Il Falco - Una novella iniziatica del giovane genseki


La terra ruota sotto di me in una giostra di alberi erbe, colline fiumi.
Le prede sono un palpito nero di sangue profumato.
I miei artigli un bagliore.
I miei artigli le punte rostrate della freccia sibilante che è il mio corpo quando cado su una lepre.
La lepre odore di sangue di terra e di paura.
Il mio odore è l’odore del volo.
Il mio profumo il profumo del sole.
Sono il Falco.
Sono il Falco dell’Imperatore.

Il suo pugno è la forza del mio slancio ascensionale.
Il suo pugno mi sorregge nell’abisso della notte e mi ridona alla luce.
Il suo pugno mi scaglia verso il sole.

La sua mano mi comprime nell’abisso della notte in cui volo in cerchi concentrici intorno a un asse che è la totalità stessa dell’oscurità.

L’Imperatore apre e chiude le porte della Notte e quelle della Luce.
La sua volontà è nel suo pugno.
Il suo pugno ha l’odore del cuoio.

Il mio nome è Pellegrino. E’ un nome arabo. In arabo ha un altro suono. Ma non posso riprodurlo perché io non parlo. Precipito vero le rocce rosse e roventi del deserto a una velocità vertiginosa, l’aria bollente si comprime nelle mie narici. Gli artigli straziano l’otarda.
Prima che tocchi terra.
Come sono arrivato qui al margine magico della notte e del giorno, alla frontiera tra volo e caduta, tra cielo e abisso?
Questa frontiera è la calma di un pugno guantato di cuoio spesso e graffiato.
STUPOR MUNDI

VON SALZA cavalca accanto a noi, le sue armi sono nere, lo scudo lungo e appuntito è decorato con una croce bianca molto lunga anch’essa.
I suoi occhi sono freddi. Sono freddi come il ghiaccio della Pomerania e della Prussia.
Freddi come il bianco ghiaccio macchiato del sangue delle donne baltiche, dal cervello dei bambini sbattuti al suolo dai suoi cavalieri teutonici.
Acciaio contro osso, acciaio contro cuoi, picche contro legno, la croce, il Segno Invincibile della Salvezza contro i rozzi amuleti dei pagani delle steppe.
VON SALZA è il braccio dell’Imperatore.
Rapido come un falco si abbatte sulle steppe d’Oriente.
I suoi artigli lasciano una striscia di sangue sulla neve.


II. LA CACCIA



Il corteo dei cacciatori avanza nella macchia ancora umida, al primissimo sole del mattino.
Gruppi di ragazzi riccioluti e scalzi trattengono gruppi di quattro o cinque levrieri, dal muso affilato, il pelo cortissimo e lucido, le costole e il ventre a formare la carena aerodinamica di un vascello.
Il loro abbaiare è sommesso e cristallino, talvolta si confonde con un guaito.
Davanti a tutti avanza l’Imperatore il suo Falco sul pugno.
La testa del rapace è coperta da un cappuccio.
Dietro di lui vengono, disposti a mezza luna i nobili, i grandi, i signori del regno, reggono anch’essi nel pugno falchi e girifalchi di diverse misure, tutti con il capo coperto da un cappuccio di cuoio nero, come un piccolo elmo.
Provengono da Baghdad, da Bashra, da Masqat, hanno visto le roventi terre rosse degli infedeli.
I trilli degli uccelli si spengono nella macchia a misura che il corteo avanza serpeggiando.
I fianchi dei cavalli fumano leggermente. Il mare bianco splende a tratti appena tra i mirti e i cespugli di ginepro.

La terra è verde, bianca, azzurra, mite e aperta a donarsi nella sua bellezza a chi vorrà raccoglierla.
Come un frutto accarezzato dal vento.
Come un tappeto disteso al mattino di fronte al mare, un tappeto che freme e rabbrividisce alla brezza salina che lo sfiora appena.
Solo chi vola può amare la terra.
La terra esiste nel suo splendore e nella sua verità solo per chi la vede dall’alto con l’occhio puro dell’azzurro e la mente sgombra come uno specchio.
La terra esiste nella sua verità nell’occhio immoto del falco che plana contro il disco candido del sole.

Nessuno parla.
Si ode solo l’ansimare leggero dei cavalli. Il fruscio soffocato del cuoio sugli abiti, il lieve latrare cristallino dei levrieri. Il mormorio delle fronde scostate dei corpi che attraversano la macchia.

Il corteo si dirige verso la sommità della collina che domina il golfo.
I gabbiani sono come frammenti della spuma delle onde.

I cavalli scavalcano lentamente i bassi muretti di ciottoli, i cani s’infilano nei punti in cui sono sbrecciati.
I carrubi sembrano grotteschi giganti sanguinanti o totem ammiccanti nella macchia.

Dalla cima della collina inizierà la caccia. Che sarà annunciata dall’urlo cupo dei corni di osso che pendono alla cintura dei palafrenieri.
Poi saranno battiti d’ala e strida, ansimare e latrati e stormire di foglie e sibilo di frecce.
La caccia è vento e volo.

Tutto questo io non lo vedo.
Non lo vedo e quindi non sono io che posso descriverlo. Ovvero non posso descriverlo con l’assoluta certezza che la mia descrizione corrisponda alla realtà effettiva dei fatti.
Perché non vedo.
Non vedo ma ho visto.
Non vedo ma sento.
Non vedo ma percepisco gli odori, l’odore del cuoio, il profumo dell’erba e della rugiada, l’alito dei cavalli, il sangue che pulsa nelle vene delle prede lontane, il sale portato dalla brezza marina, il sudore dei cavalieri e dei garzoni.
Anche le spade hanno un odore, anche gli steli di legno delle frecce e le corde degli archi che furono tendini e le pietre dei muretti.

Anche l’amore ha il suo odore. Il suo odore e il suo suono.
Li sento entrambi, poco lontano dal sentiero contorto sui cui avanza con eleganza il cavallo dell’Imperatore che mi regge sul pugno guantato.
E’ mescolato a quello del fango e delle canne.
L’odore dell’amore.
Presto lo vedrò.

Sulla sommità della collina l’imperatore alza il pugno verso il sole che sta emergendo dall’orizzonte marino tra i voli chiassosi dei gabbiani.
Sul cielo bianco si disegna il volo di uno stormo di germani dai lunghi colli e dal volo pesante.
Sullo schermo bianco del cielo e quello argenteo del mare si stagliano come ombre nere goffe e pesanti.

Il suono dei corni di bue segnala l’inizio della caccia.
I cavalieri e i cani si disperdono liberi nella macchia. L’urlo dei corni è rauco e cupo. Fa tacere il frinire delle cicale e i trilli dei grilli che erano risuonati al primo apparire del sole.
Un’ombra scura di suono piega di un brivido le fronde.

L’Imperatore toglie il cappuccio del falco.

Ora vedo il sole.
La luce bianca esplode nel mio corpo che si frammenta in schegge di volo luminoso, in penne e battiti di fuoco bianco.
Ecco, sono nel cielo della luce e il vento mi porta nel suo movimento ascensionale.
Nella luce e nel vento si disseta la mia forza leggera.
Salgo
Salgo
Salgo
Salgo
Verso la luce che è nulla
Verso il cuore del cielo che è il mio cuore.

Ora accarezzo l’aria e plano in cerchi concentrici intorno all’asse della mia consapevolezza.
Come un Derviscio intorno all’asse della sua estasi. Il mio mantello bianco sono le folate della brezza, il suono dei tamburi sono i battiti del mio cuore.
Lontano ormai vedo l’ombra nera e rauca dei corni distendersi sulla macchia come quella di una nuvola temporalesca.
Io sono vista.
Odo con gli occhi
Vedo i fiori di euforbia e gli ombrelli del cerfoglio sui cui si posano le coccinelle, vedo i ricami preziosi delle felci brillanti di goccioline di rugiada e la corsa dl topolino grigio tra i ciottoli e i frammenti di legno marcio.

Vedo i tettucci dei funghi sui tronchi caduti.
Vedo il tetto di paglia di una capanna sul fianco di un umido avvallamento.
Vedo l’imperatore immobile sulla collina e il manto lucido dei levrieri arancioni tra i rami:

“Domino Friderico invictissimo Romanorum et semper Augusto, salus et victoria”.
Cantava il coro nella grande basilica.
“Der edel kunec, der milte kunec”, cantavano i cavalieri biondi e alteri scesi dai Monti di Schwaben.

Un tempo molto lontano.
Ho udito queste voci.
Ora odo il mio grido roco che si frattura nel vento in minuscoli e acuminati frammenti di suono.
Sotto di me la terra si copre di ricami di luce bianca e di fiori.
L’imperatore regge il globo nella mano, il globo è sormontato dalla croce, sotto di me la terra si curva all’orizzonte come una sfera immensa.

Scendo.
Come rostri di rame i miei artigli straziano la preda, sento il battito caldo del suo volo che si estingue.
Il sangue rosso splende in gocce di rubino sull’azzurro terso del cielo.
I levrieri latrano tra i cespugli, il rombo cupo degli zoccoli dei cavalli accompagna come un basso il suono profondo e scuro dei corni e le grida di richiamo dei cacciatori e dei battitori.
Ma più acuto di ogni suono è il mio grido che si alimenta del dolore della preda.
Scendo verso la notte.
In un vortice di ali, di piume e di sangue.
Scendo.


III. IN FUGA



Fu il primo ad alzare la testa dal mucchio di paglia su cui si erano addormentati entrambi quando la caccia era passata sul crinale che sovrastava di pochi metri il tettuccio della capanna.
Lei non aveva sentito il passo dei cavalli e l’ansimare acuto dei levrieri.
Aveva continuato a dormire appoggiata contro il suo fianco madido di sudore.
I suoi capelli riccioluti e neri erano pieni di foglie Morte e di rametti.
Un lievissimo sorriso increspava le sue piccole labbra.
Lui avvicinò gli occhi al muro di pietre pare cercare di scorgere che cosa provocasse il rumore che sentiva, ora con estrema chiarezza, guardando attraverso una delle feritoie irregolari che si aprivano tra le pareti e attraverso le quali la prima luce dell’alba penetrava in raggi candidi e tremolanti nella capanna.
L’angolazione dell’apertura era, però, molto sfavorevole, riusciva solo a scorgere un intrico di rovi e di ortiche, i rami bassi di un fico dalle grandi foglie come mani macchiate di bianco il muso di cane che si chinava ad annusare tra le erbe del ripido declivio, la parte bassa del garretto nero o bruno di un cavallo.
Questo non bastava per prendere una decisione. Per questo invidiava LEILA che dormiva.
Forse sarebbe stato meglio cercare un rifugio ad AZIZ, dove i Monaci avevano più difficoltà a passare inosservati. Invece avevano preso la strada che serpeggiava tra i bassi muretti che separavano i pascoli ed i frutteti appena illuminata dal primo quarto di luna.
Avevano mangiato fichi d’india e un pezzo di pane duro che LEILA si era fortunosamente procurato prima della loro fuga.
L’uomo vestito di verde non aveva dato loro nessuna indicazione sulla fuga, su come nascondersi, su come arrivare alla meta e neppure su dove si trovasse, la meta.
A dire il vero, sembrava che in qualche modo LEILA lo sapesse, che non si muovesse a caso come sosteneva, quella notte era stata lei a guidare i loro passi verso la capanna seminascosta tra la vegetazione.
Era molto difficile da scorgere camminando sul sentiero, alla luce fioca della luna sottile.
Quando l’aveva vista aveva gettato un piccolo grido argentino soffocato.
Un grido rauco e acuto lo distolse dai suoi pensieri. Il richiamo di un falco, pensò.
Questo pensiero lo tranquillizzò un poco.
Era una caccia.
Quindi non erano i Monaci.
Doveva essere una caccia di grandi signori, perché l’uso dei falchi era consentito soltanto alla grande nobiltà.
Guardò la testolina riccioluta di LEILA che continuava a dormire e sorrise, poi con un movimento leggero tornò a distendersi accanto a lei sotto la paglia.


IV. LA MORTE DEL CERVO


VON SALZA caricò il cervo spossato dai cani con il suo cavallo. I due animali si urtarono petto contro petto. Il cervo non aveva fatto in tempo ad abbassare le corna per difendersi, il rumore sordo dell’urto fu seguito dall’echeggiare di un bramito profondo e straziato di collera e paura.
VON SALZA, in piedi sulle staffe, aveva afferrato le corna del grande quadrupede nero con entrambe le mani e le torceva con forza verso il basso, le due grandi bestie nere avvinghiate dalla forza delle sue braccia si avvitavano l’una intorno all’altra in un movimento a spirale come fossero impegnate in una danza. I loro dorsi madidi di sudore fumavano leggermente nell’aria ancora troppo fresca dl mattino.
I cani che formavano una mezzaluna a prudente distanza dalla scena latravano furiosamente accennando balzi in avanti che non portavano mai ad effetto.
La barba di VON SALZA era umida e impastata di sudore e di bava, i suoi occhi semichiusi nello sforzo.
Vi fu un rapido fremere di fronde e di rami, un vortice d’ali e penne piombò sulla radura sfiorando le chiome dei lecci.
Gli artigli di rame del Grande Falco reale strapparono gli occhi del nero cervo. Due getti di sangue scuro schizzarono sulla faccia di VON SALZA e scesero in rivoli viscosi lungo la sua barba bionda.
Il falco riprese quota remando con la forza delle grandi ali. Con uno schiocco secco il collo del cervo cedette alla pressione del Cavaliere e l’enorme animale si abbatté sul fianco con un bramito soffocato, mentre il cavallo di VON SALZA scartava di lato per evitare l’urto della caduta.

