mercoledì, settembre 20, 2006

Sulla materia e il linguaggio


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Non ha l’ottimo artista alcun concetto,
Ch’un marmo solo in sé non circoscriva
Col suo soverchio, e solo a quello arriva
La man che ubbidisce all’intelletto.

Michelangelo.

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Qual è il soverchio del linguaggio posto che esso sia la materia del verso?

· Si potrebbe forse vedere l’attività poetica come quella che libera il Senso della parola eliminando uno per uno tutti i significati e tutti i sensi che la parola ha nel suo essere in potenza così come nel suo realizzarsi come atto linguistico comunicativo.

· forse sono proprio il senso e la comunicazione, qualunque siano le relazioni che li legano a dover essere intesi come il soverchio michelangiolesco?

· Allora, si dovrebbe cercare di indagare cosa sia ciò che nella parola il senso e la comunicazione velano e forse velando rivelano, almeno talvolta, a qualcuno.

· Indubbiamente la parola rende possibile il senso e la comunicazione.

· Comunicando e significando, tuttavia, essa pare dimenticarsi o assottigliarsi e svanire.

· Il comunicare, il significare, che non sono in alcun modo coincidenti, sono il modo di darsi della parola.

· Essa dandosi si vela, si fa senso, cioè altro da quello che è in sé, comunicazione, cioè nulla di sé.

· Nella comunicazione la parola si svuota assolutamente del suo essere parola.

· Nel significato la parola copre di un velo il suo essere parola, di un velo che pare impenetrabile.

· Ma non ci sarebbe né senso né comunicazione se non ci fosse parola.

· E non ci sarebbe parola se non ci fosse il senso, se non ci fosse la comunicazione.

· In questo modo la parola è essenzialmente l’atto di velarsi e di annullarsi della parola medesima.

· Oppure nella forma dell’interrogazione?

· Qual è il rapporto tra il verso e la domanda?

· Il verso è una domanda che presuppone nel suo fondamento più intimo l’assenza di ogni eventuale risposta.

· Se la risposta appartenesse, come pare, al dominio della comunicazione, al dominio del senso.

· Il senso è la risposta alla parola che si da nella forma di una interrogazione?

· L’interrogazione è l’unica forma possibile di comunicazione, qui la risposta è implicita nella domanda. Vi è comunicazione quando per ogni domanda è implicita una risposta.

· L’interrogazione che parte dall’impossibilità essenziale della risposta è la poesia.

· La possibilità di questa interrogazione è la parola.

· Così il fare poetico consiste, infine, nel liberare l’interrogazione dalla possibilità della risposta.

· La risposta è il soverchio del linguaggio.

genseki



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martedì, settembre 19, 2006

Lucian Blaga




Poesie

Autoritratto

Luciano Blaga è muto come un cigno
Nella sua patria
In luogo di parole c’è la neve.
La sua anima è in cerca
Muta da secoli cerca
Da sempre
Fino al limite dell’ultima frontiera.

L’acqua egli cerca ove l’arcobaleno beve
Quell’acqua va cercando
Ove l’arcobaleno
Beve la sua bellezza ed il suo nulla.

***

Biografia

Ignoro il luogo e il tempo ove venni alla luce
Solo, nell’ombra mi convinco di credere
Che il mondo intero è un canto
Che in esso stupito mi compio
Un sorriso straniero sulle labbra nella magica ascesa.
Talvolta pronuncio parole non mie
Talvolta amo cose che non mi corrispondono.
Son pieni gli occhi miei di venti, di prodezze sognate
Come tutti cammino
Ora come un peccatore sui tetti dell’inferno,
ora innocente sui monti ove crescono i gigli
Nel cerchio dello stesso focolare
Scambio segreti con gli antenati
Popolo dall’acque reso puro sotto le antiche pietre
A sera tranquillo m’accade d’udire in me stesso
L’ininterrotto sgorgare
Delle favole d’un sangue da tanto dimenticato
E benedico il pane
Benedico la luna.
Vivo di giorno in balìa della tempesta
La bocca colma di parole spente
Io canto ed ho cantato il grande varco,
Del mondo il sonno, gli angioli di cera.
Tacendo sposto da una spalla all’altra,
come fosse un fardello la mia stella.

***

Io non calpesto la corolla di meraviglie del mondo

Io non calpesto la corolla di meraviglie del mondo
Non uccido
Co’ miei ragionamenti i misteri che incontro
Sul cammino
In fiori, in occhi, sopra labbra e tombe
La luce d’altri
Soffoca la magia impenetrabile celata
Nel profondo delle tenebre
Ma io
Con la mia luce amplio il mistero del mondo
Come i candidi raggi della luna
Non spengono
Ma rendono più vivo l’oscuro fremito della notte
Così rendo più ricco l’orizzonte tenebroso
Vasto di brividi del Santo Mistero.
Ciò che non è compreso
Cresce ad incomprensione ancor più grande
Per gli occhi miei
Ed amo
I fiori, gli occhi, le labbra e le tombe.

***

Paradiso in rovina

Tiene il guardiano alato ancora tesa
L’impugnatura d’una spada spenta
Non lotta con nessuno
Ché già vinto si sente
Per le pianure e per i campi ovunque
I serafini dalle chiome argentee
Del vero han sete
Ma l’acqua delle fonti
Fugge dai loro secchi.

Arando senza fede
Con aratri di legno
Si dolgono gli arcangeli
Del peso delle ali.
Vola tra i soli prossimi
Dello Spirito Santo la colomba;
e con il becco spenge le ultime scintille.
Nudi la notte gli angeli si coricano
Tremando nei covoni:
Sventura a me, sventura a te
Ora che l’acqua viva invade una coorte di ragni
Gli angeli marciranno, un giorno, nell’argilla
Taciterà la terra le leggende
Del corpo triste.

***

Fumo caduto

Sulle fredde pianure il volo delle oche
S’ode eco illusoria e passeggera
Lontano canto si lascia raggiungere
Dai richiami dell’eternità.
Inaridisce un flauto, un altro si fa muto
Alleluia il mio sguardo s’empie d’ali e di vento
Io non devo alla vita alcun ragionamento,
ma per tutta la vita le sono debitore.
Spesso con gesti spezzati
Vedo volte crollate nelle acque,
appaio tra i cespugli del villaggio
Qual da biblico carro
Sono il fratello stanco
Oggi come non mai
Del cielo di laggiù
E del fumo che cade dal camino.

***

Crepuscolo d’autunno

Da rosse labbra
Il crepuscolo sui monti
Soffia sopra la cenere di nuvole
Per attizzare la brace celata
Dal loro grigio velo sottile.

Un raggio
Che dall’occidente è accorso
L’ali ripiega e si posa tremando
Sopra una foglia
Ma troppo grave è il peso
Cade la foglia.

Anima mia
Resta bene celata nel mio petto
Nel più profondo,
Sì che raggio di luce non ti sfiori,
Ne crolleresti.

E’ autunno.

***

Il campo

D’oro a bizzeffe scoppiano le spighe.
Rosse gocce disseminano i papaveri
Nei campi
Una fanciulla
Di lunghe ciglia come spighe d’orzo.

