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venerdì, novembre 07, 2014

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Don Baldássare

Come tutti i pargoli del Barrio anche il piccolo Dreiser Cazzaniga dovette frequentare la Scuola per apprendere l'abbecedario e l'abbaco come allora era costume, prima che la Grande Oscuritá rendesse le scuole luogo di cupe pratiche ludico-meditative.
Nella scuola del Barrio regnava in quei giorni la figura della Pedantessa, vecchie pie, miopi e sdentate impartivano le arti del quadrivio a pargoli inquieti, puzzolenti e dalle unghie listate a lutto, vestivano cappottini lisi con colletti di pelle di coniglio e le chiome bianche avevano sfumature celesti, gli occhi di pietra brillavano freddi seminascosti da occhialini ovali.
Dreiser Cazzaniga ebbe fortuna, a lui tocco come maestro Don Baldassare. Come tuti i pedanti era uomo di etá giá avanzata, forse una dozzina di lustri, e al piccolo Dreiser Cazzaniga pareva antico come le colline che circondavano il Barrio o perlomeno come l'altissimo ponte del drago ferreo che lo dominava, avvolto nel suo pastrano dal colore reso indistinguibile dal tempo.
Al principio del secondo anno di scuola il piccolo Dreiser Cazzaniga non aveva ancora conseguito l'abilitá grafica necessaria a scrivere versi endecasillabi e alessandrini ma financo ottonari senza andare a capo rompendo cosí la bella armonia della pagina.
Don Baldassare non lo castigó per quasta sua intollerabile mancaza, piuttosto si avvicinó al piccolo Dreiser Cazzaniga, colse la sua manina con la mano grassottela dalle dita corte e gialle di nicotina e la condusse per l'impervio sentiero di un esametro particolarmente orografico fino al bordo della pagina alla sponda di tanto altalenare.
Fu come se qualche cosa si fosse impresso nell'anima del piccolo Dreiser Cazzaniga, un abito meccanico incacellabile in virtú del quale non ebbe mai piú la necessitá di troncar versi, come involontario carnefice dell'armonia, senza sforzo niuno.
Don Baldássare soleva giocare al biliardo la sera nella taverna del Barrio tra barattieri e malandrini, e quando ali sbirri del bargello occorreva di fare irruzione nella piola o posada grigia e ammuffita, il gioco, infatti, era vietato a' pedanti e alle pedantesse del Regno, agile come giovinetto pastore fuggiva per i tetti con gli altri peccatori menando gran chiaso tra' gatti intenti alle loro faccende notturne.
Vivea solo con la vecchia madre come zitello coatto, la madre volle che fosse presbitero  e non potendo conseguirlo per la ripugnanza di lui e la sua convinta empietá  costringerlo seppe, tuttavia al celibato.
Alla morte di lei poté infine sposarsi con la vedova benestante ch'ella avea previdentemente eleto alla funzione di madre sostituta in abito legale di consorte. Fu un'unione infelice.
Don Baldassare odiava la neve, quando i primi fiocchi cadevano lenti e svagati sui prati grigi e i tetti bruni del Barrio Don Baldássare soffriva in preda a una rabbia sorda che si esprimeva in melanconia e talora in attachi di una furia astratta ch'egli volgeva contro gli incolpevoli suoi pupilli, specie i piú sudici e i sardi, disprezzava egli segretamente i sardi giunti con il Drago di ferro e dediti alle mansioni piú umili come era consuetudine ovvia nel Barrio,
La Chionofobia di Don Baldassare non trovava la sua eziologia nel Barrio ma nelle lontane steppe della Scizia.
Egli infatti partecipó, come tutti i suoi coetanei del Barrio alla tragica Spedizione Scitica come milite della Legione Cozia. Da quella terra gelata, dalle infinite pianure innevate dai monti avvolti in tormente perenni egli fu uno dei pochi che ebbe la sorte di essere restituito ai suoi cari tutto d'un pezzo e vivo.
Leghe e leghe infinite leghe di neve calpestó sferzato dal gelido staffile del vento caucasico, stremato dalla fame e dalla sete, poté sopravvivere grazie soltanto all'ausilio compassionevole prestato, a lui e ai suoi compagni nella disfatta, dalle pietose vecchierelle delle isbe, dai villani, dai decrepiti pope e anacoreti delle capanne di betulla, la zuppa calda di barbabietola e cavolo, il conforto del riposo permisero loro il ritorno.
E questa ospitalitá, questo ausilio dato al nemico sconfitto e morente invece della vendetta meritata, lo fu nel nome di quel Cristo Signore ch'egli aveva prematuramente rinnegato,

Nella classe del piccolo Dreiser Cazzaniga non eravi croce alla parete, per fermo volere, scellerato oserei dire di Don Baldassare, bensí un piccolo, ma grazioso altare dedicato a Nostra Señora la Virgén Negra de la Cumbre per la quale avea una speciale devozione che trasmise al piccolo Dreiser Cazzaniga e che questi, sebben ghibellino e inimico della fede non abbandonó mai. Sul picciol altare non mancavanno mai candele di cera fragrante e fiori freschi del bosco,

Don Baldássare era per il piccolo Dreiser Cazzaniga la garanzia del ritrno delle stagiioni, del ciclo del giorno e della notte, la sua settimana era organizzata secondo uno schema che si ripeteva come una liturgia per da San Martino a San Giovanni. Le giornate erano anch'esse scandite su di un ritmo sapientemente fissato dall'alba a mezzodí.
Ottobre era dedicato al ricordo e alla lode del navigatore eccelso che aprí un nuovo continente alla Parola di Dio, Novembtre era il San Martino che compartiva il suo mantello di soldato con il povero ottenendo per tutti una breve estate, era il San Martino temuto da' mezzadri, mese delle fiere che attraevano i villani al Barrio e ai borghi per il negozio del bestiame, Dicembre il dolce natale tanto caro al cuore, Gennaio cominciava con il pargoletto anno nuovo e la lista dei propositi per una vita retta.  Febbraio veniva con il corteo delle maschere antiche: le Colombine, i Balanzoni, i Pantaloni, Aprile piovoso e fecondo mese del disgelo, Maggio caro al cuore, il mese della Vergine Maria e il ciclo ripetevasi di anno in anno, legge eterna dell'umano e dell'universo come un vivente libro d'ore miniato dello splendore dell'infanzia.
Fu Don Baldássare che modelló l'anima di Dreiser Cazzaniga rendendola tanto sensibile al Culto della Virgén Negra de las Cumbres (benché fosse egli ancor ghibellino e averroista arrabbiato), ai riti e alle cerimomonie.

A cura di genseki

martedì, maggio 31, 2011

Dreiser Cazzaniga e la Bibbia

Il primo risvegliarsi in Dreiser Cazzaniga dell'amara coscienza dell'ingiustizia che pervade le nostre societá umane e dell'ingenua volontá di porvi riparo per quanto dipendesse dalle sue povere forze coincise con la sua lettura della Bibbia. Fu precisamente il testo del profeta Amos che gli rivelò tutto un universo di pensieri, di pene, angustia e sdegno e lo gettó cosí come era, privo di discermnimento e avvolto da nebbiosa passione, nello stato in cui si mantenne per tutta la vita di scorticata ribellione. Certo la societá che le parole del profeta tanto violentemente denunciavano, minacciavano in nome del Signore e invitavano al ravvedimento era una societá sconosciuta nelle sue forme al giovane Dreiser Cazzaniga. Una societá agro pastorale, arcaica e di pura sussistenza in cui l'orfano e la vedova sprovvisti di protezione rischiavano presto la morte per fame o per malattia. Dreiser Cazzaniga aveva si conosciuto gli ultimi abitanti delle grandi cascine della Sierra, che scendevano al barrio profumando di stalla sui carri cigolanto trainati dai buoi pazienti, aveva giocato con l'acqua che si raccoglie nei solchi che le loro ruote marcavano sulla strada, aveva spiato i fanciulli e le fantine che menavano al pascolo le greggi sparute nel grigio novembrino dei colli.asi Ma il mondo dei pastori e dei contadini era estraneo alla sua vita quotidiana. Egli conosceva, invece, molto e bene il mondo operaio, la sua vita e i suoi giochi erano regolati dalle sirene degli opifici, il cui prolungato lamento lo richiamava a casa per il pranzo o per la cena e il sonno nel vespero. Avanzava nella folla mesta al ritmo del passo grave degli operai tutti vestiti di blu che profumavano di grasso, e e vino, e viveva solo in virtú di questa comunione quotidiana di passante il loro orgoglio, le loro umiliazioni la determinazione della loro lotta per l'esistenza. Così fu, che senza riflettere, quando leggeva di vedove e orfani e di ingiustizia pensava ai padri dei suoi condiscepoli del barrio, al freddo delle loro case, alla brutalitá del loro alcolismo, alla condizione di ingiustizia sotto la quale dovevano piegare il capo. Il Profeta poco a poco venne nella sua mente assumendo insensibilmente i tratti del rivoluzionario, del mestatore, del rubello, dell'insorto, del giacobino, ma sotto i suoi nuovi panni era sempre il Profeta che esercitava la sua influenza sul piccolo Dreiser Cazzaniga. Gli è che il Profeta era uomo oscuro, semplice, che viveva in silente solitudine e solo dopo dura lotta con Dio accettava di essere lo strumento dell'annuncio della sua giustizia. Il Profeta non avrebbe parlato, non avrebbe potuto parlare, era stato separato, isolato, mondato, e per essere un semplice efficace strumento del verbo di giustizia. In questo scontroso isolamento, in questa appassionata austera solitudine, nella timidezza, nele senso di inadeguatezza che lo faceva sentire inferiore e superiore al contempo a chiunque, in questa ridda di confusi sentimenti, il giovane Dreiser Cazzaniga si identificava col Profeta nel piú intimo della sua anima e sognava. Poi la lettura del Magnificat gli si squadernó davanti come una gloriosa indomita rivendicazione di giustizia facendo della Vergine una madre paterna occulta.
Negli anni della sua militanza giacobina, duri e violenti vennero poco a poco cancellandosi dai suoi ricordi coscienti, la figura del Profeta e quella della Vergine, ma in realtá dall'occulta profonditá dell'anima sua mai non cessarone di guidare i suoi passi. Nel giacobinismo ahimé egli si spense non volle essere accolto dalle braccia di Abramo.