Salgo
Salgo
Oltre il cerchio di fronde che delimita la radura verso il sole i cui raggi formano una cupola dorata sul verde del mare e delle colline.
I miei artigli stringono due globi gelatinosi e sanguinanti: gli occhi del cervo, del grande cervo nero che ora giace fumante tra il muschio e le felci macchiate dalle chiazze del suo sangue.
Li ho visti brillare, come brilla l’acqua nera al fondo di un pozzo profondo proprio al centro del mio volo circolare.
Perché alla fine di ogni volo c’è la quiete oscura di un pozzo profondo.
I miei artigli vogliono afferrare il buio, straziare la carne della quiete. Il cervo era un macchia d’ombra fatta carne.
Accanto al suo cadavere VON SALZA si appoggia al suo cavallo e con la mano alzata a proteggersi gli occhi dai raggi del sole osserva il mio volo.
A causa della mano non posso vedere il suo sguardo.
Vedo, però, i bagliori del suo elmo e le gocce di sangue nero del cervo che macchiano la sua barba e il suo pettorale.
I ragazzetti del suo seguito si avvicinano al corpo della preda con i coltelli nudi per scuoiarla e sezionarla.
I cani fiutano tracce nell’erba, guaiscono su toni acuti, agitano le code e i fianchi in preda ad un’eccitazione incontrollabile.
A poche centinaia di metri da questa scena, in un valloncello separato dal bosco da una bassa cresta i cani di un altro cavaliere hanno circondato un grande cinghiale accanto a un leccio gigantesco.
Le setole sulla sua schiena sembrano una spada barbarica.
I suoi occhi sono rosi e gialli, le sue zanne macchiate del sangue di uno dei levrieri giovani che agonizza leccando le sue interiora in un cespuglio di ginestra.
Seguo il volo fremente delle frecce che si spegne con un urto sordo nel corpo massiccio dell’animale.

Immediatamente sotto il boschetto dove VON SALZA sta risalendo a cavallo, un servitore tiene saldamente le redini e un altro lo aiuta a infilare la staffa, due giovani figure scure e ricciute avvolte in poveri mantelli bruni da pellegrini escono da una capanna semidiroccata e nascosta tra i rovi e i fichi d’india, camminano piegati in due, come se temessero di essere scorti e si tengono per mano.
Nel raggio del mio sguardo non ci sono fiumi.
Il verde dei lecci è più scuro e lucido di quello delle altre piante.
La mia ombra sfiora due topolini bianchi che con la leggerezza di due piume spinte dal vento corrono a nascondersi sotto una radice.
Sulla cima della collina, dove non ci sono alberi e neppure cespugli, l’Imperatore è solo, ritto sul suo cavallo.
Anche lui segue il mio volo.
Fissa il sole senza proteggersi con la mano.
I suoi occhi sono azzurri.
Il cavallo batte leggermente lo zoccolo di una delle zampe anteriori conto la terra soffice del prato.
Due fanelli passano per un attimo davanti al suo volto.
Un brivido di brezza piega l’erba accanto a lui.
Come trasognato Cesare Federico alza la mano guantata.
Al suo gesto risponde il  cupo muggito dei corni sassoni dispersi in tutte le direzioni.
E’ il segnale della fine della caccia.
I ragazzi e i servitori si affrettano a preparare le prede per il trasporto e ad allacciare i branchi frementi dei cani ai lunghi lacci.
Alcuni cacciatori bevono dai piccoli otri di pelle che pendono dalle loro cinture, altri puliscono sull’erba le lame dei coltelli e delle spade macchiate di sangue.
Ora scendo verso la sommità della collina dove l’Imperatore mi attende con il pugno guantato sollevato con il dorso verso l’alto.
Uno dei paggi che stanno accoccolati mollemente all’ombra di un mirto porrà gli occhi del cervo in un sacchetto di pelle di daino.
Poi calerà il buio.
Il mio volo immobile proseguirà nella notte.


V. LEILA E ISAAC


- Sei stanca -, chiese con una sfumatura di preoccupazione nella voce mentre la conduceva con cautela tenendola per mano tra i cespugli bassi della macchia intricata. Lei rispose con un breve sospiro e un lieve sorriso che però lui non poteva  vedere perché era intento a cercare il cammino migliore tra le radici e i rami spinosi delle rose selvatiche.

Nel buio il mio canto si spegne con un lamento in MI, lento e sinuoso come le ombre che salgono ad avvolgere la terra, salgono lenti muovendosi secondo un percorso spiraliforme, i serpenti umidi dell’oscurità, MI è la tonalità del sole che muore, l’annuncio della quiete delle acque notturne. FA è il suono del mio grido di guerra verso il sole.
In FA è il canto del Falco.
Come il vibrare della corda dell’arco che sferra la freccia.
Come la prima sillaba del mio nome che vuol dire consapevolezza.
Io fisso il sole, scaglio contro di lui i dardi del mio sguardo, lo sfrigolio assordante della sua luce e il rauco richiamo del mio becco di metallo si fondono in un barrito metallico in FA.

Tutto è spinoso nella macchia di mirti, lentischi e grandi ginepri. Le spine afferrano i lembi del suo mantello, le falde della sua lunga gonna, feriscono le dita e i polpacci già martoriati dalle punture delle zanzare e dell’ortica, anche il denso odore della linfa e delle foglie è pungente e il secco calore del sole immemore in uno zenit che pare eterno.
Tuttavia continuano ad avanzare. ISAAC stringe la manina di LEILA. Lei lo segue a testa china fermandosi di quando in quando a sciogliere i capelli nerissimi che sono restati avvinti in un nodo doloroso a qualche grigio rovo o a qualche pruno. Nello sciogliere le ciocche dense qualche capello si strappa e resta attaccato al ramo. Diverrà forse il materiale per qualche piccolo nido.
Il grido delle cicale è rovente come la voce del sole impietoso, immobile in un mezzogiorno che pare eterno.
Le spine penetrano attraverso le suole sottili delle scarpine della giovane e del suo accompagnatore.
Non si fermano.
- Conosco una fonte qua vicino -, sussurra ISAAC spruzzando perline di sudore dalle labbra protese.
- Potremo fermarci qualche istante, per bere e per lavarci -.
LEILA annuisce senza parlare e senza sollevare gli occhi. I monaci, pensa, hanno bastoni a forma di serpente che fremono e si divincolano quando si avvicinano a un pozzo.
Le loro mani sono fredde, i loro occhi bruciano di un amore morto. I monaci, pensa, hanno anelli neri che pulsano come cuori di scarabei quando sentono vicina la preda per il sacrificio.
Un lieve brivido di spossatezza e di orrore scuote il suo corpicino curvo, ma la mano di ISAAC che stringe la sua la rincuora come la luce di una candela lontana rincuora il viandante smarrito in una notte senza luna e senza stelle.
No, non è sola
Ma chi è ISAAC ?
Perché fugge con lei? Da che cosa fugge? Perché la protegge?
Chi è l’uomo vestito di verde che ha indicato loro la strada?
Come sono giunti alla capanna dove hanno passato la notte?
I ricordi di LEILA sono confusi, e sembrano diventarlo ogni giorno di più, i fatti e gli avvenimenti vissuti si confondono nella sua mente, i particolari si stingono, i volti sfumano, una densa nebbia copre adagio i luoghi dove si sono svolti, come se la sua vita fosse divenuta quella di un’altra persona da lei conosciuta solo attraverso frammenti di racconto.
Nella caligine che rende indistinto il ricordo brillano con una violenta evidenza i volti pietrificati dei monaci, il loro sguardo di fuoco, gli anelli neri pulsanti come piccoli cuori di insetti tenebrosi.
Il rumore lontano dell’acqua che risuona come un campanello di freschezza nell’arido grido rovente delle cicale la trae dal groviglio indistinto dei suoi pensieri nebbiosi.
- La fonte deve essere vicina – sussurra ISAAC mentre avanza curvo sotto i cespugli sempre tenendola per mano.
Affrettano il passo.
Ignorano le spine e le erbe taglienti che si impigliano ai loro poveri vestiti.
Il suono lontano e cristallino come il tintinnio di un campanellino si trasforma lentamente in una melodia limpida e fluida.
Il Nilo, immenso e giallo tra le erbe fitte, occupa di colpo la mente di LEILA.
Le fanciulle vestite di bianco scendono allegre alla riva dal tempietto di granito nascosto tra le canne e il papiro.
Un monaco vestito di nero le sorveglia freddo da dietro una pianta. I serpenti sfuggono il suo sguardo, intorno a lui tacciono gli uccellini multicolori dal canto ronzante limpido come il diamante.
- Ci siamo ecco qua la fonte -.
La voce calda di ISAAC la trae di nuovo fuori dalla sua fantasticheria. Sotto il groviglio di radici di un leccio si allaga una pozza di fango scuro, le piante intorno gocciolano acqua gialla e viscosa, le pietre sono coperte di un muschio viscido tra il verde e il marrone, dai rami bassi della quercia pendono come tende strappate e lise di una festa campestre dimenticata brandelli di licheni e di erbe.
Il centro della pozza scura gorgoglia leggermente come se l’acqua bollisse. La misera fonte fangosa è circondata da una vera barriera di ginepri e rovi che rendono doloroso alla coppia avvicinarsi per estinguere la sete e rinfrescarsi.
Con un grosso bastone strappato a un albero morto ISAAC batte con prudenza i rovi fino ad aprire un passaggio per sé e per la sua compagna..
Il sole lancia i suoi raggi roventi attraverso le foglie nere del grande leccio.
LEILA scioglie il grande fazzoletto nero che copre in parte i suoi capelli e lo immerge nell’acqua torbida fino a che esso se ne impregna completamente, poi piegando la testa all’indietro con un gesto improvviso lo strizza sopra la bocca e beve l’acqua che ne stilla.
L’acqua del fazzoletto si mescola alle gocce di sudore che come lacrime si formano agli angoli degli occhi.
Seduto accanto a lei con i piedi nel fango fresco ISAAC compie gli stessi gesti con la fascia che porta alla vita.
Il tic tic delle goccioline che cadono da tutte le piante e dai fili d’erba  rinfresca le loro fronti assordate dall’urlo delle cicale.
ISAAC sorride.
Guarda LEILA.
Anche LEILA sorride.
Chi è ISAAC? – Pensa.
- Adesso dobbiamo trovare qualche cosa da magiare – dice il giovane con un sospiro.
Abbiamo ancora molta strada da percorre e non possiamo rischiare di uscire dalla macchia se non vogliamo essere scoperti -.
In alto sopra il macchione che cela nella sua ombra fangosa la fonte due occhi rossi e freddi osservano la giovane coppia.


