giovedì, ottobre 26, 2006

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Plotino

Enneade V, 2
Cogitare debet inprimis omnis anima, animam ipsam animalia omnia effecisse, inspirantem eis vitam: fecisse inquam, viventia omnia, quae nutrit tellus, et quae mare, quae in aere sunt, et quae in coelo stellae divinae. Anima solem, anima ingens hoc caelum, exornavit, ordine que perpetuo ducit, exsistens profecto natura quaedam ab his diversa, quae ornat, quae movet quibus suggerit vitam: ideoque necesse est his omnibus esse praestantiorem: quippe cum haec et oriantur, quando anima suppeditat vitam, et occidant, quando destituit: ipsa vero sit semper, propterea, quod nunquam deserit semet ipsam. Quis autem modus sit vitae suppeditandae cum universo, tum singulis animalibus, ita potissimum cogitetur. Consideret itaque ingentem animam alia quaedam anima, non parvam in considerando dignitatem adepta, a deceptione videlicet libera, et ab his omnibus, quae ceteras animas fascinare consueverunt, ideoque in habitu quodam quietissimo constituta: non solum vero quiescat illi circumfusum corpus corporisque procella, verum etiam, quicquid extrinsecus ambit, undique conquiescat. Torpeat ergo terra et mare aerque, et ipsum caelum praestantissimum. Excogitet mox in torpentem eiusmodi molem undique aminam extrinsecus influentem penitusque infusam et omnia penetrantem nec aliter illustrantem, quam solis radii obscuram caliginem illuminare soleant, nubesque saepe aspectu aureas reddere: sic itaque anima caeleste corpus ingressa dedit vitam, dedit immortalitatem, torpens protinus excitavit. Hoc autem motu perpetuo agitatum sapientis animae ductu beatum animal est effectum, ...
trad. Marsilio Ficino
*
Ogni Anima deve pensare, per prima cosa, a come essa stessa fu quella che generó tutti gli animali, insufflando in essi la vita: a come generó tutti gli esseri viventi che nutre la terra e che si trovano in mare, nell'aria e nel cielo degli astri divini. Generato dall'Anima è anche il sole e quell'immenso cielo cui diede bellezza e regolare rotazione. Eppure la sua esistenza è di natura diversa da quella delle cose cui dona bellezza, movimento e vita; essa, infatti, ha maggior valore di tutte queste, dal momento che tutte le cose sorgono quando l'anima fornisce loro la vita ma devono poi perire quando essa gliela sottrae, mentre l'Anima continua ad essere sempre e non puó privarsi di se stessa. Chi fornisce la vita all'universo e ai singoli essere non puó non essere considerato potentissimo. L'Anima, infatti, puó contemplare la grande anima, è capace di questo non piccolo onore, quando, lontana dalle delusioni e da tutte quelle cose che di solito affascinano le altre anime riposi finalmente in somma quiete. In questo riposo si quieta non solo il corpo che fluendo la circonda e le tempeste corporali, ma tutte le cose esteriori si calmano. Dormono la terra e il mare e l'aria e la stessa immensa potenza del cielo. Si pensi allora l'Anima come quella che penetra in questa mole addormentata come dall'esterno e si diffonde ovunque e ovunque porta la luce come il sole suol illuminare l'oscura caligine e rendere d'oro le nubi. Allo stesso modo, l'Anima penetrando nel corpo celeste, gli diede vita, lo rese immortale, risveglió il dormiente. Guidato dall'Anima in perpetuo moto, il cielo divenne un animale beato, ...
trad. genseki
*

lunedì, ottobre 23, 2006

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Poesie di genseki


Tatuavano la tua pelle viti antiche

Viti autunnali
A ricamare i fianchi
A coronare i seni trasparenti
Pampini
Pallida

Bianca
Nel ricordo felino
Balenavano denti solari
Tra erbe taglienti
Distesa nell’ultima ombra
Ti rivedo
Un piede abbandonato
Nel torrente

