martedì, luglio 16, 2013

Juan Gelman


Viaggi

Sedia ove talvolta mi siedo
Piatti camicie e altri alibi ancora
La pura veritá e che non ci sono
La pura veritá è che me ne sono andato.

O, magari, saranno stati gli altri
Che se ne sono andati, mi hanno lasciato solo
Con me stesso e gli incubi che restano
Reali come un foro
Profondo come un Dio

Vediamo un po' gianni
Vediamo un po, gellman
Vediamoli, dai! Sti biglietti
Contiamo fino a cento
Cantano gli uccellini
Se guardiamo vedremo che non ci sono
Che me ne sono andato con sinceritá
Che gianni sopporta e che gelman non piange
Piattano i piatti e sediano le sedie,
Senza sosta, canaglie.

Juan Gelman
Da "Cólera buey" 1963
Trad. genseki

lunedì, luglio 15, 2013

Vetrai

Veramente mi pareva di respirare nella fornace, coi vetrai di Murano, e di non avere nella mano la penna ma un ferro, ma un ferro da soffio con in cima un vetri fuso e di non essere rischiarato dal mio quieto olio di oliva ma dalla vampa della grande ara incandescente.
Mi bisognava per creare il calice, convertir la parola in quella piccola pera di pasta rossa dal garzone aggiunta di tratto in tratto alla forma che nasce sotto i tocchi dell'ordegno.

...

Ecco alfine sul foglio di carta, il vetro che si tempera a poco a poco, quasi colorato d'un colore mattutino dal mio spirito, come da un'alba piú profonda di quella vera.

G. D'Annunzio

Da: "Il compagno dagli occhi senza ciglia"












Acque

Nacqui in un anno di siccitá. Quell'estate
Mia madre aspettava in casa, chiusa nel sole
Nel vento secco, incessante,
Gli uomini che ritornavano alla sera,
Portando acqua da fonti lontane
Le vene delle foglie erano secche
Avizzzite anche le radici.
Per tutta la vita ho continuato a temere il ritorno
Di quell'anno, sicuro che da qualche parte si è acquattato
Come l'anima di un nemico morto
La paura della `polvere nella bocca non mi abbandona
Sono lo sposo fedele della pioggia
Amo l'acqua di stagni e sorgenti
Il sapore di tetto dell'acqua di cisterna
Sono un uomo secco la cui sete loda
Le nuvole, la cui mente ha qualcosa di una tazza
La cosa piú dolce per me è destarmi di notte
Dopo una giornata rovente e arida
Per ascoltare la pioggia.

Wendell Berry
trad. genseki

L'upupa rossa

Ho sognato un'upupa rossa
Con la cresta d'oro fino
Ahi! Come è amaro il risveglio!
Nel ricamo mattutino
Che tesse il canto dei merli
Ai rami del brachichito.

genseki

lunedì, luglio 01, 2013

Raissa Maritain



… attraverso tutte le catastrofi, attraverso il crollo degli imperi, attraverso le persecuzioni e il martirio, il bene passa, il bene si fa, il bene resta. Ma la mia propria vita, la mia vita imperfettissima arriva a quell’età adulta dell’anima che si raggiunge solo a prezzo di sventure straordinarie, personali o no: quell’età in cui non resta più niente dell’infanzia, né della felicità di vivere. La mia vita arriva a questo punto assai meno attraverso le prove che hanno raggiunto me sola, che attraverso le sventure che si sono abbattute sull’umanità intera, perché la giustizia è in lutto, perché gli afflitti non sono, non possono essere consolati, perché i perseguitati non vengono soccorsi, perché la verità di Dio non è detta, perché improvvisamente il mondo è diventato così piccolo, così stretto per lo spirito, per l’uniformità della menzogna che vi regna e che quasi sola fa sentire la sua voce.

Da: "I grandi amici"

6 luglio 1940

Louise Labé



Louise Labé

1525-1565

***



Begli occhi bruni, ahimé, sguardi distolti
Sospiri ardenti e lacrime versate
Oh notti scure perse in vane attese!
Giorni lucenti che in vano tornate

Oh tristi pianti oh disio ostinato!
Oh tempo perso oh dolore sprecato!
Oh mille morti in mille lacci tese!
Oh pene nove per me preparate

Oh riso, fronte, capelli e mani e dita
Oh triste liuto , viola, archetto e voce
Cotante fiamme per ardere una donna!