VI. SCOTO


Il cortile del castello è fatto della stesa pietra delle sue mura e delle otto torri che ne sorvegliano il perimetro intorno alle quali lanciando di quando in quando richiami acuti e rauchi volteggiano rondini e rondoni che talvolta si lasciano quasi cadere nel centro del cortile che è tutto un frullo di ali, un fremere di piume, un palpito ventoso di vita.
Il cielo è azzurro le pietre sono grigie ma di un grigio luminoso, splendente della forma perfetta e poderosa dell’ordine.
L’ombra delle torri scandisce la luce in un vortice circolare perfettamente misurato.
Gli zoccoli del cavallo dell’imperatore risuonano secchi tra le mura, il vento agita debolmente il mantello da caccia.
I cani lo seguono uggiolando e guaendo lanciandosi con il naso a terra in tutte le direzioni, agitano i fianchi e le code, trattenuti a grappoli dai ragazzini ricciuti che reggono nel polso i lunghi lacci che fungono da guinzagli.
Senza rivolgere la parola a nessuno Cesare Federico smonta con un salto e si avvia verso il portone centrale seguito immediatamente da Von Salza.
I due entrano quasi affiancati in una grande sala anch’essa di pietra che il sole penetrando dalle grandi finestre rende abbacinante di luce.
Von Salza si ferma appena varcata la soglia.
Cesare Federico si avvia con decisione verso una delle grandi finestre sotto la quale su una panca anch’essa di pietra siede un monaco dalla grande faccia rubizza, i capelli radi, gli occhi acquosi e storti. Le mani grande e callose come quelle di un contadino.
Sorride, senza alzarsi, a Cesare Federico aprendo le grosse labbra biancastre che incorniciano pochi denti nerastri e corrosi.
I suoi occhi fissano con commossa sollecitudine il volto dell’Imperatore.
- Come è stata la caccia Maestà? –
Buona, Scoto, ho potuto provare il valore del mio Falco e il cielo ci è stato propizio, ma non è della caccia che voglio parlare con te, o meglio non della caccia nel mondo reale bensì della caccia nel sogno, che cosa sono i sogni o Scoto qual è il loro rapporto con il mando reale? Qual è il loro grado di realtà, no, prima di rispondere ascolta, voglio raccontarti un sogno che si ripete quasi tutte le notti da quando sono giunto qui, in forma più o meno vivida, talvolta mi pare più reale della realtà, talvolta le sue immagini si confondono con la tenebra della notte e con le nebbie della mente e arrivo a pena a distinguerle in una densa caligine. Il sogno però è sempre identico, Scoto, ho sognato una grande Aquila nera che si abbandona al volo circolare che si culla nel vento delle sommità, che lancia il suo grido rauco come una sfida verso il sole.
Le sue piume sono nere, il suo becco del colore del rame. La sua voce pare uscire da un organo di metallo, sento il vento scorrere tra le sue ali, accarezzare il suo petto, qualche volta mi è parso di diventare io stesso l’Aquila che sogno di guardare e di vedere me che guardo il sole ritto a cavallo sulla sommità della collina con i suoi occhi.
Poi da un barbaglio di sole, come strappando l’azzurro del cielo con gli artigli crudeli e disperdendo frammenti di aria con il battito furioso delle sue ali un fianco piomba sull’Aquila le trafigge il fianco tenta di decapitarla con il becco adunco dorato, l’Aquila cade e trascina il falco nella sua caduta cerca di affondare i propri artigli nella sua carne, di aprire il suo ventre con il suo becco.
In parte ci riesce, cadono avvinti in un vortice sibilante di piume strappate e di gocce di sangue.
Il sangue li circonda come un’aureola.
Cadono per un tempo infinito.
Sfiorano le cime scure degli alberi.
Io li guardo e mi sento mancare il fiato.
Poi l’Aquila muore e il Falco si abbatte a terra senza un grido con la preda senza vita, come un fagotto indecoroso di stracci sporchi stretta tra gli artigli.
E io sento che la Morte è indegna.
Non vi può essere dignità di fronte alla Morte.
E il cadavere dell’Aquila è oggetto per me di ribrezzo anziché di Pietà, Scoto, amico mio, qual è la verità dei sogni? qual è la verità del mondo? Qual è il significato di questo sogno? Qual è la dignità della Morte? –
Cesare Federico parla con voce sottile ma sicura e autorevolmente pacata, socchiudendo le palpebre fino a che gli occhi divengono due sottili fenditure azzurre attraverso le quali, colla testa eretta fissa il grasso volto paonazzo di Scoto.
- Qual è la dignità della Morte, Scoto? – ripete ancora come tra sé.
- Il sangue di Nostro Signore Gesù Cristo – risponde il frate con la voce grassa di catarro, - Dio ha scelto di consegnare alla Morte il Suo Figlio Unigenito che patendo e soffrendo la vergogna della Morte l’ha vinta cosicché morendo in comunione con il Cristo che muore in noi, anche noi in Lui vinciamo la Morte e la sua indegnità, morendo la nostra Morte, infatti, Egli l’ha degnificata, morendo la Sua Morte noi possiamo degnificare la nostra umile Morte vergognosa, Maestà -.
Cesare Federico continua a fissare il frate senza rispondere, senza muovere le braccia incrociate sul petto.
Scoto tossisce rumorosamente e riprende con la sua voce densa e malata: - Il sogno è il veicolo di cui spesso lo Spirito si serve per comunicarci la Sua Volontà: così fu in sogno che Giacobbe vide la scala da cui salivano e scendevano gli angeli e in sogno Giuseppe ricevette l’avvertimento dell’Angelo di fuggire in Egitto per salvare il Figlio dalle mani sanguinose di Erode e nella storia profana la moglie di Cesare sognò le Idi sanguinose di Marzo e Scipione fu colto dal sogno prima di ordinare la definitiva distruzione di Cartagine, Cesare, il Falco del tuo sogno è la tua volontà l’Aquila il tuo cuore -.
Il volto fino ad allora impassibile dell’Imperatore si tese in una smorfia impercettibile.
- No – lo anticipò Scoto, - no è inutile chiedermi di più perché ora non saprei che cosa altro rispondere, e me ne scuso con Voi, se non avete bisogno di me per qualche altra questione vorrei ritirarmi a pregare nella mia cella e a riflettere sul problema che il Vostro sogno mi pone -.
- No, Maestro, non ho altre domande per Voi, se è nel Vostro desiderio siete libero di allontanarvi dalla mia presenza -.
Il frate si alzò con fatica dal suo seggio di pietra e inchinandosi lentamente si congedò.
Federico guardò il grosso corpo avvolto nel saio nero allontanarsi zoppicando sul pavimento di pietra, poi si diresse verso una grande sedia di legno che stava proprio nel centro della stanza su un scalino di marmo e si lasciò cadere su un cuscino rosso.
Cesare Federico pensava all’Aquila, al falco alla Morte al dolore e alla vergogna di entrambi.
Von Salza aveva lasciato la sala mentre l’Imperatore parlava con Scoto. Cesare Federico udì il suono ritmico dei suoi passi sul granito del cortile senza però poter comprendere dove fosse diretto.
Il suono dei passi si confondeva con il grido acuto dei rondoni che volteggiavano frenetici intorno alle torri.
Qual è il significato di questa danza aerea vorticosa? Pensava l’Imperatore, la Morte degli animali è più nobile di quella degli uomini? A quale Morte danzano il loro omaggio? No, ho ribrezzo del cadavere dell’Aquila e gli schizzi del suo sangue nero che macchiano il manto del cielo mi ripugnano. Ecco io stringo nella mano il globo sormontato dalla croce ma ho vergogna di essere qui solo qui ora, adesso, come il cervo che agonizza col collo spezzato circondato dalla torma latrante dei cani.
Il globo non è un amuleto, la croce non salva, il corpo poderoso dell’elefante di Saladino non può aprirmi un varco nella foresta del nulla che era prima che sarà dopo e che perciò è anche ora.
Io regno perché tremo di paura e di vergogna.

Cado nel buio.
Cado.
Come in vortice vertiginoso di tenebra.
Il vento della notte sibila tra le piume delle mie ali e preme contro la mia gola nella quale pulsa come un altro cuore.
Cado
Cado
Cado seguendo il vortice
Nero
Tenebre
Quanti sono le dimensioni del cadere?
Quante sono le dimensioni del pozzo della notte?
Cado
Di colpo il sogno erompe dai lampi della mia consapevolezza e del mio istinto e col sogno l’Aquila luminosa rossa e dorata di splendida gloriosa malvagità.
L’Aquila come una nota acuta al limite dell’udibilità nel clangore stonato delle trombe di bronzo del sole.
Allora mi avvento
Sento i miei artigli nel suo petto
Sento il dolore che spezza il suo volo maestoso
Sento il suo volo che si torce e il suo becco che si piega a ferirmi.
Ruoto nella lotta
Il sole alle mie spalle
Il sole sotto di me
Davanti a me
Mi abbaglia
Le gocce nere del suo sangue formano un diadema di dolore intorno al volto del sole.
Il volo ci avvinghia
Il nostro grido di rabbia ci ferisce come becco e artigli.
Un lampo.
Un altro lampo
Davanti ai miei occhi il volto di Von Salza, i suoi occhi di bimbo.
Con la mano destra guantata tiene il cappuccio di cuoio nero che mi ha appena tolto.
Sento la sua voce sussurrare:
- Il tuo nome ora e per sempre: Uccisore dell’Aquila -.


VII. IL MONACO


Il refrigerio è breve. Bisogna riprendere il cammino. ISAAC si alza e con un cenno del capo invita LEILA a seguirlo. La fanciulla solleva appena un poco il volto incorniciato ora dai capelli nerissimi e sorride timidamente.
-Coraggio – dice ISAAC, abbiamo ancora molte ore di cammino prima di raggiungere il Castello e non abbiamo potuto mangiare ancora niente -.
Chini attraversano con movimenti lenti e penosi la barriera tagliente dei rovi.
E subito ricomincia il tormento del caldo e delle spine.
L’odore di fango e di foglie marce della pozza diventa sempre più sottile e con esso si dilegua il senso di refrigerio.
Il sudore scende dalle fronti e brucia negli occhi, cola per il collo e provoca brividi lungo la schiena.
ISAAC cammina sempre davanti e tiene per mano LEILA curandosi di scostare i rami spinosi e di non lasciarli ritornare nella posizione naturale prima che la fanciulla li abbia oltrepassati.
LEILA di tanto in tanto solleva quello che resta della sua gonna nera per evitare che qualche ramo possa strapparla in modo irrimediabile.
Ora salgono per un pendio sassoso, tra radi lecci e spesse erbe gialle.
Le ghiande cadute nell’autunno scricchiolano sotto i loro piedi.
Le chiome dei grandi lecci contorti non danno ombra.
Ora però possono camminare eretti con un passo più spedito. Sotto una quercia ISAAC scorge una rozza casupola di pietra circolare con un tettuccio di paglia e una porta ad arco così bassa che non sembra poter servire per un uomo.
Accanto alla capanna dorme un cane bianco, in un nugolo di mosche verdi e celesti.
- Aspettami qui – dice ISAAC, rivolto alla sua compagna, - sembrerebbe lo stazzo di un pastore -, continua, - forse potremo trovare qualche cosa da mangiare, vado a vedere -. Mentre ISAAC speranzoso si avvia verso la casupola LEILA si siede su una pietra accanto a una macchia.

Non ci sono fiori qui, pensa LEILA, ah se potessi vedere di nuovo una rosa, ce n’erano di bianche e di rosa tenue e tanti tanti altri fiori profumati e l’aria umida che saliva dal fiume dietro il canneto portava il loro odore fino alla mia stanza e impregnava le lenzuola e i vestiti, persino il legno delle porte.
Ah il profumo delle acque e delle rose, l’odore del Nilo e dei fiori!

ISAAC si avvicina alla casetta gridando – Ehi c’è nessuno qui? Ehi, ehi per l’amor di Dio! –
Giunto davanti alla porta si accuccia e caccia la testa attraverso la porticina bassa e irregolare.
Il cane bianco lo guarda con gli occhi gonfi e rossastri senza provare ad alzarsi o ad abbaiare, non muove nemmeno la coda per tentare di scacciare il denso sciame ronzante che ormai brulica nell’aria intorno a lui.
Poi tutto accade in un attimo. LEILA vede il corpo di ISAAC fuoriuscire dalla porticina come se una forza poderosa l’avesse eiettato nella stessa posizione, chino, con le ginocchia leggermente piegate e il collo rientrante nelle spalle, che aveva assunto per varcare la soglia.
Gira lentamente su se stesso, sempre nella stessa posizione, quasi volteggiasse e si abbatte pesantemente su un fianco, le ginocchia serrate spasmodicamente, ora, contro il petto, una lancia verde smeraldo ancora vibrante per il colpo sferrato con violentissima precisione fuoriesce dalla sua nuca.
Ora batte i talloni contro il suolo, disteso su un fianco e inarca la schiena fino a toccare il terreno solo con l’estremità superiore delle scapole, una bava rosa schiuma dai denti serrati.
LEILA non vede i suoi occhi ma il punto ove la lancia verde che continua a vibrare è penetrata nella fronte.
ISAAC l’afferra con le mani con una suprema tensione di tutti i muscoli, poi si abbandona, inerte, il corpo ricade pesantemente sul terreno con un tonfo attutito, in una nuvola di polvere, frammenti di foglie secche e paglia, moscerini.
LEILA ode un fischio.
Adesso la lancia conficcata nella testa del suo compagno non vibra più, si contorce a partire dall’estremità che è restata ritta contro il cielo, un altro fischio, la lancia è ora di nuovo un serpente che sguscia serpeggiando dal foro nel cranio di ISAAC come le vipere sgusciano dalla loro vecchia pelle durante la stagione della muta.
Un terzo fischio e la testa bianca e calva di un monaco dagli occhi rossi appare dalla bassa porticina della casupola, il serpente striscia verso di lui muovendosi sinuoso sul terreno polveroso e lasciando dietro di sé strisce di sangue simili a grandi virgole o parentesi su cui si abbattono subito sciami di lievissimi moscerini.
Dal foro sulla fronte di ISAAC zampilla un fiotto di sangue nero misto a frammenti bianchi di ossa e grigi di cervello come grassi vermi.
Zampilla verso il sole.
Poi cessa con un ultimo rigurgito di schiuma rosa.
Un altro fischio.
Il monaco è in piedi davanti alla porta, nella mano serra il serpente verde come lo smeraldo che è ritornato rigido come una vera lancia.

VIII. L’AQUILA


LEILA fugge.
Con lo zampillo del sangue di ISAAC fisso nella mente, impresso negli occhi.
Si lascia cadere nel vallone petroso tra i rovi e gli sterpi.
I ginepri le strappano brandelli di vestito e di pelle.
Fugge
Cade
Rotola
Si rialza
Sente i passi leggeri e minacciosi del monaco dietro di sé
Sente la sua ombra sfiorare le foglie dei cerri che ne rabbrividiscono.
Fugge
Come in sogno le pare che la sua corsa non la porti oltre l’ultimo punto in cui è giunta.
Fugge per la selva oscura, ora.
Bosco inabitato ermo e selvaggio che s’infosca nella sua arida tenebra petrosa.
Non sente il dolore delle spine
La paura è la stessa pulsazione sorda del suo cuore.
Inciampa in una pietra grigia che spunta da un intrico di radici grigie come il metallo, macchiate a tratti di licheni arancioni.
Si rialza.
Davanti a lei scorge il vivido bagliore di una luce azzurra.
Il bosco è finito.
La collina precipita a strapiombo sul mare in un delirio di rocce come bianche come schiuma pietrificata.
Il monaco è ritto dietro di lei a pochi passi.
Sente il vibrare della sua lancia serpente.
Sente il calore del suo sguardo infuocato proprio in mezzo alle scapole.
Sente appena il sibilo dentale che prelude al fischio funesto.
Guarda il sole.
- Nulla è vero e tutto è permesso -, le parole del Vecchio Hassan risuonano come un comando nella sua testa.
La schiuma delle onde non è forse la sua barba bianca? i riflessi d’argento del sole sulle onde non sono i riflessi dolci delle sue pupille?
Il monaco fischia e vibra la lancia.
LEILA apre le braccia e si getta nel vuoto.
Con un sibilo la lancia serpente passa sopra di lei sfiorandole le spalle.
- Nulla è vero, tutto è permesso -.
LEILA allarga le braccia, il petto appena sbocciato proteso allo schianto inevitabile.
L’aria sibila tra le sue dita tese spasmodicamente, tra le ascelle e le costole, gonfiano la gonna sdrucita e la giubba strappata in più punti dai rovi.
Sente distintamente il calore del sole sulla nuca. I capelli, per effetto della caduta si drizzano sulla sua testa come raggi di una stella nera. Uno scuro diadema barbarico.
Sente il vento morbido contro il suo petto che lo preme come un amante.
Quanto o quanto tenero.
Ma non è lei, ora la crocifissa.
Crocifissa nel vento.
Trafitta ai polsi e alle caviglie dai raggi ardenti del sole.
Inchiodata al Vento che è lo spirito, il suo amante.
Piange e le sue lacrime di gioia sono perle che il vento fa schizzare lontano come scintille.
Non è lei ora la sposa.
La sposa, crocifissa al corpo aereo dello spirito e la schiuma del mare la trina del letto nuziale.
Tende le braccia .
Le agita in lato e in basso in un impeto di volo.
Volo di gioia.
Perché la sua anima è arsa dal vento
Lei non è più lei.
Schiuma, trina nuziale.
Il vento sibila tra le sue dita che sono piume.
Rema con le braccia che sono ali.
Lancia il suo grido rauco e gioioso verso il sole.
- Nulla è vero e tutto è permesso -.
Ecco la sposa crocifissa, l’Aquila che vola verso il sole.
Le piume del suo petto hanno accarezzato appena la schiuma delle onde e ora ascende verso l’azzurro vertiginosamente ascende e lancia il rauco suo richiamo d’amore.