*

Questa fu soltanto

L’ultima delle tue forme
Nel ricordo
Ci furono – anche –
Corse tra le canne
Scivoloni su ciottoli
Muschiosi
Il suono delle pietre
Lanciate nel Boschetto di Bambú
A inaugurare
La festa d`autunno
Con uno xilofono vivente

Mentre disponevo una zucca matura
Tra le castagne
Un raggio di sole
Obliquo
Illuminava a neve i tuoi capelli

*

Bianco il tuo scudo
Bianco il tuo mantello
Bianca la polpa
Bianco zibellino
A fasciare le pallide caviglie.

*

genseki
23/10/2006 19:27

mercoledì, ottobre 18, 2006

Ti amavo, bianca



Ti stringevo bianca,bianca e cedevole
Ti stringevo per sentire le ossa
E avrei voluto plasmarle le calde
Ossa, ostie del corpo bianco
Le tiepide ossa di argilla
Le tue ossa come pane
Bianco
Le tue ossa come carene
Di battelli, di voli, di profili
Di bianca dolcezza
Ti amavo, bianca
Per la tua ferita
Che non sapeva sanguinare
Tra le mie braccia.


*

Con un kesa con una khirba
Coprirò questa terra
Coprirò le sue ossa
Nello scorrere incessante dei nomi
Menzionerò le sfere dei palmizi
Le fiamma delle atalaye
Perdute
Quando una nota nasale
Apre la porta dell’Iran
Nevica sugli abeti
Nell’arcipelago
Con un kesa
Con la khirba coprirò questa terra
Resterò qui
Vegliando le sue ossa.

*

All’incrocio di mille incendi
Sta questo giardino
Dove entrano i portatori dei mantelli
Avvolti nei loro mantelli
Reggendo il peso dei loro infeltriti mantelli
Quando la luna sarà
Simbolo di rosa
E rosa
E rosa una brezza marina.

genseki
17/10/2006 22:5o

martedì, ottobre 17, 2006

La dichiarazione di Alamût


(Mowlana Alazikrihis-salâm) 8 agosto 1164

Il diciassettesimo giorno del mese de Ramazân dell’anno 559 dell’egira, sotto il segno della Vergine, essendo il sole nella costellazione del cancro, Imâm diede ordine che un scranno (minbar) fosse posto rivolto all’Ovest, sulla spiananta di Alamût) quattro stendardi furono fissati rispettivamente a ciascuno dei quattro angoli dello scranno. I compagni del Khorassan furono posti destra della scranno. Quelli dell’Irâq persiano alla sinistra. I Daylamiti e i compagni di Rûdbar furono sistemati proprio di fronte. Nel mezzo, davanti allo scranno, fu posta una piattaforma e il faqîh Mohammad Bostî ricevette l’ordine di restae su questa piattaforma. Verso mezzogiorno, il gran maestri (Khodâvand) 'alâ dhikri-hi's-salâm vestito con una tunica bianca e con in capo un turnabte bianco, discese dalla Rocca di Alamut. Si avvicinò allo scranno da destra e ne salì gli scalini con lentazza e maestà. Tre volte, egli espresse i suoi saluti ; una prima volta ai Dalamiti davanti a lui, una seconda volta volendosi a destra, una terza volta volgendosi a sinistra. Per un momento restò seduto sui talloni. Poi si drizzò in piedi, passò il cinturone cui era sospesa la sua spada, e, a voce alta lesse questo proclama :