a cura di genseki

martedì, aprile 12, 2011

Don Ciopo

Don Alàmo detto Ciopo

Tra i condiscepoli di Dreiser Cazzaniga negli anni spensierati del'infanzia studiosa del Barrio di Briggio uno merita distinta menzione vuoi per una speciale ossessione che negli sparsi frammenti memorialistici di Dreiser Cazzaniga egli pare aver nutrito nei suoi confronti, vuoi per la spettacolare carriera e il successo che sempre premiollo facendo di lui come l'opposto dialettico di Dreiser Cazzaniga.
Il piccolo Alàmo, fin dalla sua primissima infanzia aveva dato prova di una singolare certezza di vocazione: voleva essere presbitero, poi obispo e infine se possibile pontefice. Dreiser Cazzaniga come si sa era un ghibellino e nei suoi scritti le dignità ecclesiastiche son sempre, rigorosamente scritte con la minuscola. Così, essendo ancor picciol fantino occorreva che tutti si abituassero a chiamarlo Don Alàmo e non Alàmo, dapprima con una sorta di diverita tenerezza che sbocciava negli animi di chi vedeva questa ingenua creatura accarezzarsi le mani torcendole come un monsignore avezzo a tutte le sottigliezze della casuistica, sollevare con gesto sicuro e umile un pezzettino di cartone tagliato come un'ostia simulando la cerimonia della consacrazione, distribuire immagine di santi e sante in cambio di quelle dei calciatori:
San Gennaro, San Crispiniano, San Gamal e San Ghinaccio (protettore dei macellai del barrio di Briggio noto anche come San Guinaccio) in cambio di Sentimenti IV o Cuccureddu.
Quando gli altri monelli si dedicavano a percorrere i campi che tracciavano i margini del barrio armati di fionde rimediate, in bellicose bande dalle ginocchia spellate e dalle camicie sudice per rubare ciliege o bietole o per scontrari in battaglie la cui posta solo era l'onore con bande di altri Barrios egli li seguiva inalberando una gran croce di rami e biascicando pater e rosari. Il soprannome di Ciopo gli veniva da un avolo suo: il Cioppo che era l'unico confratello della un tempo venerabile confraternita dei battuti verdi. Dreiser Cazzaniga ricordave la grassissima sua figura trascinarsi dietro la processione del santo patrono dei bigliai di Briggio o del Corpus Domini inalberando fieramente un immenso stendardo verde in cui si vedeva distintamente il cane che fissava la piaga che si apriva rosa appena sopra il ginocchio del santo che a sua volta inalberava uno stendardo su cui era dipinto un agnello che era sormontato da un altro stendardo ancora, bianco questa volta e diviso in quattro parti ineguale da un croce rossa. Come avvenne poi che Don Alàmo ereditasse dal Cioppo il nomigliolo privato di una consonante Dreiser Cazzaniga non lo sapeva o se lo sapeva non lo volle scrivere da nessuna parte, quello che è certo che Don Alàmo era comunemente conosciuto nel barrio con il nomigliolo del nonno ma scempio.
L'adolescenza di Don Alàmo detto il Cioppo si rivelo' come il frutto ancora acerbo del fiore della clericatura che fu la sua infanzia, il Cioppo cresceva in sordida doppiezza e maldicenza, vischiosa irrequietezza e una tendenza a portare lo sguardo e l'interesse suo su tutto quanto eravi di torbido e morboso ascoso nel barrio di Briggio.
Soleva conquistare la fiducia di ingenui giovanotti briggiani, figli di forti bigliari adusi al vino rosso, al gelo sulle guance e alle sane scazzottate il sabato al ballo per insinuare nelle loro elementari coscienze il germe della corruzione che egli aveva poi cura di educare e una volta che la putrefazione morale era conclamata tradiva l'amico suo svergognandolo in pubblico con accesa veemente indignazione. Leggeva e copiava i diari segreti delle compagne di corso, frugava nella biancheria sporca dei compagni di campeggio, apriva lettere d'amore confidate alla sua discrezione, si ritorceva le mani, il suo sorriso era sempre stanco e dolce, lo sguardo obliquo, camminava a passettini, si esprimeva con sudiata melliflua lentezza, tra tutti coloro che lo circondavano più intimamente diffondeva con pazienza germi di discordia e sospetto.
Con queste capacità prosperò rapidamente nel Santo Collegium in cui si formavano i presbiteri di Briggio, non tanto grazie alla sua conocenza delle scritture o all'eleganza del suo latino ma alla pratica costante della delazione, di cui presto divenne un autentico cesallatore. Una volta ordinato con splendida pompa e gloriosa procesione per le vie del barrio decorate di fronde fragranti di castagno e casti mazzolini di fresche rose di campo Don Ciopo subito diresse i suoi passi verso il Soglio. Non ebbe nemmeno la molestia di passare qualche mese in una lontana parrocchia montana, o di coadiuvare un vecchio presbitero maniaco nei suoi doveri quotidiani allo scopo di provare la solidità della sua fede nell'ordine. No subito oltrepasso la porta e si installò nello splendore. La rapidità della sua ascesa fu causa di orgoglio immenso per i briggesi, anche per i più ghibellini fra di loro, e a tal segno crebbe l'entusiasmo che in Briggio si finì per credere come cosa certa che Monsignor Ciopo presto sarebbe salito al Soglio Supremo. Egli, intanto, percorreva con passo celere e sicuro la strada maestra della gloria: Monsignore, Obispo, Principe, Nunzio, Archimandrita, Nunzio nelle lontane contrade della noce moscata e della cannella da cui tornava al barrio per brevi visite alla madre. La madre non sembrava gradire particolarmente queste visite. Don Ciopo appariva nel barrio con immense limusine bianche e gialle, che profumavano di incenso e di limone. Solerti giovani previtarielli avvolti nei panneggi semplici di ampie tuniche bianchissime aprivano lo sportello, estraevano dal baule interminabili quantità di bagagli dalla fogge sovente peregrine, si inginocchiavano e segnavano benedicenti come in un balletto imparato a memoria. I loro occhi sottili erano impenentrabili, un sorriso impercettibile curvava le loro labbra strette strette, grige sulla pelle color rame del volto. Poi tutti scomparivano sotto la spessa vegetazione della Villa del defunto Monsignor Pistolotti, Vescovo libertino e pistolero, che nel secolo passato fu baluardo contra i ghibellini e gli averroisti con il suo schioppo e la sua verga e nella quale Don Ciopo soleva alloggiare in queste sue brevi visite al Barrio. I pii briggesi sussurravano di orge sacre sotto i grandi cipressi, di cerimonie blasfeme e ancor più profondamente andavano convincendosi della predestinazione che segnava la vita di Don Ciopo: egli sarebbe stato Pontifex!
Dreiser Cazzaniga lo disprezzava con furia rabbiosa, con cupa disperazione, avrebbe voluto sputargli sulla faccia, e quando lo incrociava per caso, Don Ciopo lo salutava torcendosi le mani; con uno sguardo dolce e umile andava interessandosi della sua salute, della sua famiglia e della sua carriera e Dreiser Cazzaniga rispondeva alla di lui paterna sollecitudine con lo sguardo basso, la voce flebile, come un seminarista sopreso dal prevosto con le mani sotto la tonaca e il suo cuore ribolliva come un bracere di mercurio. Monsignor Ciopo era una bestia perversa, un drago di iniquità, ma quello che Dreiser Cazzaniga non giunse mai a comprendere fu che la Iglesia lo innalzava per far capire come la sua santità non dipenda dalle persone che la compongono ma dai meriti del Sangue che il Suo Divino fondatore versò per tutti noi poveri peccatori.