In alto sulla scogliera gli occhi rossi del monaco fissano il volo dell’Aquila che si staglia contro il sole.


IX. LA CERVA


Una brezza profumata soffia leggera tra gli aranci e gli olivi della collina, porta con sé l’odore della schiuma delle onde, l’odore del sale e quello del sole.
Com’è fresca la sua luce di mattina quando il cielo é un velo delicato d’azzurro. Cesare Federico cavalca su un agile destriero grigio.
E’ solo, senza insegne, vestito di cuoio. Cavalca lentamente scrutando con attenzione il cielo e le chiome degli alberi più alti.
Quelle degli olivi sembrano piume cangianti.
Il loro colore disseta la vista.- Essere una nuvola, bianca o un olivo dal tronco rugoso risparmierebbe la coscienza dell’impermanenza di tutte le cose, pensa l’Imperatore.
Perché non c’è onore in ciò che non permane, non c’è dignità in quello che marcisce. La vista del fiore di biancospino nell’alba di Primavera è puro dolore quando la notte d’amore è trascorsa.
L’impermanenza è la sorgente del dolore. E la mia anima duole. Come se non trovasse più il suo cuore. Il mio falco, come la mia anima è fuggito dalla voliera.
Seguendo il flusso delle sue riflessioni interiori Cesare Federico scruta con occhio fermo il cielo, la collina, gli alberi alla ricerca del suo falco prediletto.
Il falco è la volontà, ha detto Scoto, l’Aquila il cuore.
Il cavallo grigio si arresta con una breve torsione elegante della testa di fronte a un cespuglio spinoso.
Usando la lunga spada inguainata l’Imperatore, chino di lato alla testa della sua cavalcatura, scosta i rami intricati e cerca di scorgere che cosa, all’interno di quel cespuglio l’abbia attirata e indotta a fermarsi.
Inquieta batte leggermente la terra con uno zoccolo e sbuffa energicamente dalle narici.
Il cespuglio forma come una piccola macchia. Il suo interno è come una nicchia che probabilmente durante la notte serve come giaciglio a qualche cinghiale.
Tra l’intrico di erbe e radici, nell’oscurità, il suo sguardo percepisce un riflesso biancastro come un corpo disteso in modo scomposto.
Trae la spada dalla guaina e con la pesante lama affilata colpisce i rami che ostacolano il suo sguardo.
Tra un colpo e l’altro gli pare di udire dall’interno come un sottile lamento.
Ecco, pensa, ancora qualche colpo. Il sudore imperla leggermente la sua fronte.
Un raggio di sole illumina il corpo nudo di una fanciulla sdraiata.
Smonta da cavallo e scivola all’interno della piccola macchia che profuma di clorofilla, di fango secco e sangue.
Scorge sulla schiena immobile e bianca della giovane, proprio sotto le scapole un fitto reticolo di tagli profondi e sanguinanti. Come se fosse stata straziata dagli artigli di qualche rapace, ma non ci sono rapaci con artigli di quelle dimensioni pensa confusamente.
Si china accanto alla testa dai lunghi capelli neri. La solleva, nota che un altro taglio profondo incide la parte superiore della sua sollevando il cuoio capelluto.
Osserva il volto scuro e le palpebre chiuse dalle lunghe ciglia nere. Le sue narici fremono in modo quasi impercettibile. E’ viva pensa Federico. Si china ancora  La gira. Il ventre e i seni sono impastati di sangue e di fango.
Ora apre gli occhi e fissa l’Imperatore, la sua bocca, in un sussurro lascia uscire queste parole: - Nulla è vero, tutto è permesso -.
Cesare Federico solleva ora la fanciulla quasi senza sforzo reggendola sulle due braccia ripiegate. La sua testa senza forza si appoggia al suo petto. Gli sembra di sentire il tepore del suo fiato leggero attraverso il pesante giustacuore di cuoio.
Scivola con il suo peso fuori della macchia avendo cura che le spine non strazino ancora quella carne già tanto provata.
Con uno sforzo doloroso dei polpacci e della schiena monta a cavallo tenendo il corpo abbandonato sempre nella medesima pozione.
Poi la pone accovacciata tra le sue braccia. La sua testa è ora appoggiata nell’incavo tra le spalle e il collo di Cesare Federico. Il respiro della fanciulla che diventa piano piano più robusto gli sfiora la barba bionda


La cima scura del pino è l’asse intorno al quale volteggia il testimone della mia consapevolezza.
Perché io non sono che volo, abbandono, luce e vento. Così immobile, portato, sorretto dal corpo dell’aria volteggio intorno al mio proprio asse che si diparte da tronco e si prolunga fino a l sole.
Sotto di me una coccinella ha raggiunto la sommità di un filo d’erba, una lunga processione di formiche avanza ieratica sotto tappeto di aghi di pino, un ragno rosso fissa l’ultimo capo della sua tela d’argento al picciolo della foglia di un corbezzolo.
Una lepre arancione si ferma con le orecchie tese e tremule avendo scorto la mia ombra sfiorare il terreno.
Un cane bianco dorme accanto a una casa di pietra.
Una nuvola di mosche azzurre copre ronzando la testa sanguinante di un ragazzo morto. Un uomo vestito di nero si allontana dalla scogliera a strapiombo sul mare. Le gocce di sangue nero che cadono dai miei artigli macchiano i petali di un bianco giglio di mare.
VON SALZA mi attende con il pugno alzato sulla sommità della collina.
Una nuvola di dispetto attraversa per un momento i suoi occhi di bambino.

Mezzogiorno.
Cesare Federico con la sua dolente compagna cavalca lungo la scogliera.
Sotto di lui le onde spumeggiano di candore incandescente. Il fruscio della risacca è il canovaccio sonoro sul quale i gabbiani rissosi ricamano il loro grido.
Cavalca lentamente per evitare scosse dolorose alla sua compagna che ora canta una nenia lenta nella seminconssapevolezza. Il sangue delle sue piaghe che ancora non si è coagulato macchia il giustacuore di cuoi dell’Imperatore.
- E’ come se dalle scapole le fossero state strappate le ali -, pensa Cesare Federico. Il cavallo avanza con prudenza avendo cura di evitare i sassi grigi che a tratti ingombrano il sentiero, come se fosse consapevole della fragilità del suo carico.
A una svolta dello stretto sentiero verso occidente dovrebbe incrociare la strada che porta al castello.
Il sentiero comincia a farsi più largo e regolare.
Da una spessa macchia, sul lato sinistro egli ode di colpo come un bramito sordo.
Il cavallo si arresta spontaneamente. Il bramito si ripete. Basso e nebbioso. Poi la macchia trema come se fosse percossa da un gelido vento di tempestosa tramontana.
Davanti allo sguardo impassibile dell’Imperatore sbuca da essa una gigantesca cerva nera.
Sotto i raggi roventi del sole allo zenit il suo fiato si addensa in nuvolette di freddo vapore.
Dai suoi fianchi di ebano si sprigiona un velo di nebbia leggera che odora di abeti e di neve.
I suoi zoccoli sono bianchi. I suoi occhi freddi e chiari come i torrenti alpestri.
Il suo bramito sordo è come il richiamo del corno da caccia nelle valli.
La Cerva di Schwaben fissa l’Imperatore.
Poi con un elegante movimento si volta e scompare di nuovo nella macchia.
Il cavallo di Cesare Federico la segue spontaneamente penetrando nel varco che essa ha aperto tra i rami spinosi. “Come una cerva anela l’anima mia…”. Pensa l’Imperatore, la Cerva di Schwaben, messaggera di Morte? Ah se avessi con me i miei cani e la mia lancia, allora la mia Morte sarebbe la mia preda.
LEILA abbandonata tra le sue braccia sussurra: - Nulla è vero…
Ora sembra che il sole splenda invano.
I suoi raggi non riscaldano più la terra.
Non è brina quella che ricama i rami spogli?
Cerva del freddo, cerva dei monti cerva dagli zoccoli di neve, cerva di inferno, o quanto bella preda dai fianchi snelli per la lancia dell’Imperatore.
Morirò della ferità che io stesso infliggerò alla mia Morte che viene a me come preda, come cerva e. ormai quasi dimentico della sua nuda compagna sprona il cavallo sulle peste del misterioso animale e sguaina la pesante spada.
Scruta con attenzione il terreno.
Con una mano regge la spada, con l’altra le briglie, LEILA pesa nell’incavo del suo gomito.
Poi un fischio prolungato e maligno distoglie la sua attenzione dal terreno.
Intravede il bagliore verde di una lancia scagliata contro di lui. Solleva la spada, il cavallo s’impenna con un nitrito. Un serpente esce dal suo ventre squarciato.
Cesare Federico rotola sul terreno. Il corpo di LEILA urta con violenza un pietra coperta di licheni gialli.
Ma l’Imperatore è di nuovo in piedi. Con un colpo preciso del tallone schiaccia la testa del rettile sanguinoso.

Un lampo circolare nella macchia.
La spada dell’imperatore traccia una ruota di Morte.
La testa del monaco nero spiccata di netto dal busto balza verso il cielo e in un’aureola di sangue gira lentamente su se stessa e si schianta con un rumore sordo contro il tronco di un leccio secolare.
Una larga striscia di sangue scuro macchia il tronco rugoso dell’albero.
Una smorfia maligna contrae il volto del monaco decapitato.
Con un risucchio osceno la sua bocca si apre come se cercasse di ispirare aria per i polmoni che non ha più.
- Quello che io non ho compiuto, Federico, lo compirà il Falco. La tua volontà divorerà il tuo cuore -.
Gorgoglia sordamente e si irrigidisce mentre una schiuma rosa si addensa tra i denti.
Gli occhi rossi restano fissi al cielo verso un punto altissimo che rotea con lenta maestà intorno alla cima di un pino..
Cesare Federico con un moto di orrore e di sorpresa si allontana dal capo da lui stesso spiccato, poi, con passo rapido si dirige verso il sasso su cui è caduto pesantemente il corpo di LEILA, con estrema delicatezza lo solleva e lo pone di nuovo sul cavallo nella medesima posizione di prima.
Senza aspettare di essere spronato o diretto da Federico questi riprese a seguire la traccia odorosa lasciata dalla cerva nella sua fuga.
Se questo è un sogno, pensava Cesare Federico, qual è mai il suo significato -, ma il tepore lieve del corpo accovacciato contro il suo petto testimoniava che non stava sognando. I corpi di sogno non hanno tepore, il fiato non ha profumo, i corpi morti non si corrompono, rifletteva l’Imperatore, perché il mondo del sogno è il mondo dello Spirito e in esso non vi è spazio per la Morte e tutto ciò che ha tepore, odore e fiato finisce per morire e per marcire e ciò che muore e marcisce patisce il disonore, ma lo Spirito non conosce disonore perché la sua dimensione è la gloria. Ma se questo non è un sogno cos’è questa meraviglia, perché la domanda non cessa di porsi qual è il significato dello stupore del mondo. Mentre egli era intento in questi pensieri il suo cavallo procedeva su un ripido sentiero che scendeva lungo la scogliera verso il mare.


