giovedì, dicembre 28, 2006

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Natale 2006

Inno XXXI

Sulla nascita del Signore

Sulla melodia:
Temo di cantare le lodi


Tu, o Cristo, hai dato vita alla creazione attraverso la tua Nascita,
Nascita visibile da un seno carnale.
Tu, Cristo, Tu hai confuso il sapere degli uomini attraverso la tua Nascita,
Attraverso questa nascita che sorge
Dall'eternità del seno invisibile del Padre
Due cose mi stupivano
Che gli smarriti in Te ritrovino il cammino,
Che gli indagatori per Te si smarriscano.
*
Lode a Te, Mio Signore, e al Padre Tuo!
*
Tu sei il buon Ministro del Padre misericordioso;
Nella Tua Mano sta la chiave del Tesoro della misericordia
Apri e introduci doni per tutti gli uomini;
Apri e liberi l'espiazione per tutti gli uomini;
Felice colui che introduce l'offerta
Attraverso di Te e ne trae in cambio la misericordia!
*
In Te si serve nel Santissimo la divinitá
Tu fai salire il sacrificio e spargi la libazione.
Non rifiutare il nostro sacrificio a causa delle macchie
Che lo insudiciano.
La Nostra preghiera è il sacrificio, i nostri pianti la libagione.
Felice chi fa salire per mezzo Tuo la sua offerta
Il cui profumo Tu rendi gradito!
*
Aspersione purificatrice, issopo d'espiazione
Che tutti i peccati ha espiato nel battesimo d'acqua!
Impotenti le aspersioni di tutti i Leviti
A riscattare anche un solo popolo
Con i loro deboli rami d'issopo.
Felici i popoli, ora che la pietá divina s'è fatta issopo
E li ha purificati con la sua misericordia.
*
Offerta grata per noi presentata
Vittima che santifica e da se stessa è offerta:
Libazione che cancella il sangue di vacche e montoni;
Agnello che di se stesso è il prete sacrificatore!
Felice colui la cui preghiera si è fatta incensiere
E che attaverso di Te l'ha presentata a Tuo Padre!
*
La legge del popolo riprovava le macchie visibili
La misericordia che ha eletto i popoli non rifiuta le macchie.
Non sono le macchie
La sua scelta, sono i penitenti ch'ella accoglie;
La tua pura bellezza, mio Signore,
Non rifiuta le nostre macchie
Beato colui che attraverso di Te ha cancellato le sue macchie
E per mezzo Tuo, unicamente s`è fatto tutto bello.
*
Tesoro che arricchisce venuto presso i poveri,
Sorgente che disseta quelli che ebbero sete,
Dottrina che discese presso i semplici,
Ricordo che ha scacciato l'oblio della creazione!
Beato colui che Ti confessa Cristo
E T'ha conquiso ed è Tua proprietà.
*
Tu sei la fiducia; presso di Te tace la disperazione
Tu sei la roccia, su di Te riposa l'edificio dei popoli.
Sei Tu che riunisci i dispersi.
Muro vittorioso che proteggi i deboli!
Beato chi comprende come e quanto lo amasti
E che pianse di onta la sua ingratitudine
*
Soglia che eguaglia e distingue!
In questo mondo ognun entra varcacandola
Nel Regno della Veritá,
Nell'altro mondo conduce a vita differente.
Qui la Tua misericordia ha reso gli uomini eguali,
Laggiù li separerá il Tuo giudizio
Beato colui che si ricorda la morte ad ogni istante
E prepara le provviste per il viaggio!

*

trad. genseki

venerdì, dicembre 22, 2006

Natale 2006

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Sura XIX
Maryam
(Maria)

Pre-Eg. n°44 a parte i vv.58 e 71. Di 98 versetti.

Il nome della sura deriva dal versetto 16.

In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso.

1 Kâf, Hâ', Ya', 'Aîn, Sâd.

2 [Questo è il] racconto della Misericordia del tuo Signore verso il Suo servo Zaccaria, 3 quando invocò il suo Signore con un'invocazione segreta, 4 dicendo: «O Signor mio, già sono stanche le mie ossa e sul mio capo brilla la canizie e non sono mai stato deluso invocandoti, o mio Signore! 5 Mia moglie è sterile e temo [il comportamento] dei miei parenti dopo di me: concedimi, da parte Tua, un erede 6 che erediti da me ed erediti dalla famiglia di Giacobbe. Fa', mio Signore, che sia a Te gradito!» 7 «O Zaccaria, ti diamo la lieta novella di un figlio. Il suo nome sarà Giovanni A nessuno, in passato, imponemmo lo stesso nome». 8 Disse: « Come potrò mai avere un figlio? Mia moglie è sterile e la vecchiaia mi ha rinsecchito ». 9 Rispose: « E' così! Il tuo Signore ha detto: " Ciò è facile per me: già una volta ti ho creato quando non esistevi». 10 Disse [Zaccaria]: « Dammi un segno, mio Signore! ». Rispose: « Il tuo segno sarà che, pur essendo sano, non potrai parlare alla gente per tre notti». 11 Uscì dall'oratorio verso la sua gente e indicò loro di rendere gloria [al Signore] al mattino e alla sera. 12 «O Giovanni, tienti saldamente alla Scrittura ». E gli demmo la saggezza fin da fanciullo, 13 tenerezza da parte Nostra e purezza. Era uno dei timorati, 14 amorevole con i suoi genitori, né violento né disobbediente. 15 Pace su di lui nel giorno in cui nacque, in quello della sua morte e nel Giorno in cui sarà risuscitato a [nuova] vita. 16 Ricorda Maria nel Libro, quando si allontanò dalla sua famiglia, in un luogo ad oriente. 17 Tese una cortina tra sé e gli altri. Le inviammo il Nostro Spirito, che assunse le sembianze di un uomo perfetto. 18 Disse [Maria]: « Mi rifugio contro di te presso il Compassionevole, se sei [di Lui] timorato! ». 19 Rispose: « Non sono altro che un messaggero del tuo Signore, per darti un figlio puro». 20 Disse: « Come potrei avere un figlio, ché mai un uomo mi ha toccata e non sono certo una libertina?». 21 Rispose:« E' così. Il tuo Signore ha detto: " Ciò è facile per Me? Faremo di lui un segno per le genti e una misericordia da parte Nostra. E' cosa stabilita"». 22 Lo concepì e, in quello stato, si ritirò in un luogo lontano. 23 I dolori del parto la condussero presso il tronco di una palma. Diceva: «Me disgraziata! Fossi morta prima di ciò e fossi già del tutto dimenticata!». 24 Fu chiamata da sotto : « Non ti affliggere, ché certo il tuo Signore ha posto un ruscello ai tuoi piedi; 25 scuoti il tronco della palma : lascerà cadere su di te datteri freschi e maturi. 26 Mangia, bevi e rinfrancati. Se poi incontrerai qualcuno,di' : « Ho fatto un voto al Compassionevole e oggi non parlerò a nessuno». 27 Tornò dai suoi portando [il bambino]. Dissero: « O Maria, hai commesso un abominio! 28 O sorella di Aronne, tuo padre non era un empio né tua madre una libertina». 29 Maria indicò loro [il bambino]. Dissero: « Come potremmo parlare con un infante nella culla?», 30 [Ma Gesù] disse: « In verità sono un servo di Allah. Mi ha dato la Scrittura e ha fatto di me un profeta. 31 Mi ha benedetto ovunque sia e mi ha imposto l'orazione e la decima finché avrò vita, 32 e la bontà verso colei che mi ha generato. Non mi ha fatto né violento né miserabile. 33 Pace su di me il giorno in cui sono nato, il giorno in cui morrò e il Giorno in cui sarò resuscitato a nuova vita». 34 Questo è Gesù, figlio di Maria, parola di verità della quale essi dubitano. 35 Non si addice ad Allah prendersi un figlio. Gloria a Lui! Quando decide qualcosa dice: «Sii! » ed essa è. 36 «In verità, Allah è il mio e vostro Signore, adorateLo! Questa è la retta via». 37 Poi le sette furono in disaccordo tra loro. Guai a coloro che non credono, quando compariranno nel Giorno terribile. 38 Ah, come vedranno e intenderanno nel Giorno in cui saranno ricondotti a Noi! Ma gli ingiusti oggi sono in palese errore. 39 Avvertili del Giorno del Rimorso, in cui sarà emesso l'Ordine, mentre essi saranno distratti e non credenti. 40 Siamo Noi che erediteremo la terra e quanti che vi stanno sopra e a Noi saranno ricondotti. 41 Ricorda nel Libro Abramo. In verità era un veridico, un profeta. 42 Disse a suo padre: « O padre, perché adori ciò che non vede e non sente e non può proteggerti da alcunché? 43 O padre, mi è stata data una scienza che tu non hai avuto, seguimi e ti condurrò sulla retta via. 44 O padre, non adorare Satana: egli è sempre disobbediente al Compassionevole. 45 O padre, temo che ti giunga un castigo del Compassionevole e che tu divenga uno dei prossimi di Satana ». 46 Disse: « O Abramo, hai in odio i miei dei? Se non desisti, ti lapiderò. Allontanati per qualche tempo». 47 Rispose: « Pace su di te, implorerò per te il perdono del mio Signore, poiché Egli è sollecito nei miei confronti. 48 Mi allontano da voi e da ciò che adorate all'infuori di Allah. Mi rivolgo al Signore, ché certamente non sarò infelice nella mia invocazione al mio Signore» 49 Quando poi si fu allontanato da loro e da quello che adoravano all'infuori di Allah, gli donammo Isacco e Giacobbe ed entrambi li facemmo profeti. 50 Concedemmo loro la Nostra misericordia e un sublime, veritiero eloquio. 51 Ricorda Mosè nel Libro. In verità era un eletto, un messaggero, un profeta. 52 Lo chiamammo dalla parte destra del Monte e lo facemmo avvicinare in confidenza. 53 E come misericordia da parte Nostra, gli demmo suo fratello Aronne, come profeta. 54 Ricorda Ismaele nel Libro. In verità era sincero nella sua promessa, era un messaggero, un profeta. 55 Imponeva alla sua famiglia l'orazione e la decima ed era gradito al suo Signore. 56 Ricorda Idris nel Libro. In verità era veridico, un profeta. 57 Lo elevammo in alto luogo. 58 Essi sono coloro che Allah ha colmato [della Sua grazia] tra i profeti discendenti di Adamo, tra coloro che portammo con Noè, tra i discendenti di Abramo e di Israele e tra coloro che abbiamo guidato e scelto. Quando venivano recitati loro i segni del Compassionevole, cadevano in prosternazione, piangendo. 59 Coloro che vennero dopo di loro tralasciarono l'orazione, e si abbandonaro no alle passioni. Incontreranno la perdizione. 60 Coloro che invece si pentono, credono e compiono il bene, entreranno nel Giardino e non subiranno alcuno torto; 61 nei Giardini di Eden, che il Compassionevole ha promesso ai Suoi servi che [hanno creduto] nell'invisibile, ai Suoi servi, ché la Sua promessa è immi nente; 62 e non ascolteranno colà nessun discorso vano, ma solo: "Pace!", e verranno sostentati al mattino e alla sera. 63 Questo è il Giardino che faremo ereditare ai nostri servi che saranno stati timorati. 64 « Noi scendiamo solo per ordine del tuo Signore. A Lui appartiene tutto quello che ci sta innanzi, tutto quello che è dietro di noi e ciò che vi è frammezzo. Il tuo Signore non è immemore». 65 E' il Signore dei cieli e della terra e di tutto ciò che vi è frammezzo, adoraLo dunque e persevera nell'adorazione. Conosci qualcuno che abbia il Suo stesso nome? 66 Dice l'uomo: « Quando sarò morto, chi mi riporterà alla vita?». 67 Non si ricorda l'uomo che fummo Noi a crearlo quando ancora non era nulla? 68 Per il tuo Signore, li riuniremo insieme ai diavoli e poi li condurremo inginocchiati attorno all'Inferno. 69 Quindi trarremo da ogni gruppo quello che fu più arrogante verso il Compassionevole, 70 ché meglio di tutti conosciamo coloro che più meritano di bruciarvi. 71 Nessuno di voi mancherà di passarvi : ciò è fermamente stabilito dal tuo Signore. 72 Salveremo coloro che Ci hanno temuto e lasceremo gli ingiusti in ginocchio. 73 Quando vengono recitati i Nostri chiari versetti, i miscredenti dicono a coloro che credono: « Quale dei due partiti ha miglior posizione e buona compagnia?». 74 Quante generazioni abbiamo annientato prima di loro, più ricche di beni e di prestigio! 75 Di': « Che il Compassionevole prolunghi [la vita] di coloro che sono sviati, finché non vedranno il castigo e l'Ora che li minaccia. Sapranno allora chi si trova nella peggiore situazione e [chi ha] la compagine più debole». 76 Allah rafforza la guida di quelli che seguono la retta via. Le buone tracce che restano sono le migliori, per la ricompensa e per il miglior esito presso Allah. 77 Che ti sembra di colui che ha rinnegato i Nostri segni asserendo: «Certo avrò beni e figli»? 78 Conosce il mistero o ha stretto un patto con il Compassionevole? 79 Certo che no! Annoteremo quello che dice e molto accresceremo il suo tormento. 80 Saremo Noi ad ereditare ciò di cui parla e si presenterà da solo dinnanzi a Noi. 81 Si sono presi dèi all'infuori di Allah [sperando] che fossero loro d'aiuto. 82 Invece no! Essi rifiuteranno la loro adorazione e saranno loro nemici. 83 Non vedi che abbiamo mandato i diavoli contro i miscredenti per incitarli con forza? 84 Non aver fretta di combatterli. Siamo Noi a tenere il computo. 85 Il Giorno in cui riuniremo i timorati presso il Compassionevole come invitati d'onore 86 e spingeremo i malvagi nell'Inferno come [bestie] all'abbeveratoio, 87 non beneficeranno di nessuna intercessione, a parte colui che avrà fatto un patto con il Compassionevole. 88 Dicono: « Allah Si è preso un figlio ». 89 Avete detto qualcosa di mostruoso. 90 Manca poco che si spacchino i cieli, si apra la terra e cadano a pezzi le montagne, 91 perché attribuiscono un figlio al Compassionevole. 92 Non si addice al Compassionevole prenderSi un figlio. 93 Tutte le creature dei cieli e della terra si presentano come servi al Compassionevole. 94 Egli li ha contati e tiene il conto 95 e nel Giorno della Resurrezione ognuno si presenterà da solo, davanti a Lui. 96 In verità il Compassionevole concederà il Suo Amore a coloro che credono e compiono il bene. 97 Lo rendemmo facile alla tua lingua, perché tu annunci la lieta novella ai timorati e avverta il popolo ostile. 98 Quante generazioni facemmo perire prima di loro! Ne puoi ritrovare anche uno solo o sentire il minimo bisbiglio

