mercoledì, maggio 24, 2023

Materia trasparente


Un’altra volta in sogno si impregna il cuore
Di aver vissuto… oh fresca materia trasparente!
Di nuovo come allora sento Iddio nelle viscere.
Ma nel mio petto ora è sete quello che fu sorgente.
Nella mattina pura luce dal monte
Freme il cannetto azzurro di rugiada…
Ancora come in sogno un angolo di Spagna
L’odore della neve che l’anima mia sente!
Oh pura e trasparente materia dove stretti
Come fiori nel gelo, ci trovammo
All’ombra un giorno dei boschi profondi
Dove nascono steli che vivendo strappiamo!
Oh dolce primavera che mi corre nell’ossa
Ancora come in sogno… e di nuovo mi desto.
Leopoldo Panero
Trad. Pietro

martedì, maggio 23, 2023

Nascita

Come ricordare la propria nascita? Come fare l’esperienza del nulla anteriore a questo istante? Il nulla anteriore all’esperienza? Posso sperimentare nell’agonica angoscia il nulla della morte ma non quello della nascita, lo stesso nulla infinito prima e dopo, nel passato e nel futuro, un nulla che sboccia, un nulla che spegne. Sorgo da un nulla infinito, eterno, mi risveglio alla presenza, mi apro allo spazio e al tempo come il riflesso di un lampo, La coscienza sboccia dall’interno della mia presenza ed espande il mondo che mi accoglie, che si apre e si dilata dentro e fuori di me, che mi disperdo dentro e fuori del mondo. Un istante, quello della nascita, un abbraccio di carne, luce profumo concentrati in una sensazione puntuale che esplode nello spazio e che lo crea apprendendo a sperimentarlo. Sgorgare in un getto di presenza, sgorgare dal nulla come una corrente d’acqua limpida che la stessa forza del suo erompere modella in un fluire di sensazioni, percezioni che si diramano fino all’essere qui ed ora.

Nascere è spaventoso come morire


Apro gli occhi dopo un lungo sonno. Devo dare un’altra volta un ordine al caos, dare forma a un mondo, porre argini alla notte eterna, vincere la minaccia che tutto inghiotte: l’ombra. Tutte le mattine questo immenso sforzo, questo rinnovato scatenarsi della magia. Devo raccogliermi in me stesso, ordinare sensazioni e percezioni con un movimento centripeto, dare origine a un vortice che mi delimiti come un centro di irradiazione. Ogni istante di questa magia necessita un rito minuzioso, preciso. L’onda di un monotono scroscio, quasi ancora un pulsare ritmico mi travolge, si fa lentamente fruscio, mormorio, un sillabare un balbettare che va articolandosi lentamente in una cascata di parole magiche che nominando delimitano luce ed oscurità. Colori, suoni, profili, direzioni, gravità.

Ogni mattina questo sforzo immenso. Ogni mattina le fauci del drago, il suo alito ipnotico, la paura fino a che la litania dolcemente mormorata distenda il bianco lenzuolo dell’esserci, il velo di tepore che sarà carne pulsante del cuore.

giovedì, maggio 18, 2023

Intimità



L’intimità con il nostro morire ci apre la dimensione dell’infinito. Quando viviamo il nostro morire come il centro del nostro essere, quando sperimentiamo la dimensione finita del nostro essere, sperimentiamo anche la dimensione infinita del nulla che ci attende. Ê uno spasimo davvero terribile. Questa esperienza però illumina tutti i nostri gesti, le nostre percezioni, le emozioni. Le illumina in un senso concreto, tutto diventa più vivido, più nitido, ogni dettaglio sembra risplendere di malinconia e gratitudine. Ê un dono, non ne dubito, un dono che duole e che strazia ma che trasforma.

L’infinito, l’eterno si da nella forma del nulla, è un nulla però che vivifica, un nulla che svuota e illumina. Un nulla che cela una speranza.

Corpus


Nel mio paesello appenninico, per la festa del Corpus Domini, le stradine strette strette intorno alla chiesa si riempivano di frasche appena tagliate, appoggiate ai muri delle case antiche, legate agli stipiti dei portoni, uomini scuri erano saliti sui monti per tagliarle e trarle giù e ora il bosco invadeva per una domenica il borgo intero, con la sua fragranza, con il suo colore. Poi il selciato si copriva di petali di fiori, rose, dalie, tanti fiorellini bianchi di una piantina di cui non ricordo il nome, dal lieve profumo di miele che cresceva abbondante sulle rive dei torrentelli. Il baldacchino avanzava solenne in questo trionfo di semplicità. Aspiravo con forza l'odore delle frasche, immaginavo il profumo dei petali e tutto si fondeva con l’odore dell’incenso che evocava alla mia mente bambina nubi altissime di cieli scoscesi, aperte a inquadrare un infinito che mi toglieva il respiro, come quando guardavo i voli e i giochi delle rondini, al tramonto del sole nel cortile. Lo scoppio dei mortaretti mi faceva sobbalzare il cuore. Temevo questi scoppi crudeli e minacciosi e nelle stesso tempo desideravo il successivo. L’odore acre della polvere da sparo si fondeva con tutti gli altri profumi. Avanzava l’ostensorio, che il parroco reggeva ben alto per le strette viuzze, per i vicoli frondosi, oggi fetidi e abbandonati in un modo che ha rinnegato fedi e magie.

domenica, maggio 07, 2023

Jacaranda

Jacarandá


Dopo il breve nubifragio che nonostante la sua violenza non ha alleviato la morsa dell’arsura, improvvisamente, sono fioriti gli alberi di Jacarandá. Baldacchini di campanule viola, un viola che sfuma nel celeste, che risalta sul verde dei prati o dei boschi, ove ancora si trovino prati verdi, con la stessa forza elettrizzante con cui risalta sullo sfondo del cielo più terso.