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genseki

venerdì, dicembre 03, 2010

Lo sciamano di Briggio

Anche Briggio come alquanto altri barrios valligiani possdeva il proprio sciamano, colui che era incaricato di tramandare le gesta ella stirpe e la continuitá delle tradizioni e della parlata. Lo sciamano del barrio di Briggio aveva un nom benedetto, dorato: era infatti chiamato Abbondio, Abbondio Agatupolo e tutti nelle stradine strette e scivolose, cui l’umiditá quasi perenne conferiva odore di muffa, muschio e bollitura di cavol con mosto solevano designarlo con rispetto, o a volte con mal disimulata stizza Mastro Abbondio. Di origine forse levantina giunse nel barrio come calafato e fattosi ginnasiarca si elevó poco a poco con le sole sue forze fino alla prestigiosa carica di sciamano che nessuno per lunghissimi anni pensó mai di contendergli. No, mai fu sfidato Mastro Abbondio. Di modesta statura e carnagione scura aveva la fronte scolpita da tre profonde rughe che si accentuavano quando assumeva il fiero cipiglio con cui era solito presentarsi in pubblico nelle occasioni ufficiali e nelle festivitá e proprio nel centro delle tre rughe come un punto di intersezione un pronunciata prominenza callosa, come una specie di piccolo corno.
Si fissó nella memoria del giovin Dreiser Cazzaniga, tale prominenza, come marchio del sapere e della cultura a tal segno che quando giá era uno studioso, onesto adolescente non poteva figurarsi Cicerone, Patone o Aristotele stesso senza una pronuncatissima protuberanza frontale come unicorni, insomma del Parnaso. Voce aveva roca e carnosa per lo smodato uso di nicotina che ingiallivagli altresí le falangi dell’indice e del medio della mano destra. Gran parte della sua vita era dedicata alla stesura di una monumentale “Historia Barrii Briggi” grazie a una cospicua documentazione messagli a disposizione dal fratello, persona grigia e da tutti ignorata nonostante i somigliassero come due gocce d’acqua, forse proprio pe l’assenza del corno di Mastro Abbondio. Della sua maggiore fatica soleva egli dare pubbliche letture in molto contate occasioni, sfogliava allora davanti agli attoniti briggesi immensi fasci di scartafacci, borbottando con voce roca che si confondeva nel fruscio pergamenaceo senza mai iincontrare quelloche cercava. Queste letture non erano lette perché non trovava mai quello che aveva intenzione di leggere. Alla sua morte non fu possibile trovare traccia dell’opera sua maggiore, nemmeno poche righe che si potessero ad essa attibuire. Tra colpi di tosse e arzigogoli delle mani egli riusciva, tuttavia di comunicare ai briggesi la tesi principale che aveva scoperto e dimostrato. I briggesi erano originari di Trebisonda, in Asia Minore ed erano giunti nell’umido barriio chiamati da un rdine monastico del luogo per la loro perizia artigianale nella produione di oggetti sferici, biglie, perle, pelote e palle. Adduceva come prova di questa teoria il fatto che nella parlata briggesi si trovassero elementi celtici. Il fatto che a Trebisonda non vi fossero celti e che anzi un proverbio di Cappadocia citato da Bessarone suonasse: “Raro come un celta in Trebisonda” non turbava i briggesi che non sapevano chi fosse Bessarione e non avevano mai udito parlare di Cappadocia. L’ordine monastico poi aveva la sua sede in Marsiglia ed era stato fondato molti secoli dopo l’esodo preteso dei briggesi da Trebisonda secondo lo stesso mastro Abbondio; neppure questa contraddizione aveva peró il potere di scuotere la ferma fede che gli abitanti del barrio riponevano nel loro sciamano, vuoi percé non la notavano, vuoi perché il fatto di potersi fregiare di tale esotica provenienza gli faceva sentire superiori agl altri villani che appartenevano al luogo dove erano spuntati come funghi dall’umido sottobosco.
Soleva Mastro Abondio abbellire il suo discorso con citazioni in antiche, illustri lingue straniere e soprattutto in castigliano. Grande e amara fu la sopresa del giovin Dreiser Cazzaniga quando, avendo appreso egli il castigliano, dovette rendersi conto del fatto che le citazioni di Mastro Abbondio non solo non erano in castigliano ma in uno scorretto gagliego, ma che nemmeno il loro significao coincideva con quello che Mastro Abbodio gli attribuiva. La figura dello Sciamano cadde fragorosamente nella mente di Dreiser Cazzaniga laciando il suolo cosparso di cocci taglienti. Per lunghi anni Dreiser Cazzaniga irrise e rabbiosamente denigró Mastro Abbondio e l’opera sua e solo dopo che vari lustri accumularono sulle sua spalle dolore e delusioni comprese che Matro Abbondio aveva svolto nel Barrio una nobile e amara funzione, non per le sue conoscenze e per la sua cultura, ché non possedeva né le une né l’altra, ma per aver saputo scolpire nelle anime dei giovani briggesi il rispetto per il sapere e l’amore per la propria terra e la propria stirpe facendo in modo che si sentissero parte di una vicenda che superava le loro vite individuali e affondava nei secoli, che si sentissero un popolo, pochi anni prima che la televisione finisse pre traformarli definitivamente in una plebe stracciona dipendente dall’annona.

venerdì, novembre 19, 2010

Memorie di Dreiser Cazzaniga

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Memorie di Dreiser Cazzaniga

