito debba venir attuato nella specificazione del tempo. È un obbedire e al tempo
stesso un creare; un comprendere e un giudicare; un penetrare e un decidere.


Da questa prigionia in me stesso io mi libero soltanto se trovo un punto, che non sia il mio «io»; una «altezza al di sopra di me». Un qualche cosa di solido e operante che si affermi nel mio interno. Ed eccoci arrivati al nocciolo della nostra odierna considerazione, cioè alla realtà religiosa.
Quel «bene», del quale abbiamo parlato, che cos’è veramente?
Non una «legge», che penda affissa da qualche parte. Non una semplice idea.
Non un concetto campato in aria. No, esso è qualche cosa di vivo. Diciamolo senz’ambagi: è la pienezza di valore dello stesso Dio vivente. La santità del Dio vivente: ecco il bene.



Mi ricordo ancora il luogo, ove un bel mattino mi si affacciò questo concetto così semplice e pur così celato e sottile: Quando io dicessi: «l’amore»... e questo amore divenisse pieno e perfetto in forza, in purezza, in misura, in durata e profondità e quanto al suo oggetto; ed ora, assolutamente pieno e perfetto incominciasse ad esistere in sé, divenisse persona; diventasse l’amore stesso per essenza - che sarebbe questo amore? il Dio vivente! Questa intuizione mi rese raggiante di gioia!... Il valore, la fedeltà, l’onore, la bontà, la giustizia, la misericordia... in una parola: «il bene», nella sua infinitezza e nella sua pura semplicità - tutto ciò è la santità vivente di Dio e nient’altro.


La coscienza è l’organo per il bene; ed è l’organo per Iddio.


Inderogabile ed essenziale caratteristica della legge morale si è che mi «venga incontro»; che non sia dunque per me l’«io» stesso.

Là, dove il nostro essere confina, quasi a dire, col nulla, sta la mano di Dio e ci regge. Là egli ci parla. Non come una forza indeterminata o una semplice legge. Non come alcunché di impersonale, ma come un «io», al quale è possibile rispondere con un «tu». Dio parla dunque dentro di noi. Ma questo stesso Dio è il Creatore e il Signore del mondo.

Ovunque viva un uomo, ivi, in lui, è il centro del mondo.

L’uomo non ha soltanto un’essenza, comune a tutti i suoi simili; egli ha di più.
L’essenza dell’uomo porta in ogni singolo l’impronta terminale di unicità: è «nome». Tutte le altre cose si trovano già nel tipo della specie. L’uomo solo è a priori «singolo». Ma lo è, perché ha rapporto immediato con Dio. Tutte le cose del mondo sono intrecciate nel contesto dell’universo e negli ordinamenti della specie; e anzi, in misura totale. Anche l’uomo vi è inserito, ma solo con una parte del suo essere.


L’uomo dunque non ha soltanto un’essenza determinata, ma porta anche un nome. L’atto divino della creazione, dal quale ho ricevuto la mia realtà, fu un atto di denominazione.

Non sono soltanto individuo, ma anche persona. Non porto in me soltanto un’essenza generica, ma un’essenza che ha l’impronta dell’unicità: porto un nome. Questo nome l’ho da Dio. Sono nel mondo, ma non mi confondo con esso. Con ciò che ho di intimo vengo immediatamente da Dio e sto in rapporto diretto con Lui. Egli mi ha creato come questa determinata persona. Questo nome che mi ha imposto non è racchiuso nella natura generica «uomo». Non si sperde nell’articolazione dell’universo, e Dio solo lo sa. Perciò io posso conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più mio, solo ricavandolo di là, dove è custodito, cioè da Dio. I vari strati del mio essere possono essere portati alla condizione di realtà cosciente con maggiore o minore facilità. Quanto più nobili e più profondi, tanto più difficilmente. L’ultimo diventa reale soltanto nell’incontro con Dio.

Così pregava Newman: «Ho bisogno che Tu m’istruisca, giorno per giorno, su ciò che è l’esigenza e la necessità di ogni giorno. Concedimi, o Signore, la chiarezza della coscienza, la quale sola può sentire e comprendere la Tua ispirazione. I miei orecchi sono sordi; non so percepire la Tua voce. I miei occhi sono offuscati; non so vedere i Tuoi segni. Tu solo puoi affinare il mio orecchio, acuire il mio sguardo e purificare e rinnovare il mio cuore. Insegnami a star seduto ai Tuoi piedi e a prestar ascolto alla Tua parola. Amen».

La forma più ovvia del raccoglimento sarebbe certo l’ordine. Ordine della vita e del lavoro quotidiani, degli oggetti in camera e in casa, delle occupazioni nel corso della giornata e dei giorni; della lettura, dei pensieri e così via.
L’ordine raccoglie.