Nuvole grate alla vista, grate all’anima che beve il loro sfolgorante colore e si disseta dall’aspra aridità dell’ansia. Dondolano a mezz’aria le loro squisite campanule, si cullano nella brezza con movimenti impudichi. Chiome di fiori, fioriture febbrili che annullando le foglie, sembrano nutrirsi direttamente della luce e del colore del cielo. Miracolosi sciami vegetali che trasformano la luce in colore, un colore dove la vista riposa, s’annida, si raccoglie in una forma di frescura propria di altre contrade. I viali sembrano percorsi dagli strascichi di vergini giganti in processioni quesi immobili. Che ebrezza vertiginosa ci inonda allora e ci lascia con un gusto dolciastro che sfibra i sensi. La brezza che le scuole fa cadere, infine i loro fiori le chiome sembrano allora specchiarsi sul selciato, come sull’acqua limpida di un canale grigio . I fiori caduti si incollano alla suola delle scarpe con un rumore che produce la sensazione di schiacciare un tappeto di insetti: scarabei o scarafaggi.

Intimitá

La nostra morte è quanto di più intimo possediamo, la nostra morte e il nostro morire. Morire è, in certo modo, diventare intimi con la nostra morte, scoprire la sua forma, ovvero discernere quale tipo di morte ci sia destinata. Solo la nostra morte, la morte che ci è data, è morte per noi. La morte degli altri, dal nostro punto di vista non è morte, è separazione, forse abbandono, a volte persino tradimento. La morte degli altri è il loro uscire definitivo dalla spazio della nostra esperienza sensoriale, il loro confinamento nel ricordo o nel sogno o anche nel sogno del ricordo. Non possiamo morire la morte altrui. Possiamo morire solo della nostra morte. Forse possiamo considerare questa povera analogia: morire è il processo di maturazione del frutto che è la morte. Povera davvero, ma utile, in qualche misura all’immaginazione.

Poter morire, della nostra morte, diventare intimi con la morte è, credo una grazia, un dono. Un dono del quale non saremo mai abbastanza grati. Eppure è un dono che accantoniamo con estrema facilità. Lo dimentichiamo anche quando abbiamo sperimentato che la bellezza del mondo, tutta la radiante meraviglia della creazione si svela ai nostri occhi solo quando la viviamo nella coscienza piena del nostro incessante morire, quando la contempliamo con gli occhi di qualcuno, noi stessi , che va morendo. Credo che solo da questa prospettiva si possa comprendere l’indicibile speranza della resurrezione cristiana.

Fiamma



Ê una fiamma forse di candela, forse un tizzone, una fiamma che va spegnendosi lentamente, lentamente e nel suo spegnersi impercettibile impercettibilmente risplende sempre più pura, trasparente, cristallina.

Una fiammo che muore e nel suo morire irradia luce su luce, luce tenue, luce velata, scorta come riflesso di una lacrima, al limite del visibile, eppure viva, fremente quasi d’un brivido sottile. Una fiamma che espande la sua luce, come luce riflessa sulle lacrime alle ciglia, luce consunta luce sfinita dal suo riflesso, dai suoi arpeggi. Luce che consola e che duole sulla soglia di un’altra luce.

mercoledì, maggio 03, 2023

La prigione


È così vasto qui il paesaggio, spazia la vista senza incontrare ostacoli per un’estensione inabituale: la terra si svela in una sua   bianca nudità, senza la protezione di prati e boschi a preservare il suo pudore, è una terra che riverbera il bagliore di questo sole crudele, senza permettere riposo alcuno a chi la osserva e che si ritrova di colpo essere il centro di una distesa di campi solcati con geometrica precisione per estirpare con minuzia qualsiasi traccia di vegetazione. Le zolle hanno perso tutta l’umidità sono come frammenti di ossa, fossili di ere innumerevoli. Gli occhi non trovano quiete, non hanno dove celarsi, dove dimorare. Allora anche l’anima si spoglia, si fa bianca come la terra, di un bianco appena un po’ ingrigito, si adatta a decifrare il ritmo dei solchi, si lascia attraversa dalla luce diffusa, abbandona ogni speranza di quiete, di raccoglimento, diviene tersa e tesa fino alla dissoluzione. Solo il verde novello dei mandorli disposti in curvi filari regolari 

esprime un linguaggio che consola, ma è una consolazione sottile, che si mantiene solo grazie a uno sforzo costante a una concentrazione dolorosa. Non è una terra ostile è una terra pura, che non genera illusione, che forza l’anima a dissiparsi, a rinunciare al punto di vista, a farsi specchio di una realtà che la rispecchia, a farsi vortice in un vortice di luce implacabile.

Poi, a una svolta della strada, ecco apparire all’improvviso l’edificio oscuro della prigione, le siepi di filo spinato, gli alti cancelli, i viali rettilinei tra grandi cunette di cemento, le finestrelle oscure, accecate dalle grate metalliche e un improvviso dolore, un dolore sordo e vorace, oscura senza ombra alcuna la vista assetata di pace.


giovedì, aprile 27, 2023

L'urlo


L’invasione del nulla, la sua manifestazione come angoscia assoluta, sta oltre il linguaggio. Il linguaggio è un rito di protezione contro questa irruzione, una rete fragile e illusoria a cui aggrapparsi nella vertigine. È l’indicibile, l’inconoscibile che si manifesta scuotendo il corpo fino nelle fibre più intime. Il linguaggio, la parola esiste come forma del senso, del significato, l’angoscia assoluta consuma fino in fondo il significato. È terribile la sua forza e l’anima è ricondotta all’urlo, forse la sua essenza primordiale. L’anima è all’origine l’urlo che scaturisce dal nulla.

