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giovedì, giugno 17, 2010

Hishiryo

Ecco uno dei testi di Dogen relativi a Hishiryo, si tratta del primo paragrafo del ZazenshiN:

"Quando il maestro Yakusan Kôdô meditava in posizione seduta, un monaco venne a porgli una domanda: "Che cosa pensa Maestro restandosene cosí seduto per terra?" Il Maestro disse: "Penso il non pensiero" Domandó allora il monaco: "Come si fa a pensare il non pensiero?" Ripose il Maestro: "Con hishiryo".

La traduttrice dell'edizione francese dello Shôbôgenzô da cui è tratto questo brano del Zazenshin scrive in nota:

"... La parola shiryô è composta di due caratteri: Shi: pensiero e Ryô: misura e designa il pensiero analitico e discriminante. Ora, nel termine fushiryô (non pensiero) la parola shiryô è preceduta dal prefisso privativo fu-, in hishiryô dal prefisso privativo hi-. L'essenziale di questo dialogo dipende, effettivamente dalla sottile differenza semantica tra i due prefissi privativi: fu- e hi-.
Il primo indica l'assenza della cosa negata mentre il secondo indica la differenza di livello, di ordine."
Yoko Orimo
Shôbôgenzô Vol I
Pag 23
Nota 2
Trad genseki

La parola shiryô sembrerebbe poter essere fatta coincidere con il concetto hegeliano di "intelletto" mentre il prefisso hi- sembra poter svolgere la funzione del verbo "Aufheben". Coincidenze linguistiche e teoriche davvero sorprendenti che meriterebbero di essere approfondite e asseverate.
genseki

mercoledì, giugno 16, 2010

Hishiryo

Hishiryo di Dogen è un concetto che puó essere letto in modo fecondo sulla base della dialettica hegeliana? Ovvero è possibile un'ermeneutica dialettica di hishiryo.
Certo hishiryo è enunciato non come una legge ma descritto come una pratica, come un modo di funzionare della coscienza.
Questo modo della coscienza hishiryo non è l'enunciazione universale della dialettica? In che misura hishiryo è la forma della coscienza che aderisce all'imperamenenza, al divenire?
Il non pensiero in questo tipo di coscienza ha una struttura a prima vista lineare, è all'origine del pensiero ed è il punto o il momento del suo estinguersi: dal non pensiero sorge il pensiero e nel non pennsiero il pensiero si dissolve. Non vi puó essere pensiero senza non pensiero perché il pensiero non avrebbe né inizio né fine e quindi non avrebbe movimento interno. Un pensiero coagulato non lo si puó proprio concepire. Hishiryo sarebbe allora proprio questa forma: l'unitá inscindibile di pensiero e non pensiero non in sé ma in quanto oggetto della coscienza. La coscienza si identifica normalmente con il pensiero, la coscienza che si identifica con l'unitá di pensiero e non pensiero è la coscienza hishiryo, la coscienza dialettica.
genseki

venerdì, giugno 11, 2010

Hishiryo

Il pensiero hishiryo è l'attivitá mentale che contiene il pensiero e il non pensiero. Che cosa significa queto contenere? Lo si puó comparare utilmente con un "Auhebung"? Cioè hishiryo è il superamento dialettico che toglie il pensiero e il non pensiero elevandoli a uno stadio di attivitá mentale superiore?
Sembrerebbe che il momento del non pensiero sia il momento della negazione del pensiero e che quello di hishiryo rappresenti la negazione di questa negazione, Il risultato del processo è hishiryo cioé la negazione della negazione del pensiero esperita nella "pratica". In hishiryo il pensiero è presente attraverso la sua negazione a sua volta negata,
Il pensiero di Dogen è cioé integrabile nella nostra tradizione filosofica? Questa è una integrazione possibile? Il pensiero di Dogen certo non merita di finire "yogizzato" o "oshizzato", puro prodotto da eboristeria biodinamica e serenitá a un certo prezzo, Il pensiero di Dogen merita di essere sottratto all'orientalismo e confrontato con Hegel e Spinoza fino a perdere la patina fastidiosa di orientalismo nipponizzzante che lo rende opaco . Il non pensiero è la forma che il pensiero ha nei corpi?
Il pensiero di Dogen puó essere liberato dai maestri zen? Da coloro che pensano che la cultura occidentale sia Sgarbi? È posssibile leggerlo senza assumere il bavoso atteggniamento intellettuale che si esprime nella frase oscena: "L'occidente non sa piú ma gli orientali hanno sempre saputo" e altri simili automatismi mentali? È poossibile un Dogen tradotto nella forma del sonetto e non nella spuria barzelletta degli pseudo haiku da medidatore da palestra?

giovedì, giugno 10, 2010

Hishiryo

Il pensiero hishiryo puó essere interpretato come la forma pura del pensiero dialettico? Tanto per essere un po' rozzi si potrebbe schematizzare in questo modo:

Pensare con il pensiero
Non pensare con il pensiero

Sintesi: Hishiryo, pensare senza pensiero

Ovvero pensare con un pensiero che contenga in sé il pensiero e il non pensiero. Questo sembrerebbe poterlo riassumere nella forma di un pensiero semplicemente assolutamente cosciente di sé ma molto dipende dal contenuto che si da all'espressione di Dogen "non.pensiero".
"Non pensiero" puó essere inteso come lo sfondo di coscienza necessario perché il pensiero possa delinearsi, lo spazio del pensiero e anche il suo tempo, lo spazio tempo del pensiero che costituisce il campo in cui il pensiero stesso si espande e che è difficile distinguere dal pensiero perché ha la sua stessa estensione. Il pensiero crea il suo spazio e il suo tempo, quindi il suo non pensiero e pensiero e non pensiero sono inseparabilmente legati come le due famose facce del foglio bianco, hishiryo sarebbe dunque la coscienza chiara di questa struttura del pensiero.
Per "non pensiero" si puó intendere tutto ció che non è direttamente pensante, ciòé la materia stessa che costituisce l'universo e il nostro corpo immobile, non direttamente pensante per la coscienza che in quanto pensante si percepisce come appunto separata dal corpo. "Non-pensiero" sarebbe quindi lo sperimentare il pensiero nella sua relazione con la sua materia, il processo del pensiero come immanente al corpo, la forma che la coscienza diretamente non sa cogliere che il corpo ha di pensare.
Si puó anche avanzare che il non pensiero sia entrambe le cose e quindi hishiryo la sintesi di entrambe: il non pensiero dei corpi sarebbe il campo dello spazio e del tempo del pensare della coscienza.
genseki

lunedì, ottobre 19, 2009

È finita per sempre

Le grandi filosofie romantiche hanno cercato di dare ragione, di articolare la relazione tra finito e infinito. In realtà l'espressione piú esatta di questa relazione è una frase tipica per esempio dei fotoromanzi Lancio che leggevano le giovani "pettinatrici" dell mia prima adolescenza, quelle che facevano le "messe in piega" con quegli incredibili caschi sorreti da un palo. Chi non ha sognato una fidanzata parrucchiera che leggesse un fotoromanzo Lancio per vivere con lei un amara storia Lancio?
Comunque la frase è, è appunto quella del titolo: "È finita per sempre". Si, perchè è proprio qui, è proprio così che il finito incontra l'infinito, nell'evidenza dell'essere infinito del finito; dell'essere per sempre del finito.
Certo è il fatto che il finito sia finito infinitamente è quello che produce l'angoscia nella coscienza, La coscienza forse puó essere considerata proprio come la coscienza dell'infinitá del finito. del suo essere per sempre finito. La coscienza si staglia sullo sfondo dell'infinito della sua finitezza, della sua imposssibilitá di essere infinita se non proprio in quanto finita. Essere finito per sempre è la forma con la quale il finito si fonde nell'infinito e in questo fondersi rende possibile che l'infinito stesso sia infinito, Senza il finito l'infinito non sarebbe pensabile come tale per mancanza del termine di paragone. Il finito e l'infinito sono i modi, le modalitá l'uno dell'altro.
la coscienza è coscienza di una sola di queste modalitá, quella per cui il finito è infinitamente tale, per questo si percepisce come infinitamente finita, come finita per sempre, Se la coscienza potesse percepirsi come finitamente infinita scomparirebbe come tale, si dissolverebbe nella grande rosa luminosa. Quale ne sarebbe la formula?: "'È infinita adesso!", forse. "È infinita qui, proprio ora, per sempre mai piú".

genseki

mercoledì, ottobre 07, 2009

L'Islam, l'Iran e la filosofia antica

Parte I


Damascio


Damascio nacque tra il 480 e il 490 ad Alessandria in Egitto e fu discepolo di Ammonio che a sua volta era stato discepolo del sommo Proclo. Compiuta la sua formazione e consolidata la sua fama si trasferì ad ad Atene. Aveva intorno ai cinquanta anni quando fu scelto come sucessore di Zenodonte, come Scolarca della Scuola di Atene, occupando cosí la cattedra di Platone.

Credo che si possa considerare il neoplatonismo come una filosofia mistica che aveva assunto nelle forme esteriori e nelle pratiche molti, moltisimi elementi rituali e si presentava quasi come una religione.

Per rendere l'idea di che cosa fosse nell'estrema antichitá il neoplatonismo si potrebbe forse utilizzare l'espressione “Buddhismo di Occidente”. La sua attivitá come Scolarca duró quasi dieci anni, nel rapido, turbinoso disfacimento del pensiero antico e del mondo culturale pagano. Nel 529, infatti, Giustiniano chiuse la Scuola di Atene e confiscó i beni dei Platonici.

Questa confisca dei beni ci fa pensare che i platonici fossero una specie di comunitá, qualche cosa di molto simile a un ordine religioso.