Raccoglimento significa qui che sappiamo, una buona volta, non tanto fare, quanto vivere. Avere un’esistenza tranquilla. Un’esistenza piena, libera dall’ossessione del fare e del volere.
Noi tendiamo sempre ad una mèta, poi ad un’altra ulteriore, e cosi di seguito. Sempre verso qualche cosa che non esiste. Sbrighiamo una cosa e la gettiamo dietro le spalle. Viviamo gli avvenimenti, rapidamente e già essi non sono più.
Cosi viviamo sempre scivolando fra quello che non è più e quello che non è ancora.
Raccoglimento significa qui creare il presente, sostare e divenir presenti.



martedì, maggio 24, 2016

Wendell Berry

Dai miei anni di collegio e dalle mie letture venni a conscenza dei diversi nomi che alla fine di una serie di domande o in periodi di sconcerto sono attribuiti a Dio: la prima causa, il primo mobile, la forza vitale, la mente universale, il princpio primo, il motore immobile, la provvidenza, Io stesso ho usato questi nomi discutendo con altri o con me stesso o cercando di darmi una spiegazione.
Ora posso dire che tutti questi nomi non spiegano nulla. Non sono di maggior utilitá che evoluzione o selezione naturale o Big Bang. Quello che questi nomi fanno è avvolgerci con la lunghezza e la profonditá dei nostri stessi pensieri e aspirazioni., Penso che ho conosciuto la tentazione della semplice ragione, di credere solo in quanto si puó provare, fino a che non avanzai la supposizione che non si trattase dei nomi veri.

Ho immaginato che il vero nome possa essere Padre e ho immaginato che cosa implica: l'amore, la compassione, l'offesa, la ferita, la delusione, la rabbia,, le lacrime, il perdono, la sofferenza fino alla morte. Se il mio amore potrebbe spingere il mio pensiero oltre il limite del mondo e del tempo, potrei forse non comprendere come la divina onnipotenza possa essere scagliata in questo mondo dalla stessa forza del suo amore? Potrei forse non vedere come egli puó, volendo conoscere la sua creatura per compassione soltanto, prendere carne mortale, divenire uomo, camminare tra di noi, assumere la nostra natura e il nostro destino, la sofferenza, la debolezz e la nostra morte?

Potrei immaginare un padre che è un poco come la chioccia che distende le ali prima della tempesta o al crepuscolo prima della notte sui piú piccoli di Port Williams perché vengano a ripararsi, alcuni accorrono, altri no. Posso immaginare Port Williams cavalcare la sua onda nel tempo, sotto il cielo, le sue fiammlele che risplendono, escono fuori mentre le sue vite attraversano nascita, piacere, dolore, morte. Posso immaginare Dio che guarda giú, verso di loro, verso le loro vite che vivono nel suo spirito, che respirano per il suo respiro, che conoscono grazie alla Sua luce, ma vivono la loro vita, (inevitabilmente) ognuno secondo la sua volontá. Il Suo corpo dato per essere spezzato.

Wendell Berry

trad. genseki

giovedì, maggio 19, 2016

Elisa, vita mia

   ¿Quién me dijera, Elisa, vida mía,
      cuando en aqueste valle al fresco viento
      andábamos cogiendo tiernas flores,
      que había de ver, con largo apartamiento,
 5-  venir el triste y solitario día
      que diese amargo fin a mis amores?
              

Garcilaso de la Vega

mercoledì, maggio 18, 2016

Il giardino di Asolo

Era questo giardino vago molto e di maravigliosa bellezza; il quale, oltre ad un bellissimo pergolato di viti, che largo e ombroso per lo mezzo in croce il dipartiva, una medesima via dava a gl'intranti di qua e di là, e lungo le latora di lui ne la distendeva; la quale, assai spaziosa e lunga e tutta di viva selce soprastrata, si chiudeva dalla parte di verso il giardino, solo che dove facea porta nel pergolato, da una siepe di spesissimi e verdissimi ginevri, che al petto avrebbe potuto giugnere col suo sommo di chi vi si fosse accostar voluto, ugualmente in ogni parte di sé la vista pascendo, dilettevole a riguardare. Dall'altra onorati allori, lungo il muro vie più nel cielo montando, della più alta parte di loro mezzo arco sopra la via facevano, folti e in maniera gastigati, che niuna lor foglia fuori del loro ordine parea che ardisse di si mostrare; né altro del muro, per quanto essi capevano, vi si vedea, che dall'uno delle latora del giardino i marmi bianchissimi di due finestre, che quasi ne gli stremi di loro erano, larghe e aperte, e dalle quali, perciò che il muro v'era grossisimo, in ciascun lato sedendo si potea mandar la vista sopra il piano a cui elle da alto riguardano. Per questa dunque così bella via dall'una parte entrate nel giardino le vaghe donne co' loro giovani caminando tutte difese dal sole, e questa cosa e quell'altra mirando e considerando e di molte ragionando, pervennero in un pratello che 'l giardin terminava, di freschissima e minutissima erba pieno e d'alquante maniere di vaghi fiori dipinto per entro e segnato; nello stremo del quale facevano gli allori, senza legge e in maggior quantità cresciuti, due selvette pari e nere per l'ombre e piene d'una solitaria riverenza; e queste tra l'una e l'altra di loro più a drento davan luogo ad una bellissima fonte, nel sasso vivo della montagna, che da quella parte serrava il giardino, maestrevolmente cavata, nella quale una vena non molto grande di chiara e fresca acqua, che del monte usciva, cadendo e di lei, che guari alta non era dal terreno, in un canalin di marmo, che 'l pratello divideva, scendendo, soavemente si facea sentire e, nel canale  ricevuta, quasi tutta coperta dall'erbe, mormorando s'affrettava di correre nel giardino.