Eppure da questo naufragio, da questa devastante periodica scossa che irrompe nella coscienza può sgorgare una luce flebile e abbagliante allo steso tempo: l’anima sperimenta questo annientamento e quindi è posta contro il nulla, non soccombe ad esso ma lo assume, lo trasforma in vertigine e paura e infine in urlo: Eli Eli… Da questo punto si può ricominciare  laboriosamente a sperare.

martedì, aprile 25, 2023

Claudia




Qual è il segreto di Claudia, quale il suo destino? Qual è la ragione del nostro incontro così assolutamente improbabile come padre e figlia? Lei romena abbandonata, io italiano smarrito in queste terre dove l’Europa si confonde con l’Africa, tra ciuffi di palme e agrumeti sterminati.

Ê stata la sua malattia ciò che mi ha spinto ad adottarla? Non so. Era una bambina magica che sapeva giocare con la paglia e nella paglia vedeva cascate di luce. Quando la conobbi giocava a gettare manciate di paglia in aria e guardava i frammenti di steli ricadere come un nevicata d’oro. Fu in una delle grandi foreste attorno a Blois. Ci nascondevamo nei cespugli per spiare i cervi che scendevano verso un piccolo lago tra i carpini. Poi costruimmo una capanna di frasche Aveva fame di vita Claudia, ed una condanna a morte. Pochi mesi di vita, dicevano gli oncologi. Ora ha ventisei anni. Tanti anni di lotta accanita per vivere, per godere della vita in tutta la sua pienezza nonostante il dolore, la paura, il rifiuto dei suoi coetanei che non possono sopportare il suo sguardo così intenso i suoi gesti lenti di una tenerezza infantile, la sua ingenuità e la sua fiducia.

La bellezza di Claudia è qualche cosa che non merito, che non ho meritato. È una bellezza che fiorisce dalla fragilità ed è fatta di Fede e di tenacia. Di preghiera e di lotta.

Claudia vuole vivere e lotta quotidianamente per vivere, per amare, per essere lieta e compartire con gli altri la letizia conquistata a caro prezzo.

Una lotta la sua che non tradisce sforzo né fatica; una lotta che è una celebrazione. È così bello starle accanto. Ê un dono e uno strazio.

lunedì, aprile 24, 2023

Ibn Mardanis



Il Cristo gigantesco, bianco, apre le braccia sul castello di Ibn Mardanis e abbraccia la città e i suoi orti. Ai suo piedi si stendono come un tappeto gli agrumeti di un verde ancora fresco, fino alle montagne, ai pineti dal manto oscuro che presto si copriranno del triste saio della polvere. Il cielo è una cupola di un azzurro intenso tra cascate di luce che si rilette sulle miriadi di foglioline di aranci e limoni trasformandole in limpide scintille, in chiarissime fiammelle, qua e là ciuffi di palme come guerrieri dalla chioma barbara e ostile sorvegliano questa distesa fragrante di primavera.

La mia anima allora, per pochi istanti, si libera dalla mia stretta e gode di se stessa facendosi trasparente al mondo, puro riflesso della gloria della terra, si svincola dal punto di vista che permanendo in me la inchioda alla limitazione del mio essere io. Allora sono e non sono me stesso, giubilo sentendo che sguscio dalla mia interiorità,  come una mano da un guanto e che la ritrovo fuori di me, fuori del tempo, completamente altra e intima, ancora a me più intima del mio stesso cuore, del mio respiro faticoso ora per l’erta che salgo.

Mi sembra di udire i cavalli di Ibn Mardanis scalpitare fiutando il sangue della conquista.

venerdì, aprile 21, 2023

Pedalare



Pedalo lungo il fiume, tra gli agrumi, sotto un cielo luminoso, pedalo in questo mare di verde, soto i gelsi. Una pedalata dopo l’altra, quesi senza pensare. A cosa posso pensare? Tutto, tutto è passato e questo presente vale se lo colgo nel suo dissolversi. Scompaio e con me scompare questo mondo, questa luce, questo fremito di foglie questo splendore di frutta. Solo in questa istantanea percezione della mia intima impermanenza colgo l’armonia che mi circonda che ne è l’immediato riflesso. Vive con me il mondo in cui vado pedalando, da me proviene questo splendido cielo azzurro, sono mie le chiome appena un po’ più scure dei gelsi, le nubi di moscerini che mi accarezzano il volto quando attraverso una zona ombrosa, e desidero ancora più ombra, desidero lo scrosciare delle acque alpine, l’odore del muschio e dei prati in fiore. Sono dentro e fuori di me il dono a me del mondo, il dono di me al mondo: un intreccio di doni che apre squarci di luce e venti. Cosí accetto la mia dissipazione, nella dissipazione delle vite che in me convivono e alle quali mi apro e che mi danno forma ed alle quali do forma e il nulla che mi rivela a me stesso già non è più timore, non è più minaccia. 

giovedì, aprile 13, 2023

Passeggiata


Passeggio per la città. Il mondo si svolge come uno spazio indefinito aperto nel tempo, entra ed esce dalla mia intimità, entro ed esco dal mio centro che si sviluppa a sua volta nello spazio e nel tempo. La fatica di costruire il senso di ciò che i sensi percepiscono, di definire un percorso tra il fruscio dei passanti, il mormorio dei motori lo stridore delle frenate, le linee di fuga degli edifici, la processione degli occhi e dei fiati, L’opacità delle finestre pesa in modo intermittente sull’anima che vuole cedere, abbandonarsi ad una qualche forma di incoscienza.