Comunque questi provvedimenti non significarono la fine della scuola, come avevano sprao, probabilmente i Vescovi cristiani che gli ispirararono. L'imperatore filosofo dei Sassanidi offrí loro rifugio e protezione, mi pare nella cittá di Bactria, l'attuale balkh nell'Afghanistano attuale dove sorgeva anche una rinomata universitá buddhista. Secondo altre fonti, quello che restava della Accademia fu ospitato in Ctesifonte.

I nomi di questi filosofi erano Damascio, Simplicio, Prisciano di Lidia, Eulamio di Frigia, Hermias di Fenicia, Diogene di Fenicia e Isidoro di gaza. Nel 532, Cosroes vittorioso nella guerra impose ai bizantini la fine del loro esilio e quasi tutti loro ritornarono in Occidente. Damascio rientró in Egitto.

Di lui conserviamo pochi frammenti dalla “Vita di Isidoro” grazie a Fozio. Si suppone che abbia composto un “Commento al Filebo” che fu atribuito a Olimpiodoro e un “Commento al Fedone” anche esso attribuito a Olimpiodoro.

Tuttavia la sua opera filosofica principale è: “Aporie e soluzioni sui primi principi” che puó essere consierato una specie di commento del “Parmenide”.

Per Damascio, a differenza che per Proclo e Plotino pensa che al di sopra dell'Uno si trova l'ineffabile che non puó essere in nessun modo oggetto della nostra conoscenza. Questo ineffabile è analogo all'Assoluto di Ibn Arabi che anch'esso è antecedente all'Uno. L'uno proprio come uno è la singolaritá di ogno molteplicitá ma non è l'Assoluto, che si può considere come nulla. Il fatto è che noi pensiamo solo relazioni e l'Assoluto ineffabile è al di lá di qualsiasi relazione. Per Damascio tutto esiste in ogni cosa singola. L'assoluto è presente in noi come una forza o uno stimolo che spinge il pensiero a ngarsi come pensiero, situandosi nel punto in cui il pensiero sorge o dove si estingue.

Quest'ultimo punto di vista è molto prossimo alle concezioni del buddhismo mahayana sulla meditazione, concezioni che molti secoli dopo furono sviluppate da Dogen nel concetto di Hishiryo (oltre il pensiero e il non pensiero).

A proposito dell'Assoluto anche per Ibn Arabi esso è: “astrazione da tutte le possibili relazioni (cioè i nomi e gli Attributi”

“Se dall'essere divino si astraessero tute le relazioni non si avrebbe allora nessun Dio. Ma siamo noi che rendiamo reali queste possibili relazioni e finiamo per convertire l'Assoluto in Dio”.

Le radici neoplatoniche del sufismo, i possibili scambi teorici tra buddhismo e neoplatonismo il ruolo del pensiero sciita in questo quadro sono i temi che tratteró nelle prossime pagine.


genseki

domenica, settembre 13, 2009

L'individuo

Le righe che seguono sono dello Hegel francofortese, tratte dal "Systemfragment" del 1800 contengono un approccio alla dialettica nel punto in cui essa non appartiene ancora soltanto all'universo della teoria, nel momento in cui il sole non è ancora del tutto calato e la nottola esita ad alzarsi in volo. Altri uccelli incrociano le loro rotte crepuscolari, aprono le ali come evocando la crocifissione.
La possibilitá stessa del pensiero dialettico si gioca interamente sulla scommessa dell'individualitá. Si tratta di dare ragione dell'individuo, di costruirlo e di decostruirlo come centro di rifrazione della realtá.
Qui Hegel con timore e tremore imbocca la strada che forse potrá liberarlo dalla malattia mortale.

"Il concetto di individualiá implica contrapposizioneall'infinitá, molteplicitá e collegamento con la meesima; un uomo è una vita individuale in quanto è qualche cosa di diverso da tutti gli elementi e dall'infinitá delle vite individuali al di fuori di lui; egli è solo in quanto il tutto della vita è diverso; egli è una parte e tutto il resto un'altra; egli è solo in quanto non è una parte e nulla è separato da lui. La vita. quindi, non puó mai essere concepita solo come unione e rapporto ma deve esserlo in pari misura e immediatamente come abolizione dell'una e dell'altra. Essa è un infinitamente finito, un illimitatamente limitato, è connessione di connessione e di non connessione".

martedì, giugno 16, 2009

Servo padrone

Quello che segue è uno dei testi piú profondi e violenti sulla relazione servo padrone e sulla monarchia. Da un certo punto di vista lo si puó considerare come l'involuzione assoluta di un pensiero smarrito tra intuizioni e paura. Il servo si fa uguale al padrone in quanto decide di accettare di essere servo, cioé si riconosce come tale riconoscendosi come servo è lui che riconosce il padrone come tale, che gli conferisce ealtá e che lo conferma. Questa forma della dialettica di Simone Weil ricorda i quadri di Esher. Vi è un errore prospettico, qualche cosa di imposibile che si afferma peró come evidenza. Qui l'errore prospettico si situa tra i termini astratti della dialettica le cui funzioni si confondono leggermente ai margini, si fanno poco nette in modo percettibile e ci danno questa visione fiabesca, arcaica e in fondo oscena;

