lunedì, giugno 07, 2010

Questo blog chiude

Questo blog chiude oggi, Il cammino verso la liberazione delle parole da quanto le rende utensili, stupidi mattoni di un significato insignificante, il chiudersi progressivo o il dischiudersi del futuro a ogni prospettiva che permetta di pensarlo, il ritorno del futuro come puro elemento del ricordo e quindi come forza che sola puó redimere il passato, gettare luce nella sentina del trascorso. Tutto questo è un viaggio che genseki debe compiere da solo.
Gli amici, i pochi: la gaBiota di Solentiname, Lu Spataro di Quittengo la luminosa Maresa di bellezza dolente fibra a fibra e i pochi altri che qui non menziono per insicurezza potranno continuare a leggere i messaggi che continueranno ad apparire, le poesie e le traduzioni e il gentile Florestan con loro. Chi cerca senza facili illusioni oltre la barriera del dolore e del senso, la nostalgia del soggetto nel suo indicibile dirsi, ebbene anche lui forse potrá decidere di perdere qui il suo tempo. Per tutti gli altri questo blog è chiuso non potranno piú leggervi niente di nuovo anche se, forse avranno l'illusione di poterlo fare.
Addio
genseki

Il non ancora conscio

Il non-ancora-conscio, è certo, tanto preconscio come l'inconscio della repressione e quello del'oblío, e nel suo genere, è perfino un tipo di inconscio che presenta tante difficoltá e offre altrettanta resistenza che l'imconscio dell repressione. Tuttavia il non-ancora-conscio non è subordinato in assoluto a una coscienza manifesta, bensí solo a una futura, a una che deve ancora sorgere.
Il non-ancora-conscio è pertanto solo il preconscio di ció che deve venire, la sede psichica ove nasce il nuovo.
Si mantiene soprattutto preconscio perché in esso ci viene dato un contenuto di coscienza che ancora non si è manifestato, che sorgerá solo nel futuro; in ogni caso deve ancora sorgere obiettivamente nel mondo.
Ernst Bloch
Da Principio Speranza
Trad. genseki

Il compito del ricordo

La politica da ora verrá primo della storia. I fatti diventano qualche cosa che semplicemente è appena accaduta, definirli è il compito del ricordo. Davvero, il risveglio è il paradigma del ricordo: il momento in cui riusciamo a ricordarci del passato piú prossimo, piú banale, piú manifesto.

Walter Benjamin
trad. genseki

lunedì, maggio 31, 2010

Sul ricordo

Sul ricordo

Il testo precedente di Hamann, il mago del Nord, mi ha richiamato alla memoria quello celebre di Bordiga: la societá futura influisce giá su quella presente. Sorprendente concordanza tra l'antirazionalista Hamann e il rigoroso dialettico. O forse sorprendente neppure tanto, forse un'ulteriore conferma nell'involontaria e segreta vena gnostica dell'ingegnere napoletano.
Per quanto riguarda la fenomenologia del ricordo, ebbene il ricordo è in relazione con il futuro nella forma piú semplice de inmediatamente evidente: chi non ha futuro non ha nemmeno ricordi. Sospetto, pur non avendo mai potuto sperimentare uno stato simile che anche chi non abbia assolutamente piú speranza non abbia nemmeno piú ricordi. Il ricordo, poi, come oggetto del ricordare si dispiega da un passato a un futuro: quello che non ricordo oggi, forse lo ricorderó domani. Ricordare è qualche cosa che ha uno svolgimento temporale lineare. Vi è una modalitá del ricordare che seleziona i ricordi in funzione del futuro, sperato, desiderato o anche piú spesso temuto. Se il ricordo ha bisogno del futuro e se ove non vi è futuro nemmeno vi è ricordo è altresí vero che l'universo del ricordo si ampia nella misura in cui il futuro si assottiglia. Nella nostra vecchiaia regnamo su un vasto impero di ricordi, in esso ci rifugiamo, troviamo protezione e di esso godiamo riposandoci in esso delle fatiche dell'aver vissuto. Il limite del minimo futuro è quello della maggior estensione del ricordo, ma quando non vi è piú futuro nemmeno vi è piú ricordo.
genseki

Hamann

Il futuro determina il passato

Come si puó pretendere di avere un concetto adeguado del presente senza sapere del futuro? Il futuro determina il presente e questo determina il passato, cosí come l'intenzione determina la natura e l'uso dei mezzi.

Hamann
Trad genseki

Jean Paul


Jean Paul

Il ricordo

Precisamente per questa ragione, tutta la vita ricordata brilla come un pianeta nel cielo, cioé la fantasia integra le sue parti in un tutto sereno e concluso, Allo stesso modo avrebbe potuto costruire una totalitá torbida, ma i castelli in aria pieni di camere di tortura la fantasia pereferisce situarli nel futuro soltamto, come i Belvedere soltanto nel passato. A differenza di Orfeo, otteniamo la nostra Euridice volgendo lo sguardo indietro e la perdiamo se guardiamo davanti.

Jean Paul
Introduzione all'estetica
trad, genseki

domenica, maggio 30, 2010

La lontananza

Vi sono due tipi almeno di lontananza: una è la lontananza che è tale in assoluto e può essere definita, per esempio dalla distanza geografica, oppure dalla separazione emotiva o dalle due insieme. Questa è la forma falsa della lontananza, una lontanza astratta, paralitica, infeconda, incompleta, aliena alla sua propria pienezza, incapace di compiersi come tale. Vi è poi una lontananza che è tale solo in quanto contiene in se la vicinanza, la prossimità, che l'avvolge quasi a proteggerla, che la custodisce nella sua intimità. È la vera lontananza, quella che costituisce come madre della prossimitá, che permette alla prossimitá di riconoscersi come tale. Che la porta alla luce, insomma. Nessuno puó essere davvero lontano da qualche cosa di cui non sia assolutamente prossimo. Prossimo nel ricordo, nel desiderio, nell'odio, nella nostalgia, ma prossimo, Proprio attraverso la lontananza ciscuno so riconosce prossimo di qualche cosa nelle diverse modalitá possibili di prossimitá. È il movimento di allontanmarsi che apre lo spazio ovattato della prossimitá in cui accovaciarsi ascoltando i propri cuori, i propri duplici fiati,