“Alzatevi, perchè il giorno della Resurrezione s’è levato. L’attesa del Segnale compiuta, Ecco giunta la Resurrezione che è il culmine di tutte le resurrezioni. Oggi non si devono più cercare prove nè indizi; oggi la Conoscenza non dipende piú dalle Scrittre, nè dai discorsi, nè dai simboli, nè dagli atti di devozione che piegano il corpo. Oggi, gli atti e le parole, i segni e i simboli, sono giunti al termine di tutti i termini. Colui che con i suoi occhi ha contemplato l’essenza in persona, quegli ha contemplato con i suoi occhi la totalità dei segni e degli indizi di tutte le Rivelazioni, mentre quello che ne conosceva attraverso nomi e qualificazioni ne era il contrario e l’opposto, quello che continuava a restare nascosto dietro un velo”. “O voi, esseri che popolate gli universi! Voi geni, uomini e angeli ! Sappiate che Mawlana è il resurrettore. Signore degli esseri, Signore che è l’esistemza assoluta, che esclude ogni determinazione esistenziale, perchè le trascende tutte. Egli apre la porta della sua Misericordia, e grazie alla luce della sua Conoscenza, fa in modo che ogni essere sia veggente, udente, parlante, vivente per l’eternitá”.
“Colui che sa ha il dovere di lodarLo e di ringraziarLo, anche se Egli trascende tutto ciò, perché Egli è lode a Se stesso, Egli è per Sua essenza Colui che conosce”.

Dopo questo, l’Imam pronunció una prima esortazione. Poi diede letturan della copia dell’epistola che comincia con queste parole: “Noi siamo gli eternamente esistenti al presente...”

A cura di genseki

*

Laura Silvestri


Perché il faro lo ha fatto costruire un tizio, un artista, trasportando sul continente da navi e vagoni tonnellate di lastre di ferro predisposto alla ruggine, a farsi brunito e scorticante, fastidioso alla vista. Un pozzo sotterraneo lo blocca ancorandolo ai ghiacci e alla terra incrostata, ancora adesso ogni tanto mi sembra di sentirli sfrigolare e spaccarsi e quella vibrazione sale su, agrappandosi alle spire della scala interna e arriva fino alla stanza bianca, perfino i vetri ne crepitano ... Dunque il tipo vadicendo che qua sotto quella buca è simile a un immenso recipiente dove cuociono come in un grande uovo, una matrice gorgogliante, gli ingredienti del mondo, acqua zolfo seme mercurio e chissá cos’altro, insomma un bel minestrone, così me l’immagino, per sempre intento a riprodursi e maturare ed esalare, e il faro... il faro sarebbe la strada, lo stretto canale in cui quei fiumi, quegli spiritelli leggeri quando è il loro momento se ne scappano via, liberi finalmente, in corsa verso il cielo, facendo a gara a chi per primo tocca il vuoto. Così. Andarsene in alto, affinati e ripuliti, lubrificati quel tanto che basta alla fuga e alla visione. E dice, l’artista di aver preso l’idea da un tal gesuita che qualche secolo fa divenne famoso assicurando che avrebbe di lì a poco decifrato i geroglifici, ma ancor più idolatrato per uno strano museo delle meraviglie dove aveva raccolto di tutto, marchingegni per il moto perpetuo, giochi ottici, obelischi di legno, idoli, feti, bastoni di sciamani, animali impagliati. Per questo poi il faro non è più alto dei suoi trenta metri, non sia mai, come ammoniva il monaco, che crescendo in eccesso e arrivato a 178 miglia d’altezza cominci a pesare un po’ troppo e svellere non solo il suo pozzo nascosto ma perfino la terra dal suo asse.

Canti di lontananza
pp. 16-17

*

lunedì, ottobre 16, 2006

La dimora freatica

Thierry Metz


La dimora freatica

XV

Amore, mio frutteto
È l'albero il destino di chi veglia
Ospite suo
Congiunto
Dominano i suoi rami la sorgente.

Albero
Veemenza della spiga e della canna

*

XVI

Su terra senza vele
Conduci il temporale
Sassosa fecondi l'utensile e la giovine madre
Stagione della Svestita
Azzzurro nascente anticipa il mondo.

XVII

Nuvole e venti
Ostacolo è la sorgente.
E geyser
O tu che sgorghi in villaggi di sale
QUI non ha fondo.

XVIII

Aprire la dimora freatica
Esserci
In acque meditanti una cascata
Nulla v'è più di più fresco.