giovedì, dicembre 21, 2006

Natale 2006


I pastori udirono gli angeli che inneggiavano
alla venuta di Cristo incarnato e,
accorrendo a lui come verso il Pastore,
lo videro quale Agnello senza macchia
nutrirsi nel seno di Maria e dissero inneggiando a lei:
Gioisci, Madre dell'Agnello e del Pastore;
Gioisci, ovile del gregge spirituale;
Gioisci, difesa contro i nemici invisibili;
Gioisci, chiave che apre le porte del Paradiso;
Gioisci, perché il cielo si rallegra con la terra;
Gioisci, perché la terra si allieta con i cieli;
Gioisci, voce degli Apostoli che mai tace;
Gioisci, coraggio invincibile dei martiri;
Gioisci, forte baluardo della fede;
Gioisci, fulgido vessillo della grazia;
Gioisci, perché spogliasti il regno dei morti;
Gioisci, perché ci rivestisti di gloria;
Gioisci, o Sposa Semprevergine!

*
Inno Acatisto
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mercoledì, novembre 29, 2006

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I cinque mondi


Ibn Arabi
I cinque Mondi
^*^

Per Ibn Arabi la realtá come la percepiamo nella nostra vita quotidiana, è illusione, sogno. Non si tratta peró di un sogno o di un'illusione soggettiva.
L'illusione della realtá quotidiana è un'illusione oggettiva.
Il mondo in cui viviamo non si situa sul piano della pienezza della realtà ma su un piano in cui la realtà risulta indebolita sebbene risponda a leggi intersoggettive.
Secondo Ibn Arabi l'essere si articola in piani che egli chiama mondi e che corrispondono allo schema seguente:

Il Mondo dell'essenza
Al-gayb al-mutlaq
L'assenza di manifestazione

Il Mondo degli attributi e dei nomi
Uluhiyya
La Presenza della Divinitá

Il Mondo dell'azione
Rububiyya
Il Dominio

Il Mondo delle Immagini
Alam al-mital

Il Mondo dei sensi
Musahada

Il Mondo delle Immagini: Alam al-Mital è, da un punto di vista ontologico, un terreno intermedio di contatto tra il mondo puramente sensibile e il mondo puramente spirituale, o immateriale.
Esso corrisponde in quelche modo al concetto di Barzakh e al Mondo Intermedio di Sohravardì:
questo è un mondo nel quale si ritrova tutta la ricchezza e la varietá del mondo sensibile, ma in forma sottile. In esso si trovano le cottá mostiche di Jabalqa, Jabarsa e Hurqalqa.
Mi pare anche interessante l'approssimazione al mondo delle immagini che si trova nell'opera di C. S. Lewis “Perelandra”:

“Ogni distinzione tra accidentale e pianificato, così come la distinzione tra realtá e mito era puramente terrestre. Il modello è tanto ampio che dentro il quadro ristretto dell'esperienza terrestre appaiono frammenti di esso tali che noi non siamo in grado di scorgerne la connessione, e altri, invece tra i quali siamo in grado di scorgerla. Per questo distinguiamo chiaramente, per la nostra immediata utilitá, l'essenziale dall'accidentale. Se usciamo peró da questo quadro la distizione intera cade nel vuoto agitando vanamente le ali”.

Il pensiero di Ibn Arabi è puramente ontologico e la sua ontologia non è speculativo quanto piuttosto esperienziale, dipende dalla sua propria intuizine mistica diretta.
Questa esperienza lo porta a considerare cinque piani dell'essere paralleli ai cinque mondi.
L'essere assoluto contemplato nell'esperienza dell'estasi si rivela al contemlante in modi e gradi infiniti che sono da Ibn Arabi classificati, appunto in cinque gradi in ciscuno dei quali l'Essere Assoluto si rivela e si manifesta in modo piú determinato e più concreto e quindi si disvela.
Il primo di questi cinque gradi rappresenta l'assoluto prima che inizi a manifestarsi o a rivelarsi nei piani successivi.
Nella terminologia di Ibn Arabi ogni grado di manifestazione si chiama “hadra” cioè presenza. L'essere in tutti i livelli del suo disvelamento mantiene il nome di “Haqq” Assoluto
Per indicare il disvelamento egli impiega la parola “tayalli
Lo schema dei piani di manifestazione è il seguente:
Haqq
Primo Hadra
No tayalli

Haqq
Secondo Hadra: Dio
tayalli

Haqq
Terzo Hadra: Il Signore
tayalli

Haqq
Quarto Hadra: Il mondo delle immagini
tayalli

Haqq
Quinto Hadra: Il Mondo Sensibile
tayalli

Il primo hadra non è un tayalli ma è la fonte di tutti i tayalli. Tutti i piani stanno tra loro in rapporti di corrispondenza tali che a ogni forma di un hadra superiore corrisponde una forma di ogni hadra inferiore.

genseki

martedì, novembre 28, 2006

Il Gelso

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La poesia che segue pecca, davvero, di un certo mal gusto, nella balorda, insistente evocazione angelica.
Il fatto è che non so quale altra presenza nominare come testimone reale, sacramento della scomparsa di un mondo, del mio mondo che mi è dato vivere come un dono: il dono della morte già qui, nella pienezza del sentire e dell'intendere.

Il Gelso

Un gelso d'ali d'oro
Angelo dell'Autunno
Veglia
Tra il bosco
E la terra
Ferita
Veglia l'ultimo
Respiro
Dei muschi
La filigrana criptica
Dei licheni

Un gelso d'ali d'oro
Angelo
Della Soglia
Raccoglie il suono
Di tutte le foglie
Lo scrosciare assordante
Di tutti i colori

Un gelso d'ali d'oro
Angelo degli angeli
Insieme giallo
D'angeli
Corallo-medusa
Immobili
Su rami d'aria

Veglia l'ultimo
Sogno
Di roccia e bosco
*
genseki

sabato, novembre 25, 2006

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César Vallejo

Quelle che seguono sono altre tre poesie di Vallejo. Sono tratte dalla sua prima opera "Araldi Neri" (1918). Una raccolta che è considerata ancora immatura, e troppo scolasticamente legata ai modelli del modernismo di Dario e di Herrera.
Credo che vi si trovi, invece, un Vallejo più innocente, più fiducioso, più dolce ma altrettando rigoroso nel rifiutare la letteratura come bellezza, c quindi come consolazione. Le parole di Vallejo pesano come le montagne, la natura è ostile alle parole, la materia si ribella alla maliconia, il paesaggio al senso; la parola non è già piú un rifugio. Il passo e la respirazione sono quelli di Parigi.

Altre traduzioni di Vallejo in http://turcimanno.blogspot.com/


Foglie d'ebano

Brilla la sigaretta
Si ripulisce in polveri d'allerta
Con una smorfia gialla
Intona il pastorello
Il tamarindo dell'ombra sua defunta.
Affoga in un energico negrore
Tutto il casone
La muffita eleganza di bianchezza
Pena un fragile aroma d'acquazzone.
Tutte le porte sono molto anziane
E muffisce nel sigaro tarlato
Un'insonne pietá di mille occhiate
Io le ho lasciate proprie
E oggi son fiorite ragnatele
Fino nel cuore delle loro travi.
Ombre coagulate sanno a oblio
Quella d'ingresso
che entrare mi vide, tremula e triste
Aprendo ambo le braccia
Stridente come un pianto di allegria
Che esiste in ogni fibra
Per quell'occhio che ama, una dormiente
Perla fidanzata, una lacrima celata.
Con non so che memoria si confida
Il cuore ansioso
Signora? ... Si, Signore: morì in paese;
La vedo ancora avvolta nel suo scialle...
E la nonna amarezza
Di un canto nevrastenico di paria
Oh! La sconfitta musa leggendaria!
Affila i suoi melodici torrenti
Sotto l'oscura notte
Come se, sotto, sotto,
Nele fosca pupilla di pietrame
Di sepoltura aperta,
Celebrando perpetui funerali,
Si spezzassero fantastici pugnali
Piove...piove sostanza d'acquazzone
Riducendo a funebri sentori
L'umore di appassiti crisantemi
Che veglian tahuashando sul sentiero
Senza cappello nel poncho di gelo.
Gli Araldi Neri
1918

*

Nostalgie imperiali

Nei paesaggi di Maniche ara
Imperiali nostalgie il crepuscolo
Va seminando razza il verbo mio
Come stella di sangue a fior di muscolo,
Rintocca il campanile...non si apre
La cappella... come un opuscolo
Biblico che morendo va in parola
D'asiatica emozione nel crepuscolo.
Un poyo con tre potos son l'altare
Dove stan sollevando labbra a coro
L'eucarestia di una chicha d'oro
Piú il lá dai ranchos si solleva il vento
Il fumo che di sogni e stalle ha odore
Come nell'esumare un firmamento.

*

L'anziana pensierosa come statua
Di un blocco preincaico fila e fila
Tra le dita di madre il fuso lieve
La lana grigia di vecchiezza stira.
Negli occhi di sclerotica di neve
Un cieco sol oscuro guarda e mutila...!
Disdegnosa la bocca e il calma attiva
La stanchezza imperiale forse è all'erta.
Ficus vi son capelluti che meditano
Incaici trovatori posti in fuga
Rancida pena della croce idiota
Nell'ora rossa che sta giá fuggendo
E si fa lago che salda rudi specchi
Dove naufrago piange Manco-Capac.

*

I dadi eterni

Mio Dio piangendo resto l'essere che vivo
Mi pesa aver accettato il tuo pane
Ma questo misero fango razionale
Crosta non è fermentata al costato
Tuo che non hai Marie che ti abbandonano!
Mio Dio, se fossi stato uomo sapresti essere Dio;
Ma tu che fosti sempre senza pena
Non senti nulla della tua creazione.
E l'uomo, si, ti soffre de egli è il Dio
Oggi che negli occhi miei maghi ardono ceri
Come in un candannato
Mio Dio prenditi tutte le candele
E giocheremo con il vecchio dado...
E, forse, o giocatore, al dar la sorte
Dell'universo tutto,
Sorgeranno le occhiaie della morte
Come due assi funebri di fango.
Mio Dio questa è una notte sorda e scura
Non potrai più giocar perchè la Terra
É un dado consumato e ormai rotondo
Per il gran rotolare all'avventura
E non potrá fermari che in un fosso
Il fosso d'un'immensa sepoltura.