genseki

L'evocazione di Dreiser Cazzaniga

Le note e le pagine che Dreiser Cazzaniga ci ha lasciato raccolte nella rubrica delle sue memorie sono destinate a un lettore, un lettore particolare cioé un tipo particolare di lettore ma anche un lettore concreto che viene poco a poco evocato nel testo fino a prendere la forma del Curatore. In questo senso Genseki è una evocazione, se non una creazione di Dreiser Cazzaniga, L'attaccamento all'insuccesso, quando non direttamente alla disfatta che caratterizza la vita e l'opera di Dreiser Cazzaniga non gli consentiva di sperare di poter trovare un lettore empirico delle sue memorie, se non vi è lettore empirico, se manca il destinatario concreto è l'autore stesso che puó evocare un tipo di lettore che giunga ad essere il lettore, il Destinatario. Cercando di realizzare questa idea Dreiser Cazzaniga la sviluppó fino a evocare la figura di Genseki, il Curatore. Genseki è quindi un personaggio delle memorie di Dreiser Cazzaniga, forse è un po' pretenzioso definirlo un personaggio, ma insomma qualche cosa di molto simile a un personaggio anche senza i contorni ben definiti di un vero personaggio e come quasi-personaggio svolge il ruolo di Curatore. Proprio come Curatore delle memorie di Dreiser Cazzaniga Genseki è in una certa misura l'autore di Dreiser Cazzaniga. È lui che sceglie e assembla i materiali lasciati da Dreiser Cazzaniga e li propone in forma narrativa. Dreiser Cazzaniga in cerca di un lettore finisce cosí per creare egli stesso il proprio autore.
Qual è, tuttavia, la natura del materiale che Genseki assembla per costruire l'immagine che Dreiser Cazzaniga desidera prenda forma di se stesso? Da un punto di vista strettamente materiale, abbiamo visto, si tratta di una variegata congerie di testi su differenti supporti cartacei piú o meno ortodossi, tutti coloro che lo conobbero sanno come Dreiser Cazzaniga, ossessionato dall'esigenza di una vita austera e in qulache caso francamente avaro fossr solito raccogliere volantini pubblicitari per utilizzarne la parte posteriore. Con tali volantini assemblava veri e propri quaderni su cui copiava poi le su note. Dal punto di vista del contenuto si tratta invece di ricordi,
le Memorie di Dreiser Cazzaniga non sono quindi un testo narrativo, i ricordi non si possono raccontare, pensva Dreiser Cazzaniga, solo si possono costruire, combinare, organizzare e in qualche caso anche percorrere ma non raccontare. Il racconto dei ricordi ha solo in apparenza una forma narrativa.

mercoledì, maggio 26, 2010

Il grande animale

a Edoardo Sanguineti

Su questo nastro di Moebius a cui è stato laminato
Il nostro orizzonte percettivo
Nessun foglio possiamo nemmeno piú voltare
Tutti i fogli hanno una faccia sola
E anche quella sola infinita
Che comincia e sempre termina in un supermercato cinese
Dove gl impiegati sudano soia
Che macchia le camicie di terital proprio sotto l'ascella
E tanti cristi ballano con il cuore fosforescente
Strettamente serrato nella mano
Invano cerchiamo di sollevare qualche cosa per guardarci sotto
Nemmeno lo zerbino ha un sotto dove nascondere la polvere
Pascoliamo in questo prato di moplen
Con un fiore finto nella mano.

genseki

Da Purgatorio dell'Inferno

questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro: e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente

Edoardo Sanguineti

Di quante altre vite

Di quante altre vite crepitando a capofitto
Con il casco da motociclista e l'olio d'oliva restato troppo a lumgo al sole
Di quante altre vite cone le dita dei piedi divaricate
La crema solare le spiagge di ceramica l'azzurro delle camicie
Le nuvole pareveano camicie di altra biancheria gocciolando
Sul selciato e la pescheria con i suoi riflessi di rose sul ghiaccio
Di quante altre vite questo infrangersi di ricordi,
Chicchi di ricordi, grandine di ricordi, ghiaia di ricordi
Su cui distratta passeggia la mente come su un tappeto regale
Un re smemorato nudo come solo un re
Come un bambino che getta manciate di ricordi contro il sole cieco
Contro il sole che come una lucertola percorre il muro del cielo
E perde la coda sfibrata in raggi e raggi
Su questo spolverio di ricorsi triturando fino a quell'insegna
Fino al feltro al faggio al prato marcio d'acqua
Al come strisciava i piedi sulla corriera numero trentaqauttro
Ricordi sempre minuziosi le amiche che stendono ilari
Camicie ai fili che vanno da collina a collina le loro dita bianche
O ti sfiorassero appena, ricordo pulviscolo la bambina
Sporge dal pozzo con tutta la testa
Era caduta nel mondo nero mentre correva nel campo di segale
La terra cosí grassa fuma
Di quante altre vite come lucertole tra le rose come la serpe
Al bordo dello stagno quando la stagno è occhio
Come la serpe e la lucertola in una danza geometrica
Attorno a quello che resta del sole senza

genseki

martedì, maggio 25, 2010

L'ombrello di Dreiser Cazzaniga


Il matrimonio di Lydia Rosino II


Il primo appuntamento di Dreiser Cazzaniga con Lydia Rosino ebbe luogo in un autunno agonizzante sulle sporche colline di Cairuan, Dreiser Cazzaniga, in un momento di disperata solitudine, dopo aver sfogliato malinconicamente la piccola agenda del telefono, la chiamó per comunicarle come, grazie al suo successo in una prova di concorso, aveva conseguito uscire dall'interinitá e divenire titolare di una piccola prebenda, cosa alla quale la bella Lydia Rosino aspirava con tutte le sue povere forze: la titolaritá di una prebenda vitalizia; da parte di Dreiser Cazzaniga si trattava, invero, di un meschina soddisfazione alla sua vanitá, egli non era in grado di calcolare le conseguenze del suo gesto, sull'anima infreddolita della povera Lydia Rosino. Con una certa sorpresa registró come la bella Lydia Rosino gli proponeva un appuntamento nel borgo sporco di Cairuan, dove ella viveva, per una passeggiata sulle colline sporche dei dintorni tra le rovine dell'estremo autunno. Dreiser Cazzaniga si recó all'appuntamento con un basco di renna di origine lappone a quattro spicchi che aveva comprato a un mercato dell'usato di Berlino per un marco; una casacca da taglialegna dell'Oregon, pantaloni di fustagno da carrettiere della Langa e anfibi militari. I lunghi capelli uniti in una coda sulla nuca con un vezzoso nastro elastico. Lydia Rosino lo condusse in una lunga passeggiata durante la quale evitó con somma attenzione qualsiasi possibilitá di attraversare luoghi in cui si corresse anche solo il minimo rischio di incrociare esseri umani. Ella andava raccontandogli la sua vita di umiliazioni, di levatacce e di duro lavoro, di come il boia avesse finito per costringerla ad interrompere una relazione che ella giudicava insopportabile, di come il medesimo carnefice, stupefatto della sua decisione continuasse a perseguitarla bombardandola di telefonata e seguendola con la macchina. A una svolta del sentiero, in una radura che digradava verso un ceduo grigio tra l'erba marcia di pioggia si apriva un prato pieno di mazze di tamburo, cioè del fungo scientificamente noto come macrolepiota procera. Dreiser Cazzaniga non ne aveva mai viste di tanto grandi tutte insieme radunate. Pervano una flotta stellare di alieni benigni. Lydia Rosino diffidava dei funghi, cominció a raccontare storie di avvelenamenti e crudeli agonie che i buoni borghigiani cairuanesi si tramandavano di padre in figlio da generazioni. Dreiser Cazzaniga si mise a raccogliere quelle meravigliose fragili medadaglie bianche dal profumo di fumo e di cedro, signore dell'autunno al ballo di gala della putrefazione. Una era tanto bella che, per gioco, Dreiser Cazzaniga la portó via come fosse un ombrello: appoggiata alla spalla, Quando giunsero al borgo Lydia Rosino era terrorizzata. Gettava cautamente intorno sgurdi smarriti, Dreiser Cazzaniga insistette per finire l'incontro davanti a una cervogia tiepida e burrosa, Entrando nella caupona ella pareva scusarsi con tutti con uno sguardo ora umile ora sprezzante. Dreiser Cazzaniga non ci capiva niente.
a cura di genseki