Dove dimorare? Dove trovare rifugio? Nell’alternanza di luce e ombra, di nubi e azzurro? Come uscire da questa lotta impari, da questo esercizio che sfianca? Restare desto nella brezza di primavera, nell’eccitazione sottile delle membra, ritirare gli occhi dallo spazio, volgerli al sogno, dirigerli verso il centro dell’intimità che si diluisce ad ogni passo e mi diffonde nell’apparire del mondo, nello sfarinarsi di me stesso, nel fioccare della mia anima come neve su un mondo innevato di luce.

martedì, aprile 11, 2023

Aledo


La torre antica si alza sul limite dell’altipiano a dominare le colline grigie spazzate dal vento, i pineti ancora verdissimi i pioppeti spogli. L’austerità è propria di questa terra, del paesaggio e degli edifici. Eppure un tempo non lontano i fianchi di questi monti spogli e feriti dalle frane erano coperti da querceti secolari, da alberi poderosi e sempreverdi. Lungo il corso del torrente svettano le palme e una striscia di vegetazione opulenta e brillante accompagna la vista fino a una profonda gola di rocce grigie e candide. Triste a valorosa anima della vecchia Castiglia giunge fino a queste terre del sud con obbedienza, semplicità, devozione, silenzio. Il vortice del tempo risucchia l’anima, la trae a un mondo di fermezza nella fede, di fedeltà alla parola, quella di Dio e quella dell’uomo, alle feste, ai fiumi di sangue dei maiali sgozzati, degli agnelli, dei torri fumiganti verso un cielo implacabilmente azzurro. Perduta nella nebbia della menzogna e dell’informazione, l’anima riposa per poche ore in una stasi temporale, assapora alleviata il gusto cinerino del silenzio e della noia, nel lento trascorrere di un tempo cosí prossimo a Dio

Le ali cieche

Luis Rosales

Trad Pietro
….

Chi non soffre brucia,
E voglio dirti, che vi sono occasioni in cui la certezza di vivere diventa tanto
Decisiva
Che ormai non può sostenerti e tu non puoi sostenerla.
Non lo dimenticare,
Amica mia,
Ci sono persone che non sanno che soffrono e persone che non
Sanno soffrire
Proprio come nel mondo vi sono luoghi dove mai ha volato una
Colomba
E tu sai bene che quando sto al tuo fianco non
Smetto mai di guardarti perché ho paura di perderti.
Come, non lo so, non lo so,
Ma ho paura di perderti specialmente adesso che unisci
Il cielo con la terra,
Proprio ora che unisci tutto: la sera, l’insonnia, gli addii,
La neve quando cade,
Non ricordi la sua pena mentre cade?
Non ricordi nemmeno
Che l’amore trema quando è versato per unire due corpi,
Ed è proprio come un gas che concentrandosi diventa liquido?

Morire è come amare,
È un apprendistato progressivo
E assiduo
Ed io ricordo altri tuoi momenti
Ancora più difficili
Quando mi guardavi con occhi ingabbiati,
E il sorriso in villeggiatura sulla bocca,
Ma quando stai sulle tue
L'indecisione finisce per stropicciarti lentamente
Come la carne lebbrosa si stacca dal corpo.

Le ali rimettono all’infanzia,
Questo è chiaro, almeno per ora,
Perché non torni a soffrire
Inventerò per te un’allegria,
Estrarrò
Dovunque sia
Qualche tuo ricordo che possa sostenerti,
E ti vedo bambina,
E ti vedo destarti ogni mattina in un borgo distinto
Tu sola, passeggiando rapidissima
Con le trecce che ti seguono e corrono
Sempre più soccorrevoli
Per non separarsi dal tuo collo e da te,
Ho sentito crescere i tuoi occhi, le tue scarpe,
I tuoi capelli che cercano il mare per navigarlo,
E ho visto il tuo corpo che ti sollevava,
E non potevi gridare
Perché già allora portavi sulle spalle il tuo segreto
Mentre tutti gli abitanti del cielo ti guardavano
Con grande scandalo
Ripetere giaculatorie e contumelie

Diavolo di bambina!
E poi arrivata a casa, come un fiocco di neve che si scioglie
Ti addormentavi con il corpo ben desto
Con il corpo che non la smetteva piè di correre,
E la notte era un ponte spezzato
Nient’altro
Niente di più
Finché prestissimo ti lavavi tuffandoti nell’acqua,
E salivi alla stanza dei tuoi genitori per baciarli, senza scherzi,
E come allora non avevi altra amica che l’aia
Che ti accompagnava a scuola
E quando uscivate in strada,
Era di colpo domenica perche avevate bisogno l’una dell’altra
Ed ella univa il suo smarrimento al tuo,
E ti guardava per vivere
E ti parlava lentamente con parole che rabbrividivano
Con la voce in reverenza mentre camminavate strette strette
Perché ti piaceva avanzare rapida, senza uscire fuori dai limiti del marciapiede,
E non non so come potevate camminare con lo stesso passo
Perché tu sembravi saltellare e lei camminava come se pregasse;
E questa strada l'ho vista molti anni dopo
E l’ho guardata con i tuoi occhi di allora,
E quella strada era un albero con suore tra i rami,
Non dirmi di no,
Non mi interrompere,
Lo so bene che vicino alla scuola la strada era un’altra
E parlava con te un’altra lingua tutta vostra
Ma una volta giunte al corridoio dove vi separavate,
Ti sentivi sfrattata,
E cominciavi a tremare piano piano ma senza sosta
Perché una volta sola vivevi l’intera tua vita
Come se vivessi una premonizione.