*
Trad. genseki

martedì, novembre 21, 2006

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La sintesi degli opposti II

Il testo seguente di Efrem Siro, Padre della Chiesa, sembra l'esposizione poetica della tesi di Ibn Arabi che sulla sintesi degli opposti e questo è uno dei tenti piccoli esempi di come le radici si diramino, nella vita dello spirito in direzioni imprevedibile ai neocristiani o cristianisti e a tutti i cultori dell'esclusivismo culturale.
genseki

Inno contro Bar-Daisan

C'è un Essere, che conosce se stesso e se stesso contempla
In se stesso abita
Da se stesso di diffonde.
Gloria al Suo Nome.
Per Sua propria volontà è in ogni luogo
Invisibile e visibile
Manifesto e nascosto
In alto si trova,
In basso.
Familiare e generoso della Sua grazia con gli umili,
Per questo si eleva piú sublime, è esaltato come alla Sua Gloria conviene, al di sopra dei grandi.
Il piú rapido non eguaglia la sua velocità
Il piú lento non esaurisce la sua pazienza
Egli precede tutto e tutto segue
È nel centro di tutto.
Egli è quel mare,
Nel quale nuota tutta la creazione.
Come le acque avvolgono i pesci in tutti i loro movimenti,
Cosi il Creatore si veste del creato,
Con il grande e con il piccolo.
Come i pesci si nascondono nelle acque
Così si celano in Dio altezza e profonditá,
Prossimitá e lontananza,
Con ciò che vi dimora.
E come l'acqua si ritrova con i pesci dovunque vada,
Così Dio si ritrova con chiunque cammini.
E come l'acqua tocca il pesce in qualunque rotazione,
Così Dio accompagna e osserva ogni uomo in ogni sua azione.
Gli uomini non possono muovere la terra, che è il loro carro,
E nessuno, si allontana dall'Unico Giusto, che è il suo socio.
L'Unico Buono è unito al corpo,
È la luce dei suoi occhi.
Nessun uomo puó sfuggire alla sua anima,
Essa resta con Lui
Nessun uomo si cela al Buono
Giacchè questi lo avvolge.
Come l'acqua avvolge il pesce e questi la percepisce,
Così tutte le nature percepiscono Dio.
Egli si diffonde nell'aria,
Il suo respiro entra nel tuo intimo
Egli è una cosa sola con la luce,
E quando guardi ti penetra negli occhi
Egli è una sola cosa col tuo spirito,
Ti osseva da dentro, per sapere chi sei.
Egli vive nel tuo spirito
E nulla v'è che ignori del tuo cuore
Come la mente precede sempre il corpo
Così Egli esamina la tua anima prima di te.
E come il pensiero precede sempre l'atto
Così il pensiero suo conosce i tuoi progetti.
Comparato con la sua impalpabilitá,
È corpo la tua anima, spirito la carne tua.
Egli, che ti creó, è l'anima dell'anima tua
Spirito del tuo spirito,
Distinto da tutto
A tutto resta unito,
E manifesto in tutto,
Un gran prodigio, una meraviglia nascosta.
Egli è l'Essere la cui essenza nessun uomo sa spiegare.
Egli è il Potere la cui profonditá è inesprimibile.
Tra le cose viste e quelle nascoste
Non v'è nulla di comparabile a Lui.
Egli è colui che creò e formò dal nulla
Tutto quello che è.
Dio disse:
Sia fatta la luce!
Una cosa creata.
Egli fece l'oscuritá e cadde la notte.
Osserva: una cosa creata.
Fuoco nelle pietre,
Acqua nelle rocce:
L'Essere le creò.
C'è un potere che le trasse dal nulla.
Contempla
Anche ora, il fuoco non si accumula nella terra
Guarda! Sempre è di nuovo creato
Per mezzo delle pietre focaie.
Egli è quell'Essere che produce la sua Essenza
Da se stesso, e che la sostiene
Quando vuole la accende,
Quando vuole la spegne
E ottiene l'attenzione dell'ostinato.
Nel grande pioppeto si accende un fuoco per frizione di legna
La fiamma divora,
Cresce in forza,
Per finir soccombendo.
Se fuoco e acqua sono Esseri e non creature,
Dove stavano le loro radici?
...
trad. Genseki

domenica, novembre 12, 2006

La sintesi degli opposti


Al-Jarraz che era uno ei molteplici aspetti dell'Assoluto e una delle sue molte lingue, disse che Dio non può essere conosciuto se non si predicano di lui gli opposti in maniera simultanea. Così l'Assoluto è il Primo e l'Ultimo, Esterriore e Interiore. È, semplicemente quello che appare esternamente occultandosi internamente, considerando che proprio nel momento in cui appare esternamente si occulta intrenamente.
Nessuno vede l'Assoluto se non l'Assoluto stesso, e, tuttavia, l'Assoluto non si cela a nessuno. È l'Esteriore che si manifesta a se stesso.
...
L'Interiore contraddice all'Esteriore quando questi dice "Io". Lo stesso avviene con tutte le coppie di opposti. In tutti i casi chi dice qualche cosa é uno, chi ode è il medesimo. Questo ragionamento si fonda sulle parole del Profeta: "e quello che le loro anime dicono loro", dove si vede chiaramente che è l'anima quella che dice e nello stesso tempo quella che ode, colei che conosce quello che ha detto. L'essenza è una, molteplici gli aspetti. Nessuno puó ignorarlo, tutti ne siamo consapevoli nel nostro intimo, nella misura in cui siamo forme dell'Assoluto.
Ibn Arabi
Fusus al-Hikam

venerdì, novembre 10, 2006

Vi fu un tempo


Vi fu un tempo in cui si ammazzavano i bambini nel sonno, li si bruciava vivi, in un lampo. Poi si chiedeva scusa e tutto era dimenticato.


Al-Muntaqimu

Nominerò i vostri nomi ad uno ad uno
Voi che non avete piú occhi
Per la mia cecitá
Per l'opacità di questa luce opaca
Per la mia opaca cecitá
Per la luce delle vostre pupille vuote
Nominerò i vostri nomi ad uno ad uno
Perchè sono i piú belli di tutti i nomi.
Il nome più bello di Dio è il Misericordioso
Questo è il piú bello di tutti i Nomi
Ma i vostri nomi sono nominati
Nella Sua misericordia
Perché davvero egli è il Compassionevole.
Non ci sono piú altri nomi
Non c'è piú altra luce
Oltre la luce opaca
Che ferisce i vostri occhi perduti
Occhi come pietre
Occhi come foglie
Occhi come perle
Come monete
Per pagare anime
Scorre la catena dei vostri Nomi
Si sgrana il rosario dei vostri Nomi
Come i fiumi, come le cose che emanano
Dall'assoluti immoto
Secondo le parole
Dei filosofi antichi
Nomi perle
Nomi di Rondini
Nomi di frutti maturi
E di cuccioli
Li nomineró tutti i vostri nomi
Che sono i nomi di Dio
I piú belli di tutti i Suoi Nomi
Il piú bello dei nomi di Dio è
Il Vendicatore
I vostri nomi saranno come stelle
Nel giorno della sua vendetta.
genseki

giovedì, novembre 09, 2006

Beit Hanoun


Il nostro concetto di tempo si fonda sulla successione, quello di spazio sulla simultaneitá e stabilitá; solo quando la successione si fa stabile si puó penetrare nell'autentica realtá. Il tempo non è uno sviluppo lineare dal passato al futuro, quanto piuttosto una sfera. Per questo esistono uno spazio e un tempo sottili che hanno un significato autentico, di fronte al tempo e allo spazio opachi che sperimentiamo nel mondo dell'apparenza.
Qazi Said Qommí

Nella sfera del tempo della realtá i volti bestiali delle SS e quelli dei soldati di Israele intenti a massacrare donne e bambini stanno gli uni accanto agli altri. Sono intercambiabili, nulla li separa. Il ghigno fosco dell'odio annulla tempo e spazio. Entrambi sono dentro di noi sorridono addentandoci i polmoni. Le lacrime dei bambini sono la sfera del tempo.
Nella Realtá che porta il sigillo della Veritá, prego, che incontrino eterna consolazione.
genseki

Beit Hanoun

mercoledì, novembre 08, 2006

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Alejandra Pizarnik

Dai "Diari"
Traduzione e scelta a cura di genseki

Poche righe quelle che seguono dai "Diari" di Alejandra Pizarnik pubblicati dall'Editore Argentino "Lumen". Pagine di confusione e di dolore. Anche, peró, laboratori di una parola che non cerca nessuna seduzione, una parola solitaria, ruvida, oltre la consolazione dell'arte, oltre la facilitá della conciliazione. Ricorrono le fiamme associate al volo, il mare come origine e purificazione e la gabbia protagonista di avventurose, memorabili metamorfosi. Tutto questo tra ingenuitá di un'adolescente apprendista di dolore.


Il sole. Sempre il sole a fendere il mattino. Per la mia voce, per la mia danza, un feretro a motor lacrimale. Per la mia trascendenza un test dellaccademia psicoanalitica. Per la mia sete sacra un vestito nuovo, sigarette di importazione, un'aria bohemienne che annuzia la rogna degli ospizi. Un unico problema. Tra i miei desideri e la mia realtá un ponte che non so attarversare. Da qui il nulla.
Ho preso assolutamente coscienza del fatto che non posso vivere la mia vita.
Non posso vivere come un essere umano.
*
Musica infinita con velo biance esce dalla tasca del mezzogiorno. Gli atti ballano la giostra dell'assurdo e una paurosa necessitá di essere sequestra una giovane donna dalla chioma silenziosa che vorrebbe accendersi de esplodere in un istante come un fuoco fatuo.
*
I sogni si siedono sul mondo...
*
Volano treni. Gli ucceli vestono finimenti e fuggono verso la pianura per cercare la donna folle che ha appena rubato il fuoco. Lui le taglia il seno e lo divore mentre un intero popolo di umini-scimmia piange sulle reive del Swaney River. Lui sputa le sue ossa. Rintocchi di campane a morto. Il bechino del cielo si inginocchia davanti al mio ritratto e chiede perdono.
*
Il portiere in fiamme illumina l'insegna della morte perchè anche la gabbia ha ereditato la vocazione al perdono.
*
Una famiglia di rondini si spoglia sul Mar del Plata. Se lo bevono tutto, il mare.
*
La luce ha gambe, la notte testicoli, la luna splende con cosce di zingara gravida.
*
Essere eterna per un secondo...
*
Non dubito che le stelle malvage divorino le stelle buone, che i fiori grassi divorino i fiori magri, che il deserto di cenere divori il deserto in fiamme. Non dubito di nulla. Solo una tregua, solo una tregua. Allora crederò in tutto, anche in me stessa.
Voglio essere quella che sono -disse,
La mia ombra,
Il mio nome,
La mia carenza.
Tutto si riduce
A un sole morto.
Tutto è mondo
E solitudine
Come animali
Distesi nel deserto.
*
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martedì, novembre 07, 2006

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Melancholia

Ficino come è ben noto fu tormentato per tutta la vita dalla melancolia saturnina. Che la melancolia corrisponda a quella infermitá paralizzante la volontá che oggi è chiamata depressione non é, a parer mio cosa del tutto certa. Le malattie dello spirito variano profondamente nel tempo e nello spazio. La “Melancolia” era per Marsilio il tratto distintivo del genio creatore o comunque del filosofo e dell'uomo di lettere. Questa non è una caratteristica che si possa attribuire alla depressione che colpisce, piuttosto, piazzisti e segretarie.
Comunque le medicine che egli propone come efficaci nell'alleviare il dolore hanno in se stesse il sapore della poesia.
Sono opere d'arte di botanica e elevano la pratica dello speziale a vera e propria arte che evoca suoni, colori, regioni lontane, tramonti, variare di verde nei campi.
Eccone qui due diverse:

In primo est syrupi optimi compositio, in secundo pilulae pro-batissimae, in tertio electuaria saluberrima. His tribus opportune adhibitis, melancholicus humor mollitur et digeritur atque solvitur, spiritus acuuntur et illustrantur, fovetur ingenium, memoria confirmatur. Syrupus est huiusmodi: sume boraginis, buglossae, florumque utriusque, melissae, capillorum Veneris, endiviae, violarum, cuscutae, polypodii, senae, epithymi, singulorum quantum manu capitur, pruna Damascena numero vi-ginti, odora poma numero decem, passularum unciam unam, liquiritiae un- ciam dimidiam, cinnami, sandali rubri, corticum citri, singuorum drachmas tres, croci drachmam dimidiam. Coquantur in aqua omnia praeter epithy-mum et aromata, donec pars tertia consumatur. Decoctio expressa post cum saccharo iterum et epithymo moderate coquatur. Postremo infundantur aro-mata, scilicet cinnamum atque crocus. Huius syrupi aurora calefacti unciae tres bibantur, simulque unciae duae aut tres aquae buglossae, atque una cum his ex sequentibus pilulis accipi debent duae saltem ac plures, prout cuique convenit, eo scilicet pacto ut alvus quotidie paulum moveatur.
*
Pillularum vero, quantum ad propositum spectat, duo sunt genera: aliae delicatis congruunt, robustioribus aliae. Primae aureae sive magicae no-minari possunt, partim Magorum imitatione, partim nostra inventione sub ipso Iovis Venerisque influxu compositae, quae pituitam, bilem, atram bilem educunt absque molestia, singula membra corroborant, spiritus acuunt et il-luminant. Ita eos dilatant, ne constricti maestitiam pariant, sed dilatatione et lumine gaudeant; ita rursus stabiliunt, ne extensione nimia evanescant. Sume igitur auri grana duodecim, maxime foliorum eius si pura sint, thuris, myrrhae, croci, ligni aloes, cinnami, corticis citri, melissae, serici crudi coc-cinei, mentae, been albi, been rubei, singulorum drachmam dimidiam, ro-sarum purpurearum, sandali rubri, coralli rubri, myrobalanorum trium, sci-licet emblicarum, chebularum, Indarum, singulorum drachmam unam, aloes rite ablutae tantundem quantum cunctorum pondus. Confice pilulas mero quam electissimo. Sequuntur pilulae ad solvendam melancholiam aliquanto validiores, ve-rumtamen minime violentae. Sume paeoniae, myrrhae, stichados Arabici, melissae, thuris, croci, myrobalanorum trium, scilicet emblicarum, chebula-rum, Indarum, rosarum, singulorum drachmam unam, trochiscorum agarici, polypodii, epithymi, senae, lapidis lazuli loti rite et praeparati, lapidis Ar-meni affecti similiter, drachmas tres singulorum, aloes lotae uncias duas; vino perfecto pilulas confla. Si cum melancholia manifesta caliditas dominetur, quae in hac compositione sunt frigida, ad tertiam insuper ponderis sui partem augenda erunt. Has pilulas, ut litterarum studiosis convenit, Graecorum, La-tinorum Arabumque imitatione composui. Nolui vero fortiora miscere, qualeveratrum, quo Carneades phanaticus utebatur. Viris enim litteratis tantum vel paulo firmioribus consulo, quibus nihil pestilentius est quam violentia. Ideo praetermisi pilulas Indas lapidisque lazuli vel Armeni notas et quam compositionem hieralogodion appellant. Si denique decet simpliciorem compositionem inserere qua ego familiarius utor, sume aloes lotae unciam unam, myrobalanorum emblicarum atque che-bularum, utriusque pariter drachmas duas, masticis drachmas duas, duas quoque rosarum, praesertim purpurearum; confice pilulas vino. Proinde pi-lulis aut iis aut illis, ex iis scilicet quas probavimus, nemo unquam solis uti debet, ne forte nimium exsiccetur, quod quidem in melancholia pessimum est; immo vel una cum syrupo quem secuti partim Mesuem, partim Genti-lem Fulginatem supra descripsimus, vel cum vini odori levisque uncia una sive duabus sive tribus, ut cuique convenit, aut cum aqua mellis et passu-larum atque liquiritiae aut, sicubi caliditas dominatur, cum iuleb violaceo aquaque violacea. Omnino autem consulo litteratis, quicunque ad atram bilem sunt pronio-res, ut hac purgatione bis quolibet anno, vere scilicet autumnoque utantur diebus quindecim continuis vel viginti, pilulis scilicet cum syrupo atque si-milibus. Quicunque vero paulo minus huic morbo obnoxii sunt, sat habe-bunt si pilulas primas aut ultimas toto anno sumant semel hebdomada qua-libet, aestate quidem cum iuleb, ut diximus, alias vero cum vino.


Entrambi gli esempi sono tratti dall'opera: « De Vita »

lunedì, novembre 06, 2006

Alejandra Pizarnik


Dal Diario

Le righe seguenti sono tratte da una pagina di Diario di Angela Pizarnik dedicata in gran parte a César Vallejo:

"Caro Vallejo! Mio amato poeta triste! Tu con le tue ossa affamate, i capelli disordinati, il pomo d'Adamo anelante, la schiena spezzata, e la sensibilitá scabra, e l solitudine e il sesso balbuziente e la solitudine e l'occhio vestito di grigio e la solitudine e il caro pianto di sempre e la solitudine e i colpi della vita tanto forti e la solitudine e il non lo so, il perché di tanto male di tanti colpi duri e crudeli, di tanta sporcizia in gioco e il nulla e l'orrendo mefistofelico bastone cui non ci si deve appoggiare e il benedetto Iddio che cammina al tuo fianco e il terribile esilio degli eterni fuggitivi e le lacrime calde una dopo l'altra fino all'ultima equazione impossibile e le dolci scimmie di Darwin che agitano venti dita a testa e il tric-trac delle ossa che chiedono un pezzo di pane ove sedersi e e e e la solitudine il pianto l'angoscia il nulla la solitudine!!!! Amatissimo, carissimo César!!!! Fino a quando!!
Per sempre?? Piango.

Giugno 1955
ed. lumen, pag. 25
trad genseki
*

Nel blog http://turcimanno.blogspot.com si trovano le traduzioni di Vallejo cui ho lavorato nell'ultimo anno.

giovedì, ottobre 26, 2006

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Plotino

Enneade V, 2
Cogitare debet inprimis omnis anima, animam ipsam animalia omnia effecisse, inspirantem eis vitam: fecisse inquam, viventia omnia, quae nutrit tellus, et quae mare, quae in aere sunt, et quae in coelo stellae divinae. Anima solem, anima ingens hoc caelum, exornavit, ordine que perpetuo ducit, exsistens profecto natura quaedam ab his diversa, quae ornat, quae movet quibus suggerit vitam: ideoque necesse est his omnibus esse praestantiorem: quippe cum haec et oriantur, quando anima suppeditat vitam, et occidant, quando destituit: ipsa vero sit semper, propterea, quod nunquam deserit semet ipsam. Quis autem modus sit vitae suppeditandae cum universo, tum singulis animalibus, ita potissimum cogitetur. Consideret itaque ingentem animam alia quaedam anima, non parvam in considerando dignitatem adepta, a deceptione videlicet libera, et ab his omnibus, quae ceteras animas fascinare consueverunt, ideoque in habitu quodam quietissimo constituta: non solum vero quiescat illi circumfusum corpus corporisque procella, verum etiam, quicquid extrinsecus ambit, undique conquiescat. Torpeat ergo terra et mare aerque, et ipsum caelum praestantissimum. Excogitet mox in torpentem eiusmodi molem undique aminam extrinsecus influentem penitusque infusam et omnia penetrantem nec aliter illustrantem, quam solis radii obscuram caliginem illuminare soleant, nubesque saepe aspectu aureas reddere: sic itaque anima caeleste corpus ingressa dedit vitam, dedit immortalitatem, torpens protinus excitavit. Hoc autem motu perpetuo agitatum sapientis animae ductu beatum animal est effectum, ...
trad. Marsilio Ficino
*
Ogni Anima deve pensare, per prima cosa, a come essa stessa fu quella che generó tutti gli animali, insufflando in essi la vita: a come generó tutti gli esseri viventi che nutre la terra e che si trovano in mare, nell'aria e nel cielo degli astri divini. Generato dall'Anima è anche il sole e quell'immenso cielo cui diede bellezza e regolare rotazione. Eppure la sua esistenza è di natura diversa da quella delle cose cui dona bellezza, movimento e vita; essa, infatti, ha maggior valore di tutte queste, dal momento che tutte le cose sorgono quando l'anima fornisce loro la vita ma devono poi perire quando essa gliela sottrae, mentre l'Anima continua ad essere sempre e non puó privarsi di se stessa. Chi fornisce la vita all'universo e ai singoli essere non puó non essere considerato potentissimo. L'Anima, infatti, puó contemplare la grande anima, è capace di questo non piccolo onore, quando, lontana dalle delusioni e da tutte quelle cose che di solito affascinano le altre anime riposi finalmente in somma quiete. In questo riposo si quieta non solo il corpo che fluendo la circonda e le tempeste corporali, ma tutte le cose esteriori si calmano. Dormono la terra e il mare e l'aria e la stessa immensa potenza del cielo. Si pensi allora l'Anima come quella che penetra in questa mole addormentata come dall'esterno e si diffonde ovunque e ovunque porta la luce come il sole suol illuminare l'oscura caligine e rendere d'oro le nubi. Allo stesso modo, l'Anima penetrando nel corpo celeste, gli diede vita, lo rese immortale, risveglió il dormiente. Guidato dall'Anima in perpetuo moto, il cielo divenne un animale beato, ...
trad. genseki
*

lunedì, ottobre 23, 2006

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Poesie di genseki


Tatuavano la tua pelle viti antiche

Viti autunnali
A ricamare i fianchi
A coronare i seni trasparenti
Pampini
Pallida

Bianca
Nel ricordo felino
Balenavano denti solari
Tra erbe taglienti
Distesa nell’ultima ombra
Ti rivedo
Un piede abbandonato
Nel torrente

*

Questa fu soltanto

L’ultima delle tue forme
Nel ricordo
Ci furono – anche –
Corse tra le canne
Scivoloni su ciottoli
Muschiosi
Il suono delle pietre
Lanciate nel Boschetto di Bambú
A inaugurare
La festa d`autunno
Con uno xilofono vivente

Mentre disponevo una zucca matura
Tra le castagne
Un raggio di sole
Obliquo
Illuminava a neve i tuoi capelli

*

Bianco il tuo scudo
Bianco il tuo mantello
Bianca la polpa
Bianco zibellino
A fasciare le pallide caviglie.

*

genseki
23/10/2006 19:27

mercoledì, ottobre 18, 2006

Ti amavo, bianca



Ti stringevo bianca,bianca e cedevole
Ti stringevo per sentire le ossa
E avrei voluto plasmarle le calde
Ossa, ostie del corpo bianco
Le tiepide ossa di argilla
Le tue ossa come pane
Bianco
Le tue ossa come carene
Di battelli, di voli, di profili
Di bianca dolcezza
Ti amavo, bianca
Per la tua ferita
Che non sapeva sanguinare
Tra le mie braccia.


*

Con un kesa con una khirba
Coprirò questa terra
Coprirò le sue ossa
Nello scorrere incessante dei nomi
Menzionerò le sfere dei palmizi
Le fiamma delle atalaye
Perdute
Quando una nota nasale
Apre la porta dell’Iran
Nevica sugli abeti
Nell’arcipelago
Con un kesa
Con la khirba coprirò questa terra
Resterò qui
Vegliando le sue ossa.

*

All’incrocio di mille incendi
Sta questo giardino
Dove entrano i portatori dei mantelli
Avvolti nei loro mantelli
Reggendo il peso dei loro infeltriti mantelli
Quando la luna sarà
Simbolo di rosa
E rosa
E rosa una brezza marina.

genseki
17/10/2006 22:5o

martedì, ottobre 17, 2006

La dichiarazione di Alamût


(Mowlana Alazikrihis-salâm) 8 agosto 1164

Il diciassettesimo giorno del mese de Ramazân dell’anno 559 dell’egira, sotto il segno della Vergine, essendo il sole nella costellazione del cancro, Imâm diede ordine che un scranno (minbar) fosse posto rivolto all’Ovest, sulla spiananta di Alamût) quattro stendardi furono fissati rispettivamente a ciascuno dei quattro angoli dello scranno. I compagni del Khorassan furono posti destra della scranno. Quelli dell’Irâq persiano alla sinistra. I Daylamiti e i compagni di Rûdbar furono sistemati proprio di fronte. Nel mezzo, davanti allo scranno, fu posta una piattaforma e il faqîh Mohammad Bostî ricevette l’ordine di restae su questa piattaforma. Verso mezzogiorno, il gran maestri (Khodâvand) 'alâ dhikri-hi's-salâm vestito con una tunica bianca e con in capo un turnabte bianco, discese dalla Rocca di Alamut. Si avvicinò allo scranno da destra e ne salì gli scalini con lentazza e maestà. Tre volte, egli espresse i suoi saluti ; una prima volta ai Dalamiti davanti a lui, una seconda volta volendosi a destra, una terza volta volgendosi a sinistra. Per un momento restò seduto sui talloni. Poi si drizzò in piedi, passò il cinturone cui era sospesa la sua spada, e, a voce alta lesse questo proclama :

“Alzatevi, perchè il giorno della Resurrezione s’è levato. L’attesa del Segnale compiuta, Ecco giunta la Resurrezione che è il culmine di tutte le resurrezioni. Oggi non si devono più cercare prove nè indizi; oggi la Conoscenza non dipende piú dalle Scrittre, nè dai discorsi, nè dai simboli, nè dagli atti di devozione che piegano il corpo. Oggi, gli atti e le parole, i segni e i simboli, sono giunti al termine di tutti i termini. Colui che con i suoi occhi ha contemplato l’essenza in persona, quegli ha contemplato con i suoi occhi la totalità dei segni e degli indizi di tutte le Rivelazioni, mentre quello che ne conosceva attraverso nomi e qualificazioni ne era il contrario e l’opposto, quello che continuava a restare nascosto dietro un velo”. “O voi, esseri che popolate gli universi! Voi geni, uomini e angeli ! Sappiate che Mawlana è il resurrettore. Signore degli esseri, Signore che è l’esistemza assoluta, che esclude ogni determinazione esistenziale, perchè le trascende tutte. Egli apre la porta della sua Misericordia, e grazie alla luce della sua Conoscenza, fa in modo che ogni essere sia veggente, udente, parlante, vivente per l’eternitá”.
“Colui che sa ha il dovere di lodarLo e di ringraziarLo, anche se Egli trascende tutto ciò, perché Egli è lode a Se stesso, Egli è per Sua essenza Colui che conosce”.

Dopo questo, l’Imam pronunció una prima esortazione. Poi diede letturan della copia dell’epistola che comincia con queste parole: “Noi siamo gli eternamente esistenti al presente...”