giovedì, maggio 20, 2010

Amor topografico

A Lu Spadaro

Quando finalmente decise di spogliarsi – lei -
Cinquant'anni erano ormai trascorsi, anno più anno meno,
Con tutto il loro corteo di affanni e di biancheria sul ballatoio
Ne aveva portato mastelli interi e tutti quei marmocchi
Che davano la caccia alle lumache dei gerani per calmare la fame!
Comunque fu nuda, alla fine, davanti a lui perdiana!
Ora aveva chiara finalmente la geografia che aveva ossessionato
La sua calligrafia
Tutti i caratteri vena per vena, fino al boschetto dello zio Damiano
Dove mormorava la fonte e solevano andara a bere quel vinello verde
Di sambuco
I singhiozzi delle varici, le praterie e gli altipiani della nuca,
E tutti gli altri canyon con i loro poveri idioletti
La percorreva adesso, con il vecchio sestante era in grado
Di ritrovare la latitudine di ognuno dei suoi pori
Ma il profumo di pelle della pelle il profumo
Della terra dopo la pioggia, insomma,
Sorgeva tra di loro come un altro corpo ancora
Non avrebbe potuto abbracciarla, no, non così, non cosí
E poi lei aveva i piedi
Laggiú infondo alle gambe, in fondo, che viaggio
Per Ande e tendini fino ai piedi
Così lontani dall'anima: i piedi
Così insostenibilmente mortali.

genseki

martedì, maggio 18, 2010

Edoardo Sanguineti

Ballata delle donne

Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.

Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.

Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.

Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.

Femmina penso, se penso l'umano
la mia compagna, ti prendo per mano.

Ricordo

Non cedettero nemmeno quando fu piú prossimo l'evento,
Il sogno, lo schianto, insomma il tormento del vecchio
Che non ci si raccapezzava più tra tutto quell'alloro sparso
Il parco soffritto la terracotta che sapeva di pomodoro
Del pomodoro della sua gioventú, succulento, denso, mestruale
Ogni mese finiva per scuoterlo un nuovo ricordo, un nuovo frutto
Un'erba che ricordava di aver salutato al margine di una cunetta
Erano tutte sue le escursioni di una volta
Novembre a capofitto cadendo sul mare dalle colline putride di nebbia
Il mosto, l'affitto di quelle quattro stanze che puzzavano d'umido
Di castagne stantie
E ancora piú indietro il cerchio rosso del gotto di vino
Sul tavolo di legno dell'osteria dove tutti cantavano l'internazionale
Cercando di non pensare alle biciclette che avevan lasciato nel cortile
All'odore del lubrificante al profumo del sapone potassico.
I rubinetti avevano sempre macchie di verderame
Le pareti dei cessi mappe magiche di continenti di muffa e crepe
Il quotidiano fragrante adempiva tutte quelle su povere funzioni
No non cedettero no fino allo schianto
Allo schiaffo
E tutte quelle uova rotte sul pavimento tra i trucioli di segatura rossa
Che perna
Per il vecchio
Nessuno avrebbe piú potuto toglierglielo: il ricordo.

Gaetano Mezzasomá

Gaetano Mezzasomá

Le ricerche di Gaetano Mezzasomá si svolsero per decenni nella porzione di territorio montuoso compreso tra i borghi di Cavendole, Groggia, Grottasparata e Siriale. Potremmo definire la disciplina da lui fondata e che non ebbe praticamente continuatori di un qualche rilievo come una sorta di archeologia del significante o di psicanalisi della fonetica del territorio. I frutti della sua decennale attivitá di investigazione furono riuniti nell'opera monumentale “Sciré”, Si tratta di forme linguistiche che precedono il corpo che esprimono la pura costatazione dell'esserci del linguaggio. Non si deve dimenticare che una delle grandi passioni di Mezzasomá fu la micologia e che la sua altra debolezza scientifica fu la toponomastica, Il linguaggio dissemina le sue spore sonore molto prima che queste si nutrano di un senso, fatte tessuto e organismo. Il suono è il suono della terra, della vita biologica, delle forme metereologiche e geologiche del mondo. Il significante sibila sull'erba, molto prima che il senso pulsi al suo interno, molto prima che un corpo secerna un senso,
L'ascolto di Gaetano Mezzasomá capta la meraviglia del significante che fermenta nel mondo e ce lo porge con garbo e freschezza, in massime, metafore e canti.