Abbraccia con lo sguardo fasci di cielo puro
E canta.

Resto sdraiato all’ombra dei papaveri
Non ho rancori, rimorsi, desideri
Né slanci, solo un corpo
Un po’ di creta
Ella canta
L’ascolto
Sboccia l’anima mia sulle sue labbra
Come corolla.

***

La morte di Pan

IV. Aria di siringa

Solo ora sono e colmo di cardi
Io che un tempo regnai su stelle e il cosmo
Con la siringa m’udiva cantarlo.

Tende il nulla le corde.
Nessun straniero più
Penetra la mia grotta,
Solo le salamandre variopinte
E talvolta:

La luna.

***

Silenzio tra vecchie cose

Vicina vicina mi è la cara montagna
Da vecchie cose sono circondato
Coperte di muschio dal principio dei tempi
Nella sera dai sette soli neri
Che portano le tenebre buone
Dovrei esser felice.
Regna un silenzio adeguato nel cerchio
Che reggono le doghe della volta.
Ma mi sovviene il tempo in cui non ero
Come fosse un’infanzia lontanissima,
Ho nostalgia di non esser restato
Nella contrada senza nome.
Eppur mi dico
Stanno in cielo le stelle senza chiasso.
Davvero dovrei essere felice.

***

La grande traversata

Regge il sole allo zenith la bilancia del giorno
Ed il cielo si dona all’acque della terra
Gli animali che passano, occhi saggi,
Senza paura guardano l’ombre loro nell’onda
Ed il fogliame eleva le sue volte profonde
Sull’eterna leggenda.

Nulla vuol esser altro da se stesso
Solo il mio sangue corre per i boschi
Della lontana infanzia sempre in caccia
Siccome un vecchio cervo
Che chiama la compagna persa in morte

Ell’è forse perita tra le rocce
O forse è sprofondata nella terra
Attendo in vano qualche sua notizia
Solo risponde l’eco da caverne
Solo ruscelli in cerca dell’abisso.

Sangue senza risposte
Ché solo nel silenzio si udirebbe
L’avanzar della cerva nella morte.

Sempre più lungi esito sul cammino
E come l’assasino che con la sciarpa soffoca
Una bocca ormai vinta
Serro nel pugno tutte le sorgenti
Ché finalmente tacciano per sempre.

***

Salmo

Sempre mi fu dolore la tua solitudine celata
Ma cos’altro avrei potuto fare, mio Dio?
Da bambino giocavo con te
Ti smontavo nei miei pensieri come si smonta un giocattolo.
Poi mi son fatto ancora più selvaggio
Sono morti i miei canti
E senza mai che tu mi fossi prossimo
Per sempre ti ho perduto
In terra, in fuoco, nell’aria e nell’acqua.

Tra il sole che si leva e quello che declina
Di me non resta più che piaga e fango
Tu sei murato nella bara dei cieli.
Se tu non fossi più prossimo alla morte
Che alla vita allora parleresti.

O svelati mio Dio tra questi rovi
Così ch’io sappia quello che mi chiedi.
Vuoi che nel volo afferri la lancia avvelenata
Che qualcheduno contro di te ha scagliata
Per poterti ferire sotto l’ala?
O forse non vuoi nulla?
Tu sei la muta identità immutabile
( In se stesso ravvolto a resta a)
Tu non chiedi. Nemmeno la preghiera.

Ecco, nascono stelle
Nascono insieme alle mie tristezze
Ecco la notte che non ha finestre
Che ne sarà di me Signore Iddio?
Nel tuo cuore depongo i miei vestiti. Il corpo mio
Lo lascio, come si lascia un abito in cammino.

***

Trad. genseki

lunedì, settembre 18, 2006

Chateaubriand


La natura del mistero

Cosa vaga non v'è né dolce, né grande nella vita che non sia da annoverare tra le misteriose. I sensi piú meravigliosi son quelli che ci commuovono in modo un po' confuso: il pudore, l'amor casto, l'amistà virtuosa, son colmi di segreti; si direbbe che i cuori innamorati appena si intendano con le parole e restino come dischiusi.
L'innocnza, poi, che altro non è se non santa ignoranza, non è il più inesprimibile dei misteri?
L'infanzia è felice soltanto perchè non sa nulla, la vecchiezza perché sa tutto: fortunatamente quando si esauriscono i misteri della vita, ecco che iniziano quelli della morte.

Il Genio del Cristianesimo

trad. genseki

domenica, settembre 17, 2006

Castelli


Le loro torri erano scolpite
Nel grigio del loro cielo
Nel bianco del loro sole
Senza ombra - nella vastità
Cinerea degli altopiani

I cristiani sapevano ferire
Allora
Scambiare sale con sangue
Amore con ferro terso
Gelo con edera e spine

Ed era amore, infatti,
Quello che scintillava sulla punta delle nostre lance
Delle loro lance, feconde
Come le palme

Le nostre torri erano guglie sottili
Raggi azzurri nella rete verde dei canali
I nostri monti
Atalaye
Di fiamma solidificata
Come dita di angeli
Come sangue di fiori del paradiso
Come il rame
Generato dal silenzio

Nel mistero concavo
Dell’Uno.

17/09/2006 23:19
genseli

mercoledì, settembre 13, 2006

Wallada bent al-Mustakfi


Wallada bent al-Mustakfi nacque a Cordova verso la fine del secolo X. Suo padre Muhammad III fu proclamato Califfo con il titolo di al-Mustakfi bi-l-Lah il 17 Gennaio del 1024, il 27 di Maggio del 1025, dovette però fuggire verso gli oliveti di Jaén di fronte alla reazione del Califfo si i Yahyà ben Hammud che riconquistò di nuovo la cittá. Quivi per sopravvivere dovette rassegnarsi a chiedere l'elemosina e, finalmente, fu assassinato a Uclés.

A proposito di Wallada leggiamo presso Ibn Bassam

"il suo salotto era il luogo di incontro dei nobili del paese, il suo cortile era il campo di gara per i cavalli della poesia e della prosa. Gli uomini di lettere erano illuminati dalla luce della sua fronte, poeti e scrittori si raggruppavano attratti dalla dolcezza della sua compagnia e dalla facilità della sua accoglienza, nonostante il gran numero di ospiti. Tutto armonizzava con l'altezza del rango, la nobiltà della stirpe e la purezza delle vesti. non si preoccupava di celare le proprie passioni".

Gli olivi di Al-Andalus profumano di oceano, la primavera li bagna di una luce schiumosa e salata.
Questo spazio comprende Damasco e Kandahar. Fa parte con Qom e Ispahan di un'unica cartografia.

Di Wallada ci restano pochi versi, come questi che portava ricamati sulla veste

Lo giuro per Allah sono degna di maestà e nobiltà
Con orgoglio cammino, con il capo altezzoso
Lascio che gli amanti mi tocchino le chiome
Accetto i baci di chi desidera provare la mia bellezza.

genseki

martedì, settembre 12, 2006

Ibn Arabi





Secondo quanto insegna Borges, l’elenco è un vero e proprio genere letterario. In esso si trovano capolavori che si elevano come modelli: la lista delle navi di Omero, le enumerazioni di Rabelais, gli appelli dei Bodhisattva della letteratura Mahayana. Il seguente elenco, di Ibn Arabi, è una vetta e uno scoglio, uno faro nella tempesta delle tassonomie, lo svelarsi della meraviglia della successione che collega oceani vuoti.