L'Africa di Dreiser Cazzaniga

Come avvenne che Dreiser Cazzaniga nel pieno della sua amara goventú finisse nel Cuore Tenebroso del'Africa Equatoriale? Neppure lui riuscí mai a chiarirselo bene. Per imitare Rambaldo? Per idealismo? Per paura? Per desiderio di avventtura? La sola cosa che Dreiser Cazzaniga mostró sempre di sapere con sicurezza fu che la decisione sciagurata la prese durante un'escursione con Beaumont in un mattino fragrante tra l'abetaia e il mare dell'adolescenza mentre presentiva la discesa del Dio ladro e medico di cui a quei tempi adorava le tracce lievi sui prati e l'arena: Hermes.
Poi la decisione la mantenne. L'Africa di Dreiser Cazzaniga fu una discesa iniziatica nelle viscere della sua pretenziosa ingenuitá. Lui, a volte la chiamava proprio stupiditá. Dreiser Cazzaniga era stato programmato per essere un perdente (lo abbiamo giá visto).
Il viaggio comincio nei Paesi bassi cattolici, Dreiser Cazzaniga ricorda di come fu portato quasi di peso dall'entusiasmo degli amici fino al'aereo. Era il primo aereo dela sua vita e non capí niente di quello che doveva fare per imbarcarsi. Se lo trovó fatto, lo fece, insomma senza poi potersi ricordare quello che aveva fatto. Poi fu una locanda aeroportuale piena di ubriachi calvi provenienti dalla poderosa isola di Albione che vomitavano e pisciavano per i corridoi e sugli ascensori. Piú morto che vivo, in una mattina di riflessi di cromo raggiunse il velivolo che doveva portarlo in Camerun. Del volo non ricordó mai pú nulla salvo lo scalo a Kano per problemi di stabilitá dovuti all'infuriare del vento Rosso, l'Harmattan. Restarono ore nell'aereoport che doveva essere rovente avvolti in una fiammegiante nebbia di sabbia rossa. Il suo casuale compagno di viaggio era un bulgaro che gli spiegava in una specie di inglese (Dreiser no capiva l'inglese) come per vincere la paura dell'Africa la cosa migliore fosse l'acquavite di ginepro di cui aveva una bottiglia in ogni tasca della sahariana. (Dreiser Cazzaniga anche se non capiva l'inglese capiva perfettamente quello che il bulgaro voleva dirgli in quello che egli credeva fosse inglese). Poi l'aereo decolló e dopo una serie infinita di vuoti d'aria finalmente atterró a Douala. Una nube di calore insopportabile e umido come quello del calderone di una antica tintoria colpí e avvolse il poverso Dreiser Cazzaniga mettendo al tappeto quel poco che restava del suo buon senso giá screpolato da ore e ore di ansia intervallate da raffiche di paura. Nel mezzo di una folla frenetica egli cominció a distribuire scellini, franchi, corone, talleri a qualsiasi sbirraccio gli si avvicinasse con fare minaccioso e si ritrovó senza bagaglio in una cella di fango secco dal suolo di fango pisciato in mezzo a topi e escrementi e altri insetti in qualche luogo attorno all'aeroporto di Douala. Dopo un tempo che non seppe mai calcolare nel ricordo la porta si aprí e un uomo entró gridando: “Dreiser! Dreiser!” Distribuendo pacche sulla spalle a tutti gli sbirracci e sorrisi e sigarette, fece cenn a Dreiser Cazzaniga di seguirlo. Dreiser Cazzaniga lo seguí. Era un gigante canuto dalla dentatura gialla e nera, portava una camicia che la settimana precedente aveva dovuto essere bianca, e una collana di denti di varie fiere anch'essi gialli e neri in mezzo ad altri feticci pelosi, stivali messicani, la fondina di una pistola in cui teneva le chiavi della macchina e il guinzaglio di uno dei suoi cani. Dreiser Cazzaniga entró nella sua macchina come si entra in un frigorifero, la barba gli si ricoprì si brina. Avrebbe trascorso i primi venti giorni in Africa tormentato da una violenta bronchite. L'interno della macchina era pieno di denti, conchiglie e feticci pelosi che pendevano sporchi da ogni gancio disponibile. Sui sedili giacevano abbandonati porno di Taiwan e film di Kungfu di Hongkong. Dreiser Cazzaniga si abbandonó alla spossatezza che precede la morte bianca mentre il veicolo si apriva il passo in un delirio di claxon e di mani tese che il Señor Zocco si affrettava a colmare di banconote stropicciate. La casa di Don Zocco era circondata da altissimi muri, cani rabbiosi, servi servili, siepi spinose. Dreiser Cazzaniga en varc'il cancello con il rombo rovente della febbre nelle tempie. Un servo in mutande trateneva a stento un cane dai denti coperti di una leggera bava rosa, Dreiser Cazzaniga non aveva piú forza per avere paura. La sua stanza gli fu mostrata e Don Zanco lo invitó a trascorrere la serata, se avesse voluto con i suoi invitati in piscina. Dreiser Cazzaniga declinó l'invito, ovviamente, Un motore di Boeing ronzava senza sosta nella sua testa, lo assordava lo spingeva a fumare una sigaretta dopo l'altra.
Solo. Cercava di dormire. Il motore non si spegneva, la notte era come un'immensa spugna caldissima e profumata, che ottundeva i sensi e lasciava solo il sussulto di sporadici palpiti di paura. Dreiser Cazzaniga cercó un po' di fresco guardando fuori dalla finestra. a finestra dava sulla piscina, nella piscina Don Zanco e i suoi amici saltavano tra gli spruzzi circondati da una decina di schiamazanti ragazzine nude. Sembravano trainati dalle punte dei loro sessi turgidi sui forti corpi spossati dal gin. Dreiser Cazzaniga rinunció a scendere in piscina, si rassegnó al motore del Boeing, si lasció cadere sul letto e cadde in un doloroso sopore. Poi il motore si spense, Dreiser Cazzaniga precipitó con terrore nel nulla del suo silenzio interno. Si riseveglió gridando nel silenzio azzurro della sua prima mattina africana, nell'illusione tanto dolce che i grandi alberi che incorniciavano il paesaggio che si vedeva dalla finestra fossero scaturiti di colpo dalla terra proprio nel corso di quella sola notte.

Memorie d Dreiser Cazzaniga




Il Barrio di Briggio ove Dreiser Cazzaniga trascorse la prima gioventù.
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giovedì, novembre 18, 2010

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Dreiser Cazzaniga e il macinino

Fin dalla piú tenera infanzia Dreiser Cazzaniga ebbe una percezione chiara di quelo che fosse l'immortalitá. Lui l'immortalitá la percepiva nelle cose, negli oggetti piú semplici che andava scoprendo in casa della Nonna Violante detta la Dama Azul. La casa della Dama Azul aveva due colori bellissimi, l'arancione della cucina e l'azzurro della stanzza da letto. Tutti i mobili dela cucina erano dipinti di un arancione solare e le gambe delle sedie e dei tavoli erano arancioni, il sole che entrava come a fiotti dalla finestra incorniciata di gerani esaltava il canto luminoso del colore, lo faceva esplodere negli occhi. La dama Azul, come era allora costume delle vecchie signore del Barrio aveva i capelli azzurri, e l'azzurro era l'altro colore della case, il colore che dominava nella stanza da letto freschissima in cui Dreiser Cazzaniga dormiva, leggeva e sognava. Dal soffitto pendeva una curiosa lampada che emanava una pallidissima luce azzurra che a Dreiser Cazzaniga faceva pensare alla morte. Non è che lui sapesse che cosa fosse la morte e che cosa avesse a che fare con quella fievole luce azzurra in cui ad osservala bene parevano predominare i toni verdi, un sottile verde cobalto, tuttavia le due immagini, la lucina e la morte era incatenate una all'altra. Molti anni dopo, la lucina azzurra avrebbe iluminato due grossi piedi pallidi e sporchi che spuntavano da una coperta troppo corta su di un letto troppo corto. Cosí sorgeva la morte agli occhi di Dreiser Cazzaniga, Gli oggetti della cucina immersi nela loro atmosfera di agrumi, invece, erano assolutamente immortali: erano immortali i piselli che egli aiutava a sgusciare traendol dal sacchetto di spessa carta marroncina, erano immortali gli stofinacci bianchi con l'impronta di qualche bruciatura, era immortale il macinino del caffe, era tutto di legno e quando si apriva il cassettino emanava un odore profondo che stordiva di piacere, era immortale il mortaio per fare il pesto di marmo grigio con le sue venuzze azzurre come i capelli della nonna Dama, era la grande radio di legno con le sue due pesanti porte di legno e tutte le colonnine che separavano gli altoparlanti, il vaso del basilico alla finestra la grattugia del parmigiano e quella ancora piú temibile del pecorino sardo che la nonna Dama Azul, la Violante benedetta ripuliva con infinita pazienza, con la lama di un colello per estrarne anche la piú piccola briciola di formaggio. Tutta questa meraviglia avvolgeva gli oggetti della cucina che sorgevano dal sempre, dall'evidenza, davanti a Dreiser Cazzaniga che li percepiva come meravigliosi proprio perché nel momente in ciu gli apparivano gli apparivano come rivelandosi sullo sfondo di una preeseistenza, un sempre che era l'evidenza stessa della loro permenenza. Dreiser Cazzaniga, bambino rabbrividiva di gratitudine per l'esistenza del mondo e per la sua indubitabile eternitá.