X. IL VERDE


Un canto intonato da una limpida voce femminile lo distolse dalla sua meditazione.
Una piccola spiaggia bianca si stendeva davanti a lui circondata su tre lati dalla ripidissima scogliera anch’essa bianca.
Accanto a una barca capovolta due donne accoccolate cantavano sul ritmo delle onde. Un uomo anziano avvolto in un caffettano verde era in piedi davanti a loro e fissava Cesare Federico e LEILA scendere il sentiero.
Il canto era dolce e strano, Cesare Federico aveva come la sensazione di averlo sempre conosciuto anche se sapeva di non averlo mai udito prima di allora.
Anche le parole erano gli erano note e emergevano alla sua coscienza come se fino ad allora fossero state sepolte in qualche abisso insondabile della sua anima e gli pareva che con esse dalla parte oscura di se stesso emergesse una nuova immagine di lui stesso, a fatica, una trepida, vaga immagine luminosa.
Quando giunse accanto al terzetto fece fermare il cavallo e dopo aver salutato le due donne che sembravano saracene si rivolse al vecchio vestito di verde.
- Presto, aiutami, questa ragazza è ferita e ha bisogno di cure, l’ho trovata in un cespuglio mentre andavo in cerca del mio falco che è fuggito ieri sera. Bisogna trovarle un riparo e un giaciglio, da quando l’ho trovata non ha ripreso conoscenza e ha subito ancora una brutta caduta -. Cesare Federico non aveva ancora finito di parlare che ad un cenno del vecchio vestito di verde le due donne si erano avvicinate al cavallo, presero poi LEILA tra le bracca e la portarono verso una capanna di paglia e di legno che stava addossata alla scogliera seminascosta dalla sabbia. Il vecchio le seguì lentamente, l’Imperatore, dopo essere smontato da cavallo seguì il vecchio, camminando notò, con l’istinto del cacciatore, che le orme della cerva finivano sul bagnasciuga.
Davanti alla capanna lunghe reti rosse pendevano da un boschetto di pali, , intorno vi erano corde e frammenti di legno accatastati in modo disordinato, levigati dal mare e coperti di sale così da sembrare ossa spolpate di bizzarri animali.
La capanna era costruita di quello steso legno, quello che le onde lasciavano sulla spiaggia durante le mareggiate.
L’interno era povero ma confortevole.
In un angolo si vedeva un braciere di bronzo spento, brocche e giare di terracotta per l’acqua, il suolo era reso morbido da strati disordinati di tappeti e di stuoie, la luce penetrava all’interno da una finestrina irregolare aperta nella parete che quasi sfiorava la scogliera, dalle travi annerite del soffitto pendevano diverse lucerne ad olio anch’esse, come il braciere spente.
Il vecchio si era fermato sulla soglia e aveva fatto cenno a Federico di precederlo all’interno.
Nessuno si rivolge all’Imperatore a cenni, nessuno può anteporre alla sua la propria volontà, ancorché con intenti cortesi, ma questo non è il mondo reale, questo vecchio non è di questo mondo, se non si tratta di un sogno si tratta pur sempre dello stupore. Nello spazio della meraviglia, probabilmente vigono altre leggi, ma come ci sono entrato e cosa significano tutti questi fatti che mi sono capitati, perché, senz’altro qui fatti e persone non sono che allegorie, ma dov’è il mio falco, qual è la porta dello stupore?
Mentre egli era occupato con queste considerazioni, le due donne avevano posto LEILA su un giaciglio di velli e stavano lavandole con dolcezza le ferite.
Federico si accorse che anche il vecchio era entrato perché dai suoi abiti o forse dal suo corpo emanava un forte odore di cedro.
Nella penombra che dominava nella capanna lo vide avvicinarsi a LEILA, chinarsi sul suo volto, soffiare delicatamente prima su suoi occhi, poi sulle sue orecchie, infine nella sua bocca. Con un sospiro profondo la fanciulla si destò. I suoi occhi spalancati fissavano quelli del vecchio chino sul suo volto.
- Khidr -, gridò con un tremito di stupore e di terrore nella voce.
Si, sono il Verde, aquilotta, non temere, tornerai a volare, ma ora devi dormire per guarire e ricordare -.
Alle parole del vecchio il volto di LEILA si distese in un sorriso, poi adagio chiuse gli occhi e abbandonò il capo sul grembo di una delle due donne che stava inginocchiata dietro di lei.
Per non disturbare il suo sonno il vecchio e Federico uscirono.
Com’è bello il mar dello stupore, pensava l’Imperatore fissando le onde limpide che si frangevano sulla bianca battigia e i riflessi del sole come scaglie d’argento.
L’odore del sale giungeva alle sue narici misto a quelle del cedro e alle grida dei gabbiani e sembrava purificare il suo corpo e il suo spirito.




XI: IL RITORNO


Sulla sommità spoglia della collina sorge il castello. Albergo della luce e degli uccelli sogno della pietra e del volo.
Un ragazzino affannato dalla pelle scura e da capelli nerissimi corre incontro a Federico che si inerpica a cavallo lungo il sentiero sinuoso che conduce alla porta occidentale.
Una brezza lievissima agita appena i suoi capelli biondi.
- La nostra anima è simile al vento la cui sostanza è invisibile, che non può essere afferrato né rinchiuso e gli effetti del quale tuttavia sono innegabili sui corpi materiali?
Esso spinge le vele sul pelago e fa increspare le onde, ci porta i profumi lontani, conduce le nuvole al pascolo. Oppure essa è luce? La luce è fatta di materia ancora più sottile del vento, ma altrettanto evidenti sono i suoi effetti sulla materia, essa scalda la terra e i corpi e orienta la crescita delle foglie e delle erbe, a lei si volgono i fiori quando si schiudono.
No la nostra anima è ancora più sottile del vento e della luce eppure essa muove i nostri corpi.
Ma se il vento continuerebbe ad esistere anche se non vi fosse più il mare che increspandosi al suo soffio da consistenza al suo esistere o se no vi fossero più gli alberi che mormorando al suo passaggio gli danno voce ora gaia ora malinconica e se la luce continuerebbe a splendere anche se non vi fosse più nessuna superficie a rifletterla, così la nostra anima non continuerà ad esistere anche quando il nostro corpo putrefatto non potrà più sostenere il suo splendore? –
Mentre l’Imperatore era intento in questi pensieri il ragazzetto moro lo aveva raggiunto e dopo essersi inchinato davanti a lui con una certa goffa grazia aveva afferrato le briglie del cavallo grigio ora correva accanto a lui.
- Maestà ! -, disse poi con una voce argentina spezzata un poco dall’affanno della corsa, - Il Vostro Falco è ritornato questa mattina durante la Vostra assenza, deve aver fatto una buona caccia nella notte, i suoi artigli grondavano di sangue fresco, VON SALZA l’ha preso sul pugno e l’ha ricondotto nella voliera dove si trova anche adesso -.
- Forse anche lui ha visitato il paese dello stupore -, rispose Federico come parlando a sé stesso -.
- Dov’è adesso Scoto? – continuò dopo un attimo di pausa.
- Nella sala Occidentale, Maestà – rispose stupito della poca attenzione che Federico aveva concesso alla notizia del ritorno del Falco la cui fuga pure l’aveva turbato la sera precedente inducendolo ad andare alla sua ricerca da solo nelle prime ore del mattino. – E’ la sala che riceve l’ultimo sole, maestà e ne approfitta per leggere senza consumarsi gli occhi alla luce delle candele.
- Bene, quando saremo al castello, vai da lui e digli di attendermi nella sala della biblioteca, devo parlare subito con lui -.
- Lo farò Maestà –
Federico sentiva un pesante torpore invadergli le membra mano a mano che si avvicinava al castello come se il suo corpo stesse lentamente liberandosi da un malefico incanto che avesse soggiogato la sua mente e imbrigliato la sua anima.
Il sole al tramonto illuminava le torri del castello che parevano ardere come ciclopiche candele, come i rubini sulla corona di una divinità pietrificata.
La brezza si era ora divenuta un vento teso che sapeva di mare e agitava le vaghe ombre lunghissime degli alberi come brandelli di nere bandiere del corteo della Morte.
Le ultime grida delle rondini giungevano tra le folate come singhiozzi.


XI. LO STUPORE


La luce delle torce fissate alla parete con sostegni di ferro nero oscillava nell’ampia sala spoglia come se un forte vento la scuotesse.
Seminascosto da un massiccio leggio di rovere Scoto mormorava leggendo: - Lux in tenebris fidelium animarum lucet et magis ac magis lucet, a fide inchoans, ad speciem tendens -.
L’ombra vasta del suo corpo tozzo avvolto nel saio nero oscillava anch’essa sul pavimento e sulle pareti come una lugubre bandiera in un crepuscolo di tempesta.
Il frate leggeva alla luce di un mozzicone minuscolo di candela che si rifletteva limpido e diritto nel profondo dei suoi occhi spalancati cosi che le sue pupille quasi scomparivano e il suo sguardo pareva quello di un gufo soprannaturale o di qualche altro rapace notturno intento a spiare una preda, goffamente appollaiato sul ramo di un albero.
Udendo il passo dell’Imperatore che entrava nella stanza come gli era stato annunciato poco prima da un paggio sfrontato distolse lo sguardo dal pesante codice che stava scrutando e lo rivolse verso la porta, poi si alzò faticosamente appoggiandosi al leggio e, tossicchiando leggermente, accennò un lieve inchino.
- Maesta -, mormorò con voce nasale e catarrosa.
L’ombra del crocifisso che dominava il leggio gli celava gli occhi e il naso.
Cesare Federico si sedette a fianco di lui sulla panca.
Tacquero per lunghi istanti.
Nel silenzio assoluto della stanza si udiva distintamente lo sfrigolio resinoso delle torce.
Poi la voce dell’Imperatore sibilò fredda nella stanza, fredda e stanca come i suoi occhi.
- Scoto, ho fatto un sogno. Ho sognato di uscire a cavallo nell’alba alla ricerca del mio Falco che era fuggito in qualche modo dalla voliera, solo a cavallo nell’alba solo tra l’erba umida del bacio della notte e i fringuelli assonnati tra i rami delle querce.
Come l’amante solo lascia la torre dell’amata quando il grido della scolta annuncia l’alba che viene. In una macchia scura e spinosa ho visto una fanciulla saracena priva di sensi e ferita, un braccio ripiegato sotto un fianco, come un’ala spezzata, come d’Aquila caduta nel pieno del suo volo l’ho raccolta, l’ho posta davanti a me sul mio cavallo aveva odore di sangue e di fango, come sono forti gli odori nel sogno, Scoto, si sentono gli odori nel sogno? Ed è stato allora che ho visto la cerva dagli zoccoli di ghiaccio, dal fiato di gelo, la cerva del nord, la cerva dell’inverno. Poi un uomo avvolto in un caffettano nero come l’ombra dell’inferno ha scagliato contro di me un serpente, con il tallone ho schiacciato il capo del rettile verde, con un fendente della mia spada ho spiccato la testa dell’uomo nero e la sua testa parlava e mi ha maledetto. Poi sono di nuovo montato a cavallo con la fanciulla, com’era tiepido e dolce il suo corpo ferito, nel sogno si sente il tepore dei corpi? E mi sono trovato su una spiaggia bianca tra la schiuma delle onda e le grida dei gabbiani e un uomo vestito di verde con un turbante verde mi ha accompagnato verso una capanna e c’erano due giovani donne saracene che cantavano alle cui cure ho affidato la fanciulla ch’esse e il vecchio già conoscevano e chiamavano LEILA o anche Aquilotta e io pensavo che nel mondo della meraviglia, nello stupore del mondo non c’è posto per la Morte. E ti chiedo, Scoto, amico e maestro, che sorta di sogno è mai questo che mi pare più vero ancora del mio corpo che adesso è seduto accanto a te ed è poi davvero un sogno o cos’altro? –
Scoto alzò lentamente la grossa testa dal volto paonazzo.
Tossì.
- Gravi cose mi racconti o Cesare, perché il tuo sogno che sia sogno o stupore di veglia è fitto di segni infausti e di ancor più infauste allegorie. Perché colei che nel sogno hai udito chiamare col nome di LEILA che nella lingua degli infedeli vuol significare la notte non è verosimilmente che LILITH in forma di succube, colei che deviò il cuore del Re Salomone dal culto del vero Dio si ch’egli eresse sulle colline i pali abominevoli dei BAALIM, la sua natura di succubo, mi appare chiara nella Vostra confusa narrazione, Maestà, dal fatto che essa vi è apparsa debole e ferita si da suscitare in Voi, perfetto cavaliere, il desiderio di proteggerla, ma impudicamente, essa vi è altresì apparsa nuda e il tepore del suo corpo è il principio della tentazione. Per la Grazia sovrabbondante ottenuta per noi dal Sangue del Salvatore Nostro avete potuto evitare la fornicazione con il Demonio nella sua forma Femminile e notturna LILITH ma non avete potuto evitare il suo contatto -, Scoto tossì rumorosamente e lo spostamento d’aria causato dai suoi polmoni fece turbinare la luce delle torce e piegò la fiamma della candela che ardeva davanti a lui fino quasi a spengerla. –Speciale è la Grazia che fluisce per chi regge la spada sacra dell’Impero -, gridò quasi, dopo aver rumorosamente deglutito – il serpente che avete schiacciato con il tallone vi ha salvato, perché sta scritto che chi guardava il serpente veniva salvato e il serpente che Mosé ha innalzato sul palo per la salvezza del suo popolo è divenuto il segno del Figlio dell’Uomo che è stato anch’esso innalzato sul palo della Croce per la salvezza di tutti gli uomini. Così quella che vi è parsa una maledizione, che avete udito come tale, era in realtà una benedizione perché è scritto che la Croce è scandalo per i gentili e la Vostra fede è debole Maestà, questo io comprendo del sogno e poco importa per la lettura dei simboli se quelle che avete varcato fossero le porte del sogno piuttosto che quelle dello stupore. Quello che conta è che il messaggio veniva dal Nemico -.
- Scoto, quando ieri vi ho narrato il sogno dell’Aquila e del Falco mi avete detto che l’Aquila e il mio cuore e il Falco la mia volontà -, disse. Allora Cesare Federico, senza guardare il Monaco. – Che cosa intendevate allora con queste parole -, continuò.
Scoto fissò su di lui i grandi occhi e il suo volto assunse un’espressione stupita: - Maestà, Vi chiedo perdono ma non ricordo di aver pronunciato queste parole dinanzi a Voi -.
- E’ pur vero che io le ho udite – rispose Cesare Federico volgendo per la prima volta lo sguardo verso il viso del suo interlocutore.
- Vi chiedo di nuovo perdono, le mie labbra non mentono, lo giuro sul Manto Celeste della Vergine, non le ho pronunciate -.
Con uno scatto Cesare Federico balzò in piedi: - Volete mettere in dubbio le mie parole, offendere il mio onore chiamandomi con vocaboli dissimulati mentitore -, sibilò con fredda ira.
- Dio mi sia testimone che non ho mai avuto una simile tentazione, ma io non posso affermare quello che non è, non ho pronunciato quelle parole Ve lo giuro nel nome dell’Altissimo -, rantolò il Frate tra scoppi sonori di tosse catarrosa, le sue guance grasse e rosse erano scosse da un tremito incontrollabile.
L’Imperatore si risedette lentamente guardando un punto indeterminato davanti a sé mormorò: - Dov’è la porta che conduce al Mondo dello Stupore? -.