gensek

Sulla vecchiaia

C'è un detto che suona cosí, quando si spengono le luci, allora si vede se la candela era di sego o di cera, in tal senso, neppure la vecchiaia è colpevole del fatto che sia deforme colui che invecchia, Ci furono societá che, a differenza dell'attuale societá borghese in decadenza non avevano paura di fissare in faccia la fine, possedevano e consideravano la vecchiaia come un frutto ricco di polpa, qualche cosa che vale la pena desiderare, qualche cosa di sano. Questo accadeva per esempio nel consiglio deglia anziani di Sparta, nel Senato della Roma repubblicana e in modo speciale nella nuova esperienza socialista. Ció che qui spesso si ode è qualche cosa di diverso da un destino al tramonto, qualche cosa di piú significativo de: “L'onore e questo volto invecchiato”; il fatto è che una spocietá fiorente a differenza di una societá condannata non vede con timore nel suo proprio riflesso la vecchiaia, al contrario vede negli anziani le proprie vette. Come ogni tappa vitale anteriore, la vecchiaia mostra un guadagno possibile e specifico, un guadagno che compensa il congedo dalle etá lasciate alle spalle. Invecchiare, quindi, non significa soltanto una tappa desiderabile della vita, in cui si è vissuto molto e in cui, alla fine si puó sperimentare ancora tutto il possibile. Invecchiare puó anche significare come situazione una immagine gradevole.: lo sguardo che abbraccia e, nel caso, il raccolto. In questo senso Voltaire diceva che per lo stolto la vecchiaia è come l'inverno, mentre per il saggio è la vendemmia o il tino. Essa non esclude la vecchiaia, piuttosto la comprende nella maturitá; l'anelo del ritorno alla gioventú perde il suo carattere doloroso proprio per aver maturato questo contatto con le generazioni che vengono dopo de è compensato, anzi, colmato con la sicurezza ora raggiunta, con la semplicitá e il significato. Gli ultimi anni di una persona conterranno, allora, tanto piú gioventú, e non nel senso mimetico, quanto piú riflessiva, la sua propria gioventú abbia sviluppato; le fasi della vita, allora, e con esse la gioventú, perdono allora i propri limiti rigidi, Il sano ideale del vecchio è quellp di una maturitá compiuta; una maturitá in cui è piú facile dare che ricevere.

Ernst Bloch
Il principio speranza
Trad. genseki

lunedì, maggio 17, 2010

Dreiser Cazzaniga e Cristo

Le relazioni di Dreiser Cazzaniga con Cristo sono di difficile definizione, Basandoci sulle sue memorie possiamo con sicurezza affermare che il suo primo incontro con Cristo fu una delle cose piú terribili che egli ricorda delle sua infanzia. L'altra cosa terribile, forse anche piú terribile che emerge dal magma primordiale dei suoi ricordi di Urkind è il grembiulino bianco impregnato del sangue del piccolo Bino, quando nell'asilo umido e sporco delle monache gli rovinò in testa lo scaffale delle pignatte. Dreiser Cazzaniga ricordó per tutta la vita il sangue rosso sul grembiule bianco, e la cosa peggiore, quella che proprio non poteva cancellare era che il grembiule non era propriamente bianco. Avrebbe dovuto essere bianco, in realtá era sporco, un poco giallastro e non era di vera stoffa ma di una specie di tela cerata che coperta di muffa giallastra e di sangue stinto assumeva un aspetto mucoso. Cristo invece lo minacciava dalla cappella oscura che si trovava alla sua destra, dall'altro lato della navata, un pò più indietro del punto ove era solito sedersi con suo padre per assistere alla messa delle sei. Nascosto tra i gigli, nell'oscuritá, il grande corpo grigiastro e sanguinoso pendeva con lo sguardo spento appena dietro la sua spalla, Il piccolo Dreiser Cazzaniga non osava voltarsi per guardarlo, ma non poteva dimenticare che lui, invece lo fissava, con quel suo sguardo freddo, grondante dello stesso sangue di Bino, ma grigio, il suo, adesivo, minaccioso, doloroso, La minaccia obliqua che pendeva alle sue spalle era per il povero Dreiser Cazzaniga la minaccia alla sua stessa consistenza come soggetto, Quell'indicibile obliquo minacciava di disgregarlo per sempre se solo si fosse voltato, Allora non si voltava ma la tentazione era irresistibile, cercava rifugio nelle calde grotte primordiali del suo immaginario ancora biologico, respirava l'odore dell'incenso, della muffa, dell'olio stantio con cui il sacrestano, soleva lucidare il legno delle panche dell'aristocrazia in cui aveva l'abitudine di sedere il padre di Dreiser Cazzaniga da quando, l'aristocrazia del barrio non frequentava piú la messa che si era fatta un rito minacciosamente e imprevedibilmente rivoluzionario, con tutte quelle chitarre, l'incenso californiano, i papaveri al posto delle rose i gins che sottolineavo i culi delicati delle coriste che andavano sbocciando nel mese mariano. Il mese in cui sbocciavano anche i giovani seni. E questo era troppo per l'aristocrazia che apprezzava culi e seni nell'alcova ma pretedeva castigati veli alla soglia del sacro. Qualche aristocratico finiva per presentarsi, infine, alla messa e allora litigava con il padre di Dreiser Cazzaniga che considerava l'occupazione della sua panca come una personale presa della Bastiglia.
Per tutto il cammino verso casa, il Cristo grigio continuava a penzolare minaccioso sulla spalla di Dreiser Cazzaniga e accettava di scomparire soltanto dopo che egli, inginocchiato sul letto aveva recitato la sua preghiera all'angelo custode che era un personaggio molto piú rassicurante anche se assai poco corposo, non abbastanza denso per occupare un posto significativo nel foro immaginario della sua mente infantile. Cristo veniva di notte a mordergli gli alluci sotto forma di un gallo dorato. Credo che lo incontró anche come mal di denti. In ogni caso ogni contatto con Cristo era da lui vissuto come un pericolo, come una minaccia alla propria soliditá, anche il più insignificante pensiero poteva delatarlo e frantumarlo di fronte a questa sanguinosa presenza
Diventava di colpo così fragile, si occultava a sé stesso, si mentiva, si negava e si riaffermava dissimulatamente, Un vero incubo. Piú tardi i suoi contatti con questa penosa figura cominciarono a provvocargli vere e proprie erezioni, che lui non sapeva bene che cosa fossero ma che sperimentava come qualche cosa di profondamente disdicevole, di riprovevole. Un'altra minaccia per la sua trepida integritá.
Poi nell'adolescenza gli fu presentato questo altro Cristo biondo in gins e con i sandali. Dreiser Cazzaniga odiava i sandali, soprattutto quelli che lasciavano libero il ditone, Il Cristo biondo in gins e con i capelli lunghi poi rischiava di provvocare ancora erezioni, giacché per le coincidenze della moda Dreiser Cazzaniga era stato precocemente a reagire ormonalmente di fronte a corpi serrati in gins con scarpe di tela Suprema e calzettine di cotone bianche. Ricominció ad odiare la volgaritá puzzolente e polverosa, impudicamente ostentata in quei sandali osceni e questo compromise per sempre le sue possibilitá di essere seriamente cristiano. Le cose migliorarono un po' quando verso la fine dell'adolescenza, in una cittá siderurgica renana, dai cieli cromati e dalle vie astrattamente commerciali, poté leggere il Vangelo di Giovanni nella traduzione di Lutero, sì con il Verbo era tutta un'altra cosa, se lo sentiva in bocca come la saliva. Cristo lo aveva separato dal suo corpo, si era malignamente insinuato tra lui e il suo corpo e aveva rotto l'intimitá e il tepore, Il Verbo era il prezzo di quella separazione, la ricompensa a tutto il freddo patito là fuori. Il Verbo non aveva ditoni, non portava i sandali, fluiva nel corpo e lo nominava tutto intero. Poi conobbe Paolo di Tarso e la sua cecitá, Quella si che la comprendeva, la cecitá luminosa che annientava il Cristo grigio e minaccioso acquattato tra i gigli, la fede che non aveva bisogno di quel maledetto capellone slavato in gins. La fede senza le maledette chitarre di maggio. Molti anni tardó a incontrare sul suo cammino la Beata Vergine. La incontró poi come il balsamo delle sue articolazioni dolorose, come la dolcezza avvolta nel manto stesso del rosario. La incontrò come rugiada e conforto d'abbandono, e subito la tradí e la rinnegó e poi le chiese perdono e tornó a rinnegarla e la incontrerá forse solo poi alla sogli luminosa della sua estinzione come Prajna Paramita. Che i suoi peccati gli siano perdonati.
A cura di genseki