XIX

Azzurro d'acque sciolte
Fiume ove scende a bere
La nostra selvaggina
Fiume da cui si slancia
Risorgenza dell'astro
E dell'uccello.

XX

Da fertili pendii della poesia
Fino all'estreme frasi de' ghiacciai
Artesiana
Figlia tu del cipressp
Stupore della nostra sete.

XXI

Nell'ombra che spezza di netto
Lontano dal paese assetato
Un'ala ti rifrange
Cipresso
Demone folgorante del poema.


Lettere alla più amata

Ti scrivo da un'altrove nel quale non v'è altrove. La vita resta vita, morte resta la morte.
La voce non si volta, ritorna coi silenzi.
O con il peggio.

*

Tu lo sai che da sempre
Uno di noi si assenta
Per dimorare nella sua chiarezza
Nella sua lingua
Manovale o poeta
Ospiti d'una parola
Illuminata.

*
Intatto il muro
Il manovale resta legato solo a ciò che ha fatto
E che tiene.
Velato dalla morte
Che ogni presenza ci vela.

*

Scriverti? Fin dove? Fino al sonno? O fino ai girasoli?

*

Sto nelle mie parole. Fino alla scrittura. Appartengo al già detto, al sentiero. Così posso caricarmi il giorno sulle spalle e salire.
E partire.
Verso la casa della mie mani.

*

Non ho che le mie mani, e più in alto il mio nome… sogno sotto la terra.

*

Talvolta la scrittura, come un vuoto, un secchio che non dobbiamo rovesciare.

*

Tanto vale disfarsi
Di ogni parola
Che l'anima avrà
Rivolto alla morte.

*

Se lo vuoi abiteremo questo piccolo libro (doveva essere una lettera) con matite colorate e carta da disegno, con giornate di pioggia e di sole che si passano il plico da una mano all'altra, fino a farlo pervenire al rabdomante o all'idiota, a colui che tutti deridono, ma che vive, lui in un dimora inversa, dipinta e ridipinta con la calce ove la morte può entrare e uscire come vuole, con chi vuole.

*

Una vocina che conosciamo bene ci visita ogni sera. Voce di bimbo ci racconta ciò che accade laggiù, com'è la gente, che cosa vi si trova. Ci culla dolcemente, ci accompagna fino al sonno, ci chiude gli occhi.
No.
Niente di tutto questo.
Solo un'assenza inesorabile, inesauribile.
Solo una morte
E un nome:
VINCENZO.

Terra

Mi alzo
Devo cercare, continuare
Mi aggrappo alle nuvole.
Talvolta è come avessi
Perduto la parola
Parola che mi mette
Fuori di me
Ritorno sui miei passi
Ma non resta che l'ala
E l'albero
E la lepre
Soltanto una corrente
Che mi trapassa in voce. Mi volto
Per cogliere gli uccelli
Il cielo, però, non c'è più
È biancheria
Lenzuolo
Come se avessi seguito una dimora
Una ruota
Un altro secchio…

*

Villaggio di parole senza inchiostro
Villaggio puro di rovi tra i serpenti
Che si svegliano
Tra le nubi e l'impasto della calce.
L'olio
L'acqua
D'ogni parola
Non lungi dalla morte
Qui,
Pochi giorni senza uccello, senza
Il volto ritrovato di ogni uomo,
Tra platani, raccolto
Ben noto al sale, sul bordo del canale
È così
Una tavola
A tre assi dalla morte.

Trad. genseki

venerdì, ottobre 13, 2006

Khidr Elia

Incontri con Khidr



Ibn Arabi ebbe numerosi incontri con Khidr . Il primo avvenne quando era ancora studente a Siviglia. Egli aveva appena abbandonato il suo maestro Abu’l-Hasan al-Orvani con il quale aveva avuto uno scontro relativamente all’identitá di una persona cui sarebbe apparso il Profeta. A una svolta del cammino uno sconosciuto gli si avvicinó e gli disse: “Oh Mohammed! Abbi fiducia nel tuo maestro. Aveva ragione lui!” L’adolescente ritornó sui suoi passi per dire al suo maestro che aveva cambiato di idea. Appena lo vide questi lo apostrofó senza nemmeno lasciare che aprisse la bocca: “sarà necessario che ti appaia Khidr ogni volta che hai una discussione con me?”