XII. LA SCHIAVA


Notte. Passi di scolte sugli spalti. Fiochi lumi di lanterne tremolanti sui merli. Il cielo stellato sembra una cupola di cristallo sorretta dalle solide torri di pietra. In una di esse, rivolta ad Occidente, in una piccola sala con due finestre VON SALZA siede su uno sgabello di rovere. Buio. Dalla stretta feritoia delle due finestre entra soltanto la luce pura delle costellazioni. VON SALZA non conosce il nome di nessuna di esse.
Il cielo stellato non l’ha mai interessato. Il suo cuore palpita solo alla vista del rosso pianeta, la goccia celeste di sangue chiamata Marte che annuncia le stragi e la battaglia, il fuoco e il saccheggio.
VON SALZA è la spada dell’Impero nella lontana Marca Orientale.
Tra le sue gambe sta accucciata una fanciullina biondissima di forse dodici anni, la sua pelle nuda è più candida della luce delle stelle che l’accarezza dolcemente. La sua pelle è più candida del latte delle stelle.
Piccoli capezzoli rosa pallido si schiudono sui seni bianchissimi appena sbocciati.
VON SALZA l’allontana con un calcio.
LA luce delle stelle accarezza i capelli sottili come raggi di luna.
Ora è accucciata contro il muro.
I suoi occhi sono rivolti verso il cavaliere.
Lo guardano ma non lo vedono.
I suoi occhi vedono sempre e solo il villaggio che brucia e le sue orecchie odono solo il pesante rimbombo dei cavalli e le urla di terrore e il clangore metallico delle spade e delle armature.
Bissula.
Questo è il suo nome.
VON SALZA l’ha avuta come bottino. Da quel giorno la usa.

I cavalieri fecero battezzare i prigionieri che avrebbero utilizzato oppure venduto come schiavi.
La schiavitù infatti è legittima per la Chiesa soltanto se serve per tutelare la fede dello schiavo. Il padrone è responsabile della salute spirituale del suo schiavo.
Giovani e donne furono battezzati tra il fumo acre delle capanne in fiamme, in una pozza di fango insanguinato, intorno dai ventri squarciati dei guerrieri morenti un lieve vapore saliva verso il cielo livido del mattino.
VON SALZA, invece non battezzò Bissula.
Voleva godere di lei.
Come se fosse una bestia.
E se non era battezzata cos’era se non una bestia destinata alla notte eterna degli inferi.
Poteva usarla senza rimorso.
Lui era il signore della sua dannazione.
Bissula giace raggomitolata sul pavimento, bianca come la neve, la sua pelle.
La luna è una carezza sul suo seno pallido.
I suoi capelli sono fili d’oro.
Nei suoi occhi le fiamme del saccheggio.
Tra le fiamme che crepitano e gli schiocchi delle travi che si spezzano, lontano, ormai oltre il margine dl villaggio un vecchio guerriero cieco da un occhio si allontana nella pianura tra la neve, circondato dai suoi lupi e con un corvo nero, - o come nero! - sulla spalla.
- WODAN -, mormora la fanciulla e non sa di chiedere vendetta.
Lei ha dimenticato la sua lingua e il Padrone non gliene ha insegnato un’altra.
Una bestia non ha bisogno di parlare.


XIII. IL TESORO


Notte. Sul mare l’orizzonte è una linea sottilissima di luce candida ma le onde sono neri sospiri.
Tra i merli trema la luce delle lanterne. Il passo delle scolte riecheggia tra le torri grigie.
Sotto la sala delle udienze c’è una cripta.
Un arco molto ampio e basso ne costituisce l’ingresso.
Sulla sua parte superiore è incisa un’iscrizione.
Le lettere che la compongono sono illeggibili al buio.
Nella cripta non brilla mai la luce.
La tenebra ne ha consumato il senso consumandone il ricordo.
L’entrata è sbarrata da una pesante cancellata arrugginita.
La volta di mattoni stilla fredda, viscida umidità.
Gocce unte di buio cadono al suolo con un rumore di insetti schiacciati.
Nell’oscurità, su un cuscino è posata una pietra, la più bella di tutte le pietre preziose.
Nessuna torcia getta su di essa la luce incerta della sua fiamma..
Qui non arriva il raggio della luna.
Qual è il suo colore?
Palpita del rosso del sangue come il rubino?
Le sue facce scintillanti si tingono forse di un pallido rosa solcato da tenere vene celesti?
E’ verde, forse come l’erba novella dei prati?
Bianca come la luce delle stelle riflessa dal manto nevoso nel plenilunio?
E’ un cuore nero.
Un cuore nero che palpita di notte e riflette la notte in raggi di tenebra.
Il LAPIS ORPHANUS è il cuore dell’Impero.
WEISE è il suo nome e irradia il potere.

Cado.
Cado.
Cado roteando intorno all’asse del mio volo.
Il nulla mi sostiene.
Cieco
Roteo in cerchi così stretti e rapidi che il mio roteare diviene una vibrazione immobile.
L’asse del nulla è il testimone del mio volo.
La mia consapevolezza è la tensione del mio roteante vibrare intorno al nulla.
La notte intorno a me pulsa di lampi.
Cieco
Percepisco il confuso dolore e l’odio di una bambina nuda.
Come una sciabola di luna nella notte
Come una goccia candida di latte che scende che cade con maestosa lentezza nel nulla.
Ruota cadendo.
Una penna d’oca scricchiola su una pergamena.
La fiammella di una candela trema appena accanto a un leggio.
Cado
Cieco
Laggiù
Sotto il basamento delle torri.
Sotto le fondamenta delle mura.
Rintocca il richiamo notturno del nero cuore del Potere.
Ruoto
Cadendo Ruoto
Cieco
Intorno ad esso
LAPIS HORPHANUS
Ho strappato gli occhi del Cervo
Ho trafitto la carne dell’Aquila
La mano dell’Imperatore
Mi solleverà ancora verso la luce.


XIV.


Nella fresca umidità del mattino, l’Imperatore cavalca solo attraverso la macchia verso l’alta scogliera.
Il cielo teneramente bianco è ricamato dai gabbiani d’argento.
L’odore salino si confonde con quello dolciastro della resina dei pini.
Passeri e allodole.
Frulli d’ali e trilli.
E il canto dorato dei grilli.
Più lontano su di un declivio le chiome degli ulivi modulano le sfumature liquide del verde e del bianco delle foglie.
Cesare Federico osserva il cielo e regge la briglia del grigio destriero soltanto con la mano sinistra.
Fresco e bianco è il vento del mattino.
E i fiori tra l’erba ancora umida di rugiada sono le stelle del prato.
- Dov’è la porta dello stupore? –
Pensa il cavaliere dirigendosi con indolenza sognante verso l’alta scogliera.
- O forse è un rivo profondo nascosto nella macchia tra il muschio e le radici? –
Con la mano destra scosta un ramo basso di un mirto che gli impedisce il passaggio, inchina leggermente la testa per scansare un rovo che oscilla proprio davanti al suo naso.
Il passo misurato ed elegante del cavallo grigio culla la sua attenzione.
Ora costeggiano il crinale della scogliera che alla loro destra precipita vertiginosamente verso le onde
Le rocce bianche che chiudono la cala sembrano colonne di schiuma, angeli pietrificati nel sorgere del loro primo volo.
Ali maculate di gabbiani.
Tra due cespugli si apre il sentiero che porta alla spiaggetta bianca.
Cesare Federico arresta il cavallo con una leggera tensione delle redini.
Il sole bianchissimo che splende appena sopra l’orizzonte li investe in un vento di luce.
Per un attimo, immobili.
Perfetti, in un turbine, in un vortice di raggi luminosi.
Poi con un colpetto leggero del tallone Cesare Federico ordina al suo cavallo di scendere.
Dalla spiaggia lontana, sotto la scogliera giunge fino alle sue orecchie un canto lento e melodioso, una sorta di lunga nenia di cui non è in grado di distinguere le parole, pronunciate in una lingua che egli non conosce.
Mano a mano che, con estrema prudenza, il suo cavallo procede nella discesa, nel bagliore accecante della sabbia bianca si distingue il tetto della capanna, la vecchia barca in secca sulla riva e una donna in abito saraceno accoccolata accanto ad essa.
- Il canto, di questa donna che a me pare ignoto eppure nello stesso tempo conosciuto, potrebbe essere questo la porta dello stupore? – Si domanda l’Imperatore cercando di distinguere i lineamenti della cantante lontana sotto di lui.
Con impazienza asseconda la sua prudente cavalcatura nella pericolosa discesa.
Quando entrambi giungono alla spiaggia, la donna cessa di colpo di cantare e si alza per farsi loro incontro.
Cesare Federico smonta e la donna dopo essersi inchinata davanti a lui diverse volte lo conduce verso la capanna appoggiata alla scogliera.
LEILA è accoccolata su un tappeto.
Vestita con una tunica verde e gialla.
Sulla testa porta una cuffia anch’essa gialla, o meglio di un bianco scuro, tendente al giallo, come un tessuto invecchiato ma proprio per la sua età divenuto di maggior valore.
Dalla cuffia pendono come ciondoli diverse monete d’oro che le coprono la fronte e le tempie.
I suoi occhi nerissimi riflettono le fiammelle del fuoco che arde in un angolo, probabilmente a scopi culinari.
Nella capanna non fa caldo.
Regna un umido tepore che rende l’aria medesima un languido unguento profumato.
Con un armonioso gesto della mano la ragazza invita l’Imperatore a prendere posto davanti a sé.
Poi con timida premura si alza e si inchina elegantemente ripetendo il suo cortese invito nella lingua dei saraceni che Cesare Federico conosce bene.
- Vi ringrazio Signore per la premura che ha spinto i vostri passi su questa remota spiaggia e verso questa umilissima capanna, dopo esservi preso la pena di portare soccorso al mio corpo vile e insignificante –
- Siediti colomba -, mormora l’Imperatore, - che il tuo gesto ha la vaghezza del volo e la tua bellezza è un vento che disseta e purifica, sorridi con gli occhi tuoi neri dove ogni riflesso diviene una stella, bella quale colomba, terribile il tuo sguardo come quello dell’aquila. Come carbone ardono i tuoi occhi, come la notte quando è piena di stelle, neri sono i tuoi occhi come le tende di Salomone, come il pozzo di Giacobbe sono profondi, lascia che a questo pozzo io mi disseti e al tepore del tuo fiato mi ristori ché  la curva del tuo fianco è come l’ala del girifalco quando vira al vento -.
LEILA abbassa lo sguardo e, accogliendo l’invito dell’Imperatore, si accoccola di nuovo con grazia quasi infantile sul tappeto, il fruscio dei suoi vestiti colorati è come una fresca brezza di Primavera sulla fronte madida di Cesare Federico.
Una brezza verde come l’erba novella dei prati, gialla come le tenere primule che per prime fra tutti i fiori sfidano la neve.
L’aria della piccola capanna è densa di odori e di profumi.
Le volute del fumo del braciere si mescolano ai filamenti azzurrini di quello dell’incenso, zenzero e sudore, olio e cumino impastano il loro odore con quello del salino che il vento marino porta a folate attraverso le aperture della tenda.
Questo è forse l’odore dello Stupore? –pensa Cesare Federico.
- Questo è l’odore della carne -.
Com’è bella LEILA accoccolata con le gambe incrociate sotto la tunica, morbida e flessibile, la sua carne odora di giunco e di sandalo.
Tacciono.
A lungo
Entrambi.
- Chi sei ? -, chiede Cesare Federico in un soffio.
- Non lo so -, risponde LEILA senza alzare lo sguardo.
Fuori dalla capanna sul mare d’argento abbagliante gridano i gabbiani.
Il cavallo dell’imperatore soleva la testa verso la scogliera. La donna saracena torna ad intonare la sua monotona litania.
- Da dove vieni? – chiede di nuovo Cesare Federico fissando con i suoi occhi azzurri la nuca nera della fanciulla.
- Da Alamut, in Persia -, risponde lei con voce decisa alzando finalmente gli occhi e fissando quelli dell’Imperatore.
- Ecco la porta dello stupore -, pensa Cesare Federico e gli pare che la notte immensa, ardente di stelle misteriose come angeli fissi la sua pupilla chiara.
Sono i suoi occhi il pozzo della notte, il vortice dell’oscuro volo, il pulsare nero della gemma del cuore.
- Notte, piume, volo -, pensa l’Imperatore.
- O stupore -.
- Le tue mammelle sono sacchetti di profumo, sacchetti di nardo sotto le mie mani.
Arde lo guardo di Cesare.
Il suo cavallo scava la sabbia con lo zoccolo.
- Il Vecchio mi ha mandata fin qua con ISAAC, i monaci però lo hanno ucciso e il Falco mi ha trafitto in volo, le mie ferite sono quelle dei suoi artigli, perché io sono l’Aquila, io volo, poi mi hai trovato e la Cerva ci ha salvati. Chi ha mandato la Cerva? Io vedo la nebbia nei tuoi occhi e il freddo delle Montagne, come sono sole le montagne, quelle più alte sono quelle più sole e la più sola di tutte è il Monte Meru che nessuno ha mai visto perché è troppo alto per essere visto. Nei tuoi occhi c’è la solitudine delle montagne. Le aquile volano sulle montagne -, la voce di LEILA è ora come una cantilena, pronunciata in un soffio caldo e profumato, il suo corpo trema sotto la tunica, la sua fronte si imperla di sudore.
Con estrema delicatezza Cesare Federico l’afferra per le spalle e l’appoggia dolcemente sui guanciali abbandonati sul tappeto.
Sente la sua pelle calda e morbida sotto la stoffa della povera tunica, l’odore del suo corpo lo circonda. Con un movimento lento ma deciso le sfiora la fronte e il palmo della sua mano resta bagnato delle gocce del suo sudore acre.
LEILA dorme.
L’Imperatore esce dalla tenda
Il suo cavallo sembra intento ad ascoltare la lenta e dolce nenia della donna saracena.
Sole
Sale
Grida
Gabbiani
Il sudore di LEILA brucia sul palmo dell’Imperatore.
Mattino.