Onesimo Gianferrari

Disegno di tempi e modi verbali

Il disegno di tempi e di modi verbali inediti e inseribili in una lingua quasi inservibile ebbe un impulso decisivo dall'opera quarantennale di Onesimo Gianferrari, Il testo principale, che contiene le basi teoriche del disegno verbale di Gianferrari è l'ormai introvabile: “Ebberotti, ipotesi per la produzione e l'inserimento nell'uso del futuro nostalgico e di altri futuri modali”.
Come dichiarato fin dal titolo il disegno verbale che interessa l'autore è soprattutto quello delle modalitá del futuro, Per Gianferrari, ridisegnare l'espressione e la percezione del futuro significa, in qualche misura, collaborare al compito rivoluzionario di cambiare i rapporti sociali.
Tra le creazioni verbali piú interessanti di Gianferrari nel campo delle possibili espressioni e percezioni modali del futuro meritano un approfondimento il futuro esaudito e il futuro insperato.
Il futuro esaudito esprime un'azione futura che avviene come conseguenza di un forte desiderio che essa si compia. Una volta definito il campo semantico di un tempo e di un modo verbale Gianferrara fornisce gli elementari strumenti tecnici che permettano di generarlo nelle diverse lingue. Il processo di generazione è normalmente lungo e costoso per quanto riguarda le lingue naturali, piú semplice e piú efficace per quanto riguarda le lingue artificiali o conlang.
Il futuro insperato esprime un'azione futura che si compie nonostante le bassissime probablitá che il parlante è disposto a concedere all'effettivo verificarsi del suo compimento.
Questo futuro appartiene alla piú vasta famiglia dei “Futuri statistici” cui il Gianferrara progettava dedicare un trattato specifico che la morte inaspettata gli impedí di portare a termine.
Beninteso anche il “Futuro inaspettato” fu oggetto della fantasia e della caparbia capacitá tecnica di generazione di elementi coniugabile di cui disponeva il Gianferrari.
In un altro capitolo introdurró uno dei gioielli della creativitá gianferrariana: “il Futuro retroattivo”. Anticipo qui che per il Gianferrari il successo nell'introdurre questa modalitá del futuro nel linguaggio parlato avrebbe finito per riscattare tutto l'orrore e tutti gli orrori del passato, dalla tratta degli schiavi allo sterminio dei palestinesi di Gaza.
Visione grandiosa che testimonia della passione di Gienferrari per la giustizia e del suo animo compassionevole verso le vittime della brutalitá della storia.

A cura di genseki


giovedì, maggio 13, 2010

La biglia

"Come vorrei che fosse tutto cosí!" disse una volta un bambino e si riferiva a una biglia, che se ne era andata via rotolando ma che ora lo stava aspettando.

Ernst Bloch
Da: "Prinzip Hoffnung"
trad. genseki

Il capitano Garbace

Il melanconico capitano Garbace sempre in ritardo
Con il suo pastrano in esilio, con la sciagura delle bretelle
Sacro capitano Garbace come un vecchio ragazzo
Dritto come una pendola dritto con una bottiglia per ombelico
Da quanti mari era potuto sgusciare con le tasche piene di arazzi
Con i galeoni nelle sinapsi e i gamberi per orecchini
Il rum non lo ingannava mai, il capitano Garbace
E poi le serate con il pastore Thorvaldsen
Serate a strapiombo come scogli la lingerie delle prefiche
Come schiuma d'onda dritta sotto la linea di galleggiamento
Tutta la legna della soffitta si accoppiava allora con i suoi chiodi
E le bare appena tagliate sbadigliavano per la fame nel solaio
Dio volava come un pipistrello impazzito in quel solaio, lo giuro
Lo giuro su questo boccale con cui ruppi i denti alla nonna
Che testate contro le travi! Dio fuggiva con un grido radiologico
Che lasciava intravedere le parti dello scheletro delle demoiselles
Che era fatto di denti solo di denti, avevano lpo scheletro di denti
Perlavaccaputtana non di ossa, Che paura cagava dio pipistrello
E Garbace, Garbace sempre dritto che bottiglia il maledetto
Una lacrima tatuata sulla palpebra.

genseki

Gaetano Mezzasomá

"e lodola aita volava aita frigolete din cial zul zul frisio como laire"

Gaetano Mezzasomá
Da: Sciré

martedì, maggio 11, 2010

Septiembre Garruchal

Gaetano Mezzasomá

Gaetano Mezzasomà

Tra le straordinarie scoperte di chiavi linguistiche segrete cui Gaetano Mezzasomà dedicó la vita ho scovato questi antichi versi, un richiamo, uno scongiuro forse che sa ancora di bosco, di fornace, di strette di mano tra carbonai nel folto piú profondo del faggeto, con un pizzico di salcitá in sagace aggiunta:

Slarga, slarga la fonda grulla
Sborda carola la tofana bronda

Trascritto da G Mezzasomá
“Sciré” p 233

Venti

Ancora un altro vento, nuovo, soffiando
Refoli di rosmarino traeva dalla forgia delle pietre
Del granito, dai camminamenti ove inghiottito
Soffocava fino al suono, quello strozzato
Al gorgogliare stentato al sibilo che non era liberazione
Ancora un altro vento ci soffiava trasparenti
Precipitoso fino alle froge delle valli
Al caldo del fieno, fermentava in brividi, sbuffi
Sollevava manciate di mosche dalle buse di vacca
Tanfo di mosche leziose, brusio viola di mosche nerissime
Vento del passato riempiva la milza, tra calze sudate
Di lana grezza, stesa al sole su un filo rosso
Da acero a acero, da ontano al fiume argenteo
Ci riempiva altro vento che non potevamo contenere
Che ci irrompeva molto piú in lá del nostro corpo
Di quello immaginato, di quello fatto di polveri
Diamantine ci irrompeva, spandeva, diffondeva
Alito, dissoluzione anima colchico o in prati interi
Accarezzavamo velenosi poi vorticose precipitate corse
Sui ghiacciai che frammentavano il bianco in angoli
Impossibili da percepire in raggi spinosi intorno al capo
Reclinato di un antico sole crocifisso prima prima ancora
Ma no, non era il vento a rivelarsi, a rivelarci da dentro
A mutarci nella topografia nitida di noi stessi
Con l'alfabeto delle isobare e le curve di livello delle identitá possibili
O vento di nostalgia, mulinava foglie di platano
Su quella grigia pozza d'europa dove saltavano da soli
Stivali rossi staffile cunetta, o quanti odori
Prima di sparire nella non percezione, quanti odori, quanti!
O vento di Ezechiele, vento di Ezechiele il flautista
Ballano le nostre osse come foglie la danza del fracasso
Intorno allo scheletro del suono del tuo flauto
Tritate furono, fummo come grani di miglio
Come grani di miglio tra il trifoglio.

Genseki

giovedì, maggio 06, 2010

Stele da Xian

Steli

Victor Ségalen

Steli

L'abisso

Di fronte alla profonditá,
L'uomo, china la fronte, in raccoglimento.

Che vede in fondo al buco cavernoso? La notte
Sotto la terra, l'Impero dell'ombra.

*

Io, inchinato su di me contemplando il mio proprio
Abisso, - oh io – rabbrividisco,

Ecco, mi sento cadere, mi risveglio e voglio vedere
Soltanto la notte.

*

Nuvole

Sono i pensieri visibili dell'alto, del puro Signore, il Cielo.
Alcune sono compasionevoli, gonfie di pioggia,

Altre trascinano le loro preoccupazioni, il loro corruccio
Le cupe giustificazioni.

*

Che l'uomo che ha goduto della mia generositá
O colui che i miei colpi hanno piegato conosca

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Il matrimonio di Lydia Rosino

Dreiser Cazzaniga si sposó diverse volte, alcune in pubblico altre in segreto, alcune tanto in segreto che non lo sapeva nemmeno la moglie, ma nella sua vita ci fu un solo vero matrimonio, cioè qualche cosa che riempiva la vita di forza, di rabbia e di schifo. Una trappola esistenziale apparentemente senza uscita: le sue nozze con Lydia Rosino. Lidya Rosino Dreiser Cazzaniga la conobbe nella cittá di Valva dove entrambi allora lavoravano come precettori interini. Ella in una poszione ancora piú servile della sua. La cittá di Valva adagiata in una conca collinare circondata da fecondi vigneti pareva viva quasi soltanto in autunno. Era una cittá immobile, racchiusa in un conservatorismo meschino e pretenzioso. Una cittá di provincia dal'aspetto medioevale, dalle vetrine incorniciate di legno, con le strade selciate e un perenne odore di funghi macerati e di nocciolato. Era la sede della famosa industria Herreros Und Sohn produttrice dell'agalma vacio, il preferito dai mocciosi di tutto il mondo. Gli abitanto di Valva passeggiavano per la cittá come se fossero sempre i protagonisti di una sfilata di moda esclusiva, i caballeros con le loro perfette canne di avorio, las dueñas y las ladyes avvolte nelle pieghe capricciose dei loro vestiti facevano oscillare gloriosamente i loro grandi cappelli dalle architetture elaborate come piccoli teatri ove si rappresentava ora un presepe, ora una scena di caccia, ora una di corteggiamento. Dreiser Cazzaniga soleva allora vestire una giaccona gialla piena di macchie, pantalonacci di fustagno, scarpe da tennis, portava lunghissimi capelli sempre un po' unti di treno e legati sulle spalle con una lunga treccia. I Valvesi lo disprezzavano con un brivino di orrore come se lo fiutassero senza vederlo. Dreiser Cazzaniga dormiva in una cameretta economica in una posada proprio di fronte agli stabilimenti Herrero und Sohn e bastava che aprisse la finestra per essere soffocato dall'odore del nocciolato agalma vacio e da quello dell'altro prodotto di questa manifattura la crema Cornella. La bella Lidya Rosino era una brunetta dalle forme graziose e dal colorito grigiastro, si vestiva sempre di blu e appunto di grigio con un cattivo gusto bizzarro e sottile. Il suo abbigliamento era concepito per passare inosservato ma nel suo sforzo di adeguarsi al piú assoluto conformismo perbenista vestimentario tutto era leggermente sfasato, appena appena fuori posto, le labbra coloratissime formavano un contrasto singolare con il volto pallidissimo. Soleva portare un impermeabile azzurro, un tailleur grigio, scarpe e calze blu e un fiocco blu su una camicia bianca. Quando incontrava Dreiser Cazzaniga lo salutava con un forzato sorriso stirato e se prendevano un caffé insieme lo intratteneva sulle difficoltá e gli stenti della sua vita di precettrice interina vagabonda, della sporcizia dei treni, delle sordide posade, del freddo e della nebbia, del mangiare ingiustizia e bere sopraffazione. Dreiser Cazzaniga usciva dal caffé profondamente intenerito e commosso da un vita tanto austera affrontata con tanto dolente coraggio. Lydia Rosino era allora fidanzata con un torturatore professionale della scuola di boia di Cairuan dove ella insegnava cultura generale dell'espiazione del reo, posto che aveva ottenuto promettendosi senza mai concedersi al generale che la dirigeva e che si accontentava di tanto in tanto di godere stritolandole i pollici sulla superficie della scrivania. Questo a Dreiser Cazzaniga faceva un po' schifo, egli vedeva, nelle rare occasioni in cui andava a Cairuan i giovani apprendisti torturatori alla fine delle lezioni sciamare per la cittá con le smorfie scimmiesche e azzannare le loro pizza quattro formaggi nei locali dal pesante odore di fritto. Poi si sarebbero ritirati a masturbarsi davanti agli spogliarelli del gruppo “Panto” trasmessi dalle televisioni locali apposta per loro e per i rari precettori interini vaganti maschi. Cosí stavano le cose quando cominció la commedia.
a cura di genseki

lunedì, maggio 03, 2010

Otoños 2007

Filosofia

Scienziato, artista, militante e amante, questi sono i ruoli che la filosofia esige dal suo soggetto. Queste sono quelle che ho chiamato le quattro condizioni della filosofia