"Una condizione dlla subordinazione simile a quella che T.E. LAWRENCE trovó in Arabia nel 1917, a quella che , proveniente fose dai mori, ha impregnato per secoli la vita spagnola. Questa condizione che rende il servo simila al padrone, grazie a una fedeltá volontaria e gli pemette di inginocchiarsi, di obedire, di sopportare le punizioni senza nulla perdere della propria fierezza, appare nel "Poema del Cid" come pure nel teatro spagnole del secolo XVI e XVII, essa cinse la monarchia, in Spagna, di una poesia che non ebbe mai l'equivalente in Francia, estesa anche alla subordinazione imposta con la violenza, esa nobilitó perfino la schiavitú e permise agli spagnoli catturati e venduti come schiavi in Africa del Nord, di baciare le mani dei loro padroni senza abbassarsi, per dovere e non per viltá.

Simone We
I Catari e la Civiltá Mediterranea

martedì, dicembre 30, 2008

Gramsci e la fine della storia

Scrive Gramsci nelle pagine dei Quaderni dedicate alla filosofia di Benedetto Croce:

“La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente soggettivo [...]. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie [...]. C'è dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario».

L'unificazione culturale del genere umano corrisponde in questo testo alla sparizione delle contraddizioni. Tuttavia la sparizione delle contraddizioni non puó che significare anche contemporaneamente la sparizione della dialettica dal momento che non vi è dialettica ove non è contaddizione. Se, tuttavia, come pare, anche nel pensiero di Gramsci la dialettica è la legge che governa la realtá umana e quella naturale, quale tipo di realtá sarebbe quella senza dialettica? Una realtá certamente non piú umana. Non piú umana in che senso? Certamente non nel senso di una realtá piú naturale. Che cosa allora? Qualche cosa che si situa al di lá del reale, nell'elemento dell'ultrareale che non è né trascendente né immanente e che quindi non non è né puó essere neppure anteriore piuttosto che posteriore. Infatti se non vi è contraddizione, ció che resta abolito è la negazione. Non puó evidentemente darsi negazione senza che inmediatamente si dia contraddizione e all'inverso ove non vi sia contraddizione non vi è possilitá di negazione. Senza negazione non si puó parlare di “punto di partenza” e neppure di principio. Perché vi sia partenza o perché vi sia inizio, è infatti necessario che vi sia negazione di uno stato che è appunto quello anteriore alla partenza o all'inizio e che nello stesso tempo è interno ad entrambi. Non so se si potrebbe dire attuale a tutti e due. L'unificazione del genere umano non può dunque essere considerata un punto di arrivo o di partenza se non in senso assolutamente relativo o metaforico.
In queste linee, tuttavia, Gramsci sembrerebbe voler far consistere la differenza tra idealismo e materialismo proprio in una opposta concezione del punto di arrivo e di quello di partenza. Gli idealisti sarebbero quelli che considerano lo spirito come il punto di partenza e i materialisti coloro che lo considerano un punto di arrivo,
Tuttavia se lo spirito, sarebbe meglio dire, il regno dello spirito realizzato è concepito da Gramsci come il regno della non contraddizione allora anche la contraddizione partenza-arrivo è tolta e con essa la contraddizione tra idealismo e materialismo che appunto non puó sussistere che in senso soltanto relativo.
D'altra parte la relazione dialettica tra partenza e arrivo è tale per cui l'arrivo è concepibile solo come legato alla partenza. In questo senso Gramsci sembrerebbe volerci dire che il materialismo è necessariamente legato all'idealismo e che non puó essere concepito se non in relazione dialettica con esso.
genseki

mercoledì, dicembre 03, 2008

La dialettica di Paco Yunque


Il racconto per bambini Paco Yunque di César Vallejo che fu rifiutato da diversi editori perché considerato, probabilmente, oltraggiosamente senza speranza, puó essere letto come un'illustrazione pedagocica della dialettica.
La poesia di Vallejo e segnatamente i “Poemas humanos” puó essere interpretata, certamente come un gigantesco sforzo di creare una dialettica poetica.
Paco Yunque fu scritto intorno al 1931, quando Vallejo era giá seriamente impegnato in una convinta militanza marxista.