E questo è quello che ricordo
Ciò che posso ricordare
Quando torno a guardare i tuoi occhi di bambina per cercare di restituirti qualche cosa,
Una briciola di allegria,
Seguendo il volo di quelle ali cieche.

lunedì, aprile 10, 2023

Vuoto



Dove posso rifugiarmi ormai che ho consumato le illusioni più dolci, le tentazioni? Ho consumato persino l’ansia, la tristezza per la caducità, per l’impermanenza, ho consumato la speranza. Dove posso rifugiarmi adesso.?Vedo la terra rossa, secca screpolata, l’inutile slancio dei rami e delle foglie novelle verso un cielo che non risponde alla loro ingenua offerta con il dono della pioggia. Sono secco, arido anch’io. Nella consumazione dell’attesa del raccolto. Vivo silenziosamente in me l’accettazione di questo mistero doloroso che è lo sfinimento, ê una fragilità luminosa, una nebbia lieve che allevia la vista: tutto è possibile perché tutto è dato ed è sottratto nello stesso istante. La debolezza è uno splendore nuovo, è abbandono necessario. Da questa necessità, che è caduta, vedo, percepisco il mondo, odo lo scorrere del tempo come un sussurro. I ricordi diventano luminosi, i ricordi di quello che ho goduto e di quello che ho sofferto sfumano e allo stesso tempo son tanto vividi. Chiudo gli occhi e vedo gli occhi di Claudia, mi vedo dentro i suoi occhi, il suo sguardo mi svuota di me. Mi rende leggero.

Dove posso rifugiarmi ora? Dove posso accoccolarmi? In quale sogno? In quale mito? In quale arcano?

Forse il rifugio è restare su questa soglia appena definita, in questa fragilità che mi diluisce in un tempo di ricordi.

mercoledì, aprile 05, 2023

Procesiones



I primi confratelli vestiti di rosso appaiono sul ponte del Rio Segura resi più vividi dai bagliori del sole che tramonta alle loro spalle. Avanzano lentamente al ritmo solenne dei tamburi, obbedendo agli squilli di tromba, poco a poco si intravedono le croci, gli stendardi, i baldacchini circondati da una truppa rossa dal volto coperto, le centinaia di candele brillano pallide nell’ultima luce del crepuscolo. Tutto invita il cuore alla contrizione, lo spettacolo è solenne e terribile.

Nessuno però pare percepirlo, nemmeno coloro che ne sono parte attiva. Nessuno pare in grado di concentrarsi su quello che succede, sui simboli, sui gruppi lignei che avanzano ballonzolando: Getsemani, la coronazione di spine, il Monte Calvario, la Madre Dolorosa con il cuore trafitto dalle spade.

Gli spettatori parlano al telefono, prendono foto, ridono, scherzano, sorseggiano birre, si abbracciano inebriati dall’intenso profumo dei fiori d’arancio che pervade tutta la città. Le dame scalze che accompagnano i gruppi statuari cercano con gli occhi amici e parenti tra la folla e salutano con la mano, si separano dal corteo e corrono a ciarlare con i conoscenti al margine della sfilata,

Ê uno spettacolo incomprensibile quello che sfila, nessuno sa più decifrarne i simboli, il pathos, il senso profondo: la penitenza.

Ê come se un frammento di tempo passato fluisca come un fiume alluvionale nel mezzo di una folla ignara e ciarliera. Non vi è comunicazione possibile, non vi è una lingua comune. Sono due mondi: quello che sfila e quello che assiste. Ma anche coloro che sfilano sono ignari, distratti, ciarlieri, non intendono i simboli che reggono sulle spalle o tra le mani, lo fano con indifferenza.

La processione è il fantasma di una devozione estinta nel chiasso, nell’infantilismo. Nessuno, ma proprio nessuno prega.

Immagino la terribile solennità che solo cinquant’anni fa questa processione doveva imprimere nel cuore dei partecipanti e degli spettatori. Allora tutti erano credenti che partecipavano a un rito terribile e dolente, un rito di penitenza nel profumo degli agrumeti, nella sensualità della brevissima primavera di queste terre.

Di tutto questo non resta neppure il ricordo. Un paese smemorato, un paese smarrito. La processione segue stancamente il suo lungo itinerario aprendosi il passo in una chiassosa indifferenza.

martedì, marzo 28, 2023

Primavera



La campagna aspetta la pioggia, la aspettano i pini scuri che afferrando saldi le rocce pronte a franare sul versante rosso butterato come da una pioggia di meteoriti, sono ancora cosí verdi e orgogliosi, ma presto i loro superbi mantelli si copriranno di una polvere sottile, saranno allora, come giganteschi mendichi che si appoggiano gli uni agli altri per sopportare la sventura. L’orobanche sorge, quasi sgorga, dappertutto dalla terra dove non affonda radici e il suo stelo nero e carnoso coperto di petali gialli come scaglie non sembra dubitare del prossimo  umido sollievo. Tutto fiorisce intorno a me è una fioritura gialla, gialla, quasi non vi sono altri colori, tutto fiorisce in piena innocenza, le piante si preparano ad accogliere in una festa di luce, la pioggia che non cade e che molto probabilmente non cadrà. Vivo, in questo abbagliante fermento di vita, la tristezza della consapevolezza, della speranza vana, dell’incertezza, nel vigore delle foglie novelle già mi prefiguro la loro sofferenza futura. Questa consapevolezza moltiplica il fulgore della fede che la vegetazione ha nella vita, il suo lieto, clamoroso abbandono alla necessita di sbocciare. I melograni si coprono di scaglie arancioni come elitre semi trasparenti, l’aranceto avvolge gli olivi in una nube invisibile di profumo appena resinoso. Non piove, non pioverà, soffro di questa certezza, soffro la sofferenza della consapevolezza, della mia sfiducia nella vita e ne vivo la bellezza con l’intensità del dolore. 

lunedì, marzo 27, 2023

La Cattedrale


Questo breve testo vorrebbe essere una esplorazione, senza pretese di erudizione della concezione di Huysmans dell’architettura gotica nella sua opera “La Cathédrale”. L’ edificio sacro è trattato da Huysmans dal punto di vista iconologico, simbolico, estetico e spirituale. Questi diversi punti di vista si incrociano e si sovrappongono, aprendo molteplici sentieri nella foresta della Cattedrale.