A cura di genseki

*

Laura Silvestri


Perché il faro lo ha fatto costruire un tizio, un artista, trasportando sul continente da navi e vagoni tonnellate di lastre di ferro predisposto alla ruggine, a farsi brunito e scorticante, fastidioso alla vista. Un pozzo sotterraneo lo blocca ancorandolo ai ghiacci e alla terra incrostata, ancora adesso ogni tanto mi sembra di sentirli sfrigolare e spaccarsi e quella vibrazione sale su, agrappandosi alle spire della scala interna e arriva fino alla stanza bianca, perfino i vetri ne crepitano ... Dunque il tipo vadicendo che qua sotto quella buca è simile a un immenso recipiente dove cuociono come in un grande uovo, una matrice gorgogliante, gli ingredienti del mondo, acqua zolfo seme mercurio e chissá cos’altro, insomma un bel minestrone, così me l’immagino, per sempre intento a riprodursi e maturare ed esalare, e il faro... il faro sarebbe la strada, lo stretto canale in cui quei fiumi, quegli spiritelli leggeri quando è il loro momento se ne scappano via, liberi finalmente, in corsa verso il cielo, facendo a gara a chi per primo tocca il vuoto. Così. Andarsene in alto, affinati e ripuliti, lubrificati quel tanto che basta alla fuga e alla visione. E dice, l’artista di aver preso l’idea da un tal gesuita che qualche secolo fa divenne famoso assicurando che avrebbe di lì a poco decifrato i geroglifici, ma ancor più idolatrato per uno strano museo delle meraviglie dove aveva raccolto di tutto, marchingegni per il moto perpetuo, giochi ottici, obelischi di legno, idoli, feti, bastoni di sciamani, animali impagliati. Per questo poi il faro non è più alto dei suoi trenta metri, non sia mai, come ammoniva il monaco, che crescendo in eccesso e arrivato a 178 miglia d’altezza cominci a pesare un po’ troppo e svellere non solo il suo pozzo nascosto ma perfino la terra dal suo asse.

Canti di lontananza
pp. 16-17

*

lunedì, ottobre 16, 2006

La dimora freatica

Thierry Metz


La dimora freatica

XV

Amore, mio frutteto
È l'albero il destino di chi veglia
Ospite suo
Congiunto
Dominano i suoi rami la sorgente.

Albero
Veemenza della spiga e della canna

*

XVI

Su terra senza vele
Conduci il temporale
Sassosa fecondi l'utensile e la giovine madre
Stagione della Svestita
Azzzurro nascente anticipa il mondo.

XVII

Nuvole e venti
Ostacolo è la sorgente.
E geyser
O tu che sgorghi in villaggi di sale
QUI non ha fondo.

XVIII

Aprire la dimora freatica
Esserci
In acque meditanti una cascata
Nulla v'è più di più fresco.




XIX

Azzurro d'acque sciolte
Fiume ove scende a bere
La nostra selvaggina
Fiume da cui si slancia
Risorgenza dell'astro
E dell'uccello.

XX

Da fertili pendii della poesia
Fino all'estreme frasi de' ghiacciai
Artesiana
Figlia tu del cipressp
Stupore della nostra sete.

XXI

Nell'ombra che spezza di netto
Lontano dal paese assetato
Un'ala ti rifrange
Cipresso
Demone folgorante del poema.


Lettere alla più amata

Ti scrivo da un'altrove nel quale non v'è altrove. La vita resta vita, morte resta la morte.
La voce non si volta, ritorna coi silenzi.
O con il peggio.

*

Tu lo sai che da sempre
Uno di noi si assenta
Per dimorare nella sua chiarezza
Nella sua lingua
Manovale o poeta
Ospiti d'una parola
Illuminata.

*
Intatto il muro
Il manovale resta legato solo a ciò che ha fatto
E che tiene.
Velato dalla morte
Che ogni presenza ci vela.

*

Scriverti? Fin dove? Fino al sonno? O fino ai girasoli?

*

Sto nelle mie parole. Fino alla scrittura. Appartengo al già detto, al sentiero. Così posso caricarmi il giorno sulle spalle e salire.
E partire.
Verso la casa della mie mani.

*

Non ho che le mie mani, e più in alto il mio nome… sogno sotto la terra.

*

Talvolta la scrittura, come un vuoto, un secchio che non dobbiamo rovesciare.

*

Tanto vale disfarsi
Di ogni parola
Che l'anima avrà
Rivolto alla morte.

*

Se lo vuoi abiteremo questo piccolo libro (doveva essere una lettera) con matite colorate e carta da disegno, con giornate di pioggia e di sole che si passano il plico da una mano all'altra, fino a farlo pervenire al rabdomante o all'idiota, a colui che tutti deridono, ma che vive, lui in un dimora inversa, dipinta e ridipinta con la calce ove la morte può entrare e uscire come vuole, con chi vuole.

*

Una vocina che conosciamo bene ci visita ogni sera. Voce di bimbo ci racconta ciò che accade laggiù, com'è la gente, che cosa vi si trova. Ci culla dolcemente, ci accompagna fino al sonno, ci chiude gli occhi.
No.
Niente di tutto questo.
Solo un'assenza inesorabile, inesauribile.
Solo una morte
E un nome:
VINCENZO.

Terra

Mi alzo
Devo cercare, continuare
Mi aggrappo alle nuvole.
Talvolta è come avessi
Perduto la parola
Parola che mi mette
Fuori di me
Ritorno sui miei passi
Ma non resta che l'ala
E l'albero
E la lepre
Soltanto una corrente
Che mi trapassa in voce. Mi volto
Per cogliere gli uccelli
Il cielo, però, non c'è più
È biancheria
Lenzuolo
Come se avessi seguito una dimora
Una ruota
Un altro secchio…

*

Villaggio di parole senza inchiostro
Villaggio puro di rovi tra i serpenti
Che si svegliano
Tra le nubi e l'impasto della calce.
L'olio
L'acqua
D'ogni parola
Non lungi dalla morte
Qui,
Pochi giorni senza uccello, senza
Il volto ritrovato di ogni uomo,
Tra platani, raccolto
Ben noto al sale, sul bordo del canale
È così
Una tavola
A tre assi dalla morte.

Trad. genseki

venerdì, ottobre 13, 2006

Khidr Elia

Incontri con Khidr



Ibn Arabi ebbe numerosi incontri con Khidr . Il primo avvenne quando era ancora studente a Siviglia. Egli aveva appena abbandonato il suo maestro Abu’l-Hasan al-Orvani con il quale aveva avuto uno scontro relativamente all’identitá di una persona cui sarebbe apparso il Profeta. A una svolta del cammino uno sconosciuto gli si avvicinó e gli disse: “Oh Mohammed! Abbi fiducia nel tuo maestro. Aveva ragione lui!” L’adolescente ritornó sui suoi passi per dire al suo maestro che aveva cambiato di idea. Appena lo vide questi lo apostrofó senza nemmeno lasciare che aprisse la bocca: “sarà necessario che ti appaia Khidr ogni volta che hai una discussione con me?”

Il secondo incontro avvenne sull’acqua, a Tunisi, nel porto, in una rovente notte di luna piena. Ibn Arabi dorme nella cabina di un battello ancorato nel porto, ma non dorme bene, una sensazione di malessere lo opprime. Esce dalla cabina, sale al ponte. L’equipaggio dorme. Per prendere aria si affaccia a un bordo ed ecco che vede avvicinarsi qualcuno che passeggia sulla superficie dell’acqua come fosse solida. Questa persona parla e discute a lungo con lui per poi scomparire in una grotta scavata in un monte a molti chilometri da Tunisi.
Il giorno dopo, uno sconosciuto lo ferma e gli domanda: “Allora, come è andata iei con Khidr?”

Ma l’incontro decisivo, il più importante avvenne nell’anno1204 a Bagdad. Dopo una breve sosta in questa città, Ibn Arabi si era diretto a Mosul attratto dall’insegnamento e dalla reputaione del maestro sufi Ali ibn Jami. Questi aveva ricevuto da Khidr in persona l’ordinazione e la trasmissione della Khirqa.

Scrive lo stesso Ibn Arabi: “Ali ibn Abdollah ibn Jami viveva in un orto di sua proprietá appena fuori Mosul. Quive Khidr lo aveva ordinato imponendogli la Khirqa in presnza di Qadib Alban. In quello stesso giardino ove Khidr lo aveva ordinato trasmettendogli il manto, egli, con la stessa cerimonia, ordinó anche me. Io ero giá stato ordinato, ma in modo indiretto, per mano di un amico Taquioddin Ibn Abdirrahman, che, a sua volta, aveva ricevuto la trasmissione da Sadroddin, Sceicco di Sceicchi in Egitto... il cui nonno la aveva ricevuta dalle mani del Khidr. Fu a partire da questo momento che cominciai a parlare dell’ordinazione del manto e a conferirla a certe persone, poi compresi la importanza che Khidr attribuiva a questo rito. Anteriormente io non parlavo di questo manto che ora è tanto conosciuto. Il manto, effettivamente, è un simbolo di fraternitá per noi, il segno che condividiamo la pratica dello stesso ethos.. Si é diffusa tra i maestri mistici il costume che, quando constatano qualche mancanza in qualcuno dei loro discepoli, lo Sceicco si identifica mentalmente con lo stato di perfezione que si propone di trasmettere. Una volta raggiunta questa identificazione, prende il manto che porta in quel momento preciso, lo toglie e ne copre il discepolo il cui stato spiritouale vuol perfezionare. Così lo Sceicco comunica al suo discepolo lo stato spirituale prodotto in se stesso, in modo che la sua stessa perfezione si realizzi nel discepolo. Tale è il rito della investitura, ben conosciuto tra di noi, e che ci è stato trasmesso dai nostri Sceicchi di maggior esperienza”.

Mariano Brull




Epitafio a la rosa

Rompo una rosa y no te encuentro
Al viento, asì, columnas deshojadas,
Palacio de las rosas enruinas.
Ahora – rosa imposible – empiezas:
Por agujas de aire entretejida
Al mar de la delicia intacta,
Donde todas las rosas
- Antes que rosa –
Belleza son sin carcel de belleza

***


Epitaffio alla Rosa

Spezzo una rosa eppure non ti trovo
Al vento, sì, colonne sfrondate,
Palazzo delle rose di rovine.
Ora cominci –tu, impossibil rosa –
Intessuta con gli aghi dello spazio
Al mare intatto di ogni delizia,
Ove tutte le rose
- Prima d’essere rose –
Bellezza son libera da bellezza.

***


La luna e il bambino giocano
Un gioco che non si vede
Si vedono senza guardarsi
Discutono con lingua muta.
Che si dicono, che tacciono,
Chi conta un, due, tre
Chi tre, due e uno?
Per tornare a cominciare?
Che restò dentro lo specchio
Luna per vedere tutto?
Allegro e solo è il bambino
La luna stende ai suoi piedi
La neve dell’albeggiare
E l’azzurro dell’aurora;
Sulle due facce del mondo
- una ascolta, l’altra vede -
Si spezza il silenzio in due
La luce si pone inversa
Senza mani van le mani
A cercare chissà che
Nel minuto di nessuno
Passa ció che mai non fu
Da solo gioca il bambino
Un gioco che non si vede.

Trad. genseki


El Nino y la luna

La luna y el nino juegan
Un juego que nadie ve
Se ven sin mirarse, hablan
Lengua de pura mudez.
Que se dicen, que se callan?
Quien cuenta una, dos y tres,
Y quien tres, y dos, y uno
Y vuelve a empezar después?
Quien se quedò en el espejo,
Luna para todo ver?
Està el nino alegre y solo:
La luna tiende a sus pies
Nieve de la madrugada,
Azul del amanecer,
En las dos caras del mundo
- la que oye y la que ve –
Se parte en dos el silencio
La luz se vuelve al revés,
Y sin manos, van las manos
A buscar quién sabe qué,
Y en el minuto de nadie
Pasa lo que nunca fue

El nino està solo y juega
Un juego que nadie ve.