La relazione che intercorre tra Paco Yunque il giovane andino e il bambino inglese Humberto Grieve è una relazione servo-padrone.
Humberto Grieve dice subito ai compagni di classe che Paco Yunque è il suo “muchacho” e per questo puó obbligarlo a sedere nel banco che decide lui e costrigerlo a lasciarsi picchiare e umiliare a suo arbitrio.
La relazione tra Paco Yunque e Humberto Grieve pare essere accettata senza nessun problema dalle autoritá: il maestro.
Non è accettata in modo altrettanto acritico dai compaghi di Paco come Fariña e i gemelli Zuniga che cercano di rendere Paco cosciente di una qualche anomalia della sua condizione servile e di spingerlo alla ribellione mostrandogli affetto naturale e spontaneo sostegno.
Paco Yunque non puó accettare la ribellione perché ha paura, paura del dolore sprattutto che Humberto Grieve puó decidere di infliggergli o forse perché non intravede la possibilitá di una relazione diversa come qualche cosa di reale.
Nel mondo da cui proviene tutti sono servi o padroni. Egli e la sua famiglia appartengono alla famiglia di Umberto Grieve: sono servi!
Servo e suo padre che accetta come naturale qualsiasi umiliazione gli venga dal Signor Grieve, seserva è sua madre che accetta con rassegnazione che il gioco preferito di Umberto Grieve sia quello di picchiare crudelmente suo figlio.
La servitú per Paco Yunque è un fatto naturale.
La scuola non è il mondo di Paco Yunque. La scuola è una soglia, il limbo di una nuova forma della coscienza.
Il mondo della servitú è per Paco anche il mondo della madre. Il mondo in cui vi è tenerezza e amore.
Servitù, dolore, paura, amore sono i sentimenti contradditori che si agitano nell'anima del bambino che poco a poco diviene cosiente di essi per il fatto stesso di aver varcato la soglia, per il fatto di trovarsi nel limbo della scuola.

Per Hegel, nella “Fenomenologia dello Spirito” la dialettica servo-padrone, è una figura del processo di formazione dell'autocoscienza. Il Signore è colui che sfida la morte e il dolore e per questa sua capacitá di sfida finisce per subordinare coloro che non sono in grado di affrontare queste realtá con altrettanta forza. Il Signore, peró, una volta costituitosi come tale dipende dal lavora del servo. È il servo che lo nutre e gli permette di restare in vita e nello stesso tempo e il servo che lo separa dalla realtá, dalle condizioni reali della sua stessa riproduzione nel tempo come individuo. Il padrone non puó piú fare a meno del servo.

Questo schema del pensiero hegeliano è chiaramente semplificato nella relazione tra Paco e Humberto.

Humberto ha assoluto bisogno di Paco per sopravvivere nella scuola. Ha necessitá che Paco stia nel suo stesso banco. È costretto a dipendere da Paco per poter svolgere i compiti e per poter avere un quadro accettabile della realtà. Humberto dice al maestro che in casa sua i pesci vivono sul tappeto del salotto di casa perché suo padre ha molto denaro e quindi in casa sua i pesci non hanno bisogno dell'acqua. Humberto non ha quindo quasi nessun rapporto con la realtá del mondo. Paco sa cosa è un pesce, sa che cosa è la morte e sa che cosa è il dolore. Per questo Humberto ha bisogno di Paco per poter sopravvivere nello spazio limbico della scuola.
È Humberto che ha bisogno di Paco e non Paco di Humberto. È Humberto che dipende da Paco.
A questo punto la relazione servo-signore, come in Hegel, risulta invertita. Invertita peró in modo dialettico. Nel cortile o nell'aula della scuola la relazione tra Paco e Humberto si inverte pur restando anche sempre la stessa. Restando cioè anche quella che è fuori della scuola.
Paco si trova preso nel compito di conseguire la consapevolezza di questa realtá e le sue lacrime alla fine del racconto sono il primo paso in questa direzione.

Paco Yunque non si chiude dunque su una nota disperata ma si apre su di un processo di liberazione e di conquista della dignitá nella sua fase embrionale.
genseki