Ibn Arabi nacque a Murcia il 28 di Luglio del 1165. In questa città lo ricorda una via abbastanza centrale, di una moderata eleganza, con uno spartitrafico di alte palme.
Ibn Arabi contemplò qui i minareti celesti e respirò l’odore dei fichi e dei datteri che si disfano nell’umidità degli orti. Ora degli orti non resta che il ricordo. Restano rosse guglie tra i monti, e dune di sabbia bianca che rimandano alle città di rame e allo spazio che le allontana dall’anima.

L’anima di Ibn Arabi è una torre caucasica nella verticalità della visione, una catarratta di suoni estatici

Quello che segue è l’elenco dei settanta Veli (che velano e disvelano la Presenza):


Le contemplazioni dei misteri

(Dio) mi disse : alza i veli uno a uno. Alzai il primo e vidi la inesistenza. Poi continuai a sollevare uno dopo l’altro i seguenti veli:

L’esistenza
L’esistente
I patti primordiali
Il ritorno
I mari
Le tenebre
La sottomissione
L’istruzione
La derivazione
La licenza
L’interdizione
La trasgressione
La collera
La prigione
Le lettere
La generazione
La morte parziale
La morte totale
La direzione
La trasmissione
La presa
I due piedi
Il privilegio universale
L’involucro
La partizione
La purificazione
La ricomposizione
La proibizione
La santificazione
Il paio
La cavalcata
La via
Il latte
La chiamata
La miscela
Gli spiriti
La bellezza
L’elevazione
L’autorità
La conversazione intima
La dissoluzione
L’arrivo
L’abbandono
L’amore
La sospensione dei mezzi
Il centro segreto
I semi
La veracità
Il dominio
Il pudore
Il vigore
Il limite
L’eredità
La combustione
L’annichilazione
La sussistenza
Lo zelo
L’aspirazione
Lo svelamento
La contemplazione
La maestà
La bellezza
La scomparsa dell’entità
L’impercettibile
L’inudibile
L’incomprensibile
L’intransmissibile
L’allusione simbolica
Il tutto.

genseki

mercoledì, settembre 06, 2006


Jorge Eduardo Eielson

***



Dio sorride nello schermo

Del cielo. Vedo il suo sembiante
Fatto di righe e punti
Luminosi. Non sono sicuro, però
Che sia il suo. Se fosse il mio?
Spengo la televisione
Sorrido anch’io

*


Vedo una sfera gialla

Ma quadrata che brilla appena.
Già non è più nulla. Vedo migliaia
Di sfere gialle
Che non sono quadrate
E che non brillano nemmeno

*

Dopo tutto quello che ho visto

Nella vita continuo a credere
Che non v’è nulla di più semplice
Né di più bello
Che una bottiglia di vino
Quando piove
E solo il fuoco ci resta
Per amico

*

So perfettamente

Che la mia casa è una stella
Che si chiama vita
Che questa stella è la terra
E che ne avrò un’altra di casa più tardi
Su un’altra stella
Chiamata morte

*

Nonostante tutto quello che ho vissuto

E sognato la mia unica corona
È la mia povertà
Il mio sangue porporino e stanco
Il mio unico manto nella vita
Principe eterno di niente
Nulla mi rende più felice
Nulla più leggero
Che la mia corona

*

Faccia dei coriandoli con questo foglio di carta

E li getti dalla finestra
Con le sue angustie
I suoi calzini e le sue unghie
Qualcuno giú di sotto finirá per riceverli
Como chi riceve
La pioggia dal cielo.

*

Gli uomini d’affari non respirano

Non singhiozzano non conoscono
Le magnolie. Solo a gran pena orinano
E defecano come possono. Neppure
Amano qualcuno e nessuno
Li ama. Non vi sono animali piú veloci
E piú prossimi a la morte
Che questi esseri vacui
Non c’è nulla che non desiderino
O che sia loro negata ma al loro contatto
Tutto diventa nulla
Gli uomini d’affari
Sono tanto veloci e tanto stupidi
Che non conoscono
L’ozio.

*

Trad. genseki

martedì, agosto 22, 2006

Supervielle


Io cerco di donarti
Ombra d'albero verde
Che, per te, tale resti
Anche se il tempo oscura
Tu di cui ben conosco
Il bel viso vivace
Anche se vuoi celarlo
Un po' di più ogni giorno
Donna morbido manto,
Timida bestiolina
Senza posa sfuggente
Begli occhi senza sponda
Circondati da lance
Sorte dal mio silenzio.

Trad. genseki

giovedì, luglio 27, 2006

Ben Waddah


Ben Waddah, Ahmed (Murcia, 1135)



Mi meraviglio dell’ingratitudine dell’arco
Non è leale con i colombi della macchia

Quando era ramo fu loro amico
Ora ch’è arco non ne ha pietá.
Tali le metamorfosi del tempo

Trad. genseki

Ben Waddah scrive queste righe immerso negli orti, nella profonditá verde dei palmeti e delle canne con l’odore dell’acqua verde come il bronzo.
L’acqua ha un odore, nel fondo degli orti, la geometria degli orti è perfetta
L’acqua delinea i perimetri, circoscrive, separa, definisce e traccia.
Intornio la terra è rossa e bianca e i pini montani si disfano in vaghe trasparenze.
Il bianco e il grigio dei colombi in fondo alla macchia è fresco, appartiene al mondo dell’acqua, al gorgogliare, al mormorio. Naturalmente tutto questo non lo sappiamo, possiamo solo immaginarlo ampliando scorci casualmente sopravissuti alla calcificazione.
Lontano sta la cittá. Ma pure la cittá è un labirinto di cortili e di giardini, dove gli animali, cani soprattutto sono importanti protagonisti.
Sulla cittá i minareti
Come funghi azzurri.

Questo testo puó evocare il momento in cui nacque come pura calligrafia, come gioco di parallelismi.

Il primo movimento è circolare e va dall’arco ai colombi e dai colombi all’arco.
Esso è diviso in quattro segmenti, il primo e il terzo, il secondo e il quarto sono in relazione metamorfica l’uno cn l’altro. L’arco si trasforma in ramo, i colombi passano dall’immobilitá al volo (dalla sicurezza al timore).
L’ultimo verso introduce la direzione: il tempo che corrisponde al diametro
del circolo appena descritto.
La direzione é antioraria, il tempo va dall’arco al ramo, come in una pellicola proiettata all’indietro.

Vediamo l’arco ritornare legno nella mano dell’artigiano e poi ramo nelle mani del boscaiolo che delicatamente pare ricollocarlo nel suo punto di incastro sul tronco del vecchio albero frondoso.
Ecco il frullo palpitante del volo dei colombi si immobilizza in un punto impercettibile di quiete e come attratti da una forza invisibile essi si appoggiano di nuovo su ramo che un attimo prima li seguiva sotto forma di freccia.