Pietro Bembo
Gli Asolani


kenneth Rexroth

Indigeni di camere ammobiliate
le nostre ore miglori le passammo
a spese dei contribuenti
nei parchi pubbllici di quattro cittá
Forese era peggio, il livello,
l'erba ben alimentata, il sollevarsi
ritmico della braccia infantili
una brillante palla rossa che seguiva
una linea di sorrisi
i vestiti dell bambine
come fiori di giacinto
nell'agosto incipiente, le fontane
scoiattoli addomesticati, piccioni
passeri e altre

infinite, memorabili cose.

trad. genseki

martedì, maggio 17, 2016

Blanchot

So - lo so - che colui al quale stavano giá puntando i fucili i tedeschi, che attendevano ormai solo l'ordine finale, sperimentó allora un sentimento di leggerezza straordinario, una specie di beatitudine (non di felicitá, comunque), una allegria ovrana? L'incontro della morte con la morte?
Non cercheró di analizzare in vece sua quasto sentimento di leggerezza. Chissá fu repentinamente invincibile, forsse un sentiment di compassione per l'umanitá sofferente, la fortuna di non essere immortale, di non essere eterno. Da allora fu legato alla morta da una amicizia surretizia.

Blanchot

L'istante della mia morte

Mani

Muovendo le nostre mani unite
oltre il lago, come in volo,
fino al bosco oscuro, sulle cime degli abeti,
appena distinguiamo gli steli delle graminacee
non è che un prato
e noi due distesi -
quando ritornano a posarsi,
intrecciate le nostre braccia
come rami di un vecchio melo -
accarrezzano le nostre ombre
sono le nostre mani
Le carezze di altri.


genseki

Blanchot

Sperimento vivendo un piacere illimitato e proveró morendo una soddisfazione infinita.

Blanchot
La follia della luce
trad genseki

lunedì, maggio 16, 2016

Kenneth Rexroth

Sei mesi eterni come un sogno
cosí impotente...
la tua sosta sulla scala del metro
ondeggi, sorridi e discendi
un istante tra risveglio e risveglio
hai sorriso per ondeggiare ancora
a due isolati da un bulevard nebbioso di Chicago?
Quante dinastie tramontarono nel frattempo?
Quanto tempo impiegó l'altra mano
A compiere il suo periplo?

trad genseki




















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Kennet Rexroth


Piú tardi quando nell'acqua gaia
Esplose il loto rosso, e il verde perfetto
smaltó alberi ed erba, “io solo, competamente solo,
galleggiando” restai pensoso sull'acqua dello stagno.
Quando il sole basso penetró coi raggi cremisi
gli interstizi del loto splendente; cosciente
del giungere, nella profondita degli anni, di un tempo
in cui queste lagune questi alberi scuri
lo specchio scorrevole di questo crepuscolo su cui navigammo
saranno spazzati da un'onda gigante fuori dalla memoria
in una pomeriggio normale, ancora lontano -

immensa, in vertigine e orrore.

trad. genski

giovedì, maggio 12, 2016

A Resolution

Piove, nel caffé

La bellezza della figlia del re viene dall'interno (Salmo 45,14)


Piove ai vetri del caffé le gocce
Raccontano dell'abbandono, del pericolo
Ê un limbo questo dove ci scaldiamo
Alle frottole, alla musica scadente,
all'odore del riso che si tosta.
Usciremo prima o poi nella nebbiolina
Tra i richiami dei merli fitti fitti
Il piede del vesante fiorito di cardi
Si scuote al passo dei lupi
Cominciamo a salire, inzuppiamo
Le scarpe e le calze nell'erba bagnata
anche questo lo accettiamo nel suo nome
È poca cosa e presto sapremo
Su quale cima si erge il cippo
Su quale la croce
E vi riposeremo finalmente.

genseki


martedì, maggio 03, 2016


Inno alla Madre

ora sei benedetta tra le spighe
e marci sulle orme dei santi
eucalipti dorati ti danno ombra
germoglio di madreperla
la tua anima bambina
tu agnella impigliata tra le spine
Il tuo antico dolore instancabile
cesella ora le gioie che ti adornano
e i raggi della luna ti incoronano
verdi scintille i tuoi occhi come foglie
é Sion la tua dimora, tra le tende
dei beduini che salgono al santuario
crescono i virgulti sui tuoi passi sciolti
e l'olio profumato ti impregna i capelli.
Sei una carezza ora alla mia fronte
Perdonami per quello che MI HAI FATTO.