Nel minuto di nessuno
Passa ciò che mai non fu

Da solo gioca il bambino
Un gioco da nessun visto

martedì, ottobre 10, 2006

Poesie di genseki

Il Cinghiale

Nel profondo del bosco dorme l’antico cinghiale. Da immemorabili abissi di passato dorme, il muschio è cresciuto tra le sue setole, le rosse lumache percorrono lentamente le sue zanne arancioni, le radici di un ceppo millenario incoronano la sua testa. Dorme e sogna. Il suo sogno è il bosco, dallo strisciare umido dei funghi, alla trasparenza lieta delle foglie novelle dei frassini. Le pietre grige, ricoperte dalle rune celestine dei licheni emergono secolo dopo secolo dal suo sogno. Sogna il cinghiale antico: cortecce e pigne, muffe e torrenti verticali di linfa, frulli di ali, penne di corvi.
Lontano dal cuore pietrificato del suo sonno, alla periferia del suo dormire il rombo del motore di un TIR suscita appena un’ impercettibile contrazione della sua palpebra scistosa.

genseki
10/07/04 21.34

Le città

Le antiche città di rame, città di colonne rosse, di vestiboli verdi, città di vasche di granito all’angolo delle piazze. Città roventi, dai vicoli umidi, su cui si affacciano casette dai tetti di paglia. Città di vasellame in terracotta e di tappeti profumati di polvere e sudore. Città di grida, di grida nasali, di grida stridule, di richiami, di fischi di tamburi dalle pelli ben tese, di tamburelli dai campanellini di stagno bianco. Città di danzatori nudi, dalla pelle decorata di cerchi rossi che scuotono i capelli a frustare le schiene e le braccia levate.
Città di torsoli e di cani scheletrici.
Città lontane dai neri boschi di abeti, dai boschi profumati di cedri d’argento. Città salmodiate accanto ai fuochi, città assediate dagli spiriti affamati dei venti caldi e secchi.
Città di pelli conciate, di otri freschi e stillanti, di rugiada sugli orti circondati di muri a secco.
Città di guglie cristalline, sottili come aghi, intraviste nei riflessi degli spruzzi di una cascata di montagna.
Città dai tetti aguzzi, dai tetti di legno nero, dalle facciate decorate di enigmi, città affacciate sui golfi d’acqua gelida e nera, sferzata dal vento che porta neve tagliente.
Città nella rete di rotaie, al centro delle ragnatele di binari che suddividono in spicchi la piatta steppa gelata.
Città trovate nei libri, città di parole su pagine ingiallite, vive soltanto nella memoria di un vecchio dagli occhi acquosi, dalle palpebre rosse, dalle dita macchiate di nicotina.
Città senza nome e pur conosciute per nome nell’infinita geografia dell’intelletto agente.


10/07/04 22.22





Lebbra

La città degli angeli lebbrosi si sfarina in polvere secca quando la sfiorano le ali di una farfalla decrepita.

10/07/04 22.25

Latino

Città i cui abitanti conversano in un latino umido e luminoso soto pergolati di vite dagli acini azzurri.

Dio

Vi sono città perdute negli abissi, nelle cascate vertiginose del tempo; città che solo Dio conosce, prima che siano o che non siano. Perché la conoscenza di Dio precede gli oggetti, quelli possibili come quelli impossibili.

Spilli

Le città impossibli a forma di spirali stanno in equilibrio sulla punta di spillo delle parole mai dette.

10/07/04 22.38

Rosa

Ci sono intere città nel cuore di una rosa. Quando essa si schiude suonano a distesa tutte le campane dei loro campanili. Il polline dei rintocchi feconda tutto il roseto.

10/07/04 22.44

***

venerdì, ottobre 06, 2006

Dogen












Il Drago Nero



Una parola, settenari o endecasillabi,
Per cogliere la veritá, la forma dell’universo -
Versi e parole mentono
Nella notte profonda
Sull’oceano infinito
Chiara luna risplende
Il monile del Drago
- Che è quello che cercate –
Ad Oriente si trova
Si trova ad Occidente
Eppure è in ogni parte.

Dogen

lunedì, ottobre 02, 2006

Súbita Morte


Si racconta in queste campagne che: - Nell’arsura mortifera della siccità i vecchi mandorli dal cuore nero come il loro tronco si coprono improvvisamente di cascate di fiori, fioriscono illimitatamente e, piegati dal peso immane dei frutti che tanti fiori han generato, subitamente seccano e restano così, scheletri neri sulla terra bianca, rune dimenticate su pagine d’arena.


Come i mandorli nell’arsura della siccità
Come i mandorli
Fioriscono in fresche nuvole di petali
Fioriamo in sguardi
In pensieri
In respiro
Anche noi
Dal tronco nero
Della nostra vita
Traendo
L’ultima fioritura
Magnifica
Corona fragrante
Di súbita morte.

*

Come un lampo
Intrecciato di mille fiori
Ci schiudiamo in bagliori
Sui rami neri
Del nostro sangue.

*

Fiorire
Solo è possibile
Con le ultime forze
Le estreme
Le riarse
L e prosciugate
Dal rigore
Impetuoso
Nel negarsi.

19/09/2006 19:56
genseki

Il Velo, Il Simbolo, la Poesia





















Ibn Arabi

La poesia è limitata ed è, per eccellenza, l'ambito del simbolo e dell'enigma. Nella stessa chiarezza dell'evidenza stanno il simbolo e l'enigma delle cose.

*

Nell'evidenza e nell'intuizione Mi nascondo da coloro che si accontentano dei veli.

*

La luce è un velo e anche l'oscurità è un velo. Nella linea fra entrambe troverai ciò che è di maggior profitto.

*

Dio mi disse: "Il silenzio è la tua realtà essenziale ... il silenzio non è altro che te stesso, anche se non si riferisce a te.
...
Con la parola ti ho creato e il verbo è la realtà essenziale del tuo silenzio, di modo che, anche se parli, taci.

*

L'alif rimane in silenzio mentre lettere parlano. L'alif rticola le lettere, però le lettere non articolano l'alif. Le lettere si combinano e si compongono a partire dall'alif e l'alif le accompagna sempre in modo non percepito.

A cura di genseki

venerdì, settembre 29, 2006

L'oscurità della luce


Dio mi disse:

- Hai visto come è oscura l'intensità di questa luce? Tira fuori la tua mano e non la vedrai! -
Tirai fuori la mano ed effettivamente npn la vedevo.
- Questa é la Luce, nella quale nessuno, tranne Me puó vedersi. Ho creato dalla Luce tutto l'esistente, tranne te che ho tratto dall'oscurità.

Ibn Arabi

a Cura di genseki

giovedì, settembre 28, 2006

Balkh





A cavallo delle nostre anime stremate
Un giorno viaggeremo verso Balkh
Tra le guglie rosse dei picchi di rame
Come isole nei laghi di agrumeti
All’orizzonte le sfere taglienti delle palme
Offriranno illusioni di riposo
Alle pupille inaridite

Ma noi le sproneremo, le nostre anime cammelle
Le nostre anime destrieri pezzati
Le nostre anime affamate
Taglienti come il volo scheletrico
Dei gabbiani
Con più rabbia, ancora,
Verso Balkh.

Berremo dai torrenti salati
Berranno la pelle di veluto delle correnti

Avvolti nel mantelli di sabbia bianca
Come gli occhi di un mendicante cieco
Seguiremo
- Quasi senza soste –
Smarriti e febbrili
La strada per Balkh

Come uccelli migratori
Dalle costole cave
Dal cuore a forma di mandorla
Beccando nel ricordo
Gli ultimi chicchi d’uva viola
Abbacinate da versetti marini
Voleranno verso Balkh
Le nostre anime.

Verso Balkh,
La madre delle cittá
Ove negli occhi dell’immenso
Buddha d’oro
Oscillano in una danza impercettibile
Le colonne di luce nera dei Profeti
Intrecciate ai riflessi dei nomi
Dei dodici Iman
Nelle calligrafie verticali
Delle ascese.

Nel tempio di fuoco
Dalle mura di fuoco
Dalle torri di fuoco
Nel giardino verdeggiante
Delle rose della prima rugiada
Pronunceremo, infine, il nome di Diotima.
A un soffio dalle sue labbra velate.

A Balkh
Saremo prossimi a noi stessi
Saremo il polso delle nostre vene
L’assenso che precede la domanda
Nel sole che rifulge verso Tabriz.

genseki

martedì, settembre 26, 2006

In una mano regge una candela





In una mano regge una candela
Un’ampolla nell’altra d’olio colma
Con l’altra ancora pietosa mi disseta
Volge la la testa e mi balena il sole
Il sole ulivo dai raggi cangianti
Di chiaro in chiaro fremente di rami
E sboccia il lume in iride di petali
Lanciati nel candore verticale
Ma l’Angelo distende il suo mantello
E discende la notte sopra il prato
Notte dolente tenebra odorosa
Del canto breve che l’anima esala.

genseki

giovedì 12 aprile 2001

lunedì, settembre 25, 2006

Fatima di Cordova



Una Dama di Siviglia

I primi maestri spirituali di Ibn Arabi furono donne, dapprima sua madre e poi sua moglie, in se
guito altre due figure rivestirono un ruolo decisivo nella sua abbagliante formazione: Yasmina di Marchena e Fatima di Cordova.
Quest'ultima fu per lui una guida essenziale nel cammino dell'Unione.

"Nonostante avesse piú di novant'anni", dice Ibn Arabi, "aveva un bel volto, i lineamenti regolari e le guance rosee di un'adolescente, di una quattordicenne".

Egli la ritrae come un'asceta rigorosa e come una mistica esemplare dotata di carismi innumerevoli, capace di fenomeni telepatici e di evocazioni misteriose e potenti dal mondo intelleggibile. Ella poteva giungere ad incarnare la Fatiha stessa.

"Servii come discepolo ad un gran adoratore di Allah, uno gnostico, una Dama di Siviglia chiamata Fatima bint ibn al-Muthanna, la servii durante vari anni. Aveva piú di novantacinque anni, suonava il tamburo e si compiaceva nel suo ritmo".

Con frequenza diceva: - Sono la tua madre spirituale e la luce della tua madre corporea -. Un giorno mia madre venne a vederla ed ella le disse: - O Luce, questo è mio figlio ed è anche tuo padre. Consideralo come tuo padre e non come tuo figlio, obbediscigli e non separarti da lui -"

Fatima è un lampo e un enigma nelle pagine della Storia e del pensiero, sorella di Diotima, o discepola sua nella catena misteriosa del tempo della trasmissione.

genseki

venerdì, settembre 22, 2006

Isabelle Eberhardt (1877-1904)




Svizzera di origine russa, si convertì all'Islam in Algeria, nella forma austera del Wahabbi.

« Etre sain de corps, pur de toute souillure, après de grands bains d'eau fraîche, être simple et croire, n'avoir jamais douté, n'avoir jamais à lutter contre soi-même, attendre sans crainte et sans impatience l'heure inévitable de l'éternité… » !

"Essere sana di corpo, pura da ogni macchia, dipo grandi bagni d'acqua fresca, essere semplice e creder, non aver mai dubitato, non dover mai lottare contro se stessi, attendere senza paura e senza impazienza l'ora inevitabile dell'eternitá".

Ebbe contatti con la confraternita sufi Qadiriyya, che svolgeva anche una attività anticoloniale e di assistenza ai poveri e ai perseguitati.

"Io mi sento tanto piú profondamente musulmana in quanto sono stata profondamente anarchica"

Una delle sue opere più belle e profonde si intitola: "Nella calda ombra dell'Islam".

Isabelle Eberhardtt amò profondamente una terra e una sapienza che non erano la propria, trovó la pace nell'abbandono di sé.

La sua conversione testimonia, per chi non vuole testardamente dimenticare che l'Islam non si propaga con la violenza.

genseki

giovedì, settembre 21, 2006

Yasmina

Di
Isabelle Eberhardt
1902


***
*


Ella era cresciuta in un luogo funereo dove, nel cuore della desolazione circostante, fluttuava l’anima misteriosa di aboliti milllenni.

Laggiù aveva trascorso la sua infazia, tra le grigie rovine, tra le macerie e la polvere d’un passato di cui ignorava ogni cosa.

La cupa grandezza di quei luoghi pesava su di lei come un carico troppo gravoso di fatalismo e di sogno. Così strana, così malinconica, tra tutte le fanciulle della sua razza: questa era Yasmina la Beduina.

I gourbis del suo villaggio si elevavano accanto alle rovine romane di Timgad nel mezzo d’un’immensa pianura polverosa, cosparsa di pietre senza età, anonime, macerie disseminate nei campi di cardi spinosi dall’aspetto malvagio, la sola vegetazione che potesse resistere al caldo torrido delle estati roventi. Erano di tutte le dimensioni, di tutti i colori quei cardi: ve n’erano di enormi dai grandi fiori azzuri, setosi tra le spine lunghe e acute, di più piccoli, stelline d’oro e tutti strisciavano coperti di fiorellini d’un colore rosa pallido. Qua e là uno stento cespuglio di giuggiolo o un lentisco reso rosso dal sole

Un arco di trionfo, ancora in piedi, si apriva in una curva ardita sull’orizzonte ardente. E colonne giganti, alcune coronate dai loro capitelli, altre spezzate, una legione di colonne dritte contro il cielo in una rivolta rabbiosa e inutile contro l’ineluttabilità della morte.

Un anfiteatro dai gradini recentemente liberati, un foro silenzioso, strade deserte, lo scheletro di una grande città defunta, tutta la trionfale gloria dei Cesari vinta dal tempo e riassorbita dalle viscere gelose di questa terra africana che lentamente ma inesorabilmente divora tutte le civiltà straniere o ostili alla sua anima…

All’alba quando lontano il Djebel Aurès s’iridava di luci trasparenti, Yasmina usciva dal suo umile gourbi e se ne andava lentamente attraverso la pianura spingendo davanti a sé il suo magro gregge di caprette nere e di pecore grigiastre.

Di solito ella li conduceva nella gola tormentata e selvaggia di un oued abbastanza lontano dal douar.