Poi di nuovo udiamo lo sciacquio pigro dell’acqua tra le canne scure e l’odore delle pesche che marciscono nell’orto.

Questo breve testo inutile è dedicato a Hezbollah a Hassa Nasrallah ai suoi combattenti, ai suoi martiri.

genseki

giovedì, luglio 20, 2006

Canti di Lontananza


Laura Silvestri


Qui intorno non c’é proprio miente, anche la luce bianca e spessa sembra un limite, un blocco livido, diffuso, una gelatina appiccicosa che copre le pietre, si fa trascinare dal vento, fino a trattenere perfino la notte oltre il confine.

martedì, luglio 18, 2006

Autografa Gamma



Poesie di genseki

*

La terra nutre le ali
La terra le nutre e le rende alla notte
La notte al fuoco
Alla morte delle stelle

Son ali e furono polvere
Son ali della sete
Consumate di povertá
Sono milioni di milioni di ali
Sui vostri giardini, nei vostri guardaroba, nei nostri cuori
Attraverso i nostri sguardi

Son ali polverose nei vostri quartieri
Ali grige nei nostri polmoni
Sfrigolerebbero se vi fossero candele

Ali
A sparire in un fruscio di ali

Quando la prima lacrima
Si specchierà nell’ultima goccia
Di pioggia
A stento trattenuta
Da un lembo di sonno.

14/07/2006


*

Calasparra

Quanti olivi per fare un paesaggio!

Senza ombre
Dove il verde é un getto
E sale verso il rosso
E si fa trasparente

E l’acqua é luce

Lo sguardo si assottiglia
Fino a farsi lamina
Di vista

Il sole schiaccia il mondo
E lo solleva

Nel suo sogno
Verticale.

*

16/07/2006

*

L’acqua ha il colore del bronzo
La pesantezza sferica
Dello specchio
Che riflette la colonna del sole
Nell’ora verticale
Delle palme.

*

17/07/2006 13:56

*

Troverò il suono
Un giorno,
Il suono cavo
La pulsazione sorda
Che collega le ali delle palme
A quello che resta di me
Scuoiato dal mare
Disperso dalle tenaglie del sale
Sulla graticola delle conifere
Sulla clessidra di colori
Della risacca ?

*

17/07/2006 17:03:29

*

L’ora rovente
Vetrifica il passo e lo sguardo
Sono asceti i pini
In ginocchio sui ciottoli di lava
Il fuoco verde della linfa
Risana
La piaga
Dei conversi..

*

17/07/2006 17:07:28

*

In un via vai di colori
Si perde la trasparenza
Resto fatto di ossa
Sensibili
A ogni soffio
Di sguardo.

18/07/2006 11:36:39

*

Dove raccoglieró i miei occhi
In questo pozzo di luce?
Quando ritroveró il lago
Dove la pupilla si spoglia
Tra guizzi di dorsi
Squamosi
E riflessi di mirti?

18/07/2006 11:40:11

*

I minareti azzurri
Tra i limoni,
L’odore dell’acqua
Tiepida, del legno delle norie
I canali calligrafano il nome di Dio
Sulla pelle degli orti

I cristiani sono carnivori
Hanno orrore delle mosche
E del cuoio

Ci saranno solo coltelli

18/07/2006 14:44

*

mercoledì, luglio 12, 2006

Cristo Arboreo


Ezequiel Martinez Estrada
(1895-1964)


Nella simbologia cristiana la croce è chiamata albero: l’albero della croce. Il suo frutto è il Cristo.
Estrada segue questo cammino simbolico e va oltre. L’albero stesso è il crocifisso. L’albero è natura cristica, la croce è il Cristo.
La natura vegetale è il primo segno profetico del sacrificio divino.
Il sacramento della clorofilla.

genseki




L’amore nella linfa



Strinse la terra le sue matrici
E si fece più urgente
Il martirio clemente
Delle sante radici.

L’albero sedentario
La sua libertà volle
Offrire sottomesso
Al mobile fratello

Si rassegnò a una sorte
Di paralisi fiera
Affinché il mondo fosse
Libero dalla morte

E dentro i sonni atroci
Dell’assogettamento
Si diede in alimento
Ai nipoti feroci

Col temperare il clima,
Rendendo digeribili
I tossici terribili
Della materia prima.

Dié agilitá alla scimmia
E le piume al serpente
Purificó l’ambiente
Che avvelena il carbonio

In fiori e frutta diede
Sua bontá naturale
Si aprí nell’aria uguale
Ad una man che scruta

Ei fece santo il suolo,
Verde, dolce, fecondo
Da lui ebbe l’uccello
La facoltá del volo

Al vegetale deve
La vita l’animale
Che sfugge nelle selve
Alle crudeli belve

Offerse contro l’acqua
La grande chioma aperta
E suggerí al selvaggio
E capanna e piroga.

Patí eterni dolori
Il suo martir fin tanto
Che imparó quel pianto
Che ne profuma i fiori.

Santa é ogni era
Vegetale, ed io sento
Che vi pensa un pensiero
Sottil d’un altro tipo.

Nel mondo non son tante
Le virtú quanti i fiori,
E forse son migliori
Dei santi le piante.

In esse si riassume
Ogni pena e saggezza
Fino a che giunga il giorno
Che ne sveli il profumo.

Anche la meraviglia
Primordiale ne sgorga
Al copiare alle stelle
La semina dei chicchi

Bene é qui ricordare
Quell’antico proverbio
Che nulla piú ci acquieta
Dell’azzurro e del verde

Il mondo verde e azzurro
Ha una legge infallibile
Dare pascolo al bove
E ceppi al Re Saul;

Fiori, alberi, piante
Regno profumato e soave
Cosí rigido e grave
Come gli antichi marmi!

Che in te l’angoscia umana
Le sue ruggini scuota
Mondo che desti al Budda
L’intuizion del Nirvana.