Memorie di Dreiser Cazzaniga

La Gaviota di Solentiname

Gli amici di Dreiser Cazzaniga vivenano una doppia vita. Proprio tutti. Una era, appunto la loro vita. L'altra, meschina davvero, era quella che menavano nella scatola cranica di Dreiser Cazzaniga, sottomessi ai suoi bizzarri e cangianti paesaggi interiori. Condannati a lunghe e ripetitive conversazioni. A dire il vero questo destino Dreiser Cazzaniga non lo riservava solo agli amici, ma a parenti, amanti, nemici. Tutti condannati ad avere un doppio nella sua testa e a non poter saperlo.
Il piú condannato di tutti, comunque, era Dreiser Cazzaniga stesso. Egli non poteva, invero, godere, che so io, di una gita per le sierre autunnali che incoronavano dei loro fiammeggianti boschi e dei loro pascoli diamantini il barrio povero e infreddolito, senza dover convocare proprio a quella escursione uno dei suoi amici diletti. Si, certo uno dei tanti tenerissimi compagni che dovevano tradirlo, tutti o per l'abbraccio della Señora de las Aguas Verdes, o per un'avventura in compagnia di Jesús il Verde, una di quelle avventure che non hanno mai ritorno, o semplicemente pugnalarlo alle spalle con un pugnale intinto nel veleno, cosí, solo per vederlo contorcersi dal dolore.
Cosí Dreiser Cazzaniga peccatore cieco e meschinello abbandonato dalla Grazia era condannato a vivere qualsiasi esperienza estetica, amorosa, politica, o sportiva, soltando condividendola con questi doppi ignari. Erano i suoi prigionieri. Erano velieri in bottiglia. La sua mente era la bottiglia. Imprigionandoli, peró Dreiser Cazzaniga finiva per imprigionare soprattutto se stesso. Come vivere con una Dama Bunducchia nella testa che vi va sbavando tutto il parquet dell'anima con la sua bava di alcolista mentre voi le sputate addosso tutto il vostro furioso, inutile disprezo,? Come contemplare un dipinto di Paolo Veronese discutendone tutti i particolari con lo zio Cardinale, quasi catatonico e dallo sguardo a tratti misteriosamente indulgente, mentre gli si dimostrava con logica impeccabile quanto spregevole e straccione fosse il Profeta di Nazareth, per vederlo ridere soddisfatto, guardandosi le unghie pallide sulla veste rossissima macchiata di ragú? Era piú terribile essere la bottiglia che il veliero o il piccione che vi era restato imprigionato. Dreiser Cazzaniga viveva solo se poteva porre tra se e la vita la conversazione immaginale con un doppio. Uno strazio. Penitenza e preghiera avrebbero forse potuto salvarlo Ma questo non avvenne. La bottiglia si ruppe da sola. O meglio fu il doppio di una certa dolcissima bianca gabianella che semplicemente ruppe la bottiglia col piccolo becco crudele aduso a sventrare i piccioni e Dreiser Cazzaniga la vide volare via nel cielo immenso che era anche esso nella sua mente, intendendo cosí che la sua mente non era una bottiglia ma un universo. Rotta la bottiglia tutti furono liberi, felloni e leali, vivi e morti, tutti i doppi ritrovarono la loro libertá e Dreiser Cazzaniga ritrovó il silenzio, la Rosa Blanca, il perdono e respiró finalmente la bellezza del mondo e dell'essere mortali. Dolce Gabbianella. Forse ella fu, o meglio il suo doppio fu, un inconsapevole strumento della Vergine Pastora. Dreiser Cazzaniga amó la di lei libera rotta, la carena, la vena e il palpito per tutta la sua pigra vecchiezza.

sabato, ottobre 23, 2010

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Il mio Comunismo

Riporto qui queste poche linee di Dreiser Cazzaniga che ho trovato in un taccuino omaggio delle supposte UNIPLUS. Il comunismo cui Dreiser Cazzaniga si riferisce è quello che nei Barrios del Norte si esprimeva soprattutto nelle grandi feste della Salciccia, con la rumba e le ragazzone grassone con le gonne di cotorne a fiori. Qualcuno di questi militanti diventava Alguazile di un barrio, talvolta e ingrassava, la faccia si copriva di rughe sagge con le lacrime agli occhi raccontgava ai giovani della bellezza del grande paese della steppa in cui era stato in torpedone per una visita coatta e oobligata di 4 giorni ai mausolei dei suoi dirigente assassinati da quegli stessi che, una volta mummmificati, affermavano di venerarli.
genseki

Sul mio Comunismo

In realtá io non ho avuto mai un incontro, o un'esperienza di quello che fu davvero il comunismo. Quel comunismo per cui milioni di persone furono disposti a sacrificare tutto anche la vita e ad affrontare morte e disperazione, Quello che ho conosciuto era una pallida immagine dell'originale o, peggio ancora, una tossica contraffazione. I comunisti che ho conosciuto io non erano in grado di sacrificarsi per niente e per nessuno il loro orizzonte mentale era limitato al consumo, nei confini del quartiere o del paese. Comunismo era per loro, al massimo il nome di una rivalsa individuale, di un'individuale promozione sociale, o piú semplicemente, nel caso di quelli che avevano meno capacitá, pura e semplice invidia e risentimento. Il comunismo era generositá e amore. In tutti coloro che ho conosciuto e che si chiamavano comunisti non ho mai visto né generositá né amore. Forse la parola che meglio descrive il tono fondamentale del loro carattere è risentimento. Risentimento che si mescolava di volta in volta con la paura, l'invidia, la grettezza, la rabbia. Il comunismo era passione per la giustizia. Tra i comunisti che mi è toccato in sorte di incontrare non vi era, davvero, passione per l'ingiustizia. Rabbia per l'ingiustizia subita e anche dolore si, certo, ma non passione per la giustiizia da fare (che la giustizia è fare) agli altri.
Così il mio comunismo fu sempre libresco, passione cartacea, pergamenaceo, astratto. Fu, insomma, un equivoco in piú di una vita fondatata sul vuoto e appunto sull'equivoco.
Dreiser Cazzaniga

lunedì, settembre 27, 2010

La morte di Dreiser Cazzaniga

Tra gli appunti del compianto Durfai acronico o ucronico amico di Dreiser Cazzaniga è stato trovato un foglietto che, in forza di un'annotazione sul retro, pare riferirsi agli ultimi minuti di vita del nostro Dreiser. Sono poche righe nel francese lievemente arcaico del Durfai che non oso tradurre per non rovinarne la bellezza appassita:

"Il avait les yeux hâvres et enfermés, la mâchoire inférieure couverte seulement d'un peu de peau paraissait s'être retirée, la barbe hérissée, le teint jaune, les regards lents, les souffles abattus. De sa bouche il ne sortait déjà plus de paroles humaines mais des oracles".

a cura di genseki

giovedì, settembre 09, 2010

Dreiser Cazzaniga e la lettera di M.Beaumont



M. Beaumont fu una delle relazioni che Dreiser Cazzaniga stabilí nel fior della prima giovinezza e nelle quali perduró per voluttá di vergogna. Giovane solitario, dallo sguardo perennemente sfuggente, intento per gran parte del tempo di qualunque converasione a mordersi metodicamente quello che restava delle sue unghie, lento anche quando tale non pareva, di una lentezza indizio di timore e menzogna profondamente sepolti nell'anima sua, fu considerato da tutti nell'umido e nebbioso Barrio come l'amico del cuore di Dreiser Cazzaniga. Tale fu la convinzione popolare che quasi si fece ovvietá, e alcuni giunsero a tal segno che immemori della realtá affermavano convinti che i due fossero fratelli o quantomeno cugini. Io stesso, il vostro servitore, Genseki, ho udito tale affermazione da Papillon il maricón ufficiale del Barrio non piú di due anni fa.
In realtá M. Beaumont odiava Dreiser Cazzaniga. Lo tormentava con piccole, continue meschinitá, ripicche, brutalitá, rivalitá e menzogne. La vita vera di M. Beaumont era quasi completamente celata allo sguardo di Dreiser Cazzaniga. Questi soleva rinnegare l'amico suo con qualunque persona mostrasse disprezzo o avversione per lui.
Ora nel nebbioso Barrio di Briggio e nella luminosa Villareal quasi non v'era chi amasse Dreiser Cazzaniga. Dreiser Cazzaniga era suo malgrado un testimone della libertá e un certo indomabile amore, ancora oscuro e minacciato da altri istinti misti al peccato lo rendevano eccentrico e minaccioso, Come tale cioè era percepito. Non vi fu occulto nemico di Dreiser Cazzaniga che non ricevesse occulta solidarietá dall'oscuro Beaumont la cui culla stava nel Barrio di Briggio. Al Barrio di Briggio egli apparteneva nebbioso e torbido come la valle di Briggio come il suo antico fiume ignorato come le sue sporche, trascurate, industriali rovine. Dreiser Cazzaniga non apparteneva a Briggio, solo il caso volle ch'egli vi trascorresse la prima infanzia, per Dreiser Cazzaniga sempre Briggio restó un orizzonte geografico e architettonico, luce, autunno, nebbia, castagne, mosto, cinghiali, I suoi abitanti erano come ombre, come grigi profili sudici e opachi, Beaumont apparteneva a Briggio in corpo e anima e per questo doveva costantemente tradire Dreiser Cazzaniga. Dreiser Cazzaniga viveva nella vergogna e nell'ignominia e per questo tali tradimenti soleva perdonare.
Molti anni sono passati da allora, Dreiser Cazzaniga trovó infine la dignitá di allontanare da sé la querula ombra minacciosa di Beaumont. Questi, d'altra parte volse i suoi passi alle lontane sierre e lande patagoniche e qui si sarebbe potuto porre il punto finale alla molesta storia di un altro fallimento di Dreiser Cazzaniga sul piano delle relazioni umane. Il fato volle, peró che Dreiser Cazzaniga fosse avvertito dall'amico suo Spadaro di una lettera che Beaumont aveva intenzione di inviargli nella sua Andalusia. Lettera che aveva per scopo di riannodare una amistá che invero Beaumont non aveva mai considerato finita. Voleva continuare a infierire sul groppone del povero Dreiser Cazzaniga! Dreiser Cazzaniga aspettó a lungo la lettera con la ferma intenzione di bruciarla senza leggerla. La lettera noin giungeva, Il sogno di Dreiser si faceva ogni giorno piú fermo e ardente, arricchivasi di nuovi cavallereschi particolari. La lettera non giungeva. Dreiser giounse, invece al punto di desiderarer che la lettera non desiderata giungesse per poter provare a se stesso che si era liberato di Beaumont e di Briggio e di Villareal. Non giungendo bruciava dentro di sé di ossessiva aspettativa. A tanto giunse l'ansia dell'attesa che si accorse infine con orrore di essere ancora in potere di Beaumont e della propria miseria. Non gli passó per la mente giá indebolita il pensiero di gettarsi scalzo ai piedi della Vergine Della Fuensanta nella sua salita al Monte Sacro avvolta nelle mantiglie, d'oro ricoperta tra le carole e le odi dei gitani per impetrare il suo aiuto. Soffrí e arse tutto quell'autunno penetrato dal sentimento della sua inconsistenza. Dreiser meschino. La lettera non giunse. Egli morto dorme nella sierra dove ancora aleggia lo spirito dei puri sufi. La lettera continua il suo viaggio. Non giungerá a colui cui era destinata. Beaumont sempre vive, ora nella lieta Campania spensierato bove pascola le sue insicurezze.
Se la sua missiva giungerá saró io, genseki, l'umile servo a bruciarla nell'inecenso come Dreiser lo volle.