Il secondo incontro avvenne sull’acqua, a Tunisi, nel porto, in una rovente notte di luna piena. Ibn Arabi dorme nella cabina di un battello ancorato nel porto, ma non dorme bene, una sensazione di malessere lo opprime. Esce dalla cabina, sale al ponte. L’equipaggio dorme. Per prendere aria si affaccia a un bordo ed ecco che vede avvicinarsi qualcuno che passeggia sulla superficie dell’acqua come fosse solida. Questa persona parla e discute a lungo con lui per poi scomparire in una grotta scavata in un monte a molti chilometri da Tunisi.
Il giorno dopo, uno sconosciuto lo ferma e gli domanda: “Allora, come è andata iei con Khidr?”

Ma l’incontro decisivo, il più importante avvenne nell’anno1204 a Bagdad. Dopo una breve sosta in questa città, Ibn Arabi si era diretto a Mosul attratto dall’insegnamento e dalla reputaione del maestro sufi Ali ibn Jami. Questi aveva ricevuto da Khidr in persona l’ordinazione e la trasmissione della Khirqa.

Scrive lo stesso Ibn Arabi: “Ali ibn Abdollah ibn Jami viveva in un orto di sua proprietá appena fuori Mosul. Quive Khidr lo aveva ordinato imponendogli la Khirqa in presnza di Qadib Alban. In quello stesso giardino ove Khidr lo aveva ordinato trasmettendogli il manto, egli, con la stessa cerimonia, ordinó anche me. Io ero giá stato ordinato, ma in modo indiretto, per mano di un amico Taquioddin Ibn Abdirrahman, che, a sua volta, aveva ricevuto la trasmissione da Sadroddin, Sceicco di Sceicchi in Egitto... il cui nonno la aveva ricevuta dalle mani del Khidr. Fu a partire da questo momento che cominciai a parlare dell’ordinazione del manto e a conferirla a certe persone, poi compresi la importanza che Khidr attribuiva a questo rito. Anteriormente io non parlavo di questo manto che ora è tanto conosciuto. Il manto, effettivamente, è un simbolo di fraternitá per noi, il segno che condividiamo la pratica dello stesso ethos.. Si é diffusa tra i maestri mistici il costume che, quando constatano qualche mancanza in qualcuno dei loro discepoli, lo Sceicco si identifica mentalmente con lo stato di perfezione que si propone di trasmettere. Una volta raggiunta questa identificazione, prende il manto che porta in quel momento preciso, lo toglie e ne copre il discepolo il cui stato spiritouale vuol perfezionare. Così lo Sceicco comunica al suo discepolo lo stato spirituale prodotto in se stesso, in modo che la sua stessa perfezione si realizzi nel discepolo. Tale è il rito della investitura, ben conosciuto tra di noi, e che ci è stato trasmesso dai nostri Sceicchi di maggior esperienza”.

Mariano Brull




Epitafio a la rosa

Rompo una rosa y no te encuentro
Al viento, asì, columnas deshojadas,
Palacio de las rosas enruinas.
Ahora – rosa imposible – empiezas:
Por agujas de aire entretejida
Al mar de la delicia intacta,
Donde todas las rosas
- Antes que rosa –
Belleza son sin carcel de belleza

***


Epitaffio alla Rosa

Spezzo una rosa eppure non ti trovo
Al vento, sì, colonne sfrondate,
Palazzo delle rose di rovine.
Ora cominci –tu, impossibil rosa –
Intessuta con gli aghi dello spazio
Al mare intatto di ogni delizia,
Ove tutte le rose
- Prima d’essere rose –
Bellezza son libera da bellezza.

