martedì, maggio 31, 2011

Dreiser Cazzaniga e la Bibbia

Il primo risvegliarsi in Dreiser Cazzaniga dell'amara coscienza dell'ingiustizia che pervade le nostre societá umane e dell'ingenua volontá di porvi riparo per quanto dipendesse dalle sue povere forze coincise con la sua lettura della Bibbia. Fu precisamente il testo del profeta Amos che gli rivelò tutto un universo di pensieri, di pene, angustia e sdegno e lo gettó cosí come era, privo di discermnimento e avvolto da nebbiosa passione, nello stato in cui si mantenne per tutta la vita di scorticata ribellione. Certo la societá che le parole del profeta tanto violentemente denunciavano, minacciavano in nome del Signore e invitavano al ravvedimento era una societá sconosciuta nelle sue forme al giovane Dreiser Cazzaniga. Una societá agro pastorale, arcaica e di pura sussistenza in cui l'orfano e la vedova sprovvisti di protezione rischiavano presto la morte per fame o per malattia. Dreiser Cazzaniga aveva si conosciuto gli ultimi abitanti delle grandi cascine della Sierra, che scendevano al barrio profumando di stalla sui carri cigolanto trainati dai buoi pazienti, aveva giocato con l'acqua che si raccoglie nei solchi che le loro ruote marcavano sulla strada, aveva spiato i fanciulli e le fantine che menavano al pascolo le greggi sparute nel grigio novembrino dei colli.asi Ma il mondo dei pastori e dei contadini era estraneo alla sua vita quotidiana. Egli conosceva, invece, molto e bene il mondo operaio, la sua vita e i suoi giochi erano regolati dalle sirene degli opifici, il cui prolungato lamento lo richiamava a casa per il pranzo o per la cena e il sonno nel vespero. Avanzava nella folla mesta al ritmo del passo grave degli operai tutti vestiti di blu che profumavano di grasso, e e vino, e viveva solo in virtú di questa comunione quotidiana di passante il loro orgoglio, le loro umiliazioni la determinazione della loro lotta per l'esistenza. Così fu, che senza riflettere, quando leggeva di vedove e orfani e di ingiustizia pensava ai padri dei suoi condiscepoli del barrio, al freddo delle loro case, alla brutalitá del loro alcolismo, alla condizione di ingiustizia sotto la quale dovevano piegare il capo. Il Profeta poco a poco venne nella sua mente assumendo insensibilmente i tratti del rivoluzionario, del mestatore, del rubello, dell'insorto, del giacobino, ma sotto i suoi nuovi panni era sempre il Profeta che esercitava la sua influenza sul piccolo Dreiser Cazzaniga. Gli è che il Profeta era uomo oscuro, semplice, che viveva in silente solitudine e solo dopo dura lotta con Dio accettava di essere lo strumento dell'annuncio della sua giustizia. Il Profeta non avrebbe parlato, non avrebbe potuto parlare, era stato separato, isolato, mondato, e per essere un semplice efficace strumento del verbo di giustizia. In questo scontroso isolamento, in questa appassionata austera solitudine, nella timidezza, nele senso di inadeguatezza che lo faceva sentire inferiore e superiore al contempo a chiunque, in questa ridda di confusi sentimenti, il giovane Dreiser Cazzaniga si identificava col Profeta nel piú intimo della sua anima e sognava. Poi la lettura del Magnificat gli si squadernó davanti come una gloriosa indomita rivendicazione di giustizia facendo della Vergine una madre paterna occulta.
Negli anni della sua militanza giacobina, duri e violenti vennero poco a poco cancellandosi dai suoi ricordi coscienti, la figura del Profeta e quella della Vergine, ma in realtá dall'occulta profonditá dell'anima sua mai non cessarone di guidare i suoi passi. Nel giacobinismo ahimé egli si spense non volle essere accolto dalle braccia di Abramo.

a cura di genseki

giovedì, maggio 26, 2011

Giovanni Giudici: Le mie radici

Giovanni Giudici

Mi chiedi cosa vuol dire

Mi cheide cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone

che ti vende ─è consegnare
ciò che porti─ forza, amore,
odio intero ─per trovare
sesso, vino, crepacuore.

Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.

Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
a te stesso da cui parte.


Alla beatrice


Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra
arrampicato su una scala di corda
affacciato dal fuori in posizione precaria
dentro i tuoi occhi celeste vetro
dentro i tuoi vizi capitali
dentro i tuoi tremori e mali


Beatrice sui tuoi seni io ci sto a spiare
ciò che fanno seduti intorno a un tavolo
i tuoi pensieri su sedie di paglia
ospiti appena arrivati o sul punto di partire
raccolti sotto la lampada gialla
uno che ride uno che ascolta e uno che parla


Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa
Dalla notte esteriore superstite luce
Nella selva selvaggia che a te conduce
Dalla padella alla brace
Estrema escursione termica che mi resta
Più fuoco per me tua minestra


Beatrice – costruttrice
Della mia beatitudine infelice


Beatrice dai tuoi seni io vengo a esplorare com’è
La stanza dove abitare
Se convenienti vi siano i servizi
E sufficiente l’ordine prima di entrare
Se il letto sia di giusta misura
Per l’amore secondo natura.
Beatrice dunque di essi non devi andare superba
Più che dell’erba il prato su cui ci sdraiamo
Potrebbero essere stracci non ostentarli
Per tesori da schiudere a viste meravigliate
I tuoi semplici beni di utilità strumentale
Mi servono da davanzale

Beatrice – dal verbo beare
nome comune singolare.

Giovanni Giudici

Giudici sui tuoi versi io ci sto alla finestra
Come fosse tutta una Provenza dopo tanta onesta Milano
Quella che trovavo in fondo al tunnel di Mignanego.
Ed era solo basilico
Camion scordati e fumo nero
Sul cassone appollaiati tanti giovani stranieri

Giudici sui tuoi versi salivo da corsia dei servi
In cerca di due stanze ed un giocondo tinello
In fondo al bicchiere leggevo la pubblicitá sella SITA

Giovanni tra i pini e l'arida luce del mare
Sul tuo sorriso sto a guardare
Il volo che dal canto appare.

genseki

mercoledì, maggio 25, 2011

La pioggia


Vi è, mentre dura la pioggia, una certa oscuritá che allunga tutti gli oggetti. Causa, inoltre, per la disposizione che il nostro corpo è obbligato ad assumere, una sorta di raccogllimento, che rende l'anima infinitamente piú sensibile. Anche il suo rumore, che i latini esprimevano chiamandola "densissimus imber", occupando costantemente l'udito risveglia l'attenzione e la mantiene perennemente vigile. Il color grigio che l'umiditá conferisce ai muri, agli alberi, alle rocce contribuisce a rendere piú intensa ancora l'impressione che tali oggetti producono. La solitudine e il silenzio che si estende intorno al viandante, obbligando gli uomini e gli animali a tacere e a restare al coperto, finsce per rendere la sua percezione ancora piú netta. Avvolto nel suo mantello, con il capo coperto, camminando per sentieri deserti, tutto lo colpisce, tutto appare piú grande alla sua immaginazione o al suo sguardo. I ruscelli si gonfiano, l'erba s'addensa, i minerali si fanno piú visibili, il cielo si approssima alla terra e tutti gli oggetti, racchiusi in un orizzonte ristretto, occupano piú spazio e si appaiono piú importanti.

J. Joubert
trad genseki

martedì, maggio 24, 2011

Bella

Eri bella
Come quello che resta dell'uscio
Dopo il mare, dopo il silenzio,
Bella
Come l'assalto verticale delle chiocciole alla verbena
Come l'arco delle ciglia dello stupore
Come la soglia varcata dalla statua dell'arcere
Come la caduta a ventaglio di un mazzo di carte
Sul pavimento
Come il gesto di aprire
Ció che già fu spalancato
Come l'evidenza del vuoto
Le ossa cave
La corrosione del cranio
Il silicio
La demenza vegetale del carrubo
L'impudicizia della sua fibra rosa
Il tuo ombrello gettato su una stufa spenta
Una sigaretta
Il latte avizzito delle tue unghie
Il tuo passo azzurro tra i serpenti
Lo smalto spezzato
Il bicchiere nella mano di un altro
Il sonno che ti leviga il corpo
Come un ciottolo nel torrente
Come l'affannarsi della tua stanchezza
La mia pochezza
Il nostro incontro
L'irrompere di te nel mio ricordo
Come il vento tra i capelli in un armadio.