giovedì, settembre 25, 2008

L'eone dogmatico IV


Lucian Blaga

La dialettica

La dialettica antica, di Eraclito è troppo metaforica, quella diProclo troppo mitologica per servire da modelli decisivi di questo specie di pensiero: sceglieremo, invece, alcuni esempi del filosofo che portó il pensiero dialettico ad un livello tale che difficilmente sará possibile che possa proggredire ulteriormente. ... Solo in Hegel appare la dialettica per quanto possibile libera da contaminazione con altre forme di pensieri e pienamente cristallizzata dal punto di vista metodologico. ...
Quello che interessa soprattutto in uno studio dedicato al pensiero dogmatico è l'idea hegeliana di concetto concreto. Il pensiero dialettico opera, secondo Hegel, con concetti concreti. Cercare di determinare questi concetti significa, in fondo, esporre proprio il metodo dialettico. I concetti concreti, espressione espressione sommaria de azzeccata di un metodo, non sono concetti nel senso classico della parola. Rappresentano un tipo di costruzione sui generis, di carattere centaurico, ibrido.
Il “concetto concreto” è un costrutto che si avvale tanto dei privilegi dell'astrazione come dei vantaggi della concretezza. Un esempio tra cento possibili è il concetto concreto di “divenire”, preso come concreto e considerato in tale qualitá dal punto di vista astratto-logico, acquista uno strano aspetto di tensione interna, di problemático, sfiorando l'impossibile; considerandolo più da vicino sotto l'aspetto puramente logico, si suddivide in componenti contraddittorie che si escludono reciprocamente. Lo stesso concetto concreto di “divenire”, preso come astratto e visto in questa condizione dal punto di vista “concreto”, si presenta come qualche cosa in perfetto equilibrio, libero da difetti e da qualunque tensione interna, come un tutto solidale al suo interno. Qualunque concetto concreto puó essere scomposto, dal punto di vista logico-astratto, in momenti che si oppongono, qualunque concetto concreto comporta da questo punto di vista formule antinomiche, rappresenta, nel concreto, una sintesi possibile di momenti astratti contradditori. L'antinomia inesistenza-esistenza, alla quale riducimo il concetto concreto di “divenire”, dal punto di vista astratto, è annullata nella sintesi da una totalitá concreta (alla quale sul piano concettuale corrisponde proprio il concetto di “divenire”). Il concetto concreto, come voleva Hegel e come deve essere in ogni sistema dialettico, non si identifica completamente né con il momento astratto né con quello concreto intuitivo; è una formazione per sé, intermedia, o, se così vogliamo chiamarla: centaurica. Un cosiddetto concetto concreto, riflesso nello specchio del logico astratto, si presenta come antinomia; riflesso nel concreto si presenta come sintesi di momenti escludentisi: “Non sarebbe difficile, dice Hegel, mostrare l'unitá di nulla e di esistenza in qualunque atto o pensiero... A proposito dell'esistenza e del nulla si deve affermare che nulla v'é nel cielo e sulla terra che non contenga esistenza e inesistenza” Perché tutto è divenire. Ció che logicamente pare impossibile, antinomico, paradossale, risulta possibile e sintetico una volta concretamente realizzato. Il concreto è il gran campo in cui si risolve qualunque paradosso dialettico. (unitá dei contrari).
Comparato con i paradossi dialettici, il paradosso dogmatico presenta una natura distinta. L'antinomia dogmatica si differenzia da quella dialettica per il fatto che esclude la sintesi nel concreto. Mentre la sintesi dialettica puó essere conosciuta concretamente, la sintesi dogmatico è in contrasto con il concreto. Tutta la struttura, articolazione e configurazione del concreto rigetta l'accordo con l'antinomia dogmatica. Il concreto che, per il paradosso dialettico costituisce il campo supremo della giustificazione si oppone, invece, al paradosso dogmatico. La sintesi antinomica può essere perfettamente concepita con l'aiuto del concreto: “inesistenza+esistenza=
divenire”. Lo stesso concreto, tuttavia, si oppone in modo definitivo e categorico a una sintesi di contenuto come questa: “una sostanza puó perdere sostanza restando comunque integra”. I paradossi dogmatici non sono tali solo sul piano logico come quelli dialettici ma anche sul piano della concreteza. La conoscenza no offre la soluzione del paradosso dogmatico; essa postula la trascendenza.
Se le antinomie dogmatiche si potessero davvero sovrapporre a quelle dialettiche, ci sarebbero tanti dogmi quanti concetti concreti ci sono, poiché ogni concetto concreto ammette, per Hegel, formulazioni antinomiche. Tuttavia conosciamo soloun numero ridotto di dogmi (nel senso che abbiamo dato a questa parola). Solo i pensatori che hanno edificato i propri sistemi sullo scheletro della dialettica possono sostenere che il dogma è una sorta di dialettica embrionaria, un principio, una prima fase. I due tipi di pensiero differiscono essenzialmente. La formulazione dogmatica è una categoria a parte. La relazione della dialettica con ilconcreto è completamente distinta da quella dogmatica.
...
La sintesi dogmatica si trova in radicale disaccordo e fisso con il concreto, non per il fatto di riferirsi alla trascendenza ma indipendentemente da questo. Ci sono tante tesi metafisiche che si riferiscono alla trascendenza, senza per questo essere dogmatiche, ovvero in contrasto con il concreto. I concetti usati nei dogmi, sono concetti comuni, con corrispondenze concrete o pensabili concretamente nell'immaginazione (“persona”, “essere”, “sostanza”, “numero”, “natura”, “essenza”, etc.); il dogma distorce le relazioni logiche inerenti a questo concetti, in modo tale che risulta impossibile una sintesi nel campo del concreto; per questo si postula che la sintesi abbia luogo nella trascendenza.
traduzione e adattamento di genseki

mercoledì, dicembre 19, 2007

Hui Neng

Il Maestro Konin si era fatto vecchio e voleva sapere quale dei suoi discepoli avrebbe potuto spstituirlo e trasmettere il suo insegnamento. Chiese, perció a tutti i monaci di esprimere la loro comprensione dello zen con un poema. Molti conoscono,ormai, questa storia che è diventata famosa.
Jinshu che era il primo, il piú prossimo dei discepoli compose questo poema:
"Il corpo è l'albero della Bodhi
Lo spirito è uno specchio puro
Senza sosta abbiamo da spolverarlo
Per non permettere che la polvere vi si depositi.


