venerdì, maggio 05, 2006

José Carlos Mariàtegui




César Vallejo
Trad. genseki

Il primo libro di César Vallejo, “Gli Araldi Neri” è l’alba di una nuova poesia in Perù.

Vallejo è il poeta di una stirpe, di una razza. In Vallejo si trova, per la prima volta nella nostra letteratura, il sentimento indigeno sorgivamente espresso. … Vallejo, …, ottiene nella sua poesia un nuovo stile. Il sentimento indigeno ha nei suoi versi una propria modulazione. Il suo canto è integralmente suo. Al poeta non basta recare un nuovo messaggio. È necessario portare una tecnica e un linguaggio egualmente nuovi. La sua arte non tollera l’equivoco e l’artificiale dualismo dell’essenza e della forma. Il sentimento indigeno … in Vallejo è qualche cosa che affiora pienamente nel verso stesso cambiando la sua struttura. … Vallejo è un creatore assoluto.
Classificato all’interno della letteratura mondiale, questo libro, “Gli Araldi Neri”, appartiene, naturalmente per il suo titolo, al ciclo simbolista. Il simbolismo è però di ogni tempo. Il simbolismo, d’altra parte, si presta meglio di ogni altro stile all’interpretazione dello spirito indigeno. L’Indio, animista e bucolico, tende ad esprimersi in simboli e in immagini antropomorfe o contadine. Vallejo inoltre è solo in parte simbolista. Nella sua poesia – soprattutto della prima maniera – si trovano elementi di espressionismo, di dadaismo e di surrealismo. Il valore sostanziale di Vallejo è quello del creatore. La sua tecnica è in elaborazione continua. Nella sua arte il procedimento corrisponde a uno stato d’animo. Quando Vallejo, agli inizi, prende in prestito, per esempio, il suo metodo a Herrera e Reissig, lo adatta al suo lirismo personale.
Tuttavia fondamentale, caratteristico nella sua arte è il tono indio. In Vallejo c’è un americanismo genuino ed essenziale ; non un americanismo descrittivo o vocalista. Vallejo non fa ricorso al folklore. La parola quechua, il giro vernacolo non si inseriscono artificiosamente nel suo linguaggio; in lui sono prodotto spontaneo, cellula propria, elemento organico. Si potrebbe dire che Vallejo non sceglie i propri vocaboli. Il suo autoctonismo non è deliberato. Vallejo non si immerge nella tradizione, non si inoltra nella storia, per estrarre dal suo substrato oscuro emozioni perdute. La sua poesia e il suo linguaggio emanano dalla sua carne e dalla sua anima. Il suo messaggio è in lui. Il sentimento indigeno opera nella sua arte forse senza che egli lo sappia o lo desideri.
Uno dei tratti più chiari e netti dell’indigenismo di Vallejo mi pare la sua frequente attitudine nostalgica. … l’evocazione in Vallejo è sempre soggettiva. Non si deve confondere la sua nostalgia concepita con tanta purezza lirica con la nostalgia dei passatisti. Vallejo è nostalgico ma non puramente retrospettivo. Non rimpiange l’Impero come come il passatismo codino rimpiange il vicerè. La sua nostalgia è una protesta sentimentale o metafisica. Nostalgia d’esilio, nostalgia d’assenza.

Altre volte Vallejo presenta o predice la nostalgia che verrà.
Vallejo interpreta la stirpe in un istante in cui tutte le sue nostalgie, stimolate da un dolore di tre secoli si esacerbano. Tuttavia – e anche in questo si identifica un tratto dell’anima india -, i suoi ricordi sono pieni di questa nostalgia di mais tenero che Vallejo gusta malinconicamente…
Vallejo ha nella sua poesia il pessimismo dell’Indio. La sua esitazione, la sua domanda, la sua inquietudine, si risolvono tipicamente in un “a che scopo!” In questo pessimismo si trova sempre un fondo di umana pietà.. Non v’è nulla di satanico e neppure di morboso… . E’ il pessimismo di un’anima che soffre ed espia “il dolore degli uomini” come dice Pierre Hamp. Questo pessimismo non ha un’origine letterario. Non traduce una romantica disperazione di adolescente turbato dalla voce di Leopardi o Schopenhauer. Riassume l’esperienza filosofica, condensa l’atteggiamento spirituale di una stirpe, di un popolo. Non si cerchi una parentela con il nichilismo o lo scetticismo intellettualistico occidentale. Il pessimismo di Vallejo, come il pessimismo dell’Indio, non è un concetto ma un sentimento. Ha una vaga trama di fatalismo orientale che lo avvicina, piuttosto, al pessimismo mistico e cristiano degli slavi. Non si confonde mai, però, con questa neurastenia angosciosa che conduce al suicidio i personaggi di Andreiev e Arzibachev. Si potrebbe dire che così come non è un concetto non è nemmeno una nevrosi.
Questo pessimismo si presenta pieno di dolcezza e di carità. Il fatto è che non lo genera un egocentrismo, un narcisismo, disincantati e disperati, come in quasi tutti i casi del ciclo romantico. Vallejo sente tutto il dolore umano. Il suo dolore non è personale. La sua anima “è triste fino alla morte” della tristezza di tutti gli uomini. E della tristezza di Dio.

Altri versi di Vallejo negano questa intuizione della divinità. Nei “Dadi Eterni” si rivolge a Dio con amarezza e rancore. “Tu che sei stato sempre bene, non senti nulla della creazione”.

Questo gran lirico, questo grande soggettivista, si comporta come un interprete dell’universo, dell’umanità. Nulla nella sua poesia ricorda il lamento egolatrico e narcisista del romanticismo. Il romanticismo del secolo XIX fu essenzialmente individualista; il romanticismo del 900, invece, è, spontaneamente e logicamente, unanimista.
Quest’arte segnala la nascita di una nuova sensibilità. È un’arte nuova, un’arte ribelle che rompe con la tradizione cortigiana di una letteratura di buffoni e di lacché.
Vallejo, nella sua poesia è sempre un’anima avida di infinito, assetata di verità. In lui la creazione è, allo stesso tempo, ineffabilmente dolorosa ed esultante. Questo artista non aspira che ad esprimersi in modo puro e innocente. Per questo si spoglia di ogni ornamento retorico, si sveste di ogni vanità letteraria. Giunge alla più austera, alla più umile, alla più orgogliosa semplicità di forma. È un mistico della povertà affinché i suoi piedi conoscano la durezza e la crudeltà del suo cammino.

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