Alain Badiou

venerdì, aprile 30, 2010

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Il desiderio di Dreiser Cazzaniga

"Il desiderio, ció che si chiama desiderio basta per fare si che la vita non abbia senso se produce un codardo".
Lacan


è alla luce di questa frase di Jacques Lacan, pescata letteralmente a caso nel mare dell'incomprensibilitá dei suoi scritti, che Dreiser Cazzaniga si accinse all'impresa di giustificara la propria vita, anche se essa era ancora un processo e non un cristallo. Per farlo si collocó al suo estremo, costruì un tempo preterito, o almeno cercó di costruirlo, totalmente alieno alla lingua impoverita e ipocrita in cui era stato gettato come scrivente. Un tempo preterito che isolasse il passato come, un arcipelago, di cui peró egli potesse variare in una certa misura le geografia. Ma solo un tempo verbale non bastava; dovette forzarne altri, forzare il lessico e deviare dalla morfologia. Dovette cioè rinchiudersi nella solitudine, negare la sua impresa come qualche cosa che fosse comunicabile, costruire una lingua impossibile dalle regole variabile e contradditorie come la geometria di Escher e poi dovette evocare il suo interprete, il suo giudice e curatore, genseki, il diamante dalle mille e mille sfacettature. Quando fu afferrato dal movimento di questa frase, Dreiser Cazzaniga non sapeva nulla di Lacan, a tratti detestava la psicanalisi, si entusiasmava per gli aspetti piú alchemici dell'opera di Jung, persino era giunto all'estremo di scegliere come guida al suo inferno infermo quotidiano un personaggio cosí assolutamente ripugnante come Simone Weil cui non si sarebbe mai abbastanza pentito di aver tributato un vero e proprio culto, celebrato attraverso la compilazione di stupidi quadernini la cui lettura egli soleva infiggere agli amici incolpevoli e soprattutto a Doña Tejada de las Silvas che non mostrava per essi nessun interesse. Eppure quella frase lo conteneva tutto intero nel fuoco della sua irradiazione spiraliforme.

a cura di genseki
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Il punto su questo blog

La veritá su questo blog è che sa morendo. Genseki scompare poco a poco, con i suoi tic, le sue rigide posture idiosincratiche, il suo io così animale, cosí animalescamente cavalleresco e “culto”, scompare vampirizzato da Dreiser Cazzaniga, Quel Dreiser Cazzaniga con cui ha condiviso un cosí largo cammino nel passato, con cui ha scoperto il passato, che lo ha spinto a cartografare il passato come una america recentemente scoperta, a redigerne l'inventario, ad essere il ramusio del proprio passato. I loro reciproci passati sono andati cosí poco a poco confluendo, confonedendosi, fondendosi. Il rischio, ancora evitabile? - è che finiscano per diventare un solo passato: un solo paese preterito percorso da due ricordi gemelli.
Dreiser Cazzaniga e genseki sono i due soli lettori di questo blog che sdegna di avere lettori, si leggono e si scrivono ormai l'un l'altro in una specie di folie è deux. Ma uno è giá morto, l'altro, forse, genseki, non ha mai davvero avuto una vita virtuale. La sola che avrebbe potuto avere. Ci ha provato a nascere. Ha sbagliato i tempi. Ha vissuto un tempo in cui è cosí difficile nascere!

genseki

Sete

Scavare la propria casa è scavare la propria morte
Scavarla con le unghie secche, con le nocche
Con le piaghe, con il ricordo di tutti quegli aghi
Come è arida la morte, con che sete muore l'animale
Con che nera sete anela alla cervogia nera
Alla tisana colore dell'ebano, a quella colore del rame
L'animale che ha sete nella morte, che ha sete che non disseta
Nessuna parola fuori del verbo, dalle sue sponde dalle sponde
Che l'onda del verbo elastica rinfresca, allora scava, scava
la tua casa nel cielo, scava tra le nubi
Scava la tua casa di nebbia in vari strati di azzurro
Scava nel duro cielo delle ascensioni la tua casa verticale
Fino a che le tue unghie le tue nocche nodose
Germoglino in virgulti di palma, in osanna scoscesi
Fragranti come uragani viola tra colonne vulcaniche
Di incensi dimenticati.

genseki

Georg Trakl


Georg Trakl

Georg Trakl

La poesia di Georg Trakl è costituita da una serie di variazioni su pochissimi temi. Un teatro chiuso in una stanza, che crea per un istante l'illusione dello spazio aperto e della natura, l'illusione del paesaggio. Non c'è natura nella poesia di Trakl, non vi è nessun paesaggio. La poesia di Trakl è una cerimonia privata, un rito conchiuso in un chiostro umido e scuro. Una processione di ricordi in un piccolissimo giardino abbandonato. Un giardino in cui non ci furono mai boccioli né cuccioli.