La visione della Cattedrale propria di Huysmans sorge sulle rovine  delle cattedrali di Chateaubriand nel “Genio del Cristianesimo” e di Hugo, in “Notre dame de Paris”, cioè sulle rovine del romanticismo di cui, però Huysmans-Durtal non fa mai cenno, per acido, sdegnoso disprezzo. Tuttavia i punti di vista, le prospettive che tracciano e delimitano lo spazio della Cattedrale in quanto spazio sacro sono condizionati anche da questi autori, sempre presenti senza però essere mai nominati.

Le linee seguenti hanno l'ambizione di essere una sorta di catalogo, per nulla esaustivo, di questi punti di vista, di queste prospettive, come appaiono ad una prima semplice lettura.

La somma dei punti di vista e delle prospettive Di Durtal-Huysmans disegnano un'altra cattedrale che si sovrappone alla Cattedrale reale, così come la Cattedrale sonora del grande organo si modella sulle  volte dell'edificio straordinario, e le note di una sinfonia di Brückner si ergono come guglie per discendere subito vertiginosamente, in un abisso di toni oscuri.

La Cattedrale è per Chateaubriand una rovina venerabile, egli ha visto un intero mondo, “L'ancien Régime”, sparire davanti ai suoi occhi, è una forma della nostalgia per Hugo che ha vissuto l'epoca della costruzione dei grandi boulevards, è una impossibilità per Huysmans che ha vissuto la comparsa delle grandi fabbriche meccanizzate nel Nord di Zola e di Verhaeren.

I costruttori di cattedrali sono destinati, ora, all'insuccesso. La Cattedrale resta una possibilità reale solo per qualche vecchio prete, qualche vecchia beghina, le guide spirituali di Durtal nella sua catacombale ascesa. Autentica Cattedrale è la fabbrica, il gigante di acciaio che ruggisce nel fondo della pianura.


Il sentiero nella foresta


Per raggiungere la radura, “lucus e non lucendo” si debe percorrere un sentiero, un sentiero oscuro, cupo, nella foresta. È il sentiero del cacciatore e la traccia della preda, il sentiero degli archetipi, il sentiero iniziatico delle fiabe.


“A Chartres, quando si esce da quella piccola piazza spazzata, in tutte le stagioni, dal vento tignoso delle pianure, un alito dolciastro di cantina illanguidito da un odore morbido e quasi soffocato di olio, vi soffia in volto quando vi inoltrate nelle tenebre solenni della tiepida foresta”.


“Anche se conosceva la strada, egli avanzava con precauzione, in questo viale bordato da alberi enormi le cui cime si perdevano nell'ombra. Ci si sarebbe potuti credere in una serra coperta da una cupola di vetro nero, perche si camminava su lastre e né cielo appariva su di voi, né brezza vi accarezzava il volto. Persino le rare stelle, le cui luci tremolavano lontane, non appartenevano a nessun firmamento, posto che brillavano quasi al livello della pavimentazione, insomma, splendevano dal suolo”.


Il bosco è, secondo Chateaubriand, lo spazio sacro originario che costituisce il modello sulla base del quale sono state costruite le cattedrali gotiche. Il sentiero che Durtal percorre per raggiungere la Cattedrale è anche un sentiero che attraversa il tempo, conduce simbolicamente dal bosco arcaico alla cattedrale cattolica, che sono l'una immagine dell'altra, e un sentiero iniziatico che conduce dalla natura allo spirito. Dal sacro alla fede.

Il cammino, l'itinerario, inoltre, contiene in sé la meta. La radura non è altra cosa rispetto alla foresta, è proprio la foresta in quanto raggiunta, in quanto fatta propria dal viaggiatore, dall’errante. Durtal è uno di essi, certo, egli ha attraversato, la disperazione dell'edonismo, la vertigine del satanismo con il suo cattivo gusto e i la sua isteria, la religione dell'arte per l'arte e altro ancora fino a ritrovarsi sulla strada per Chartres in compagnia di vecchi preti fanatici e di una beghina sfiorita e mezza matta.


“Con l'alba che cominciava a spuntare, la foresta di questa chiesa sotto gli alberi della quale stava seduto si faceva davvero incoerente. Le forme appena giunte a sbozzarsi si cancellavano in questa oscurità che fondeva tutte le linee mentre si spegneva. In basso, in una nube che si dissipava, scaturivano, come fossero piantati in pozzi che li stringevano nei colletti stretti delle loro bocche, i tronchi secolari dei favolosi alberi bianchi; poi la notte, quasi diafana al livello del suolo, si faceva più spessa, risalendo, e li privava dalla base dei loro rami che non si vedevano più”.