Hurt

Ferito

Mi sono ferito da solo
Per sapere se provavo dolore
Nel dolore ho posto il mio centro
Soltanto il dolore è reale.

Un foro prodotto dall'ago
La vecchia ben nota iniezione
Ucciderla era quello che volevo
Eppure continuai a ricordare.

Che cosa sono ormai diventato?
Dolcissimo amico
Coloro che ebbi vicino
La fine con sé li trascina
Eppure lo avrei posseduto
Il mio impero di spazzatura.

Saró pe te delusione
Ti faró molto male

Io porto corona di spine
Sul mio trono di bugiardo.
Rotti sono tutti i miei pensieri
Nessuno li puó riparare.
Le macchie del tempo
Cancellano brame.
Non sei diversa dagli altri
E io resto qui.

Che cosa sono ormai diventato?
Dolcissimo amico
Coloro che ebbi vicino
La fine con sé li trascina
Eppure lo avrei posseduto
Il mio impero di spazzatura.

Saró pe te delusione
Ti faró molto male.

Se di nuovo potessi cominciare
Lontano, lontano da qui,
Mi prenderei cura di me,
Sicuro ce la pòtrei fare.

genseki

Johnny Cash Hurt

L'aceto

Furono le gocce d'aceto
A calmare il ronzio, a sedare
Il bruciore di tutti quei fiori
Che fiorivano di piaghe il petto il dorso
Le spalle il volto
A fior d'ascella appena rispondeva
Un'assenza di petali e cascate
Di riccioli biondi come anelli
Insanguinati
(La pioggia era un lontano ricordo)
A volte si ricordave persino del ricordo:
Quello dei rottweiler per esempio, del filo spinato
Del pane azzimo, la bellezza mattutina
Dei dirigibili, il panneggio delle orecchie
Sbrindellate degli elefanti
Stracci grigi dai riflessi opachi,
Poi era ricacciato nel presente dei chiodi
Della ruggine delle tenaglie
Del sudore verde
Degli occhi celesti nella loro cornice di sangue
Dei bubboni
Dell'ombra degli olmi
Come una pozza di frescura
Tra le vampate del frumento
L'aceto era il fiore
Sbocciato sulla cuspide della lingua
Le piaghe stelle al margine
Dei capezzoli, sulle scapole
Moriva per i corvi, per i rospi
Moriva
E il vento disperdeva sui campi di cotone
Le borse di plastica a milioni
Le lattine vuote, le bottiglie,
Moriva per i merli e per le chiocciole
Le tigri da tempo si erano estinte
La morte gli fioriva in petto
Nel sudore violaceo annegava
Nella rapida intermittenza dei ricordi di tutti.

genseki

venerdì, maggio 06, 2011

Monti lontani

Lontani, monti fraterni,
Il ricordo in frammenti ignora
Come volti, dita, coralli
Fiori d'avvento, articolazioni
Gattici di spavento
Nella primavera che odora
Di biancospino
Gli ultimi stracci del freddo
Si sfilacciano sul languore del rovo
Anche il ricordo è rosa
Come la pietra piú sorda.

genseki

Nel raccolto dei suoni

Nel raccolto dei suoni, raro
Trasformava, la sua sistole
In qualche cosa di pú intimo
Un abbraccio forse, sale di datura,
Cristallo di un altro cielo
Di altre ore, screziato come il fiore
Della campana, il suo pistillo
Feroce,
Insidiava la volta, il croco, limitrofo
Alla paura.
Sarebbe toccato anche a lui:
Di non svegliarsi, di rabbrividire
Avvolto nel candore abbagliante
Di tutta quella vita che rintoccava
Di cristallo in cristallo fiammeggiando
Sull'impalcature cosmica
Come una cascata coagulata di beatitudine
Come il sale che ci rende immemori
La pellicola opaca delle parole
Che profumano di ali come il prezzemolo
E occultano la morte, la contraddicono
Fino all'ennesima nota oscura
Sul pentagramma dell'agonia.