Trad. genseki

martedì, maggio 30, 2006

SonettiIl tuo volto si staglia su una foglia Miniata in luminosa meraviglia Di colore marino ove le ciglia Son ali di gabbiano ed una soglia E' l'iride screziata che assotiglia Il raggio dove l'anima si spoglia D'ogni sua volontà, d'ogni sua voglia Per solcare il tuo mar con nova chiglia. Mare d'amor disdegna la memoria E 'l navegante mai non lascia traccia Del suo passaggio over della sua storia Perché colui che il disio allaccia Perde se stesso e nulla lo minaccia Che non sia risvegliarsi in quella gloria. * Tra quelle rocce che, aride e sparse Nutrono macchie di licheni gialli, Nella rete di crepe grige ed arse Ginestre secche frammenti di talli E ruggine di felci ed erbe scarse Su cenge frali di scisti e cristalli D'orme miniate di speci scomparse Dove s'incrocian le creste delle valli I miei ultimi passi vo' guidando A mesurar l'arena solitaria Con gli occhi bassi, in me stesso mirando E me stesso non vedo nella varia Corrente di pensier che spumeggiando Vuota si va frangendo in luce ed aria. * Foglie che liete all’aria trasparenti Cedete la sostanza del colore Che verdeggiare vi fece insolenti Quando del bosco eravate l’onore Sciami di voci al fremere dei venti Dei grigi tronchi sillabe sonore E della fresca vita fiamme ardenti Che le chiome incorona di dolore. Or vi dissolve la luce quieta Come le nostre mani il vecchio sangue Rami del corpo ormai più non disseta Or vi manca la linfa e sulla creta Vi lasciate cadere e con voi langue L’anima nostra che vede la sua meta. * I cavei d’oro attorti come vite Stringe i rami rugosi dell’ulivo Della memoria alle foglie spaurite Fanno di me sol l’ombra di quel vivo Tronco che le radici presso un rivo Di purpureo licor inumidite Affondava nel grasso sol boschivo Ebbro del pullular di tante vite Dolci e taglienti, impietosi lor fili Sono una rete che ben salda serra Il Cuore alla sostanza della terra, E Tu l’intessi con le dita ostili, O Tempo, alle speranze più gentili, Per renderLo alla morte che l’afferra. * Il tempo vive solo nella mente Che l'alimenta come proprio figlio Restando immota nel mare del presente All'assalto dell'ore non dà appiglio Onde d'istanti s'infrangono lente Or con fracasso, ora in un bisbiglio In spruzzi di pensieri contro il niente Da cui sorge la brama ed il consiglio. Essa permane quieta nell'eterno Carosello che genera il momento Come colei che di se stessa è perno; Né il tempo può causarle nocumento Ché l'effetto non può, se ben discerno, Di sua causa produr l'annullamento. * Voyage à Cythère Uniti nel vascello di un abbraccio Navighiamo nel mar color del vino Vela è l'amore e qual chiglia di pino Offende il nostro petto duro ghiaccio Che il Tempo Antico stringe come un laccio Al doppio cuore che ritma il cammino: Bussola rossa: comune destino. Regge il carneo timone un solo braccio; Viola è la meta di questo sghembo viaggio L'accarezzano i drappi della pioggia Screziato la cinge un caldo raggio Illesa degli scogli dall'oltraggio La prua dei nostri corpi, infine, poggia Sull'arena dell'Isola di Maggio. * WANSHI Sonetto della meditazione seduta dalla Massima del maestro Wanshi Shogaku. Del fenomeno aver pura conoscenza, La cosa rischiarar che non sta inante Davvero è ben sottile sapienza Quando pensier non v’è discriminante; Ove non ha il fenomeno apparenza Maraviglia la luce abbacinante. Se nella mente non v’è differenza Questo sapere non ha simigliante. E’ diafana l’acqua fino al fondo Ed il pesce vi nuota lentamente Libero e lieto nell’umido suo mondo; Il falco sale nel cielo profondo In larghe rote con ala possente Di sé s’oblia nel volo suo giocondo. La dinamica essenziale dei risvegliati è l’essenza dinamica dei patriarchi, essa conosce i fenomeni senza macchiarli, illumina l’oggetto senza averlo di fronte. Conoscendo l’oggetto senza macchiarlo questa conoscenza è in se stessa sottile. Rischiarando l’oggetto senza averlo di fronte, questa chiarità è in se stessa meravigliosa. Questa conoscenza è in se stessa sottile, poiché in essa non v’è pensiero discriminante. Questa chiarità è in se stessa meravigliosa perché non ha la minima apparenza fenomenica. Non avendo il minimo pensiero discriminante, questa conoscenza è indefinibile e senza pari. Non avendo la minima apparenza fenomenica questa chiarità e completa e non afferra. L’acqua è trasparente fino al fondo; il pesce vi nuota tranquillamente. Il vasto spazio è senza limiti; lontano vi vola l’uccello. Massima della meditazione seduta del maestro Wanshi Shogaku Dal Zazenshin del maestro Dogen. * Ruben Dario Conchiglia Sulla spiaggia ho trovato una conchiglia d'oro Massiccio, con un fregio di perle, vago, fine Europa l'ha toccato con le mani divine Mentre varcava l'onde sovra il celeste toro Ho portato alle labbra il mitile sonoro Risuscitando l'eco delle diane marine L'ho accostato alle orecchie e le azzurre colline M'han narrato la storia d'un segreto tesoro Così a me giunse il salso di quegli amari venti Che della nave Argo gonfiarono la vela Quando Giason godette dei Celesti il favore Odo i suono dell'onde, i lor segreti accenti E l'aroma profondo che nel soffio si cela (La conchiglia sonora ha la forma del cuore). Trad. genseki * Sulla soglia Ecco la soglia che s’apre sul mare Conchiglia rosa tra l’alghe, barbaglio Che alla pupilla intermittente appare Stillando vino acre come un taglio Aperto in cielo tra le nubi chiare. Lo sguardo va colpendo come un maglio Quel ricamo lucente che dispare Ad ogni urto in disperato abbaglio Ah! Se potessi aprirmi alla freschezza In un getto di luce come faro Sboccar nell’oltre frastagliato e spoglio Graffiato dagli artigli d’ogni scoglio Ubriaco di sale viola e amaro Per riposare, infine, alla tua brezza. * Sonetto del deporre Lascia che il tempo segua la sua fama Tagli d’un colpo le gemme del ricordo Cali su ogni promessa la sua lama Spenga ogni suono in un gemito sordo Che nulla duri di ciò che si ama Né il pioppo lieve, né il volo del tordo Né il biancospino né il grembo della dama Né l’eco bianca del limpido accordo. Resti l’anima nostra vuota e spoglia E s’intessa dei raggi d’ogni stella Tremando al vento come fosse foglia Vento che soffia dal gorgo alla soglia Ove si forma quello che s’appellaI l sé che lieto di se stesso si spoglia. * José Garcia Nieto Alla tua riva Son giunto alla tua riva. Con un autunno, un passero E una voce arrocchita. Mi attendi: un fiume, Una passione e un frutto. Possiede il nostro incontro Il volo e la corrente, sicuri proclamati Son giunto alla tua riva con le braccia distese Ed ora sono l'erba che non termina mai Il fango dove l'acqua dispone i suoi messaggi E la curva dell'alveo per mescere il tuo sogno. Dimmi se ho meritato col mio duro lavoro Se basta alle tue orecchie il mio verso tristissimo, Se sotto la mia ombra vive in Maggio il tuo corpo. Lascerei la tua riva se ora mi dicessi Che il mio amore è l'amore comune a tutti gli uomini Che suona la mia voce come quella di tutti. Trad. genseki * Il tuo sogno A M.J. Per il tuo sogno penetro nel tuo mare Tra l'alghe del tuo sonno mi rinfresco Sfioro il velluto di meduse rare In succo d'ambra e di giada mi invesco. Per il tuo mare nel tuo sogno mi stendo Come nel fresco d'una bara d'occhi Verso il pelo dell'acqua mi protendo Prima che l'ansia nel tremore sbocchi Nel tuo sonno ritrovo la mia veglia E con l'orecchio sulla tua conchiglia Ascolto l'eco della tua risacca Ecco fremente al porto va la chiglia Il suo terso splendore l'onda abbaglia E con urto di vento, infine, attracca. * Joachim Du Bellay Sonetto La nostra vita è una breve giornata Nel cerchio eterno e l'anno nel suo corso Ne caccia i giorni né mai volge 'l dorso Ché tanto frale è ogne cosa nata. Che pensi, dunque, anima 'mprigionata Che ti compiaci in questo cupo giorno Se per volar a più alto soggiorno Hai pur di penne un'ala ben dotata? Lassù è quel bene ch'ogne spirto desira, Lassù il riposo cui ciascuno aspira, lassù l'amore ed il piacere ancora. Al Sommo Ciel guidata, anima mia, Vi potrai riconoscere l'idea Della beltà che questo mondo adora. Trad. genseki *