Lo scrisse su di una parete. Tutti quanti ne furono impressionati.



Hui Neng lavorava in cucina. Era stato boscaiolo e non sapeva scrivere. Passando di là, sorpreso dall'asembramento chiese che qualcuno gli leggesse il poema e poi che qualcuno volesse scrivere un suo testo al lato di quello di Jinshu. Eccolo:



Bodhi non è albero
Specchio non v'è
Né nulla consiste
Ove la polvere possa posarsi."



Questo è uno dei testi fondativi del Buddhismo Zen nella versione, che ho liberamente tradotto, data da Raphael Triet in Usui 3 (pag. 44).



Le due poesie rappresentano i due poli della dialettica zen: Attenzione-Abbandono, Concentrazione-Dispersione.

Il testo di Hui Neng (Eno) sembra la negazione puntuale del testo di Jinshu:
Non c'è albero, non c'è specchio, non c'è nemmeno polvere.
A una metafora triadica si contrappone una negazione metaforica triadica.
Hui Neng, tuttavia, chiede ai monaci di scrivere la sua poesia accanto a quella di Jinshu, e lo fa dopo averla lodata.
Non pone il suo testo al posto di quello del rivale nè al di sopra e neppure al di sotto. Bensì accanto.
Inoltre la scelta della negazione puntuale dello schema metaforico del testo di Jinshu fa sì che la poesia di Hui Neng si possa comprendere solo se si conosce quella del suo antagonista. Hui Neng lega il destino del suo testo al destino del testo dell'altro. A tal punto che il testo di Jinshu appare come la chiave per la decifrazione del testo di Hui Neng.
Si tratta del primo movimento di una variazione. Non si intenderebbe Beethoven senza aver prima ascoltato con attenzione Diabelli.
Il secondo movimento è quello che fa dipendere la comprensione del testo di Jinshu da quello di Hui Neng, è la poesia del sesto patriarca che rende possibile lo schiuderi del senso dell'altra.
La variazione musicale è una forma della dialettica, forse la piú alta.
"L'Aufheben" di Hui Neng consiste nel movimento che fa della negazione una variazione, nel movimento che nega l'opposizione nel momento stesso in cui la innalza.
Non è pòssibile Hui Neng senza Jinshu ed è Hui Neng che rende possibile Jinshu e Hui Neng.
genseki

martedì, ottobre 16, 2007

Dialettiche



In ogni attimo della storia in fieri c'è lotta tra razionale e irrazionale, inteso per irrazionale ciò che non trionferá in ultima analisi, non diventerá mai storia effettuale, ma che in realtá è razionale anch'esso perché è necessariamente legato al razionale, en è un momento imprescindibile; che nella storia, se trionfa sempre il generale, anche il “particulare” lotta per imporsi e in ultima analisi si impone anch'esso in quanto determina un certo sviluppo del genere e non un altro.
Gramsci
Quaderno II
p. 690

Questo passo di Gramsci si intende solo all'interno di una concezione precisa del tempo. Una concezione in cui il tempo è lineare e finito.
Se pensiamo ad una dimensione circolare del tempo risulta, infatti, difficile parlare di trionfo in termini storici, in quanto qualsiasi cosa si affermi in questa particolare struttura temporale è destinata a rivolgersi nel suo contrario.
Anche in un tempo concepito come infinito non puó trionfare proprio nulla in quanto qualsiasi avvenimento storico, sarebbe solo un punto senza dimensioni, senza significato particolare che non sia il fare parte di una catena di successioni.
Il tempo in cui si muove il pensiero di Gramsci è dunque un tempo lineare e finito.
Solo un tempo finito puó essere storico cioé adeguato all'essente che è naturalmente finito, adeguato all'uomo che anche considerato come specie è sempre, inesorabilmente imprigionato nel finito.
La storia è quindi concepibile solo come finita, perché solo se finita puó essere umana, puó essere la storia dell'uomo, se no si tratterá di "historia naturalis" o di teostoria.
È la certezza della fine della storia che rende la storia “storica”
Si tratta peró di un finito che non finisce mai; la storia è finita in quanto comporta un numero inifinito di fini (o di trionfi).
Oppure si puó pensare a un tempo finito a cui manca sempre una parte per finire come nel paradosso di Zenone la freccia non puó raggiungere il bersaglio, proprio allo stesso modo la storia non può raggiungere la sua fine, c'è sempre un frammento di tempo ancora da trascorrere.
In questo tempo che lascia sempre un resto si fa possibile la storia, la storia dell'uomo.
Eppure non é proprio la dialettica con il suo movimento avvolgente che pare suggerire un'altra forma del tempo?
Razionale e irrazionale, generale e particolare sono due elementi della dialettica la cui sintesi é il superamento-assunzione di entrambi.
Quindi non si può parlare di un movimento del tempo che va dal particolare al generale in linea retta, ma piuttosto di due movimenti a spirale che si avvolgono l'uno con l'altro.
Il tempo della dialettica non sembra essere un tempo lineare. Il tempo del particolare non é solo precedente al tempo del generale ma è anche contemporaneo e successivo ad esso.
La concezione del tempo che è sottesa a questo brano di Gramsci è una concezione cristiana piuttosto che dialettica; si tratta di un tempo che si estende da una origine ad una fine (creazione e giudizio) Il trionfo del generale e del razionale stanno al posto della “parousia” e com ella “parousia” la loro realizzazione si trova sempre dopo un residuo di tempo che é “sempre” ancora non consumato.
Il tempo della dialettica non va da un cominciamento ad una fine perché il cominciamento è sempre presente nella fine e la fine è già tutta nel principio.
La tensione che innerva questo frammento di Gramsci e forse tutto il suo pensiero è proprio in questa contraddizione tra procedere dialettico e fondamento cristiano.
genseki