***


La luna e il bambino giocano
Un gioco che non si vede
Si vedono senza guardarsi
Discutono con lingua muta.
Che si dicono, che tacciono,
Chi conta un, due, tre
Chi tre, due e uno?
Per tornare a cominciare?
Che restò dentro lo specchio
Luna per vedere tutto?
Allegro e solo è il bambino
La luna stende ai suoi piedi
La neve dell’albeggiare
E l’azzurro dell’aurora;
Sulle due facce del mondo
- una ascolta, l’altra vede -
Si spezza il silenzio in due
La luce si pone inversa
Senza mani van le mani
A cercare chissà che
Nel minuto di nessuno
Passa ció che mai non fu
Da solo gioca il bambino
Un gioco che non si vede.

Trad. genseki


El Nino y la luna

La luna y el nino juegan
Un juego que nadie ve
Se ven sin mirarse, hablan
Lengua de pura mudez.
Que se dicen, que se callan?
Quien cuenta una, dos y tres,
Y quien tres, y dos, y uno
Y vuelve a empezar después?
Quien se quedò en el espejo,
Luna para todo ver?
Està el nino alegre y solo:
La luna tiende a sus pies
Nieve de la madrugada,
Azul del amanecer,
En las dos caras del mundo
- la que oye y la que ve –
Se parte en dos el silencio
La luz se vuelve al revés,
Y sin manos, van las manos
A buscar quién sabe qué,
Y en el minuto de nadie
Pasa lo que nunca fue

El nino està solo y juega
Un juego que nadie ve.

Nel minuto di nessuno
Passa ciò che mai non fu

Da solo gioca il bambino
Un gioco da nessun visto

martedì, ottobre 10, 2006

Poesie di genseki

Il Cinghiale

Nel profondo del bosco dorme l’antico cinghiale. Da immemorabili abissi di passato dorme, il muschio è cresciuto tra le sue setole, le rosse lumache percorrono lentamente le sue zanne arancioni, le radici di un ceppo millenario incoronano la sua testa. Dorme e sogna. Il suo sogno è il bosco, dallo strisciare umido dei funghi, alla trasparenza lieta delle foglie novelle dei frassini. Le pietre grige, ricoperte dalle rune celestine dei licheni emergono secolo dopo secolo dal suo sogno. Sogna il cinghiale antico: cortecce e pigne, muffe e torrenti verticali di linfa, frulli di ali, penne di corvi.
Lontano dal cuore pietrificato del suo sonno, alla periferia del suo dormire il rombo del motore di un TIR suscita appena un’ impercettibile contrazione della sua palpebra scistosa.

genseki
10/07/04 21.34

Le città

Le antiche città di rame, città di colonne rosse, di vestiboli verdi, città di vasche di granito all’angolo delle piazze. Città roventi, dai vicoli umidi, su cui si affacciano casette dai tetti di paglia. Città di vasellame in terracotta e di tappeti profumati di polvere e sudore. Città di grida, di grida nasali, di grida stridule, di richiami, di fischi di tamburi dalle pelli ben tese, di tamburelli dai campanellini di stagno bianco. Città di danzatori nudi, dalla pelle decorata di cerchi rossi che scuotono i capelli a frustare le schiene e le braccia levate.
Città di torsoli e di cani scheletrici.
Città lontane dai neri boschi di abeti, dai boschi profumati di cedri d’argento. Città salmodiate accanto ai fuochi, città assediate dagli spiriti affamati dei venti caldi e secchi.
Città di pelli conciate, di otri freschi e stillanti, di rugiada sugli orti circondati di muri a secco.
Città di guglie cristalline, sottili come aghi, intraviste nei riflessi degli spruzzi di una cascata di montagna.
Città dai tetti aguzzi, dai tetti di legno nero, dalle facciate decorate di enigmi, città affacciate sui golfi d’acqua gelida e nera, sferzata dal vento che porta neve tagliente.
Città nella rete di rotaie, al centro delle ragnatele di binari che suddividono in spicchi la piatta steppa gelata.
Città trovate nei libri, città di parole su pagine ingiallite, vive soltanto nella memoria di un vecchio dagli occhi acquosi, dalle palpebre rosse, dalle dita macchiate di nicotina.
Città senza nome e pur conosciute per nome nell’infinita geografia dell’intelletto agente.