genseki

giovedì, maggio 05, 2011



Coscienza, immediatezza, realtá

Nel testo seguente Kierkegaard commenta, nei panni di Johannes Climacus, le prime pagine della Fenomenologia Hegeliana. Il suo scopo è quello di porre il linguaggio, il Verbo, come motore della dialettica e della formazione della coscienza La coscienza è per kiergaard l'in sé per sé dell'immediatezza e dell'idealitá: sintesi, insomma. La sintesi che è data anche qui come relazione. Nella forma della particolare dialettica hegeliana la sintesi è relazione e la negazione presupposto. La negazione nega il suo oggetto presupponendolo, la mediazione presuppone l'immediatezza, il modo piú semplice di negarka. Se l'immediatezza è la realtá ecco che allora la mediazione deve situarsi su un altro piano. Questo piano è quello simbolico, che K, chiama idealitá. Il linguaggio è ció che rende possaibile la negazione. Il linguaggio é negazione. Ed è negazione nel momento in cui esprime quello che nega. L'immediato è quello che è atteso, sperato.

"La coscienza puó permanere nell'immediatezza? Ecco una domanda senza senso, perché se potesse, allora non vi sarebbe nessuna coscienza. Allora come è tolta l'immediatezza? Attraverso la mediazione che abolisce l'immediatezza presupponendola.Che cos'è allora l'immediatezza? La realtá. CHe cos'è la mediazione? La parola. In che modo questa abolisce quella? Esprimendola. Perché ciò che si esprime sempre è presupposto.
L'immediatezza è la realtá, il linguaggio l'idealitá; la coscienza è la contraddizione.Nel momento in cui si esprime la realtá si ha la contraddizione, perché ciò che dico è l'idealitá.


trad. genseki

Vallejo-Kandinsky




Trilce XIII

Ecco che sfuggo a una finta per un pelo
Un proiettile che non so dove cadrá,
Incertezza, tramonto, giuntura cervicale.

Schiocco di mosca morente
Che a metá del suo volo cade a terra
Che dice ora Newton?

César Vallejo
trad. genseki

martedì, maggio 03, 2011

Abbandono

Venire a patti

Non ci restava ormai nessun'altra via d'uscita
Che non fosse quella di venire a patti con la morte
La nostra morte quella che ha sempre due facce
Perchè con noi muoiono gli altri e
E con gli altri moriamo anche noi
A questa morte non ci ribelliamo
Accettiamo di essere nella sua messe
Nel suo raccolto come frutta inutile
A questa morte infine ci abbandoniamo
Che ci tritura come strame fetido
In nulla secco e cenere per tutti i secoli
Nella morte fraterna ci abbandoniamo
Nelle sue braccia recliniamo l'orgoglio
L'io ritorna al suo nido all'albero nero
Di cui ogni foglia è specchio di silenzio.


genseki

Il dolore

Tuttavia c'è anche il dolore
Il dolore sarà richiamo costante
Alla bellezza di ogni istante
Al dolente solo bellezza è data
Senza consolazione alcuna
Egli l'accetta come pura fragrante
Perchè non vi è passato nell'abbandono
Chi dice si non conosce futuro
Bellezza solo nel dolore è dono
Quando l'anima non può essere
Rifrancata dall'arsura che la consuma.

genseki

Hegel sulla Religione e la Ragione


Vi son qui due forze antagoniste che combattono la filosofia. Anticamente era la religiosità che giudicava la ragione o il pensiero incapace di conoscere la verità . Spesso ha dichiarato che, per raggiungere la verità, è necessario rinunciare alla ragione, che la ragione deve umiliarsi davanti all'autorità della fede; la ragione abbandonata a s stessa, il pensiero per sé, conducono allo smarrimento, all'abisso del dubbio …