XV. Il trovatore



Io conosco il paese dei biancospini
Ho visto il mantello azzurro della Vergine.
Il bianco è l’azzurro sono i colori del mio scudo.
Ma le spine,
Le spine gocciano del sangue
Infitte nel mio cuore
Oh spine
Spine spasimo
D’Amore
Signora celeste
Dama del mio cuore
Io conosco il paese dei biancospini
Avvolta nel mantello azzurro
Confonderemo i nostri nudi cuori
Che stillano spasimi dolcissimi di sangue
Oh vermigli languori.

In piedi accanto al suo cavallo, Peire ripete come soprappensiero questi versi.
Il suo cavallo è nero.
I suoi fianchi magri sono madidi di sudore e fumano nell’aria fresca del mattino.
Il mantello di Peire, non è azzurro, le sue maniche non sono bianche.
I suoi vestiti neri e sporchi di fango sono lisi e strappati in più punti.
Dopo aver legato la sua cavalcatura ad una colonna del pozzo del cortile si dirige con andatura stanca e goffa verso il grande portale basso delle cucine.
Peire è goffo e affamato.
Peire è ghibellino.
Un ghibellino affamato e poeta ha attraversato tutti gli Appennini per poter vedere l’Imperatore.
Ha camminato nel fango e sulle pietraie, tra i rovi e sotto i faggi, tra i rami umidi di pioggia fredda, ha dormito nella macchia avvolto nel mantello, ha dormito in sella quando ogni angolo del bosco era troppo fradicio o gelato per potersi coricare al suolo. Ha visto sui fianchi dei monti le nuvole grigie e pesanti di pioggia impigliarsi ai rami nudi, neri e lucidi delle roveri e dei carpini.
Ha visto le betulle solitarie al margine degli scoscendimenti rabbrividire della loro stessa nuda bianchezza.
Come accendere un fuoco quando tutto è gonfio di pioggia e le pietre fredde dei versanti sembrano spugne o otri e i licheni marci pendono a festoni gialli dalle soglie delle grotte.
Il fuoco arde lontano negli stabbi dei pastori.
I cani abbaiano al viandante.
Come sono nudi e stremati i boschi e i versanti dei monti.
Tremano di stanchezza i sassi delle pietraie.
La natura è stordita di umida rabbrividente spossatezza.
Eppure, ben presto i rami neri arderanno di pallido rosa e arancio e sfumature di rosso intenso e le nuvole diverranno violette sullo sfondo degli squarci azzurrini del cielo.
Ed egli, lo sa bene, ne è certo, vedrà il biancospino.
Il biancospino arido e spinoso.
Candido.
Un ricamo sul mantello azzurro della nera Signora dell’Amore.
E sotto le scogliere rotola il mare ruminando il suo urlo cupo, grigio e nero.
E la notte è una tenda scura di fumo.
E il fumo si impiglia alle torri.
Sugli spalti passeggiano le scolte.
O biancospino arido e spinoso
Trina e ricamo del mantello azzurro,
Pensa Peire.

Dalla cucina giunge un odore pesante di lardo e di zenzero, bagliori di fuoco riflessi dal rame, rintocchi di urti di metallo.

Il ghibellino affamato varca la soglia.
Il fumo acre e denso gli brucia negli occhi. Poi, poco a poco il suo sguardo si abitua alla caligine e all’odore.
Intorno a un grande camino si affaccendano uomini e donne straordinariamente corpulenti, vestiti di tuniche brune e grigie sulle quali le macchie di grasso, sangue e unto sono sovrapposte in strati talmente numerosi da renderle quasi rigide.
Alcuni ragazzini seminudi e magrissimi, sudati e tremanti si affannano sui grandi mantici di legno situati ai lati dell’immenso camino.
E ad ogni nuovo soffio di aria l’immenso fuoco rosso che vi arde lancia un rauco ruggito e crepita scagliando sciami di scintille che in parte cadono a ustionare i piccoli corpi martoriati.
Nel mezzo del camino trafitti da pesanti spiedi di acciaio i corpi dei cinghiali, delle lepri, dei ricci, delle pernici, dei fagiani, di due pecore e un bue sfrigolano gocciolando sangue e grasso  dorandosi o annerendosi al calore immenso del fuoco.
Le loro ombre tremanti si stagliano sulla parete opposta come quelle di draghi incantati deformati da spasimi d’ira e di dolore.
Una bambina coperta soltanto da una sudicia tunica sbrindellata spenna una gallina accoccolata per terra.
Il calore ruggente del fuoco ha seccato in poco tempo l’umidità dai vestiti di Peire e gli ha impregnati di un forte odore di cenere, resina, cannella, grasso e unto.
Due uomini dai robusti avambracci pelosi lo urtano mentre attraversano la porta reggendo una pesante tavola sulla quale sono allineate decine e decine di scodelle fumanti che contengono un denso brodo giallo e rosso.
Il rumore e il calore improvviso lo intontiscono al punto da fargli dimenticare l’ottuso tormento della fame che lo lavora da diversi giorni.
Prova di colpo una grandissima stanchezza.
Si accascia su una tavola di faggio rozzamente levigata e si addormenta con le spalle appoggiate al muro unto di fuliggine viscosa.
La piccola stracciona continua a spennare la sua gallina. Ma non è piuttosto un’oca?
Le sue piume sono così bianche.
Volteggiano intorno alla sua testolina ricciuta e sporca.
Volteggiano come grandi fiocchi bianchi.
Fiocchi di neve.
Tra i rami grigi dei faggi.
Sogna Peire.
Ma lontano, tra le nuvole viola si intravede il disco rosso del sole.
Rosso come un paiolo di rame.
Fame.
Com’è dolce questo tepore, pensa Peire sognando.
I fiocchi di neve sembrano piume.
La bambina celeste della neve spenna le candide oche sui prati delle nuvole.
Bianchi come piume i fiocchi del biancospino.
Nessuno bada alla figura addormentata con le spalle appoggiate al muro, la fronte reclina, il mento nascosto nel bavero, i radi capelli castani appiccicati alla fronte dalla sporcizia del viaggio.
Nella grande cucina entrano tutti i giorni i vagabondi più male in arnese: poeti, chierici, cerusici, pastori,  profeti, frati minori, guardano il fuoco, intontiti dalla fame e dalla stanchezza.
Si addormentano nei loro cenci accoccolati su qualche panca sognando che il sole sia un immenso paiolo fumante.
Ci sono frattaglie e avanzi per tutti.
Per tutti i fondi del vino neri aspri e densi come mosto.
XVI. PARMENIDE


Immobile di fronte al suo scranno, nella sala della biblioteca Michele Scoto è intento a scrivere.
Una smorfia di concentrazione deforma il viso rosso e grasso e ne fa risaltare le vene violacee.
La penna d’oca scricchiola sulla pergamena.

“Il cadavere non percepisce la luce, il caldo e la voce, a causa della mancanza del fuoco, esso, invece, percepisce il freddo, il silenzio e tutti i contrari di questo tipo”.

Per quanto il cadavere resta in questo stato di percezione capovolta, pensa il frate, e durante questo periodo, in cui non è più in comunicazione con l’anima che lo ha già abbandonato, perché se così non fosse esso non sarebbe ancora un cadavere, gode, forse di una qualche forma di autocoscienza?
Ricorda lo stato delle sue percezioni precedenti, ovvero la sua vita in unione con l’anima?
Questo sarebbe contraddittorio, perché ricordare significa riattivare le percezioni e se gli organi delle percezioni ignee mancano, esse non possono essere riattivate.
La percezione cadaverica non è una delle porte?
Il cadavere non è la morte
Allora dov’è la morte?
Questi pensieri si inseguono confusi ella mente del frate mentre la sua penna scricchiolante avanza a fatica sulla pergamena delineando caratteri spigolosi.
Come ottenere la percezione cadaverica?
Si dice che il Veglio della Montagna nella lontana Persia sia a conoscenza di un’erba che è in grado di provocare temporaneamente il distacco dell’anima dal corpo.
Come può essere temporaneamente?
L’anima ha memoria del corpo?
E se ne ha memoria perché il cadavere non dovrebbe avere memoria della sua anima?
Percepire il contrario della percezione, non è questo lo stupore di cui parla l’Imperatore?

Ma in che modo entrarvi?
Come infrangere lo specchio che ci tiene racchiusi e che ci rinvia sempre l’immagine tautologica di noi stessi?
Ad Alamut conoscono veramente la via che permette di uscire dal sogno?
O di entrarvi?
Lo specchio è l’enigma.
La soluzione è il volo.



XVII. IL FUOCO


L’anima è fuoco.
Il fuoco si eleva.
Il suo movimento è il volo.
Io
Volo
In cerchio, in grandi cerchi sempre più ampi, sfioro le cime degli abeti e gli spruzzi delle onde che si frangono sugli scogli.
Io sono fuoco.
Ardo del cielo
Ardo di vuoto
Ardo di vertigine
Io sono l’anima perché la mia percezione è volo.
La fiamma come una colonna sale verso il cielo e nella sua ascensione è pura.
Io sono fiamma che sale.
Io sono l’anima che afferra coi suoi artigli la carne e col suo becco la dilania.
Perché l‘anima dilania il corpo.
Il corpo è la preda dell’anima.
La materia quella dello spirito.
In nere colonne maestose si alza verso il cielo il fumo dei villaggi incendiati, dei raccolti messi a fuoco e porta con sé odore di lacrime, sapore di sangue dolce e nero, lacrime di donne, sangue di bimbi che squittiscono come topini ciechi e succhiano a vuoto la mammella della morte,
sopra queste colonne
più alto del tempio di nembi della morte
Io volo
E il mio volo è ampio e sereno
Io sono
Piume e artigli
Fiamma e caduta
Falco.


XVIII. IL CANTO


Sulla riva del mare.
Sotto la scogliera che il sole al tramonto colora di rosa e di arancio.
Nella capanna di relitti e paglia LEILA dorme avvolta nella sua tunica verde e gialla zuppa di sudore tiepido.
La saracena, voltandole le spalle prepara il te su un fornello di bronzo e lo versa poi in una caraffa di metallo pesante e brunita.
LEILA dorme e sogna.
Il suo sogno è il sogno di un canto.
Da dove le giunge quel canto che da sveglia non ricorderebbe di aver mai udito e tantomeno cantato?


Uccidetemi,o miei fidi
Se mi uccidete io vivo.
Uccidetemi, bruciatemi
Dentro queste ossa caduche.
Le mie spoglie incontrerete
In sepolcri ormai consunti,
Il segreto dell’Amato
Troverete tra quei resti.
Sono invero un gran maestro
Ed altissimo è il mio rango,
Poi mi son fatto bambino
Stretto al seno d’una balia,
Riposando in una tomba
Sotto terre paludose.
E’ mia madre –oh meraviglia! –
Che mio padre ha partorito.
E poi ancora le mie figlie
Diventaron mie sorelle,
contro la legge del tempo
senza compiere adulterio.
Raccogliete le mie parti
Prese da corpi lucenti,
poi dall’aria, poi dal fuoco,
poi dall’acqua fresca e dolce.
Seminate quindi un suolo
Dal terreno secco e morto,
provvedendo ad irrigarlo
con del liquido portato
da coppiere servitrici
e da rivoli correnti:
nascerà entro sette giorni
la più bella delle piante.


L’odore tiepido del suo sudore la consola è verde e dolce come la linfa di una pianta in primavera.
Una pianta spuntata in una notte, una pianta che è un canto e come un canto è tersa.
Distende le gambe piacevolmente intorpidite dalla guarigione verso il fresco della sera che giunge.

E nel sogno rivive il canto.


XIX. LA FALENA

E nel canto giunge a lei Federico.
Egli la visita ormai quasi ogni giorno. Non appena può liberarsi dagli affari dello stato, dalle udienze e dalle cacce l’Imperatore cerca la porta della meraviglia.
LEILA lo attende
Lo attende sulla riva del mare. Seduta con le gambe incrociate proprio dove l’ultimo velo d’acqua delle onde viene a spegnersi in un leggero ribollire di schiuma.
La luna semina lamelle d’argento sul mare appena increspato.
Federico scende da cavallo e si siede sui talloni accanto a lei.
Lo attende sulla riva del mare. Accoccolata sulla battigia e l’alba inonda di bianco splendore l’acqua verde come il diamante in un vortice di ali e grida di gabbiano.
Federico si china su di lei e la fa alzare inserendole delicatamente le mani sotto le ascelle.
Un pescatore vestito di verde, con in capo un verde turbante saraceno li osserva dalla sua barca, accanto a uno scoglio arancione.
LEILA  sa di sale e di alghe.
La sua pelle brucia come la sabbia del deserto.
I suoi occhi sono nei come la notte dello stupore.
Lo attende sulla soglia della capanna. Seduta accanto a un fuoco di sterpi e di rottami e le fiamme danno ai suoi capelli neri il riflesso del rame. Federico, in piedi dall’altra parte del falò osserva la danza del fuoco duplicata dalle sue scure pupille.
LEILA si alza ed entrano nella cappanna, l’uno dietro l’altra, chinando il capo per non urtare lo stipite non ben saldo da cui pende uno straccio verde.
Il corpo di LEILA è rovente come il vento di sabbia del SAHARA, come il vento si -bila e geme.
Lo attende in piedi guardando verso la scogliera vertiginosamente bianca da cui scende ritto sul cavallo, reggendo la briglia con una mano sola.
Lui smonta e la prende per mano.
Siedono insieme tra l’erba gialla. Il vento scompiglia loro i capelli, i suoi capelli d’oro e di grano, i suoi riccioli neri.
La sua bocca è dolce e fresca come acqua di neve profumata di zucchero, di rosa e di cannella.
-         Sei tu la meraviglia? – chiede Federico.
-         Sei tu la porta dello stupore? –
-         Chi conosce la porta dello stupore? – mormora LEILA. – Oh figlio della neve e della nebbia, impara dalla falena che coloro che cercano non sanno, essa invece brucia e muore tacendo -.
-         Chi sei LEILA? – ripete Federico con voce roca.
-         Se io fossi un pesce tu saresti il pescatore, se fossi un uccello saresti il cacciatore, se fossi un fiore del prato tu saresti la rugiada che al mattino lo disseta.