La comparazione tra la Cattedrale e la foresta diventa qui del tutto esplicita:


“La tiepida foresta era scomparsa con la notte; pochi alberi restavano come scaturiti vertiginosamente dal suolo, si slanciavano con un solo movimento nel cielo, si riunivano ad altezza smisurate, sotto le volte delle navate la foresta era diventata una immensa basilica, fiorita di rose fiammeggianti, perforata da vetrate incandescenti, pullulante di Vergini, di Apostoli, di Patriarchi e di Santi”.


L'intuizione di Chateaubriand è sviluppata qui con una sensibilità che, lo si vede bene, ha attraversato le esperienze ricche e contraddittorie del simbolismo e del realismo.


Nel terzo capitolo la comparazione tra lo spazio naturale della foresta e lo spazio sacro della  Cattedrale diviene sempre  più chiara, l'intuizione di Chateaubriand sull'origine del gotico, è sviluppata in modo analitico e estetico minuzioso:


"Senza sminuire la teoria che consiste nel vedere in questo problema soltanto una questione materiale, tecnica, di stabilità e di resistenza, una invenzione dei monaci che avevano scoperto un bel giorno che la solidità delle loro volte sarebbe stata meglio assicurata dalla forma a mitra dell'ogiva che da quella mezza luna dell'arco pieno, non sembra che la dottrina romantica, la dottrina di Chateaubriand di cui ci si è fatto beffe sia la meno complicata di tutte, la più naturale, insomma la più evidente e la più giusta?

Per me è quasi certo, proseguí Durtal, che l'uomo ha trovato nei boschi la forma tanto discussa della navata e dell'ogiva. La più stupefacente cattedrale che la natura ha costruito, da se stessa, prodigandovi l'arco spezzato dei suoi rami, si trova a Jumièges. Là, accanto alle magnifiche rovine dell'abbazia che ha conservato intatte le sue due torri e la cui navata scoperchiata e ricoperta di fiori si collega ad un coro di fronde circondato da un'abside di alberi, tre immensi viali, bordati di tronchi secolari, si estendono in linea retta; uno, quello del mezzo, molto largo, gli altri due, che lo affiancano, più stretti; essi disegnarono l'immagine astratta di una nave e delle sue fiancate, sostenute da pilastri neri e avvolte da fasci di foglie. L'ogiva vi è chiaramente riprodotta dai rami che si toccano, così come le colonne che la sostengono sono imitate dai grandi tronchi. Bisogna vederla d'inverno, con la volta ad arco spolverata di neve, i pilastri bianchi come tronchi di betulla, per comprendere l'dea originaria, il seme dell'arte che ha potuto far sorgere lo spettacolo di simili viali, nell'animo degli architetti che sgrossarono, poco a poco, il romanico e finirono per sostituire completamente l'arco acuto all'arco pieno.

E non vi sono parchi, più o meno antichi dei boschi di Jumièges, che non riproducano con altrettanto esattezza gli stessi contorni; ma quello che la natura non poteva dare, era l'arte prodigioso, la scienza simbolica profonda, la mistica appassionata e placida dei credenti che edificaron le cattedrali. Senza di loro, la chiesa restata allo stato bruto, così come la natura l'aveva concepita, sarebbe rimasta un abbozzo senz'anima, un rudimento; essa era l'embrione di una basilica, cangiante secondo le stagioni e i giorni, inerte e viva al tempo stesso, animandosi al suono dell'organo del vento, che deformava il tetto mobile dei suoi rami, al suo solo spirare, era inconsistente e spesso taciturna, assolutamente sottomessa alle brezze, serva rassegnata dellepiogge; non era stata illuminata, insomma, che da un sole che si insinuava tra le losanghe e i cuori delle foglie, così come tra le maglie delle piastrelle verdi. L'uomo, con il suo genio, raccolse questi sparsi bagliori, li condensò in rosoni e in feritoie, li riversò nei viali di bianchi fusti; e persino con il tempo peggiore, le vetrate risplendettero, imprigionarono fino alla più piccola luce del tramonto, rivestirono il Cristo e la Vergine degli splendori più favolosi, quasi giunsero a realizzare su questa terra il solo abbigliamento che potesse convenire ai corpi gloriosi, vestiti diversi di fiamme!"


In questo testo non è solo la cattedrale che riproduce la foresta aggiungendo la profondità simbolica e mistica che manca alla natura, ma è la natura stessa che cerca di riprodurre la Cattedrale. Si genera un movimento circolare che va dalla foresta alla Cattedrale e dalla Cattedrale alla foresta il cui asse mediano è costituito dal simbolo.




La fortezza, l'armatura


La Cattedrale è paragonata a una fortezza e persino all'armatura di un cavaliere di quella crociata predicata da S. Bernardo proprio nella Cattedrale. Si tratta di una “Lorica” l'armatura fatta di orazioni e di esorcismi che avrebbe dovuto proteggere il cristiano che se rivestiva. La cattedrale è una “Lorica” ma non una “Lorica” di parole o di altri segni verbali, quanto piuttosto di pietre e di segni architettonici:


“Ritornava a casa sua per mangiare qualche cosa e, abbracciando, con un'ultimo sguardo, la chiesa ammirevole, ricapitolando i simulacri guerrieri così come apparivano: le forme di scudo dei rosoni, di lama di spade dei vetri , i contorni dei caschi e degli elmi delle ogive, la somiglianze di alcune vetrate in grisaglia filigranata di piombo con le tuniche di maglia di ferro dei combattenti, e, fuori, contemplando uno dei campanili intagliato a lamelle come una pigna, come una cotta di maglia, si diceva che pareva davvero che “gli ospiti del buon Dio” avessero preso in prestito i loro modelli ai bellicosi arnesi dei cavalieri; che avessero voluto perpetuare come per perpetuare il ricordo delle loro imprese, raffigurando dovunque l'immagine ingrandita di quelle armi di cui i Crociati si cinsero quando si imbarcarono per partire alla riconquista del Santo Sepolcro”.