A cura di genseki

venerdì, agosto 27, 2010

Memorie di Dreiser Cazzaniga


Dreiser Cazzaniga e la sembianza

Dreiser Cazzniga sempre ebbe in uggia ogni adesione a una forma codificata dell'essere persona nel mondo. Dreiser Cazzaniga detestava i ruoli e le parti che la societá sembra cosringere con dura necessitá noi tutti mortali a rivestire. Era un rifiuto il suo quasi istintivo, incosciente, potremmo dire, che precedeva qualsiasi considerazione e analisi intellettuale o filosofica.
La possibilitá che questo rifiuto potesse avere una sua dimensione filosofica, che potesse rispondere a ragioni piú profonde di quelle che sembravano mosse dai capricci dell'istinto, Dreiser Cazzaniga cominció a intuirla quando già le prime canizie gli innevarono il capo.
La prima forma riflessa che questo rifiuto prese in lui fu quella dell'umorismo:Dreiser Cazzaniga trovava immensamente ridicolo, che so, un professore che recitava la sua parte di professore con la perfezione consumata di un attore di mestiere in ogni momento della vita quotidiana o di un cattolico che recitava quella del cattolico, un cameriere quella del cameriere e così via,
In realtá gli pareva che ciascuno esagerasse la sua parte, en accentuasse en accentuasse, comicamente appunto i caratte più marcati, come per l'orrore di poter scoprire di non essere nulla, un frammento fangoso di coscienza sottratto per un momento infinitesimale al nulla.
Il terrore di essere così pateticamente comico, ridicolo, inerme di fronte al personaggio che di volta in volta gli si offriva di recitare spinse Dreiser Cazzaniga allo sforzo costante di apparire sempre altro da quello che era. Allo sforzo di controinterpretare, anche se è pur vero che per un periodo vergognosamente troppo lungo della sua breve vita accetta di dar vita alla maschera dell'estremista di sinistra.
Grazie alla sua curiosa parlata e alla foggia peregrina di vestire Dreises Cazzaniga riuscí a sembrare. Non fu piú quello che era, ma agli occhi dell'orribile borgehesia alpina e pedemontana sembró sempre qualcun'altro.
Dreiser Cazzaniga fu la sembianza dell'altro. Si rivestí dell'interinitá come di una lorica. Quando appariva in pubblico la prima frase che gli era rivolta era: “sembri un gaucho”, “un pittore del XIX secolo” , “un marinaio danese” e così via, Dreiser Cazzaniga sembrava quello che non era, l'altro che era possibile che fosse e cosí difendeva la sua libertá interiore di essere nel vuoto come il vuoto e difendendola la negava consegnandola inerme all'odio della piccola borghesia alpina e pedemontana.
Tra tutte le cose che Dreiser Cazzaniga sembrava sembrare quella che piú frequentemente sembrava era un ebreo.
Quante volte gli dissero; - sembri un ebreo! -
Dreiser Cazzaniga stava malissimo nella pelle dell'ebreo, ma l'ebreo era l'altro assoluto per la miserabile comunitá che lo circondava, l'oggetto più elementare dell'odio e del disprezzo.

A cura di genseki

domenica, maggio 30, 2010

L'evocazione di Dreiser Cazzaniga

Le note e le pagine che Dreiser Cazzaniga ci ha lasciato raccolte nella rubrica delle sue memorie sono destinate a un lettore, un lettore particolare cioé un tipo particolare di lettore ma anche un lettore concreto che viene poco a poco evocato nel testo fino a prendere la forma del Curatore. In questo senso Genseki è una evocazione, se non una creazione di Dreiser Cazzaniga, L'attaccamento all'insuccesso, quando non direttamente alla disfatta che caratterizza la vita e l'opera di Dreiser Cazzaniga non gli consentiva di sperare di poter trovare un lettore empirico delle sue memorie, se non vi è lettore empirico, se manca il destinatario concreto è l'autore stesso che puó evocare un tipo di lettore che giunga ad essere il lettore, il Destinatario. Cercando di realizzare questa idea Dreiser Cazzaniga la sviluppó fino a evocare la figura di Genseki, il Curatore. Genseki è quindi un personaggio delle memorie di Dreiser Cazzaniga, forse è un po' pretenzioso definirlo un personaggio, ma insomma qualche cosa di molto simile a un personaggio anche senza i contorni ben definiti di un vero personaggio e come quasi-personaggio svolge il ruolo di Curatore. Proprio come Curatore delle memorie di Dreiser Cazzaniga Genseki è in una certa misura l'autore di Dreiser Cazzaniga. È lui che sceglie e assembla i materiali lasciati da Dreiser Cazzaniga e li propone in forma narrativa. Dreiser Cazzaniga in cerca di un lettore finisce cosí per creare egli stesso il proprio autore.
Qual è, tuttavia, la natura del materiale che Genseki assembla per costruire l'immagine che Dreiser Cazzaniga desidera prenda forma di se stesso? Da un punto di vista strettamente materiale, abbiamo visto, si tratta di una variegata congerie di testi su differenti supporti cartacei piú o meno ortodossi, tutti coloro che lo conobbero sanno come Dreiser Cazzaniga, ossessionato dall'esigenza di una vita austera e in qulache caso francamente avaro fossr solito raccogliere volantini pubblicitari per utilizzarne la parte posteriore. Con tali volantini assemblava veri e propri quaderni su cui copiava poi le su note. Dal punto di vista del contenuto si tratta invece di ricordi,
le Memorie di Dreiser Cazzaniga non sono quindi un testo narrativo, i ricordi non si possono raccontare, pensva Dreiser Cazzaniga, solo si possono costruire, combinare, organizzare e in qualche caso anche percorrere ma non raccontare. Il racconto dei ricordi ha solo in apparenza una forma narrativa.