Di te mi lagno che con tanti fochi
In tanti lochi il core mio toccando
Non ti scottò neppure una scintilla.

***

Dacché crudele amor m’ha attossicato
Primieramente co’l su’ foco il petto
Sempre bruciai di sua fiamma divina
Ch’un giorno solo il mio cor non ha lasciato.

Qualunque pena di molte che mi diede
O minaccia di prossima ruina:
Pensier di morte che di tutto è fine
Nulla poté stupir l’ardente core.

Quanto più amor ci viene a indebolire
Tanto più nostra forza rinfranca
Sì che in tal lotta sempre siamo freschi

Questo non face siccome favore
Quei che i Superni e gli uomini disprezza
Ma contr’a’ forti per più forte parere.

***

Morir si vede ogne cosa animata
Quando dal corpo l’anima si parte
I’ sono ‘l corpo e tu la meglior parte
Ove sei tu anima beneamata?

Deh non lasciarmi così a lungo smarrita
Che per salvarmi potresti giunger tardi
Non porre a tal periglio il tuo bel corpo
Rendigli tosto la sua parte pregiata.

Fa’ bell’amico che non sia periglioso
Il nostro incontro e il colloquio amoroso
Ornalo tu non di severitate

Non di rigor ma di grazia amichevole
La tua beltà rendimi dolcemente
Da crudele che fu or favorevole.

***

18/06/02 18.44
Trad. genseki

Le cittá tentacolari



La pianura

La pianura è cupa le sue stoppie, i granai
E le cascine dalle travi marce
E’ cupa la pianura, sfinita, non si difende più
E’ cupa la pianura e morta la città la divora
Potenti e criminali
Le braccia di macchine iperboliche
Falciano l’evangelico frumento
Spaventano il seminatore malinconico
Il cui gesto pareva in armonia col cielo.
Lurido fumo in stracci di sego
Ha attraversato il vento e l’ha sporcato
Ed il sole povero e svilito
E’ come consumato dalla pioggia.
Là dove un tempo le luminose case
In gruppi l’una all’altra si stringevano
E i giardini dagli alberi dorati
Dal sud al nord infinita si scorge
La nera immensità dei capannoni.
Come una bestia enorme e taciturna
Che ronzi dietro un muro
S’ode il ronfare ritmico e duro
Delle caldaie e delle mole notturne
Vibra il suolo come fermentasse
Bolle il lavoro come un delitto,
E la fogna trascina un fango vellutato
A sporcare l’acqua del fiume
Un supplizio d’alberi scorticati
Torce convulso le braccia
Sulla facciata del bosco vicino
Sfinisce l’ortica il suolo sabbioso
E i letamai sempre più alti dei rifiuti
Unti cementi, putridi laterizi, pietre spaccate
Lungo i vecchi fossati dagli argini scuri
Si levano la sera in marci monumenti.
Sotto gli hangars pesanti di rimbombi,
Le notti e i giorni
Senz’aria e senza sonno
Lungi dal sole soffrono persone
Pezzi di vita nell’ingranaggio enorme
Pezzi di carne fissati con ingenio
Pezzo per pezzo, ripiano per ripiano
Da un capo all’altro della vasta giostra
I loro occhi son gli occhi della macchina
Sotto di essa piegano le schiene
Le loro vive dita si moltiplicano
In mille dita precise e metalliche
Tale è l’usura della loro fatica
Sulla materia sanguinaria
Che vi imprimono continuamente
Tracce di rabbia e gocce di sangue.
Dite l’antica fatica contadina d’agosto
Tra segale mature e avene rosse
Le braccia nella luce, alta la fronte
In mezzo al grano d’oro che si piega
Al torrido orizzonte di silenzio bollente.
Dite! Quella tiepida quiete i mezzogiorni eletti,
Nell’intreciare l’ombra per la siesta.
Sotto i rami di cui i venti lesti
Ritmano con lentezza gli ampi gesti frondosi
Dite, la gran pianura come un fertile orto
Folle d’uccelli sparsi nella luce
Che la cantano tutti a piena voce
Così prossimi al cielo che non li si ode.
Oggi la pianura è finita
E’ cupa la pianura e più non si difende
Il flusso ed il riflusso di rovine
L’hanno sommersa con monotonia.
Solo lontano muri d’orto diruti
Sentieri neri di scorie di carbone
Scheletri di masserie
Tagliano rapidi i treni i villaggi.
Tacciono le voci delle madonnine
Negli angoli dei boschi in mezzo agli alberi;
I vecchi santi  dalle nicchie di marmo
Sono caduti nelle fonti sacre.
Tutte le cose come bare vuote
Sono sfasciate disperse nello spazio
Ed è un lamento di defunti perduti
Singhiozzanti al tramonto nell’umida brughiera.
E’ morta la pianura, è finita!
Son morti i campanili inchiodati i mulini.
E gli ultimi rintocchi d’un angelus lontano
Sono i singulti della sua agonia.