lunedì, luglio 09, 2007

Dialettiche

Omne enim quod intelligitur et sentitur
Nihil aliud est nisi non apparentis apparitio,
Occulti manifestatio,
Negati affirmatio,
Incomprehensibili comprehensio,
Inefabilis fatus,
Inacessibilis acessus,
Inintelligibilis intellectus,
Incorporalis corpus,
Superessentialis essentia,
Informis forma,
Incommensurabilis mensura,
Innumerabilis numerus,
Carentis pondere pondus,
Spiritualis incrassatio,
Invisibilis visibilitas,
Illocalis localitas,
Carentia temporis temporalitas,
Infiniti diffinitio,
Incircumscripti circumscriptio.

Eriugena
Periphyseon III, 4, p2 CXII

***

Ogni cosa che si può comprendere o percepire con i sensi
Altro non è che apparizione di ciò che non appare,
Manifestazione dell'occulto,
Affermazione di ció che è negato,
Comprensione dell'incomprensibile,
Voce dell'ineffabile,
Porta del'inaccesibile,
Intellezione dell'inintellegibile,
Corpo dell'incorporeo,
Essenza del superessenziale,
Forma dell'informe,
Misura dell'incommensurabile,
Numero dell'nnumerabile,
Peso di ciò che non ha peso,
Corporalitá dello Spirito,
Visibilitá dell'invisibile,
Sito del non localizzabile,
Temporalitá dell'intemporale,
Definizione dell'infinito,
Circonferenza di ció che non si puó circoscrivere.

*

Ecco un inno apofatico, in cui ogni termine di una coppia pare annullare l'altra, pare negarla, togliendo così alla definizione ogni senso possibile.

Questo è quello che si coglie ad una prima lettura e il testo assume le caratteristiche di un ieratico sacrificio del linguaggio nel suo approssimarsi all'assoluto. Il linguaggio al cospetto di Dio brucia come la farfalla del racconto sufico. Le ceneri dell'insignificanza restano le sole tracce dell'unione, appunto, ineffabile.
Un'altra lettura, però, è possibile perché se i termini di ogni coppia si annullano reciprocamente la loro contiguitá, invece, afferma.

Un termine afferma un altro nega quello che è affermato dal primo, il risultato non é nulla ma l'unione di affermazione e negazione rappresentata dal verbo est in un'unitá superiore.
I due termini, infatti si negano, o, almeno uno nega l'altro, ma il verbo est la copula che li unisce, non è negata.
L'essere (est) è il nesso tra affermazione e negazione e non si identifica nè con una nè con l'altra, è superiore ad entrambe.

Essere è passaggio dall'affermazione alla negazione e dalla negazione all'affermazione. Ecco che la teologia apofatica si rivela una teologia dialettica.
Una dialettica luminosa nata tra le favole e i boschi dell'Irlanda nella pioggia e nella nebbia ad opera di un monaco che sará ucciso dai suoi stessi studenti e le cui opere saranno maledette dalla Chiesa per lunghi secoli. Oggi non so.
È una dialettica romanica coincisa e squadrata che profuma della libertá della foresta che si divincola appena dallo scongiuro e dell'incantesimo come una lorica di luce e clorofilla.

mercoledì, aprile 04, 2007

La dialettica


Non è evidente che la tendenza a porre l'infinito nel finito e viceversa è dominante in tutte le indagini e in tutte le conversazioni filosofiche? Questo modo di pensare è eterno come l'essenza di ciò che in esso si esprime, non è cominciato ora, non terminerà mai. E', come dice Platone, l'immortale, immarcescibile caratteristica di ogni indagine. Il giovane che lo ha provato per la prima volta se ne rallegra come se avesse trovato un tesoro di saggezza, e reso ardito dalla propria gioia, intraprende con piacere qualunque indagine, ora riunendo tutto quello che capita nell'unità del concetto, ora scomponendolo e dividendo tutto di nuovo in una pluralità. Questa forma è un dono degli dei agli uomini che Prometeo trasse dal cielo alla terra con il fuoco.
Dal: Bruno