10/07/04 22.22





Lebbra

La città degli angeli lebbrosi si sfarina in polvere secca quando la sfiorano le ali di una farfalla decrepita.

10/07/04 22.25

Latino

Città i cui abitanti conversano in un latino umido e luminoso soto pergolati di vite dagli acini azzurri.

Dio

Vi sono città perdute negli abissi, nelle cascate vertiginose del tempo; città che solo Dio conosce, prima che siano o che non siano. Perché la conoscenza di Dio precede gli oggetti, quelli possibili come quelli impossibili.

Spilli

Le città impossibli a forma di spirali stanno in equilibrio sulla punta di spillo delle parole mai dette.

10/07/04 22.38

Rosa

Ci sono intere città nel cuore di una rosa. Quando essa si schiude suonano a distesa tutte le campane dei loro campanili. Il polline dei rintocchi feconda tutto il roseto.

10/07/04 22.44

***

venerdì, ottobre 06, 2006

Dogen












Il Drago Nero



Una parola, settenari o endecasillabi,
Per cogliere la veritá, la forma dell’universo -
Versi e parole mentono
Nella notte profonda
Sull’oceano infinito
Chiara luna risplende
Il monile del Drago
- Che è quello che cercate –
Ad Oriente si trova
Si trova ad Occidente
Eppure è in ogni parte.

Dogen

lunedì, ottobre 02, 2006

Súbita Morte


Si racconta in queste campagne che: - Nell’arsura mortifera della siccità i vecchi mandorli dal cuore nero come il loro tronco si coprono improvvisamente di cascate di fiori, fioriscono illimitatamente e, piegati dal peso immane dei frutti che tanti fiori han generato, subitamente seccano e restano così, scheletri neri sulla terra bianca, rune dimenticate su pagine d’arena.


Come i mandorli nell’arsura della siccità
Come i mandorli
Fioriscono in fresche nuvole di petali
Fioriamo in sguardi
In pensieri
In respiro
Anche noi
Dal tronco nero
Della nostra vita
Traendo
L’ultima fioritura
Magnifica
Corona fragrante
Di súbita morte.

*

Come un lampo
Intrecciato di mille fiori
Ci schiudiamo in bagliori
Sui rami neri
Del nostro sangue.

*

Fiorire
Solo è possibile
Con le ultime forze
Le estreme
Le riarse
L e prosciugate
Dal rigore
Impetuoso
Nel negarsi.

19/09/2006 19:56
genseki

Il Velo, Il Simbolo, la Poesia





















Ibn Arabi

La poesia è limitata ed è, per eccellenza, l'ambito del simbolo e dell'enigma. Nella stessa chiarezza dell'evidenza stanno il simbolo e l'enigma delle cose.

*

Nell'evidenza e nell'intuizione Mi nascondo da coloro che si accontentano dei veli.

*

La luce è un velo e anche l'oscurità è un velo. Nella linea fra entrambe troverai ciò che è di maggior profitto.

*

Dio mi disse: "Il silenzio è la tua realtà essenziale ... il silenzio non è altro che te stesso, anche se non si riferisce a te.
...
Con la parola ti ho creato e il verbo è la realtà essenziale del tuo silenzio, di modo che, anche se parli, taci.

*

L'alif rimane in silenzio mentre lettere parlano. L'alif rticola le lettere, però le lettere non articolano l'alif. Le lettere si combinano e si compongono a partire dall'alif e l'alif le accompagna sempre in modo non percepito.

A cura di genseki