Perché il faro lo ha fatto costruire un tizio, un artista, trasportando sul continente da navi e vagoni tonnellate di lastre di ferro predisposto alla ruggine, a farsi brunito e scorticante, fastidioso alla vista. Un pozzo sotterraneo lo blocca ancorandolo ai ghiacci e alla terra incrostata, ancora adesso ogni tanto mi sembra di sentirli sfrigolare e spaccarsi e quella vibrazione sale su, agrappandosi alle spire della scala interna e arriva fino alla stanza bianca, perfino i vetri ne crepitano ... Dunque il tipo vadicendo che qua sotto quella buca è simile a un immenso recipiente dove cuociono come in un grande uovo, una matrice gorgogliante, gli ingredienti del mondo, acqua zolfo seme mercurio e chissá cos’altro, insomma un bel minestrone, così me l’immagino, per sempre intento a riprodursi e maturare ed esalare, e il faro... il faro sarebbe la strada, lo stretto canale in cui quei fiumi, quegli spiritelli leggeri quando è il loro momento se ne scappano via, liberi finalmente, in corsa verso il cielo, facendo a gara a chi per primo tocca il vuoto. Così. Andarsene in alto, affinati e ripuliti, lubrificati quel tanto che basta alla fuga e alla visione. E dice, l’artista di aver preso l’idea da un tal gesuita che qualche secolo fa divenne famoso assicurando che avrebbe di lì a poco decifrato i geroglifici, ma ancor più idolatrato per uno strano museo delle meraviglie dove aveva raccolto di tutto, marchingegni per il moto perpetuo, giochi ottici, obelischi di legno, idoli, feti, bastoni di sciamani, animali impagliati. Per questo poi il faro non è più alto dei suoi trenta metri, non sia mai, come ammoniva il monaco, che crescendo in eccesso e arrivato a 178 miglia d’altezza cominci a pesare un po’ troppo e svellere non solo il suo pozzo nascosto ma perfino la terra dal suo asse.
Canti di lontananza
pp. 16-17
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Canti di lontananza
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