Il Battello


La barca, il battello sono stati impiegati come immagini della Chiesa nel corso di tutto il Medioevo. Un esempio classico si trova nella “Navigatio Brandani” ancora una volta si trattava di un simbolo volto a rappresentare la Chiesa intesa come comunitá di credenti al quale Huysmans sovrappone l'immagine della Chiesa come edificio di pietra in una metaforizzazione regressiva..

Il riferimento ai vascelli crociati è, naturalmente soltanto letterario e privo di riferimenti storici seri.


“L'interno stesso della basilica sembrava esprimere, nel suo insieme, la stessa idea e completare cosí le immagini simboliche dei particolari, inarcando la sua navata, la cui volta a forma di fondo di barca imitava la chiglia rovesciata di un battello, ricordava lo scafo delle navi che si dirigevano verso la Palestina".


La Cattedrale Antropomorfa


L'ultima immagine che ritroviamo nel I capitolo è molto intensa nel suo antropomorfismo simbolico.


“Solo la cattedrale vegliava sulla città indifferente, implorava perdono per le sofferenze non accettate, per l'inerzia della fede che dimostravano ora i suoi figli, tendendo al cielo le sue due torri come due braccia, che simulavano con la forma dei campanili le due mani giunte, le dieci dita diritte, strette le une alle altre, in quel gesto che i creatori di immagini di un tempo davano ai santi e ai guerrieri morti scolpiti sulle tombe".


La cattedrale e il Cristo morto


Il simbolo più violento per l'immaginazione è quello per cui si vede nel corpo di pietra della Cattedrale, la rappresentazione del corpo del Cristo morto, o meglio, la rappresentazione del Cristo morente, nel momento di esalare il suo ultimo respiro. La pietra, ció che vi è di piú lontano dalla vita nell'universo è piegata a rappresentare il brivido dell'uomo-dio agonizzante.

È un brivido quasi impercettibile, che si trasmette attraverso i secoli, le età, cristallizzato e, tuttavia attivo.

La teologia sottolinea come la chiesa sia il corpo di Cristo in quanto comunità di credenti. Con un gesto di rara violenza iconica Huysmans ritorna alla confusione de bambini e degli incolti tra la Chiesa come corpo collettivo dei credenti e la chiesa come corpo fisico per unificare le due immagini in quella definitiva della chiesa come corpo di Cristo, Huysmans impiega il “corpo” come perno e crea l'equazione vertiginosa: Cattedrale=chiesa=Cristo; ma qui non si tratta del Cristo vincitore della morte, al contrario, di un Cristo agonizzante che coinvolge tutta quanta la creazione nella propria agonia, persino le pietre in un unico, immenso, spaventevole brivido.


“Gesù è morto: il suo cranio è l'altare, le sue braccia distese son le due ali del transetto le sue mani trafitte sono le porte; le sue gambe le navate in cui ci troviamo e i suoi piedi perforati il portone da cui siamo appena entrati. Considerate, ora la sistematica deviazione dell'asse della chiesa; imita l'atteggiamento del corpo abbandonato sul legno del supplizio, e, in certe cattedrali, come quella di Reims, l'esiguità, la strozzatura del santuario e del coro in relazione alla navata, simula ancora meglio il capo e il collo di quell'uomo piegati sulla spalla dopo aver reso l'anima".


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"Fino ad ora abbiamo esaminato soltanto l'immagine del Cristo, immobile, morto, nelle nostre navate; ora voglio discorrere di un caso meno comune, di una chiesa che non raffiguri più soltanto i contorni del cadavere divino, bensì la figura del suo corpo ancora vivo, di una chiesa dotata di una specie di apparenza di mobilità, che cerca di muoversi con Gesù sulla croce.

Sembra, infatti, un dato ormai acquisito che certi architetti abbiano voluto rappresentare, nella struttura dei templi che edificarono, le condizioni di un organismo umano, scimmiottare il movimento dell'essere che si inclina, animare, per dirlo con una parola sola, la pietra. Questo tentativo è stato fatti nella chiesa abbaziale di Preuilly-sur-Claise, in Turenna. La pianta e le fotoincisioni di questa basilica illustrano un libro interessante che vi presteró e il cui autore, Don Picardat, è il parroco stesso della chiesa, Potrete allora riconoscere con facilitá che l'aspetto di questo santuario è quello di un corpo che si tende in diagonale, che si dispiega tutto da un lato e che si inclina. Questo corpo si muove per lo spostamento voluto dell'asse la cui curva comincia con la prima trabeazione e va via via sviluppandosi, attraverso le navate dal coro e dall'abside fino al capitolo con il quale si fonde, appropriandosi così dell'aspetto di una testa ciondolante.

Meglio cha a Chartres, che a Reims, che a Rouen, l'umile edificio che eressero alcuni benedettini i cui nomi sono ignorati, dipinge, con l'andamento a serpeggiante delle sue linee, la fuga delle sue colonne, l'obliquità delle sue volte, la figura allegorica di Nostro Signore sulla croce. In tutte le altre chiese, però, gli architetti hanno imitato, in qualche modo, la rigiditá cadaverica, il capo reclinato per il trapasso, mentre a Preuilly i monaci hanno fissato questo indimenticabile momento che trascorre, nel Vangelo di san Giovanni tra il “Sitio” e il “Consommatum est”.

La vecchia chiesa di Turenna è dunque l'effige di Gesù crocifisso ma ancora vivo".