martedì, maggio 25, 2010

L'ombrello di Dreiser Cazzaniga


Il matrimonio di Lydia Rosino II


Il primo appuntamento di Dreiser Cazzaniga con Lydia Rosino ebbe luogo in un autunno agonizzante sulle sporche colline di Cairuan, Dreiser Cazzaniga, in un momento di disperata solitudine, dopo aver sfogliato malinconicamente la piccola agenda del telefono, la chiamó per comunicarle come, grazie al suo successo in una prova di concorso, aveva conseguito uscire dall'interinitá e divenire titolare di una piccola prebenda, cosa alla quale la bella Lydia Rosino aspirava con tutte le sue povere forze: la titolaritá di una prebenda vitalizia; da parte di Dreiser Cazzaniga si trattava, invero, di un meschina soddisfazione alla sua vanitá, egli non era in grado di calcolare le conseguenze del suo gesto, sull'anima infreddolita della povera Lydia Rosino. Con una certa sorpresa registró come la bella Lydia Rosino gli proponeva un appuntamento nel borgo sporco di Cairuan, dove ella viveva, per una passeggiata sulle colline sporche dei dintorni tra le rovine dell'estremo autunno. Dreiser Cazzaniga si recó all'appuntamento con un basco di renna di origine lappone a quattro spicchi che aveva comprato a un mercato dell'usato di Berlino per un marco; una casacca da taglialegna dell'Oregon, pantaloni di fustagno da carrettiere della Langa e anfibi militari. I lunghi capelli uniti in una coda sulla nuca con un vezzoso nastro elastico. Lydia Rosino lo condusse in una lunga passeggiata durante la quale evitó con somma attenzione qualsiasi possibilitá di attraversare luoghi in cui si corresse anche solo il minimo rischio di incrociare esseri umani. Ella andava raccontandogli la sua vita di umiliazioni, di levatacce e di duro lavoro, di come il boia avesse finito per costringerla ad interrompere una relazione che ella giudicava insopportabile, di come il medesimo carnefice, stupefatto della sua decisione continuasse a perseguitarla bombardandola di telefonata e seguendola con la macchina. A una svolta del sentiero, in una radura che digradava verso un ceduo grigio tra l'erba marcia di pioggia si apriva un prato pieno di mazze di tamburo, cioè del fungo scientificamente noto come macrolepiota procera. Dreiser Cazzaniga non ne aveva mai viste di tanto grandi tutte insieme radunate. Pervano una flotta stellare di alieni benigni. Lydia Rosino diffidava dei funghi, cominció a raccontare storie di avvelenamenti e crudeli agonie che i buoni borghigiani cairuanesi si tramandavano di padre in figlio da generazioni. Dreiser Cazzaniga si mise a raccogliere quelle meravigliose fragili medadaglie bianche dal profumo di fumo e di cedro, signore dell'autunno al ballo di gala della putrefazione. Una era tanto bella che, per gioco, Dreiser Cazzaniga la portó via come fosse un ombrello: appoggiata alla spalla, Quando giunsero al borgo Lydia Rosino era terrorizzata. Gettava cautamente intorno sgurdi smarriti, Dreiser Cazzaniga insistette per finire l'incontro davanti a una cervogia tiepida e burrosa, Entrando nella caupona ella pareva scusarsi con tutti con uno sguardo ora umile ora sprezzante. Dreiser Cazzaniga non ci capiva niente.
a cura di genseki

lunedì, maggio 17, 2010

Dreiser Cazzaniga e Cristo

Le relazioni di Dreiser Cazzaniga con Cristo sono di difficile definizione, Basandoci sulle sue memorie possiamo con sicurezza affermare che il suo primo incontro con Cristo fu una delle cose piú terribili che egli ricorda delle sua infanzia. L'altra cosa terribile, forse anche piú terribile che emerge dal magma primordiale dei suoi ricordi di Urkind è il grembiulino bianco impregnato del sangue del piccolo Bino, quando nell'asilo umido e sporco delle monache gli rovinò in testa lo scaffale delle pignatte. Dreiser Cazzaniga ricordó per tutta la vita il sangue rosso sul grembiule bianco, e la cosa peggiore, quella che proprio non poteva cancellare era che il grembiule non era propriamente bianco. Avrebbe dovuto essere bianco, in realtá era sporco, un poco giallastro e non era di vera stoffa ma di una specie di tela cerata che coperta di muffa giallastra e di sangue stinto assumeva un aspetto mucoso. Cristo invece lo minacciava dalla cappella oscura che si trovava alla sua destra, dall'altro lato della navata, un pò più indietro del punto ove era solito sedersi con suo padre per assistere alla messa delle sei. Nascosto tra i gigli, nell'oscuritá, il grande corpo grigiastro e sanguinoso pendeva con lo sguardo spento appena dietro la sua spalla, Il piccolo Dreiser Cazzaniga non osava voltarsi per guardarlo, ma non poteva dimenticare che lui, invece lo fissava, con quel suo sguardo freddo, grondante dello stesso sangue di Bino, ma grigio, il suo, adesivo, minaccioso, doloroso, La minaccia obliqua che pendeva alle sue spalle era per il povero Dreiser Cazzaniga la minaccia alla sua stessa consistenza come soggetto, Quell'indicibile obliquo minacciava di disgregarlo per sempre se solo si fosse voltato, Allora non si voltava ma la tentazione era irresistibile, cercava rifugio nelle calde grotte primordiali del suo immaginario ancora biologico, respirava l'odore dell'incenso, della muffa, dell'olio stantio con cui il sacrestano, soleva lucidare il legno delle panche dell'aristocrazia in cui aveva l'abitudine di sedere il padre di Dreiser Cazzaniga da quando, l'aristocrazia del barrio non frequentava piú la messa che si era fatta un rito minacciosamente e imprevedibilmente rivoluzionario, con tutte quelle chitarre, l'incenso californiano, i papaveri al posto delle rose i gins che sottolineavo i culi delicati delle coriste che andavano sbocciando nel mese mariano. Il mese in cui sbocciavano anche i giovani seni. E questo era troppo per l'aristocrazia che apprezzava culi e seni nell'alcova ma pretedeva castigati veli alla soglia del sacro. Qualche aristocratico finiva per presentarsi, infine, alla messa e allora litigava con il padre di Dreiser Cazzaniga che considerava l'occupazione della sua panca come una personale presa della Bastiglia.
Per tutto il cammino verso casa, il Cristo grigio continuava a penzolare minaccioso sulla spalla di Dreiser Cazzaniga e accettava di scomparire soltanto dopo che egli, inginocchiato sul letto aveva recitato la sua preghiera all'angelo custode che era un personaggio molto piú rassicurante anche se assai poco corposo, non abbastanza denso per occupare un posto significativo nel foro immaginario della sua mente infantile. Cristo veniva di notte a mordergli gli alluci sotto forma di un gallo dorato. Credo che lo incontró anche come mal di denti. In ogni caso ogni contatto con Cristo era da lui vissuto come un pericolo, come una minaccia alla propria soliditá, anche il più insignificante pensiero poteva delatarlo e frantumarlo di fronte a questa sanguinosa presenza
Diventava di colpo così fragile, si occultava a sé stesso, si mentiva, si negava e si riaffermava dissimulatamente, Un vero incubo. Piú tardi i suoi contatti con questa penosa figura cominciarono a provvocargli vere e proprie erezioni, che lui non sapeva bene che cosa fossero ma che sperimentava come qualche cosa di profondamente disdicevole, di riprovevole. Un'altra minaccia per la sua trepida integritá.
Poi nell'adolescenza gli fu presentato questo altro Cristo biondo in gins e con i sandali. Dreiser Cazzaniga odiava i sandali, soprattutto quelli che lasciavano libero il ditone, Il Cristo biondo in gins e con i capelli lunghi poi rischiava di provvocare ancora erezioni, giacché per le coincidenze della moda Dreiser Cazzaniga era stato precocemente a reagire ormonalmente di fronte a corpi serrati in gins con scarpe di tela Suprema e calzettine di cotone bianche. Ricominció ad odiare la volgaritá puzzolente e polverosa, impudicamente ostentata in quei sandali osceni e questo compromise per sempre le sue possibilitá di essere seriamente cristiano. Le cose migliorarono un po' quando verso la fine dell'adolescenza, in una cittá siderurgica renana, dai cieli cromati e dalle vie astrattamente commerciali, poté leggere il Vangelo di Giovanni nella traduzione di Lutero, sì con il Verbo era tutta un'altra cosa, se lo sentiva in bocca come la saliva. Cristo lo aveva separato dal suo corpo, si era malignamente insinuato tra lui e il suo corpo e aveva rotto l'intimitá e il tepore, Il Verbo era il prezzo di quella separazione, la ricompensa a tutto il freddo patito là fuori. Il Verbo non aveva ditoni, non portava i sandali, fluiva nel corpo e lo nominava tutto intero. Poi conobbe Paolo di Tarso e la sua cecitá, Quella si che la comprendeva, la cecitá luminosa che annientava il Cristo grigio e minaccioso acquattato tra i gigli, la fede che non aveva bisogno di quel maledetto capellone slavato in gins. La fede senza le maledette chitarre di maggio. Molti anni tardó a incontrare sul suo cammino la Beata Vergine. La incontró poi come il balsamo delle sue articolazioni dolorose, come la dolcezza avvolta nel manto stesso del rosario. La incontrò come rugiada e conforto d'abbandono, e subito la tradí e la rinnegó e poi le chiese perdono e tornó a rinnegarla e la incontrerá forse solo poi alla sogli luminosa della sua estinzione come Prajna Paramita. Che i suoi peccati gli siano perdonati.
A cura di genseki

giovedì, maggio 06, 2010

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Il matrimonio di Lydia Rosino