Là erano soliti raccogliersi i pastorelli della tribù. Yasmina, però, restava in disparte e non prendeva parte ai giochi degli altri bambini.

Passava tutte le sue giornate nel silenzio minaccioso della pianura senza preoccupazioni, senza pensieri, immersa in vaghi sogni, indefinibili, intraducibili in qualunque lingua umana.

Talvolta per distrarsi raccoglieva, sul fondo secco dell’oued qualche strano fiorellino risparmiato dal sole e cantava delle nenie in arabo.

Il padre di Yasmina, El Hadj Salem era già vecchio e curvo. Sua madre Habiba, a trentacinque anni soltanto non era ormai più che una vecchia mummia senza età, dedita ai duri lavori del gourbi e del campicello d’orzo.

Yasmina aveva due fratelli più grandi, entrambi arruolati negli Spahis. Li avevano mandati entrambi lontanissimo nel deserto. Sua sorella maggiore, Fathma, era sposata e abitava il douar principale di Ouled-Meriem. Al gourbi restavano soltanto i bimbi più piccoli e Yasmina, la maggiore, che aveva quattordici anni.

Così dall’aurora radiosa al malinconico crepuscolo, solo alloraYasmina rientrava con il suo gregge risalendo verso Timga illuminata dagli ultimi raggi del sole declinante. La pianura anch’esssa risplendeva in uno spolverio rossato dalle sfumature infinitamente delicate. E Yasmina se ne tornava cantando un lamento sahariano appreso da suo fratello Slimène che era ritornato per il congedo l’anno precedente e che lei amava molto.

Ragazza di Costantina
Che sei venuta a fare
Tu non sei del mio paese
Tu non sei fatta per vivere
Tra le dune abbaglianti
Ragazza di Costantina
Sei venuta e mi hai preso il cuore
E lo riporterai nel tuo paese
Hai giurato di ristornare, sul Nome dell’Altissimo
Ma quando ritornerai a El Oued,
Non mi ritroverai
Nella DIMORA DEI FIORI
Tu cercami allora in quella DELL’ETERNITA’

Lentamente la canzone lamentosa prendeva il volo nello spazio illimitato, lentamente il sole maestoso si spegneva sulla pianura.

Era tranquilla la piccola anima solitaria e ingenua di Yasmina, calma e dolce come quei laghetti puri che le piogge formano per un istante nelle effimere praterie africane, in cui nulla si riflette salvo l’azzurro infinito di un cielo senza nuvole.

Quando Yasmina rientò sua madre le annunciò che l’avrebbe sposata a Mohammed Elaour mercante di caffè a Batna.

Dapprima Yasmina pianse perché Mohammed era orbo e bruttissimo e perché era così rapido e imprevisto, quel matrimonio.

Poi si calmò e sorrise, perché era scritto. I giorni passarono; Yasmina non andava più al pascolo. Ella cuciva con le sue manine goffe il suo umile corredo di fidanzata nomade.

Nessuna delle donne del douar pensò a domandarle se fosse contenta di quel matrimonio. La davano a Elaour come l’avrebbero data a qualunque altro musulmano. Era nell’ordine delle cose, non c’era nessuna ragione di essere oltremodo contenta ma nemmeno di essere desolata.

Yasmina sapeva anche che la sua sorte sarebbe stata un poco migliore di quella delle altre donne della sua tribù perché avrebbe abitato in città e che avrebbe dovuto soltanto, come le Moresche, occuparsi della casa e allevare i bambini.

Solo i bambini qualche volta la prendevano in giro gridandogli: “Marte-el aour – la moglie dell’orbo!” Così evitava di andare a prendere l’acqua all’oued con le altre donne quando calava la sera. C’era una fontana nel cortile del bordj degli scavi, ma il guardiano roumi, impiegato delle belle arti non permetteva alla gente della tribù di attinngervi l’acqua pura e fresca e così erano ridotti a servirsi dell’acqua salmastra dell’oued dove passavano mattima e sera le greggi. Da qui l’aspetto malaticcio dellea gente della tribù continuamente colpita da febbri maligne.

Un giorno Elaour venne a dire al padre di Yasmina che prima dell’autunno non avrebbe potuto fare fronte alle spese delle nozze e pagare la dote della ragazza.

Yasmina aveva terminato il suo corredo e il fratellino Ahmed che l’aveva sostituita al pascolo, si era ammalato, ella riprese allora la sua attività di pastorella e le sue lunghe corse attraverso la pianura.

Continuva a seguire i suoi sogni di vergine primitiva che l’approssimarsi del matrimonio non aveva in nulla modificati.

Non sperava nulla e nulla nemmeno desiderava, per questo era felice.

C’era allora a Batna un giovane tenente distaccato dal Bureau Arabe, appena sbarcato dalla Francia. Aveva chiesto di venire in Algeria, perché la vita di caserma che aveva condotto per due anni dopo aver lasciato Saint-Cyr, l’aveva profondamente disgustato. Aveva un’anima di sognatore e di avventuriero.

A Batna, bene presto, era diventato cacciatore, per il bisogno di perdersi in quell’aspra campagna algerina che fin dall’inizio l’aveva particolarmente affascinato.

Tutte le domeniche, da solo, partiva all’alba, seguendo a caso le strade accidentate della pianura e talvolta gl’irti sentieri dei monti.

Un giorno, sfinito dal calore del mezzogiorno, spinse il suo cavallo nel burrone selvaggio ove Yasmina teneva il suo gregge.
Seduta su di una pietra, all’ombra di una roccia rossastra dove crescevano ginepri profumati, Yasmina giocherellava distrattamente con dei ramoscelli verdi e cantava un lamento beduino in cui, come nella vita, l’amore e la morte procedono fianco a fianco.

L’ufficiale era stanco e la selvaggia poesia del luogo gli piacque.

Quando ebbe trovato una sriscia d’ombra sufficiente a proteggere il suo cavallo, avanzò verso Yasmina, e, non sapendo che cosa fare, senza conoscere una sola parola di arabo, gli disse in francese:

- C’è dell’acqua qui intorno?

Senza rispondere, Yasmina si alzò per andarsene, inquieta, quasi selvatica.

- Perché hai paura di me? Non voglio farti del male, disse, già divertito da questo incontro.

Ella però fuggiva il nemico della sua raza vinta e se ne andò.

L’ufficiale la seguì a lungo con gli occhi.

Yasmina gli era apparsa, snella e sottile sotto i suoi stracci azzurri, il viso abbrozzato d’un puro ovale, in cui i grandi occhi neri della razza berbera scintillavano misteriosamente, con la loro espressione cupa e triste e si opponevano stranamente al contorno sensuale e contemporaneamente infantile delle labbra sanguigne e un po’ spesse. Appesi al lobo dell’orecchia graziosa due anelli di ferro inquadravano il suo volto affascinante. Proprio in mezzo alla fronte la traccia azzurra della croce berbera, simbolo sconosciuto, inspiegabile presso queste popolazioni autoctone che mai non furono cristiane e che l’islam colse ancora completamente selvagge e feticiste, con la sua grande fioritura di fede e di speranza.
Sulla sua testa dai pesanti capelli lanosi, nerissimi, Yasmina portava soltanto un fazzoletto arrotolato in forma di turbante piatto e svasato.

Tutto in lei portava il marchio d’un fascino quasi mistico di cui il tenente Jacques non sapeva spiegarsi la natura.

A lungo se ne restò là, seduto sulla pietra che Yasmina aveva lasciato. Pensava alla beduina e a tutta la sua razza.

L’Africa dove era giunto volontariamente gli appairva ancora come un mondo quasi chimerico, profondamente sconosciuto, e il popolo arabo, in tutte le manifestazioni esteriori del suo carattere, lo immergeva in uno stupore costante. Egli non frequentava quasi per nulla i commilitoni del Circolo, non aveva ancora imparato a ripetere i luoghi comuni correnti in Algeria e nettamente ostili, a priori, a tutto ciò che è arabo e musulmano.
Egli risentiva ancora dell’immenso incanto, dell’ebrezza dell’arrivo, e vi si abbandonava con voluttà.

Jacques discendeva da una nobile famiglia delle Ardenne, educato nell’austerità di un collegio religioso di provincia, aveva conservato, attraverso gli anni di Saint-Cyr, un’anima da montanaro, ancora relativamente chiusa a quello spirito moderno di scettico scherno partigiano, che mena rapidamente a tutte le decrepitudini morali.

Tuttavia, intelligente e poco espansivo, era già portato a analizzare le proprie sensazioni, a classificare in qualche modo i propri pensieri.

Così, la domenica successiva, quando si accorse di star riprendendo il cammino di Timgad, egli ebbe nettissima la sensazione di andarvi per rivedere la piccola Beduina.

Ancora molto puro e nobile non cercava per niente di barare con la sua coscienza. Ammetteva senza difficoltà di non aver saputo resistere alla voglia di comprare delle caramelle con l’intenzione di far conoscenza con quella ragazzian la cui strana grazia lo afferrava in modo così invincibile e a cui non aveva mai smesso di pensare per tutta la settimana.

E ora, partito all’alba per la bella strada di Lambèse, incitava il cavallo, preso da un’impazienza che stupiva lui stesso. Era il vuoto del suo cuore emerso appena dal limbo incantato dell’adolescenza, la sua vita solitaria lontano dal apese natale, i suoi pensieri quasi virginali, che i vizi di Parigi non avevano potuto macchiare, era questo vuoto profondo che lo spingeva verso ciò che di sconosciuto e emozionante egli cominciava a scorgere oltre questo abbozzo di un’avventura beduina.

Alla fine si inoltrò nella gola stretta e profonda dell’oued secco.

Qua e là, sul grigio della sterapglia spiccava la macchia nera di un gregge di caprette o quella bianca di uno di pecore

E Jacques cercò subito con una certa ansia quello di Yasmina.

- Come si chiamerà? Quanti anni ha? Mi vorrà parlare, questa volta, o, invece, scapperà come la volta scorsa?

Jacques si faceva tutte queste domande con un’inquietudine crescente. D’altra parte come avrebbe potuto parlarle, dal momento che, di sicuro ella non comprendeva una sola parola di francese ed egli non conosceva nemmeno il sabir?

Infine, nella parte più deserta dell’oued, scoprì Yasmina, sdraiata sul ventre tra i suoi agnelli, la testa appoggiata alle mani.

Non appena lo scorse ella si alzò, nuovamente ostile.

Abituata all’ostilità e al disprezzo degli impiegati e degli operai delle rovine ella odiava tutto ciò che era cristiano.

Jacques, però, sorrideva, non dava l’impressione di volerle fare del male. E poi ella vedeva bene quanto giovane e bello egli fosse sotto la sua divisa semplice di tela bianca.

Ella aveva accanto a sé una piccola guerba sospesa a tre paletti che formavano un fascio.

A segni Jacques le chiese da bere. Senza rispondere ella gli mostrò con il dito la guerba.

Egli bevve. Poi le porse una manciata di caramelle rosa. Timidamannte, senza ancora osar d’allungare la mano, ella disse in arabo, con un mezzo sorriso e alzando per la prima volta gli occhi verso quelli del roumi:

- Ouch-noua? Che cosa sono?
- Sono buone, disse lui ridendo della sua ignoranza, ma contento di aver infine rotto il ghiaccio.

Ella morsicò un caramella, poi, improvvissamente con un accento un po’ rude disse:

- Grazie!

- No, no, prendili tutti!

- Grazie, grazie! Signore, grazie!
- Come ti chiami?

Ella restò a lungo senza capire. Poi, siccome egli si era messo a citare tutti i nomi arabi di donna che conosceva, sorrise e rispose: “Smina” (Yasmina).

Allora lui volle farla sedere accanto a sé per continuare la conversazione, Ma colta da una paura improvvisa, ella se ne fuggì.

Ogni settimana, all’avvicinarsi della domenica, Jacques si accusava di comportarsi male, si diceva che il suo dovere era di lasciare in pace quella creatura innocente da cui tutto lo separava e che avrebbe soltanto potuto fare soffrire. Ma non era più libero di andare a Timgad piuttosto che di restare a Batna, e partiva.

Ben presto, Yasmina non ebbe più paura di Jacques. Ella veniva spontaneamente, ogni volta, a sedersi accanto all’ufficiale e cercava di spiegargli qualcosa il cui senso per lo più gli sfuggiva malgrado tutti gli sforzi della ragazzina. Allora, vedendo ch’egli non riusciva a comprenderla ella scoppiava a ridere. Questo riso di gola le faceva rovesciare la testa, scopriva i denti bianchi come il latte e trasmetteva a Jacques una sensazione di desiderio un presentimento di piacere inebriante.

In città, Jacques si dedicava con accanimento allo studio dell’arabo algerino, Il suo ardore faceva sorridere i commilitoni che, non senza ironia dicevano: “Deve averci una tipa lassù”.

Jacques amava già Yasmina, follemente, con quell’incontenibile intensità propria del primo amore in un uomo molto sensuale e sognatore in cui l’amore della carne si spiritualizza prendendo la forma di una vera tenerezza.

