venerdì, novembre 10, 2023

Il fischione


Christian Bobin

Da “Abitare poeticamente”


Trad Pietro





Mentre vagabondavo tra i libri di Ernst Jünger ho trovato un passo in cui racconta un soggiorno in Sardegna:  Scopre la grotta di pastore al bordo dell’acqua ed entra in questa caverna appena accennata. Vi trova un fuoco quasi spento, le braci ancora rosseggiano. In una piega della roccia un pugno di sale che è stato preso dal mare tanto prossimo. In un’altra cavità un pugno di fave. Si trova tra i resti, tra le briciole divine di un pasto molto frugale. Egli ha allora questa riflessione che trovo molto bella: questa grotta non si trova in un passato che abbiamo abbandonato per sempre, si trova davanti a noi. Questo non vuol dire che siamo chiamati a vivere nelle caverne. Questa dimora di pastore, questa frugalità, questo tipo di radicalità, la cura del cibo più elementare, del fuoco, non lontano dal suono del mare e delle stelle, l’intensità quasi muta della vita in cui la necessità e la bellezza sono una cosa sola è qualche cosa che ci manca. E forse è proprio questo legame tra la bellezza, la semplicità e la frugalità che può aprirci all’avvenire.

Sul sentiero che mi porta a casa ho trovato alcune piume di ghiandaia come schegge azzurre. Sono piccole cose, quelle che faccio. Cerco di raccogliere cose poverissime, apparentemente inutili, e portarle nel linguaggio. Credo, infatti che soffriamo per un linguaggio che è sempre più ridotto, sempre più funzionale. Abbiamo reso il mondo estraneo noi stessi, e forse è proprio questo la poesia, nient’altro che riabitare questo mondo e addomesticarlo di nuovo.


Nel bosco in cui spesso passeggio ho visto macchine che non avevano più nulla di umano. Perché credo che ci fu un tempo in cui le macchine erano ancora umane. Ed ecco mi sono trovato davanti una specie di trattore, un estirpatore di alberi. Il conduttore era ridotto a schiavo della macchina. La morte degli alberi, in questo modo è molto più terrible di quella provocata dalla mano del boscaiolo. La morte antica era fraterna. Quello che mi ha pietrificato, è questa avidità, questa brutalità della tecnica in un luogo pieno di bellezza.


In fondo abitare poeticamente il mondo è proprio l’opposto di abitare tecnicamente. Si può formularlo così, in modo abrupto.



Contemplare è un modo di prendersi cura. È rompere tutto quello che in noi rassomiglia all’avidità, ma anche ad un’assenza o un progetto. Guardare e commuoversi per l’assenza di differenzia tra ciò che è in noi e ciò che sta di fronte a noi. Nella foresta, davanti ai miei occhi, vi è una ricchezza molto più grande di quella che qualsiasi museo potrebbe mai offrire.


Nell’ordine, un poco di muschio, un po’ più lontano dei rovi, una felce che il sole attraversa come fosse una vetrata. Questa felce è santa per la sua mortalità, per la sua fragilità, per il fatto che finirà per seccare. Che cosa si può fare di meglio che salutare quelli che se vanno con noi? Che bello sarebbe sviluppare una conversazione intera intorno a questa felce…

Il mondo è pieno di visioni che aspettano  occhi. Le cose sono presenti, quello che manca sono i nostri occhi. Chi vede questa piccola felce intrappolata in un ramo spinoso? Il vento la conosce, il vento le parla.


Non penso che la natura conosca la terribile solitudine in cui noi possiamo trovarci.

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