Dreiser Cazzaniga si sposó diverse volte, alcune in pubblico altre in segreto, alcune tanto in segreto che non lo sapeva nemmeno la moglie, ma nella sua vita ci fu un solo vero matrimonio, cioè qualche cosa che riempiva la vita di forza, di rabbia e di schifo. Una trappola esistenziale apparentemente senza uscita: le sue nozze con Lydia Rosino. Lidya Rosino Dreiser Cazzaniga la conobbe nella cittá di Valva dove entrambi allora lavoravano come precettori interini. Ella in una poszione ancora piú servile della sua. La cittá di Valva adagiata in una conca collinare circondata da fecondi vigneti pareva viva quasi soltanto in autunno. Era una cittá immobile, racchiusa in un conservatorismo meschino e pretenzioso. Una cittá di provincia dal'aspetto medioevale, dalle vetrine incorniciate di legno, con le strade selciate e un perenne odore di funghi macerati e di nocciolato. Era la sede della famosa industria Herreros Und Sohn produttrice dell'agalma vacio, il preferito dai mocciosi di tutto il mondo. Gli abitanto di Valva passeggiavano per la cittá come se fossero sempre i protagonisti di una sfilata di moda esclusiva, i caballeros con le loro perfette canne di avorio, las dueñas y las ladyes avvolte nelle pieghe capricciose dei loro vestiti facevano oscillare gloriosamente i loro grandi cappelli dalle architetture elaborate come piccoli teatri ove si rappresentava ora un presepe, ora una scena di caccia, ora una di corteggiamento. Dreiser Cazzaniga soleva allora vestire una giaccona gialla piena di macchie, pantalonacci di fustagno, scarpe da tennis, portava lunghissimi capelli sempre un po' unti di treno e legati sulle spalle con una lunga treccia. I Valvesi lo disprezzavano con un brivino di orrore come se lo fiutassero senza vederlo. Dreiser Cazzaniga dormiva in una cameretta economica in una posada proprio di fronte agli stabilimenti Herrero und Sohn e bastava che aprisse la finestra per essere soffocato dall'odore del nocciolato agalma vacio e da quello dell'altro prodotto di questa manifattura la crema Cornella. La bella Lidya Rosino era una brunetta dalle forme graziose e dal colorito grigiastro, si vestiva sempre di blu e appunto di grigio con un cattivo gusto bizzarro e sottile. Il suo abbigliamento era concepito per passare inosservato ma nel suo sforzo di adeguarsi al piú assoluto conformismo perbenista vestimentario tutto era leggermente sfasato, appena appena fuori posto, le labbra coloratissime formavano un contrasto singolare con il volto pallidissimo. Soleva portare un impermeabile azzurro, un tailleur grigio, scarpe e calze blu e un fiocco blu su una camicia bianca. Quando incontrava Dreiser Cazzaniga lo salutava con un forzato sorriso stirato e se prendevano un caffé insieme lo intratteneva sulle difficoltá e gli stenti della sua vita di precettrice interina vagabonda, della sporcizia dei treni, delle sordide posade, del freddo e della nebbia, del mangiare ingiustizia e bere sopraffazione. Dreiser Cazzaniga usciva dal caffé profondamente intenerito e commosso da un vita tanto austera affrontata con tanto dolente coraggio. Lydia Rosino era allora fidanzata con un torturatore professionale della scuola di boia di Cairuan dove ella insegnava cultura generale dell'espiazione del reo, posto che aveva ottenuto promettendosi senza mai concedersi al generale che la dirigeva e che si accontentava di tanto in tanto di godere stritolandole i pollici sulla superficie della scrivania. Questo a Dreiser Cazzaniga faceva un po' schifo, egli vedeva, nelle rare occasioni in cui andava a Cairuan i giovani apprendisti torturatori alla fine delle lezioni sciamare per la cittá con le smorfie scimmiesche e azzannare le loro pizza quattro formaggi nei locali dal pesante odore di fritto. Poi si sarebbero ritirati a masturbarsi davanti agli spogliarelli del gruppo “Panto” trasmessi dalle televisioni locali apposta per loro e per i rari precettori interini vaganti maschi. Cosí stavano le cose quando cominció la commedia.
a cura di genseki

venerdì, aprile 30, 2010

Il desiderio di Dreiser Cazzaniga

"Il desiderio, ció che si chiama desiderio basta per fare si che la vita non abbia senso se produce un codardo".
Lacan


è alla luce di questa frase di Jacques Lacan, pescata letteralmente a caso nel mare dell'incomprensibilitá dei suoi scritti, che Dreiser Cazzaniga si accinse all'impresa di giustificara la propria vita, anche se essa era ancora un processo e non un cristallo. Per farlo si collocó al suo estremo, costruì un tempo preterito, o almeno cercó di costruirlo, totalmente alieno alla lingua impoverita e ipocrita in cui era stato gettato come scrivente. Un tempo preterito che isolasse il passato come, un arcipelago, di cui peró egli potesse variare in una certa misura le geografia. Ma solo un tempo verbale non bastava; dovette forzarne altri, forzare il lessico e deviare dalla morfologia. Dovette cioè rinchiudersi nella solitudine, negare la sua impresa come qualche cosa che fosse comunicabile, costruire una lingua impossibile dalle regole variabile e contradditorie come la geometria di Escher e poi dovette evocare il suo interprete, il suo giudice e curatore, genseki, il diamante dalle mille e mille sfacettature. Quando fu afferrato dal movimento di questa frase, Dreiser Cazzaniga non sapeva nulla di Lacan, a tratti detestava la psicanalisi, si entusiasmava per gli aspetti piú alchemici dell'opera di Jung, persino era giunto all'estremo di scegliere come guida al suo inferno infermo quotidiano un personaggio cosí assolutamente ripugnante come Simone Weil cui non si sarebbe mai abbastanza pentito di aver tributato un vero e proprio culto, celebrato attraverso la compilazione di stupidi quadernini la cui lettura egli soleva infiggere agli amici incolpevoli e soprattutto a Doña Tejada de las Silvas che non mostrava per essi nessun interesse. Eppure quella frase lo conteneva tutto intero nel fuoco della sua irradiazione spiraliforme.

a cura di genseki

Dreiser Cazzaniga e il Joseph Losey

Vi sono nelle nostre vite influenze determinanti e segrete che hanno il potere di orientarne il corso apparentemente casuale in un direzione che finisce per dotarle di un significato che si fa di giorno in giorno sempre meno provvisorio. Tali influenze sono veri e propri avvenimenti di veritá a cui finiamo per aderire con tanta profonditá da dimenticarli. Una di queste influenze nella vita specifica di Dreiser Cazzaniga fu il film, ormai quasi dimenticato di Joseph Losey, “Il ragazzo dai capelli verdi”. Questo film agí profondamente nella sua incoscienza definendo le regole di decodificazione delle sue esperienze successive fino all'epilogo, fino alla sottile giustificazione della propria radicale inadeguatezza. Fu Dreiser Cazzaniga stesso, attraverso la costante autoanalisi che ritrovó le tracce cancellate che lo ricondussero a questa pellicola o, per dirlo in modo piú preciso a questo avvenimento, al quale restó testardamente fedele, rigorosamente fedele, forse persino brutalmente fedele proprio perché la sua fedeltá poté essere protetta dalla dimenticanza, dall'oblio. Una delle veritá di Dreiser Cazzaniga, una delle veritá che lo costituirono come uomo, come umano e quindi come signore della sua stessa morte fu l'avvenimento di questo film. L'avvenimento della chiamata che lo interpellava direttamente da questo film, che lo interpellava chiamandolo con il suo vero nome con il suo nome autenticamente suo, quello che non poteva essere di un altro e che marcava la sua alteritá e separazione definiva dagli altri, dai suoi compagni di scuola, dai suoi professori, dai fratellini, dalla famiglia. Dreiser Cazzaniga visse il resto della sua vita come se i suoi capelli fossero verdi. Visse le sue relazioni con gli altri come se egli fosse portatore di un particolaritá sospetta, una lebbra, un segno, una marca che era al tempo stesso la testimonianza di una ardua, ripida veritá e la causa del sospetto, dell'escluzione, di una certa ostilitá e paura da parte degli altri.
La fedeltá a questa separatezza, a questa esclusione Dreiser Cazzaniga non la seppe accettare in modo naturale. No, La sua prima e ricorrente tentazione fu di fare il furbo con essa, di mediarla, di negoziarla, di addomesticarla. Era lui il ragazzo dai capelli verdi. Era lui che doveva rigorosamente testimoniare dell'intolerabilitá della vita in questa societá, ma proprio per questo egli aveva anche il diritto a odiare e a mentire. Odiare coloro che lo rifiutavano per il colore dei suoi capelli, mentire per preservare questo odio, fu questa la via maestra per rendere “mostruosa” la propria anima che Dreiser scelse finalmente e che seguí per molti anni in una spessa nebbia e a tratti nella piú completa oscuritá.
Si risveglió, per fortuna, anche da questo sogno, riconobbe il colore dei suoi capelli, verdissimi, come le giovani felci e fu allora in grado di germogliare al calore di qualche cosa di simile all'amore.

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