L'altro aspetto è che la ragione si è posta contro la fede, contro le rappresentazioni religiose, contro le dottrine rivelate, che cerca di rendere razionale il cristianesimo, e si èe posta tanto in alto, che solo la propria evidenza, la propria convinzione, dovrebbero essere gli strumenti attraverso i quali l'uomo sarebbe obbligato a riconoscere qualche cosa come vera. L'affermazione del diritto della ragione viene tanto prodigiosamente esagerato, al considerarlo un risultato finale, che la ragione non pào conoscere nulla che sia vero. Questa religione cominciò per questo a dirigere, in nome e per virtù della ragione pensante, la lotta contro la religione; ma prima si ribellò contro se stessa e divenne nemica della ragione affermando che solo il presentimento, il sentimento, la convinzione propria era la regola soggettiva che doveva essere valida per l'uomo. Tuttavia tale soggettività non presenta nulla di nuovo che non siano opinioni. Poi la cosiddetta ragione ha cambiato l'opinione in ciò che deve essere definitivo per l'uomo, e così, l'affermazione della religione, che la ragione non può giungere alla verità, è confermata; solo che lo è con l'affermazione che la verità non è raggiungibile in nessun modo.

Hegel
Introduzione alla storia della filosofia.
Trad. genseki

Heinrich Heine

Il tuo bel volto

Heinrich Heine

Il tuo ben volto che mi fu si caro
Che giovinetto in sogno contemplavo
Si è fatto dolce come volto d'angelo
E il dolore lo rende tanto pallido.

Sulle tue labbra che furono vermiglie
Presto la morte poserà il suo bacio
E spegnerà lo splendore celeste
Che nei tuoi occhi teneri era acceso .

trad genseki

Resurrezione

Fior di mandorlo latte appena
Gocciola la musica sottile della menta
E sono crepe quelle tra i serpenti
Signora Luna e la dama demente
Intrecciano una danza di dita
Di anelli, il quarzo sibilando
Ai cancelli s'avvolge intero
D'edera novella
Congiuro al corpo solleva la cenere
E rinnovato nuota nella pelle.

genseki

Il tuo sangue

Il tuo sangue

Il tuo sangue lava il nostro dolore
Il sangue a fiotti sulla tenera
Calligrafia fioritura ricamo
E tutte quelle spine fredde come il patire
Il tuo sangue lava il rapace
Dalle macchie della sua vista perfetta
Il falco l'aquila sono il chiodo
Conficcato nel cuore del mondo
Con ogni battito sgorga il tuo sangue
Le mani a coppa le leviamo
Per colmarle del tuo sangue dolciastro
Come il rubino e la foglia di menta
Negli occhi delle faciulle morte
La poseremo più tardi con tenerezza
Con infinita tenerezza ai nostri figli morti
Bruceremo i rami di artemisia
E gli dei saranno ghigni di vecchi tronchi
Nel sabato della nebbia
Ma ora le nostre mani grondano sangue
Il sangue immenso che ci doni
Ad ogni sussulto del quarzo
Siamo nell'intimità del tuo dolore
Nella comunione del tuo sangue
A caro prezzo siamo riscattati
A caro prezzo infine mondati.

genseki

L'ordine

L'ordine ultimo era questo tumulto
L'accorrere dei convolvoli
Sul mucchio di paglia la snella
Danza delle crucifere alle stelle
L'ordine era nella pena – sai? -
Di tutte quelle delusioni
Nella lavagna di ardesia
Nella polvere di gesso che pulluluva
Sul velluto nero dei pantaloni
Quando avrebbe voluto essere serio e ingenuo
Quanto lo avrebbe voluto!
L'ordine era nella fermentazione
Dei pollini nel ronzio delle api
Nelle orbite degli insetti
Attorno al sogno dei loro voli
Nella fila dei punti e degli a capo
Nella guerra interminabile delle formiche
Nell'astio dei funghi e nella nudità degli olivi
Nel peso di ogni istante
Sulle sue spalle di bambino
Che lo sapeva eterno ogni istante
Di quei pomeriggi in cui le piastrelle
Del pavimento del corridoio
Si estendevano ciascuna come una pianura estiva
E i vetri polverosi delle fineste
Erano lattei ghiacciai abbaglianti
Avrebbe voluto avere grandi occhi allora
Seri e spalancati ma si sentiva
Opaco sapeva di poter sudare
Il sudore lo faceva vergognare
Galoppava quindi sulle piastrelle
In diagonale
E tutto il mondo si faceva oblicuo.
Ed ecco che l'ordine erano le code
I campanacci il latte oscenamente sfracellato
Sul selciato e tutti quegli zoccoli
Quei sandali l'ingenuità dei piedi
La parietaria
Infine

genseki