Sonetto dell'Unione

Il tuo volto si staglia su una foglia
Miniata in luminosa meraviglia
Di colore marino ove le ciglia
Son ali di gabbiano ed una soglia
E' l'iride screziata che assotiglia
Il raggio dove l'anima si spoglia
D'ogni sua volontà, d'ogni sua voglia
Per solcare il tuo mar con nova chiglia.
Mare d'amor disdegna la memoria
E 'l navegante mai non lascia traccia
Del suo passaggio over della sua storia
Perché colui che il disio allaccia
Perde se stesso e nulla lo minaccia
Che non sia risvegliarsi in quella gloria.

*

Tra quelle rocce che, aride e sparse
Nutrono macchie di licheni gialli,
Nella rete di crepe grige ed arse
Ginestre secche frammenti di talli
E ruggine di felci ed erbe scarse
Su cenge frali di scisti e cristalli
D'orme miniate di speci scomparse
Dove s'incrocian le creste delle valli
I miei ultimi passi vo' guidando
A mesurar l'arena solitaria
Con gli occhi bassi, in me stesso mirando
E me stesso non vedo nella varia
Corrente di pensier che spumeggiando
Vuota si va frangendo in luce ed aria.

*

Foglie che liete all’aria trasparenti
Cedete la sostanza del colore
Che verdeggiare vi fece insolenti
Quando del bosco eravate l’onore
Sciami di voci al fremere dei venti
Dei grigi tronchi sillabe sonore
E della fresca vita fiamme ardenti
Che le chiome incorona di dolore.
Or vi dissolve la luce quieta
Come le nostre mani il vecchio sangue
Rami del corpo ormai più non disseta
Or vi manca la linfa e sulla creta
Vi lasciate cadere e con voi langue
L’anima nostra che vede la sua meta.

*

I cavei d’oro attorti come vite
Stringe i rami rugosi dell’ulivo
Della memoria alle foglie spaurite
Fanno di me sol l’ombra di quel vivo
Tronco che le radici presso un rivo
Di purpureo licor inumidite
Affondava nel grasso sol boschivo
Ebbro del pullular di tante vite
Dolci e taglienti, impietosi lor fili
Sono una rete che ben salda serra
Il Cuore alla sostanza della terra,
E Tu l’intessi con le dita ostili,
O Tempo, alle speranze più gentili,
Per renderLo alla morte che l’afferra.

*

Il tempo vive solo nella mente
Che l'alimenta come proprio figlio
Restando immota nel mare del presente
All'assalto dell'ore non dà appiglio
Onde d'istanti s'infrangono lente
Or con fracasso, ora in un bisbiglio
In spruzzi di pensieri contro il niente
Da cui sorge la brama ed il consiglio.
Essa permane quieta nell'eterno
Carosello che genera il momento
Come colei che di se stessa è perno;
Né il tempo può causarle nocumento
Ché l'effetto non può, se ben discerno,
Di sua causa produr l'annullamento.

*

Voyage à Cythère

Uniti nel vascello di un abbraccio
Navighiamo nel mar color del vino
Vela è l'amore e qual chiglia di pino
Offende il nostro petto duro ghiaccio
Che il Tempo Antico stringe come un laccio
Al doppio cuore che ritma il cammino:
Bussola rossa: comune destino.
Regge il carneo timone un solo braccio;
Viola è la meta di questo sghembo viaggio
L'accarezzano i drappi della pioggia
Screziato la cinge un caldo raggio
Illesa degli scogli dall'oltraggio
La prua dei nostri corpi, infine, poggia
Sull'arena dell'Isola di Maggio.

*

WANSHI
Sonetto della meditazione seduta dalla Massima del maestro Wanshi Shogaku.
Del fenomeno aver pura conoscenza,
La cosa rischiarar che non sta inante
Davvero è ben sottile sapienza
Quando pensier non v’è discriminante;
Ove non ha il fenomeno apparenza
Maraviglia la luce abbacinante.
Se nella mente non v’è differenza
Questo sapere non ha simigliante.
E’ diafana l’acqua fino al fondo
Ed il pesce vi nuota lentamente
Libero e lieto nell’umido suo mondo;
Il falco sale nel cielo profondo
In larghe rote con ala possente
Di sé s’oblia nel volo suo giocondo.

La dinamica essenziale dei risvegliati è l’essenza dinamica dei patriarchi, essa conosce i fenomeni senza macchiarli, illumina l’oggetto senza averlo di fronte.
Conoscendo l’oggetto senza macchiarlo questa conoscenza è in se stessa sottile.
Rischiarando l’oggetto senza averlo di fronte, questa chiarità è in se stessa meravigliosa. Questa conoscenza è in se stessa sottile, poiché in essa non v’è pensiero discriminante. Questa chiarità è in se stessa meravigliosa perché non ha la minima apparenza fenomenica. Non avendo il minimo pensiero discriminante, questa conoscenza è indefinibile e senza pari. Non avendo la minima apparenza fenomenica
questa chiarità e completa e non afferra. L’acqua è trasparente fino al fondo; il pesce vi nuota tranquillamente. Il vasto spazio è senza limiti; lontano vi vola l’uccello.
Massima della meditazione seduta del maestro Wanshi Shogaku
Dal Zazenshin del maestro Dogen.
*

Ruben Dario

Conchiglia

Sulla spiaggia ho trovato una conchiglia d'oro
Massiccio, con un fregio di perle, vago, fine
Europa l'ha toccato con le mani divine
Mentre varcava l'onde sovra il celeste toro
Ho portato alle labbra il mitile sonoro
Risuscitando l'eco delle diane marine
L'ho accostato alle orecchie e le azzurre colline
M'han narrato la storia d'un segreto tesoro
Così a me giunse il salso di quegli amari venti
Che della nave Argo gonfiarono la vela
Quando Giason godette dei Celesti il favore
Odo i suono dell'onde, i lor segreti accenti
E l'aroma profondo che nel soffio si cela
(La conchiglia sonora ha la forma del cuore).
Trad. genseki
*

Sulla soglia
Ecco la soglia che s’apre sul mare
Conchiglia rosa tra l’alghe, barbaglio
Che alla pupilla intermittente appare
Stillando vino acre come un taglio
Aperto in cielo tra le nubi chiare.
Lo sguardo va colpendo come un maglio
Quel ricamo lucente che dispare
Ad ogni urto in disperato abbaglio
Ah! Se potessi aprirmi alla freschezza
In un getto di luce come faro
Sboccar nell’oltre frastagliato e spoglio
Graffiato dagli artigli d’ogni scoglio
Ubriaco di sale viola e amaro
Per riposare, infine, alla tua brezza.