Emile Verhaeren
Trad. genseki

Han Shan



Han Shan

 


L’eredità del padre e della madre

Basta per una buona vita
Alcun bisogno non v’è d’invidiare
I campi e gli orti dei vicini
Tesse mia moglie: - za, za –
Fa il telaio;
Il mio bambino gorgheggia:
glu, glu -.
Batto le mani, chiamo i fiori alla danza.
Col mento tra le mani odo cantar gli uccelli.
Chi mai potrà biasimarmi,
Chi farmi i complimenti?
Ogni tanto, di qua, passa un boscaiolo.

*

Travi e paglia, è la casa dell’uomo selvatico,
Alla sua porta son rare le carrozze.
Nel cuore della foresta si riuniscono gli uccelli
Ed abbondano i pesci nel torrente.
Con mio figlio colgo i frutti del monte
Con mia moglie aro i campi a terrazza
E in casa, cosa c’è?
Un letto pieno di libri.

*

I libri e la chitarra a portata di mano
A che mi vale un salario od un posto?
Ho rinunciato alla carrozza
Per consiglio della saggia mia donna.
Non ho nemmeno una carriola,
I mie figli devoti mi porteranno in braccio.
Il vento soffia sul grano
A seccare sull’aia solatìa
L’acqua deborda,
La piscina pullula d’ogni sorta di pesci
Medito spesso sull’uomo troglodita,
Intento a riposarsi sopra un ramo.

*

Godiam quando la gioia si presenta
La più insignificante occasione
Non lasciam che trascorra
Anche se di centanni disponiamo
Come riempire trentamila giorni?
In questo mondo dimoriamo un istante
Perché piagnucolare parlando di soldi?
Nel Classico della Pietà Filale, ultimo capitolo,
I funerali sono descritti in dettaglio.

*

In questo mese fuggono i contadini la canicola
Con chi dividere un buon gotto di vino?
Dispongo tutti i frutti di montagna,
Dispongo in cerchio le coppe da vino,
Canne come stuoie,
Le foglie del banano come piatti
Ebbro, il mento tra i palmi,
Seduto
Il Monte Sumeru è una piccola biglia.

*

Se la vita d’un uomo non arriva a cent’anni
Mille son gli anni di preoccupazioni.
Appena si ritrova la salute
Ci si sfianca pei figli e pei nipoti.
Ci si china per vedere se i cereali han messo radici
S’alza lo sguardo per controllare i gelsi
Quando pesi e bilance saranno inghiottiti
In fondo al mare orientale
Allora, infine, ci sarà la pace.


*

Vivo in paese
Ciascuno mi elogia, mi trovano incomparabile.
Ieri sono andato in città
Anche i cani mi guardavano in cagnesco,
trovavano troppo stretti i miei pantaloni,
La giacca troppo lunga.
Che si strappino gli occhi agli avvoltoi
E i passerrotti danzino a lor guisa.

*

Felice il corpo nell’era del caos
Non era d’uopo magiar né pisciare
Alla malora vi cavaron dei fori
Nove orifizi in tutto
Ogni giorno dobbiamo vestirci, nutrirci
Ogni anno pagare le imposte
Mille volti a disputarsi un soldo,
Urlano insieme fino ad ammazzarsi.

*

Nella casa dell’est c’è una vecchina
S’è fatta ricca or sono tre o quattro anni,
Prima era ben più misera di me
Oggi ella ride perché non ho una lira.
Ella ride di me che le sto dietro
Ed io rido di lei che stammi innanzi
Ridiamo entrambi, non possiam fermarci
Stanno così le cose ad est, ad ovest.

*

Un tempo fui abbastanza povero
Oggi son poverissimo
Quello che faccio fallisce subito
Duro è il cammino, penoso
Avanzando nel fango scivolo spesso
Seduto tra la gente del villaggio
La pancia vuota mi assilla
Anche il gatto se n’è andato
I topi
Girano intorno
All’orcio del riso.

*