Tuttavia ciò che Jacques amava in Yasmina era la propria assoluta ignoranza dell’anima della Beduina, per lui era un essere di pura immaginazione, uscito dalla sua fantasia e sicuramente molto dissimile dalla realtà.

Sorridente, ma con un’ombra malinconia nello sguardo, Yasmina ascoltava Jacques, cantarle, ancora goffamente, tutta la passione ch’egli non cercava nemmeno di trattenere.

- E’ impossibile, ella diceva con nella voce una tristezza che andava già facendosi dolente. Tu sei un roumi, un kéfer, e io, io sono musulmana. Lo sai, da noi è haram che una musulmana prenda un cristiano o un ebreo; però tu sei bello, sei buono. Ti amo.

Un giorno, molto ingenuamente ella gli prese il braccio e gli disse con uno sguardo dolce e lungo: “Diventa musulmano. E’ facile! Alza la mano destra, così, ripeti con me: “La illaha illa Allah, Mahammed rashul Allah”: “Non c’è altro Dio che Dio e Maometto è il suo profeta”.

Lentamente, come per gioco, per farle piacere, ripeté queste parole solenni e armoniose, che, pronunciate sinceramente bastano a legare irrevocabilmente all’Islam.
Ma Yasmina non sapeva che certe cose si possono dire anche senza credervi, ella pensava che la sola enunciazione della professione di fede musulmana da parte del suo roumi ne avrebbe fatto un credente. E Jacques ignorando le idee fruste e primitive che il popolo illetterato si fa dell’Islam, non si rendeva conto della portata di ciò che aveva fatto.

Quel giorno, al momento della separazione, spontaneamente, con un sorriso di felicità, Yasmina gli diede un bacio, il primo… Per Jacques fu un’ebrezza senza nome, infinita.

Oramai, non appena era libero, anche solo per qualche ora, partiva al galoppo per Timgad.

Per Yasmina, Jacques non era più un roumi, un Kéfer… Egli aveva attestato l’unità assoluta di Dio e la missione del suo Profeta. Un giorno, semplicemente, con tutta la focosa passione della sua razza ella si diede a lui.

Fu un istante d’inesprimibile annientamento, poi come al risveglio, l’anima loro fu illuminata illuminata da una luce novella, quasi fossero emersi solo allora dalle tenebre.

Ormai Jacques poteva dire a Yasmina quasi tutte quelle cose dolci o commoventi che riempivano la sua anima, tanto rapidi erano stati i suoi progressi nello studio della lingua araba. Talvolta la pregava di cantare. Allora, sdraiato accanto a Yasmina, posava la testa sulle sue ginocchia, e, gli occhi chiusi, si abbandonava a un sogno impreciso, dolcissimo.

Da qualche tempo, un’idea singolare veniva ad ossessionarlo, e sebbene sapesse che era infantile, e del tutto irealizzabile si abbandonava ad essa trovandovi uno strano piacere… Abbandonare tutto, per sempre, rinunciare alla propria famiglia, alla Francia e restare per sempre in Africa con Yasmina. Anzi dare le dimissioni ed andarsene, sempre con lei, in burnous e turbante per condurre unì’esistenza pigra e lenta in qualche ksar del Sud. Quando Jacques era lontano da Yasmina, recuperava tutta la propria lucidità e sorrideva di questi maliconici infantilismi. Allorché però si ritrovava accanto a lei, si abbandonava a una sorta di assopimento intellettuale di una dolcezza indicibile. La prendeva tra le braccia e, tuffando il suo sguardo nell’ombra di quello di le, le ripeteva questa tenerissima parola araba:

- Aziza! Aziza! Aziza!

Yasmina non si domandava mai quale sarebbe stato l’esito de suo amore per Jacques. Sapeva che molte delle ragazze della sua razza avevano amanti, che si nascondevano con cura dai genitori ma che in generale tutto finiva con un matrimonio.

Ella viveva. Era felice, così, semplicemente, senza riflettere e senza altro desiderio che quello di vedere la sua felicità durare eternamente.
Quanto a Jacques, egli vedeva molto chiaramente che il loro amore poteva continuare soltanto in questo modo, indefinitamente, egli, infatti, si rendeva conto dell’impossibilità di un matrimonio tra lui che aveva una famiglia, lassù al paese, e questa piccola Beduina che non era nemmeno pensabile di portare in un altro ambiente, su di un suolo lontano e straniero.

Ella gli aveva ben detto che dovevano sposarla a un cahouadji di città, verso la fine dell’autunno.

Ma era così lontana, la fine dell’autunno… E anche lui, Jacques si lasciava andare alla felicità del momento.

- Quando vorranno darmi all’orbo, tu mi prenderai e mi nasconderai in qualche posto sulla montagna, lontano dalla città, perché non mi possano mai ritrovare. Mi piacerebbe vivere in montagna, ci sono alberi grandi più vecchi del più vecchio degli anziani, e acque fresche e pure che scorrono all’ombra, e uccelli dalle piume rosse e verdi e gialle e cantano…

“Come vorrei ascoltarli e dormire all’ombra e bere l’acqua fresca… mi nasconderai in montagna e verrai a trovarmi ogni giorno… imparerò a cantare il canto degli uccelli e lo canterò per te. Insegnerò loro a dire il tuo nome perché me lo ripetano quando sarai assente”.

Così gli parlava Yasmina, talvolta, con il suo strano sguardo serio e ardente.

- Ma, diceva, gli uccelli del Djebel Touggour sono musulmani… Non vorranno cantare il tuo nome cristiano, solo un nome musulmano canteranno e sono io che devo dartelo, sono io che devo insegnarlo anche a loro… Ti chiamerai Mabrouk, ci porterà fortuna.

… Per Jacques la lingua araba era diventata una musica soave, era la lingua di lei, e tutto quello che veniva da lei lo inebriava. Jacques non pensava più, viveva.

Era felice.

Un giorno Jaques apprese che era stato designato a un posto nel Sud oranese.

Lesse e rilesse l’ordine implacabile, che per lui significava una cosa soltanto, partire, lasciare Yasmina, lasciare che si sposi con un bottegaio orbo, non rivederla mai più.

Per giorni e giorni, disperatamente, cercò un modo per non partire, di farsi sostituire da un compagno… ma invano.

Fino al’ultimo momento, fin quando aveva potuto conservare una debolissima luce di speranza, egli aveva nascosto a Yasmina la sventura che stava per colpirli.

Nelle lunghe noti di insonnia e di febbre era giunto a prendere decisione estreme: ora era pronto allo scandalo supremo del rapimento e del matrimonio, ora a dare le dimissioni a lasciare tutto per la sua Yasmina, a diventare per davvero quel Mabrouk in cui ella sognava di trasformarlo. Ma un pensiero giungeva sempre che lo tratteneva; aveva un vecchio padre e una madre dai capelli bianchi, lassù nelle Ardenne ed essi sarebbero morti di angoscia se il loro figliolo, “il bel tenente Jacques”, come lo chiamavano al paese avesse davvero fatto tutte quelle cose che passavano per il suo cervello infiammato nelle lente ore di quelle brutte notti.

Yasmina aveva notato, naturalmente, la tristezza e l’inquietudine crescenti del suo Mabrouk e siccome lui non osava ancora confessarle la verità, le diceva che sua vecchia madre era molto malata, lassù, fil Fransa…

Yasmina cercava di consolarlo, di inculcargli il proprio tranquillo fatalismo.

- Mektoub, gli diceva. Siamo tutti in mano a Dio, morremo tutti, ritorneremo a Lui… Non piangere Ya Mabrouk, è scritto.

“Si, rifletteva lui con amarezza, tutti dobbiamo morire, un giorno o l’altro, separarci da tutto quello che ci è caro… Perché allora la sorte, quel Mektoub di cui lei mi parla, ci separa proprio adesso, adesso che siamo ancora in vita tutti e due?”

Alla fine, pochi giorni prima di quello stabilito irrevocabilmente per la sua partenza, Jacques partì per Timgad… Pieno di paura, di angoscia andava a dire la verità a Yasmina. Non voleva dirle, però, che la loro separazione aveva da essere, forse, anzi certamente eterna…

Le parlò soltanto di una missione che avrebbe dovuto durare tre o quattro mesi.

Jacques si aspettava uno scoppio straziante di disperazione.

In piedi davanti a lui ella non si scompose. Continuò a guardarlo diritto in faccia come se avesse voluto leggere nei suoi pensieri più nascosti. Questo sguardo pesante, che non poteva decifrare, lo turbò enermemente. O mio Dio, allora ella credeva che fosse lui che voleva abbandonarla?
Come spiegarle la verità. Come farle comprendere che non era padrone del proprio destino? Per lei un ufficiale francese era quasi onnipotente, completamente libero di far quello che voleva.

… E Yasmina continuava a guardare Jacques diritto in faccia, gli occhi nei suoi occhi. Restava in silenzio…

Non seppe sostenere più a lungo quello sguardo che pareva condannarlo.

La prese tra le braccia:

- O Aziza! Aziza! Disse. Tu ti arrabbi contro di me! Non capisci che il mio cuore si spezza, che io non me ne andrei mai, se solo potessi restare!

Ella agrottò le sottili sopracciglia nere.

- Menti! Disse. Tu menti! Tu non ami più Yasmina, la tua amante, la tua donna, la tua serva , quella cui hai preso la verginità. Sei tu che vuoi andartene! E poi menti ancora quando mi dici che tornerai presto… No, tu non tornerai, non tornerai mai più, mai più, mai più!

Questa parola ripetuta con ostinazione risuonò alle orecchie di Jacques come il rintocco funebre della sua giovinezza.

Abadane! Abadane! Nel suono stesso di questa parola v’era qualche cosa di definitivo, d’inesorabile e di fatale.

- Si, te ne vai… Vai a sposare la tua roumia, lassù in Francia…

Una fiamma cupa si accese nei grandi occhi rossi della nomade. Ella si era liberata quasi bruscamente dall’abbraccio di Jacques, sputò per tera, con sdegno, con un movimento selvaggio di indignazione.

- Cani e figli di cani, voi tutti roumis!

- O Yasmina, quanto sei ingiusta con me! Ti giuro che ho implorato tutti i miei compagni, uno dopo l’altro di partire al posto mio… non hanno voluto.

- Ecco lo vedi anche tu, quando un ufficiale non vuole partire, non parte!

- Ma i miei compagni sono io che li ho pregati di partire al mio posto e loro non dipendono da me, io invece dipendo dal generale, dal ministro della guerra…

Ma Yasmina incredula restava ostile e chiusa.
E Jacques rimpiangeva che lo scoppio di disperazione che aveva tanto paventato nel viaggio non si fosse davvero verificato.

Restarono a lungo così, silenziosi, un abisso ormai li separava, tutte quelle cose europee che dominavano tirannicamente la sua vita e che lei, Yasmina, non avrebbe mai potuto comprendere…

Infine con il cuore gonfio d’amarezza Jacques pianse, la testa abbandonata sulle ginocchia di Yasmina.

Quando lo vide piangere così disperatamente, ella comprese la sua sincerità… Strinse il capo tanto amato contro il suo, piangendo anch’ella, infine.

- Mabrouk, O tu, pupilla deglli occhi miei! Tu, luce mia! O macchiolina del mio cuore! Non piangere mio Signore! Non andartene, Ya Sidi. Se tu vuoi partire, mi sdraierò sul tuo cammino e morirò. Passerai sul cadavere di Yasmina. Ma se devi partire, assolutamente partire, ebbene, portami via con te. Sarò la tua schiava, Mi prenderò cura della tua casa e del tuo cavallo… Quando sarai malato, ti guarirò con il sangue delle mie vene… No, morirò per te. Ya Mabrouk! Ya Sidi! portami via con te…

Siccome egli restava in silenzio, spezzato dall’impossibilità di quello che lei chiedeva, ella riprese:

- Allora vieni, vestiti da arabo. Scappiamo insieme sulle montagne, no, più lontano ancora, nel deserto, nel paese dei Chaamba e dei Tuareg. Ti farai musulmano, la Francia, la dimenticherai…

- Non posso… Non chiedermi l’impossibile. Ho i miei vecchi genitori lassù, in Francia, ne morirebbero… Dio solo sa come vorrei tenerti accanto a me per sempre.

Sentiva le calde labbra di Yasmina accarezzargli dolcemente le mani mentre le loro lacrime scorrevano confondendosi… Questo contatto risvegliò in lui altri pensieri, ebbero ancora un istante di gioia così profonda come non ne avevano mai goduto di simile nemmeno nei giorni della loro tranquilla felicità.

- Come possiamo lasciarci! Balbettava Yasmina mentre le sue lacrime continuavano a scorrere.

Ancra due volte Jacques ritornò e ancora essi conobbero l’indicibile estasi che pareva stringerli l’uno con l’altra per sempre, indissolubilmente.

Poi suonò l’ora solenne degli addii… che l’uno sapeva e l’altra presentiva eterni…

Tutta la loro anima l’infusero nell’ultimo bacio…


Trad. genseki