*

Sonetto del deporre

Lascia che il tempo segua la sua fama
Tagli d’un colpo le gemme del ricordo
Cali su ogni promessa la sua lama
Spenga ogni suono in un gemito sordo
Che nulla duri di ciò che si ama
Né il pioppo lieve, né il volo del tordo
Né il biancospino né il grembo della dama
Né l’eco bianca del limpido accordo.
Resti l’anima nostra vuota e spoglia
E s’intessa dei raggi d’ogni stella
Tremando al vento come fosse foglia
Vento che soffia dal gorgo alla soglia
Ove si forma quello che s’appellaI
l sé che lieto di se stesso si spoglia.
*

José Garcia Nieto

Alla tua riva

Son giunto alla tua riva. Con un autunno, un passero
E una voce arrocchita. Mi attendi: un fiume,
Una passione e un frutto. Possiede il nostro incontro
Il volo e la corrente, sicuri proclamati
Son giunto alla tua riva con le braccia distese
Ed ora sono l'erba che non termina mai
Il fango dove l'acqua dispone i suoi messaggi
E la curva dell'alveo per mescere il tuo sogno.
Dimmi se ho meritato col mio duro lavoro
Se basta alle tue orecchie il mio verso tristissimo,
Se sotto la mia ombra vive in Maggio il tuo corpo.
Lascerei la tua riva se ora mi dicessi
Che il mio amore è l'amore comune a tutti gli uomini
Che suona la mia voce come quella di tutti.
Trad. genseki
*

Il tuo sogno
A M.J.

Per il tuo sogno penetro nel tuo mare
Tra l'alghe del tuo sonno mi rinfresco
Sfioro il velluto di meduse rare
In succo d'ambra e di giada mi invesco.
Per il tuo mare nel tuo sogno mi stendo
Come nel fresco d'una bara d'occhi
Verso il pelo dell'acqua mi protendo
Prima che l'ansia nel tremore sbocchi
Nel tuo sonno ritrovo la mia veglia
E con l'orecchio sulla tua conchiglia
Ascolto l'eco della tua risacca
Ecco fremente al porto va la chiglia
Il suo terso splendore l'onda abbaglia
E con urto di vento, infine, attracca.

*

Joachim Du Bellay
Sonetto

La nostra vita è una breve giornata
Nel cerchio eterno e l'anno nel suo corso
Ne caccia i giorni né mai volge 'l dorso
Ché tanto frale è ogne cosa nata.
Che pensi, dunque, anima 'mprigionata
Che ti compiaci in questo cupo giorno
Se per volar a più alto soggiorno
Hai pur di penne un'ala ben dotata?
Lassù è quel bene ch'ogne spirto desira,
Lassù il riposo cui ciascuno aspira,
lassù l'amore ed il piacere ancora.
Al Sommo Ciel guidata, anima mia,
Vi potrai riconoscere l'idea
Della beltà che questo mondo adora.
Trad. genseki
*

lunedì, maggio 29, 2006

Tudor Arghezi


Cherubino Malato

L’angelo mio ancora si ricorda
Della sua felicità di un tempo
Ora che il cielo gli versa nella bocca
Sorsi di latte inacidito, amaro
Gli nega le bandiere delle stelle
Le sue sacre orifiamme
Il vento della sera non lo innalza
Negli aromi dell’olio e del vino
I campi ed i frutteti hanno perduto
I fiori, i frutti, le foglie ed i colori
Le acque nere sotto il cielo ardente
Traggono fanghi di pece bollente
Ovunque cerchi di posare il capo
Crescono spine e l’erba si fa dura
Vanno pel cielo senza lui le gru
E il loro volo non è più richiamo
La vita eterna, il nido dell’ogiva
Hanno cessato di nutrirne il cuore
S’insinua poco a poco nel suo intimo
Nel tempo che si sbriciola, la noia
Segretamente comincia a germinare
Nel corpo bianco un terrestre bubbone.


*

Salmo

Davvero son colpevole, Signore
Ché tutti i beni sempre ho desiderato
Di notte ho penetrato le fortezze
Ho saccheggiato nel sonno e nel sogno
Il braccio teso ed il pugno serrato
Sul marmo era silenzioso il mio passo
Come se camminassi sull’argilla
La bandiera notturna dispiegata di stelle
Copriva le mie gesta
Dormivano le guardie nelle calli
Appoggiate alle lance
Fuggivo cavalcando col bottino
Con una donna dai capelli bruni
I seni scuri gli occhi di rondinella
Le tentazioni dolci, quelle facili
Non furono mai la mia scelta
Nella mia ciotola come nella mente
Io cerco il gusto avvelenato, forte
Il mio bagno è nel ghiaccio
Sui sassi il mio giaciglio
Dove c’è buio attizzo le scintille
Dov’è silenzio scuoto le mie catene
Con i miei ceppi infrango le porte
Dalle alte vette suscito pericoli
Cerco il sentiero stretto per passare
Sulle mie spalle porto interi monti.

Ma il mio vero peccato, imperdonabile
È di aver cercato, o Signore
Di trafiggerti con il mio arco.

Ladro di cieli a me stesso ho giurato
Di saccheggiare con le aquile il tuo cielo
In segreto bramando tutti i beni
Nel segreto ho udito il tuo divieto.

*

trad. genseki

giovedì, maggio 25, 2006

Poesie di genseki

Mantello verde che di varchi azzurri

Mantello verde che di varchi azzurri
Disseminato copri questo mondo
Come dell’orso fulvo la pelliccia
Copre la calda densità del corpo
Copri la mente mia che verticale
Scorrere lascia tutti i sentimenti
Coprila col tuo freddo senza verbo
Estraneo nel tuo morbido lamento
Che si disgreghi infine in ogni foglia
Esperimenti in ogni cellula il morire
Del carbonio partecipi alle doglie
Che ricombinano alte leggi feconde
Gocciolo come pioggia dalla gronda
Sui sassi esplodo in mille gocce grigie
Che riflettono ognuna interamente
Le nervature che tessono il mondo

*

Si sbriciola la sfoglia della vista
Al vento verticale che la investe
E vede da ogni scheggia che si stacca
Tutta la verde vita che rinnova

*

È morbida la vita senza verbo
Zattera sono nella sua corrente
I secoli attraverso dolcemente
Tra i dorsi di testuggini e caimani
E guardo le mie mani che si formano
Mutando squame e piume in dita in unghie
I miei occhi che creano quella sfera
Che si screpola in rami di molecole
È una spugna pulsante non un frutto
Gonfio di sangue e di brividi elettrici
Il mio cervello che lento si aggomitola
In grotte di granito in cavi ceppi
È il grido di un varano che mi sveglia
All’umida coscienza del fluire
Madido d’ogni liquido del mondo
Che utero mi fu di muschio e stelle