XX. LA CANZONE


L’Imperatore siede sul suo alto scranno. Dietro di lui sta ritto VON SALZA rigido nella sua cotta nera. Alla sua destra, sprofondato in uno scranno più basso che a malapena lo cantiene SCOTO dormicchia.
Intorno le dame della corte splendono nei veli colorati.
PEIRE si inchina con imbarazzo davanti allo Stupore del Mondo scostando con una mano il mantello sdrucito e bisunto che gli impaccia le ginocchia.
SCOTO socchiude appena gli occhi e lo guarda senza interesse. VON SALZA fissa il vuoto.
-         Ascolta, Trovatore – dice Federico con voce fredda e ferma.
Le voci argentine delle dame tacciono di colpo.
-         Ascolta, voglio porti una questione, se sarai in grado di dare una risposta saprò ricompensarti con dovizia -.
-         L’onore della questione che viene dalla vostre labbra è un guiderdone sufficiente alla mia lacera ambizione, Maestà -, risponde PEIRE.
-         La conosco ma non so chi è, mi conosce ma non mi dice chi sono -.
-         L a Morte, Maestà.
-         E’ questo la Morte trovatore? –
-         Quando saprete chi è avrete varcato la soglia della sua casa, allora vi dirà chi siete perché solo allora sarete divenuto ciò che siete.
Federico fissa il lacero trovatore con uno sguardo di freddo stupore, SCOTO si drizza a fatica reggedosi ai bracciuoli di legno scolpito e lo scruta anch’egli con unta curiosità.
Federico fa un cenno a VON SALZA che inclina la testa e le spalle in modo da porre l’orecchio all’altezza della sua bocca: - fate preparare due palafreni e due mantelli per il poeta -.
PEIRE si china fino a toccare con la fronte il pavimento di pietra.
Un brusio di voci femminili lo circonda. Il passo pesantemente ritmato di VON SALZA che esce per adempiere la volontà dell’Imperatore risuona sulle lastre di pietra dell’ampia sala, un volo di allodole nere invia il suo battito frusciante attraverso le ampie aperture delle finestre.
Peire inizia a cantare:

Nell’alto cielo pieno di stelle
Cessato è il vento
Come impallidiscono le stelle
Quando tu appari
Taci cantore che non mi curo
Della tua voce più che del suono
Del vento tra i rami
Vado nel mare
Sarò un’anguilla

Se tu sarai pesce nell’onda
Io pescatore diventerò
Ti pescherò

Se pescatore diventerai
Sarò un uccelo sopra la landa

Se tu un uccello diventerai
Il cacciatore per te sarò
Ti caccerò

Se tenderai lacci ai fagiani
Diventerò erba fiorita
Starò nascosta nel vasto prato

Se margherita diventerai
Io l’acqua limpida per te sarò
Ti annaffierò

Se l’acqua limpida tu diverrai
Una gran nuvola diventerò
E sopra il mare ti fuggirò

Se bianca nuvola tu ti farai
Vento scirocco per te sarò
Ti porterò

Se tu sarai vento marino
Raggio di sole diventerò
Che scioglie il ghiaccio

Se caldo raggio tu diverrai
Verde lucertola io mi farò
E ti berrò

Se salamandra ti renderai
La Luna piena io diverrò
Il tuo segreto disvelerò
Se luna piena tu diverrai
Nebbia leggera io mi farò
Ti avvolgerò

Se nebbiolina diventerai
Rosa di macchia mi renderò
E nel cespuglio mi schiuderò

Se rosellina diventerai
Una farfalla per te sarò
Ti bacerò.

L’Imperatore fissa Peire che canta. – LEILA è la rosa nera -, pensa - che fiorisce a luna nuova, io sono la falena che la sua fiamma scura incenerisce-.


XXI. LE MEDUSE


LEILA e Federico. La notte e il mare. Ascolta il suono della brezza sulla sua pelle nuda. Le onde vengono a morire ai loro piedi tra i mucchietti di alghe nere. Non ci sono stelle, non c’è luna. Solo il lamento scuro, opprimente, profondo del mare.
-         Com’è nero il tuo ventre, LEILA -, pensa Federico, - com’è rosa -. Odore di alghe.
Le meduse sono cullate dalle onde sono appena più rosa dell’acqua ma non brillano nella notte come stelle. – Che cosa le separa dal mare? – Che cosa ci separa dalla sostanza eterna che ci forma e che siamo? – Che cosa ci limita? – Il nostro corpo è il limite che ci esclude dall’essere infiniti? – Com le meduse dell’eternità nuotiamo nel mare dell’essere che siamo noi stessi ma un’ombra ci separa dalla sua eterna serena immobilità -.
-         Noi stessi siamo il nostro limite, il nostro corpo ci separa dalla materia eterna di cui siamo fatti. Quanto più intensamente siamo tanto meno infiniti diveniamo. Per questo siamo destinati alla morte, noi stessi siamo la nostra morte –, questi pensieri si susseguivano nella mente di Federico come le onde che venivano a morire ai suoi piedi nell’oscurità distinguibili soltanto per il loro lieve fruscio.
Il corpo nudo di LEILA accanto a lui aveva l’odore del mare e la vellutata consistenza della notte. Il loro respiro era lento e leggero, il corpo di LEILA pareva aderire dolcemente fino a coincidere completamente con l’oscurità che li circondava.
I suoi capelli erano il vento che disperde le nuvole nere sul mare, la sua pelle il confine tra l’acqua e il cielo, i suoi occhi le profondità salate da cui salgono ondeggiando le meduse, il suo respiro il fruscio della risacca che traccia le sue rune effimere sulla sabbia tra gli scogli.
Con entrambe le mani Federico strinse con delicatezza le sue spalle magre e delicate.
Non ci furono più limiti
Nuotava nello stupore infinito della notte.
XXII.


Scendo nel buio.
Scendo.
Con lentissimo volo circolare.
La lama delle mie ali penetra nella notte, crea turbini di oscurità, mulinelli neri, turbolenze di assenza.
Il pozzo della mia discesa non ha limiti
In fondo
In fondo
In fondo
Sospese nel nulla nero
Come fragili lampade rosa
Fluttuano
Le meduse.


XXIV


Un uomo vestito di verde con un verde turbante di foggia saracena siede all’ombra di un mirto.
Il suo sguardo si posa solo sugli oggetti verdi che lo circondano sulle foglie e non sui fiori, sul mare e non sul cielo, sull’erba e non sui ciototoli del sentiero.
Tutto ciò che viene sfiorato dal suo sguardo pare ancora rinverdire per quanto già sia verde, assumere il riflesso luminoso del diamante.
Guarda le lucertole e ignora le allodole.
Lui conosce la storia.
Lui conosce tutte le storie.
Da quanti secoli vaga per il mondo raccogliendo e intessendo le storie dei santi e dei sapienti?
Conosce le storie della sabbia e del vento SIMUN. Le storie della neve e del Monte Elbruz.
Forse le storie esistono perché lui le conosca o, più probabilmente è lui che esiste perché ci sono le storie.
Lui che fu compagno di Mosè e prima ancora di Abramo, forse ricorda le storie dei Djin e dei giganti, l’amore delle donne e degli angeli?
Di certo conosce la storia di LEILA e del Veglio, di come questi la inviò da Alamut al lontano Occidente per portare la conoscenza all’Imperatore.
LEILA fanciulla dei canneti di papiro del Nilo venduta come schiava dai Curdi ad Alamut.
LEILA cresciuta presso il Veglio nella rocca inespugnabile da cui si accede ancora in vita al Paradiso del Profeta.
LEILA che sa essere notte e aquila e varca il confine delle forme. LEILA che non ha memoria perché non ha forma e la memoria e memoria solo della forma. Conosce il lungo viaggio che ha dovuto affrontare attraverso la Persia e l’Anatolia, il Caucaso e le steppe accompagnata da ISAAC scelto tra gli hashishin per il suo valore, la sua fede illimitata e il suo amore per LEILA.
Ha visto gli agguati dei monaci di Sais che lui stesso talvolta ha contribuito a sventare.
Sa che ora ella giace nelle braccia dell’Imperatore e che insieme varcheranno la Porta dello Stupore.
Nemmeno lui, però sa chi siano i monaci di Sais, perché abbiano voluto con tutti i mezzi impedire il compimento del viaggio né quali siano i loro contatti con VON SALZA e con i suoi Cavalieri Teutonici.
LEILA aprirà la Porta dello Stupore per Federico ed egli sarà davvero, allora, il Re del Mondo, come lo furono MELCHISEDEC e MANU e NUMA dopo di loro.
KHIDR sa tante cose e tante cose non sa e dal sapere e non sapere intreccia le storie che permettoo agli uomini di cercare i sentieri della conoscenza.


XXV.


VON SALZA chiude la porta della sua stanza nella torre e scende verso la grande voliera dove i falchi e i girifalchi dormono sognando il volo con gli occhi coperti dai pesanti cappucci di cuoio.
Le punte delle sue unghie sono macchiate di sangue fresco. Cammina in fretta e a passi ben ritmati. Attraversa la grande scuderia silenziosa accolto solo da qualche lieve sbuffo di froge e da qualche nervoso scalpiccio di zoccoli posteriori dei cavalli arabi, i suoi stivali sollevano frammenti di paglia con uno scricchiolio appena percettibile.
Anche la grande voliera è silenziosa, sotto l’ampia volta a crociera i falchi, i girifalchi e i falconi stanno immobili coperti dai loro cappucci, allineati sulle assi di legno a cui sono legati da piccole catenelle che li avvincono per le zampe adunche di artigli.
Il suolo è cosperso di piume, l’aria piena dell’odore acido dei loro escrementi guanosi.
Nella penombra fumosa e tremolante delle torce passa lentamente lo sguardo sulle lunghe file di rapaci, sui trespoli, sui trapezi sospesi come lampadari alla nervature della volta.
Come se sentissero il suo sguardo i nobili predatori arruffano di tanto in tanto le piume del collo e accennano talvolta un battito di ali.
Un vecchio levriero dal pelo rosso accoccolato in angolo solleva la testa, apre gli occhi umidi e prende a leccarsi una zampa.
VON SALZA si volta e si dirige con decisione verso un trespolo isolato, collocato appena davanti a una nicchia d’angolo. Il levriero sospende  la sua diligente leccata e lo segue con gli occhi.
VON SALZA  cava da una delle tasche della pesante cotta nera un paio di grandi guanti di pelle. Se li infila accrezzando una per una tutte le dita e il dorso delle mani come per assicurarsi che aderiscano bene. Poi stacca la catenella dal trespolo, pone delicatamente il falco sulla mano destra serrata a pugno ed esce rapidamente dalla voliera.
Il levriero rosso che ha seguito tutta la scena china di nuovo la testa e si ritorna a leccare coscienziosamente la propria zampa.
Tornato nella scuderia  si accosta al suo cavallo che mostra di riconoscerlo nel buio con un breve nitrito, lo prende per la cavezza e lo conduce nel cortile.
La notte è umida e senza stelle. Sulle mura e sulle torri brilla tremante e fioca la fiamma di qualche sentinella.
Gli zoccoli del cavallo percuotono il selciato con un suono secco. Ne traggono  sciami di scintille gialle e azzurre.
Con il falco sul palmo della mano destra e le briglie ben salde nella sinistra VON SALZA sprona il suo cavallo oltre il portone, sul ponte, oltre il fossato.
Le sentinelle del corpo di guardia lo vedono passare appoggiate pigramente alle loro lunghe lance.
Verso il mare il cielo comincia a biancheggiare.

Nella stanza che il cavaliere ha lasciato la piccola Bissula giace raggomitolata nella pozza del suo sangue rappreso.
Intorno c’è solo il buio. Un’oscurità più profonda della notte. Un pozzo di buio che sprofonda nel buio e poi ancora nel buio, senza pareti e senza fondo. Io volo nel buio.
Volare nel buio è come restare immobili. Io sono più leggero del buio che mi abbaglia. Le penne delle mie ali sono i raggi dell’oscurità, il mio grido rauco e inudibile la sua estensione dolorosa perché nel buio non c’è spazio. O forse il buio è tutto lo spazio. Io non lo so. Io non penso. Io volo. E volando creo l’oscurità in cui volo. Immobile.

Sono il Falco
Il sole mi abbaglia.
Come un derviscio danzo la mia lenta danza concentrica intorno ai raggi musicali del suo splendore.
Volo nella luce.
Fisso il sole.

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