*

Con luce in scoppi mi scorgo avvistato
Da un volto in cui mi accorgo del mio volto
Apre la bocca ed io odo il mio grido
Nel fiato suo m’accoccolo in me stesso
L’odio e mi creo in crepe di volere
Come distante dal viscoso abbraccio
Dell’indistinta unità di fame e caccia
Mi raddrizzo mi accorgo dei miei piedi
Eretto infine brandisco lampo e rabbia
Mi afferro a un ramo ed una lancia scaglio
Sento la pietra tra le dita il bronzo
Uccidendo mi intaglio sullo sfondo
Dell’essere screziato che trascorre

*

23/05/2006 22.26
genseki

*

Se c’era Dio è piovuto questa notte
Se disfatto in rovesci e cataratte
Poi l’alba è giunta in un velo di gocce
A dissetare il mondo appena nato
La pozzanghera riflette le galassie
Tutte le cime son gonfie di latte
S’apre l’umida valle al caldo soffio
Del vento fresco carico di semi

lunedì, maggio 22, 2006

Congedo dall'Universo vegetale

Adesso lasciami andare

adesso lasciami andare
Scioglimi dall’abbraccio vegetale
Da questo adesso che si sforza ovunque
Da questa ora che afferra il trascorso
Lasciami solo
Solo per il piatto
Solo per la forchetta e per la sedia,
Per il bollire della caffettiera
Per alzarsi da letto e andare in bagno
Scegliere un libro
Oliare le catene
Stringere i denti
Stridere all’incrocio
Solido e solo
Come di potassio
Sciolto da ogni edera e verbena.

*

13/05/2006 20.55
genseki

*

Guardo il sofà

Guardo il sofà
Cosciente di sparire
Senza cercare l’ombra delle gambe
Che il sole delinea sulle piastrelle
Di marmo del soggiorno
La domanda è comunque
La stessa:
Tutto questo giustifica Beethoven
Dietro il filo spinato
I gommoni che odorano di vomito
La traccia amara di vino nei flutti
Un piede tranciato dall’elica
I capelli crespi?
Il quadro alla parete raffigura una piazza alberata
Che si estende su due continenti.
Uno è il mio.
L’altro del mio occhio.
A quale, infine, posso appartenere?

*

13/05/2006 20.55
genseki

*

Finita infine questa finitudine

Finita infine questa finitudine
Tra la crema e lo spazzolino
Tra il capello e la condanna
Del rasoio
Il riflesso dello specchio rotto
Appena
Posso ora posso
Mi insinuo nella crepa
Mi raddoppio
La seguo dove si fa gocciolio nero
E mi sento coronato
Di quercia:
Goccia dopo goccia
Il prezzemolo appassisce
Nel bicchiere
E finisco e finisce
La finitudine:
La sfera.
*
C’è un’altra domanda forse su Beethoven
Sullo spazio dell’erba
Sulla traccia?
Non conosco altro passo
Che il riflesso
Altro movimento che il coltello
O aggiustare le pieghe d’un vestito
Quando non c’è più polvere
All’altare.
*
Ala invoco
E mi ritrovo il becco
Il rostro l’artiglio
E forse il coccio
Gorgoglia l’orzo nel bricco di alluminio
Il muschio copre il rame
Il raggio e il volo
Alla finestra scende a squama
E stuolo.

*

13/05/2006 22.19
Genseki

*

Queste parole tracciano un perimetro

Queste parole tracciano un perimetro
Lo tracciano intorno a un vuoto
Bianco
Lo tracciano poco a poco
Bisogna naturalmente immaginarsi il vuoto
E non è facile e immaginarsi le parole unite
E l’inchiostro
E la ghiandola
Che lo secerne
E poi tutto il resto
E stare attenti ai tiri birboni
Che

giovedì, maggio 18, 2006

Lo scarabeo



Lo scarabeo non conosce i battelli
Le carezze della schiuma, il sole delle valve
Dolce come le fragole in battigia,
S’adagia invece dove stagnano fanghi
Dove si vende il sangue
La vita le ore i sospiri e il senso
Dove si indeboliscono gli argini
A ridosso dei quartieri più sfavoriti
In modo che si infiltrino che si infiltrino
Negli acquedotti e che le infiltrazioni
Imputridiscano negli acquedotti
Marcendo i paragrafi di inchiostri scaduti di postille lacerate
Di carezze febbrili di strette ai fianchi tra lenzuola madide
Lo scarabeo è un ciottolo stridente
Che si condensa nei baci – delle filatrici –
Delle frese
Dei giocattoli cinesi a uneuro, nelle camicie
Di infima qualità dei mercati rionali
Dove ai tempi dell’Impero si quotavano sete e pece
Mirra e cloroformio
Quando il mare odorava di rabarbaro
E le onde erano lingue vinose che leccavano i tronchi dei pini
Lo scarabeo si posa sulle dita
Si posa sulle dita, sugli asparagi
Sulle dita più delicate
Sulle dita dei bambini
Sulle dita
E le sfiora
Come fossero cose.

*

A questo punto lo scarabeo
Dovrebbe infrangersi
Separarsi negli elementi che lo costituiscono, dividersi, insomma,
Farsi analisi delle sue rette dei
Vettori,
Degli ausiliari, degli specchi, delle spinte, delle suppliche
Di tesi e virgole,
- sarebbe un bel carosello di virgole vuote –
Davvero,
Penetrare lo spazio in un solo punto con tutti questi frammenti
E le speculazioni dell’industria farmaceutica
Trovarsi qui
E al tempo stesso di sopra
Come sasso e geranio, come mano e conchiglia, come foglia e chiocciola,
Lo scarabeo è dialettica e consiglio
Lampo rupe
Palma e dirupo
Si apre (come nel ’77) e scricchiola
Se è una buona annota
Ma non è una parola
Al massimo soltanto un accento.
Talvolta.

*

Cella cellula, cranio
Stupore
Scarabeo, arnia
Adesso apri la porta – dai! –
Vedrai che meraviglia:
Lavorano tutti! – Là fuori –
Cinesi marocchini sciiti; alla massicciata
Tra voli di scarabei
Porosi.

*

Parlavo della democrazia, allora
Parlavo della Democrazia, allora
Mi torcevo le mani
Recidevo fiori
Garantivo rimborsi
Correvo sui balconi
Sulle terrazze
Sugli spalti
Sui merli
Sulla biancheria stesa
Parlavo dell’Impero, allora
Lo esportavo
Per carità, non dimentichiamo la nonviolenza
Tagliavo qualche orecchio
Ascoltavo la radio spesso
In macchina
Nella cabine del telefono
Nella scatolette di tonno
Entravo in Europa, allora
Uscivo dalle bottiglie
Scorrevo a fiotti, poi
Fin dove scattano gli inizi,
Sfregiavo gatti.

*

Quello che non mi aspettavo
Quello che non mi aspettavo
Era ritrovarmi nell’orto
Ritrovarmi allo scoperto
Ritrovarmi senza orologio
Ritrovarmi più forte
Anche se avevo perso quella fluidità di movimento
Tanto caratteristica
Ma sempre rigorosamente bipartizan
Nel ritrovarmi dicotiledone
In un paese spaccato in due
Con una piccola coda
Come uno dei lombrichi meccanici
Del cugino Buckminster.

*

genseki