genseki

Dreiser Cazzaniga e il Joseph Losey

Vi sono nelle nostre vite influenze determinanti e segrete che hanno il potere di orientarne il corso apparentemente casuale in un direzione che finisce per dotarle di un significato che si fa di giorno in giorno sempre meno provvisorio. Tali influenze sono veri e propri avvenimenti di veritá a cui finiamo per aderire con tanta profonditá da dimenticarli. Una di queste influenze nella vita specifica di Dreiser Cazzaniga fu il film, ormai quasi dimenticato di Joseph Losey, “Il ragazzo dai capelli verdi”. Questo film agí profondamente nella sua incoscienza definendo le regole di decodificazione delle sue esperienze successive fino all'epilogo, fino alla sottile giustificazione della propria radicale inadeguatezza. Fu Dreiser Cazzaniga stesso, attraverso la costante autoanalisi che ritrovó le tracce cancellate che lo ricondussero a questa pellicola o, per dirlo in modo piú preciso a questo avvenimento, al quale restó testardamente fedele, rigorosamente fedele, forse persino brutalmente fedele proprio perché la sua fedeltá poté essere protetta dalla dimenticanza, dall'oblio. Una delle veritá di Dreiser Cazzaniga, una delle veritá che lo costituirono come uomo, come umano e quindi come signore della sua stessa morte fu l'avvenimento di questo film. L'avvenimento della chiamata che lo interpellava direttamente da questo film, che lo interpellava chiamandolo con il suo vero nome con il suo nome autenticamente suo, quello che non poteva essere di un altro e che marcava la sua alteritá e separazione definiva dagli altri, dai suoi compagni di scuola, dai suoi professori, dai fratellini, dalla famiglia. Dreiser Cazzaniga visse il resto della sua vita come se i suoi capelli fossero verdi. Visse le sue relazioni con gli altri come se egli fosse portatore di un particolaritá sospetta, una lebbra, un segno, una marca che era al tempo stesso la testimonianza di una ardua, ripida veritá e la causa del sospetto, dell'escluzione, di una certa ostilitá e paura da parte degli altri.
La fedeltá a questa separatezza, a questa esclusione Dreiser Cazzaniga non la seppe accettare in modo naturale. No, La sua prima e ricorrente tentazione fu di fare il furbo con essa, di mediarla, di negoziarla, di addomesticarla. Era lui il ragazzo dai capelli verdi. Era lui che doveva rigorosamente testimoniare dell'intolerabilitá della vita in questa societá, ma proprio per questo egli aveva anche il diritto a odiare e a mentire. Odiare coloro che lo rifiutavano per il colore dei suoi capelli, mentire per preservare questo odio, fu questa la via maestra per rendere “mostruosa” la propria anima che Dreiser scelse finalmente e che seguí per molti anni in una spessa nebbia e a tratti nella piú completa oscuritá.
Si risveglió, per fortuna, anche da questo sogno, riconobbe il colore dei suoi capelli, verdissimi, come le giovani felci e fu allora in grado di germogliare al calore di qualche cosa di simile all'amore.

a cura di genseki

giovedì, aprile 29, 2010

Dreiser Cazzaniga e il linguaggio

Che il linguaggio fosse qualche cosa oltre il quale si dovesse cercare di sollevare gli occhi, le orecchie e il resto della testa per non annegare alla fine nel significato era una cosa che Dreiser Cazzaniga non ebbe mai ben chiara. En discutemmo a lungo negli ultimi tempi. Egli aveva tendenza a considerare le nostre povere parole sclerotizzate e ridotte a supporto dello scambio coatto come strumenti adeguati ad esprimere la bellezza e a esplorare l'essere. Non era solo quasi quasi convinto che con il liguaggio si possa comunicare qualche cosa che non sia attinente alla sequenza di comando e sfruttamento, era pure convinto, fino a un certo punto, che servisse per conoscere. Il linguaggio, invece, si imputridisce nei blog e nei libri di facce. Anche le facce sono un segno. Ci sono solo facce, ormai, i volti tendono a scomparire cosí come le maschere. I volti sono la presenza, le maschere la possibilitá vuota che permette il fiammeggiare di questa presenza o, per attenersi in modo piú rigoroso all'etimologia della parola, la sua risonanza. Entrambi sono stati sostituiti dalle facce che sono soltanto il pietrificarsi dell'assoluta mancanza di interioritá, dello spazio interiore che la maschera garantisce al volto. Le facce annullano le maschere, Dove ci sono facce non ci sono piú maschere. Le facce non si distinguono dalle maschere e viceversa. Su questo tema Dreiser Cazzaniga non mostrava una sensibilitá apprezzabile. Certo egli era ossessionato dai volti come prodotto della cultura e della storia. Era affascinato dai volti dei film di Pasolini e di Paradjanov. Tuttavia continuó a considerare volti le facce che incontrava sui sudici treni pendolari dove trascorse tante ore della sua vita come volti e i loro occhi come fornaci capaci di sviluppare il calore di intere galassie.

A cura di genseki

Deporre

Appena l'avessi deposto
Allora l'avrei visto sfumare, prender forma di incenso
Di volo di mosche, di ombra sullo stagno
Di cullarsi leggero delle felci
Se l'avessi deposto, se solo avessi potuto deporlo
Ma come staccarlo? Come?
Era incastonato come uno scarabeo il cuore nero
Il cuore nero era come l'uva
Come la grandine, cosí caldo dentro di me
Mi accarezzava dal basso
Era nero, come l'erba, come le fragole
Come tutte le cose che sono davvero nere
Per esempio i suoi baci, le sue labbra
Il mio desiderio il nostro abbraccio
Il vento e il grano
Tira un'altra carta, dai, vediamo cosa esce
Picche e fiori: domani neve! Allora...

*

Il pastore Thorvaldsen usciva da una poesia
Solo per entrare in un'altra
Con i suoi cani rossi, tra i ciottoli di lavagna
Tra le gandi marmitte di bronzo e i filari di pioppi
Con la sua lingua staffile
Era cosí palesemente virile
Era Sarastro
Era il sole che illuminava la teca antica
Che conteneva bambini in formalina.
Che dorava con i suoi raggi
Un braccio di Pitagora.

*

Sequenze rotazioni, altre movimenti ossei
Trascorsero prima che mettessero a punto
La scarica adeguata, la strategia l'irradiazione
Marzo nel frattempo continuava a benedire gli olivi
Con la sua pioggerelinna leggera
La sua voce da basso un poco infreddolita
Cantava anche altre lodi oltre lo spazio piú vocale
Sterminate spighe sonore covoni di accordi
Tutto stava in una sola voce che non fu mai incerta
Anche se era sempre marzo, se la nebbia sostava
Sui fianchi del monte che straziavano ancora i pini
E cantare l'estate era un esercizio per voci arcaiche
Mentre cristalli scoppiavano in mille striduli estremi
Il lamento degli ultimi merli all'avvento
Dell'onda di granito.

Genseki
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Da Rimbaud a Dogen

Non avevo mai notato, per mancanza di acribia, beninteso, come, se è vero che “Io è un altro” allora debe essere anche vero, recprocamente, che questo altro è nessuno, un niente. L'altro è vuoto. Vuoto proprio di Io. Io e altro sono il vuoto l'uno dell'altro. Ponendosi come altro l'Io si nega e in questa negazione travolge anche l'altro. Nella struttura “en abîme” delle loro reciproche negazioni Io e Altro consistono concretamente proprio in quanto nulla, vuoto. Il Maestro Dogen avrebbe detto: “Mu!”
Con ammirevole concisione, e io, genseki, ho trovato il senso di una serie di svolte nel mio cammino.

mercoledì, aprile 21, 2010

Fallimenti

Fallimenti

Dreiser Cazzaniga e il precipizio

Quello che Dreiser Cazzaniga soleva piú amaramente lamentare nei suo ultimi anni era la mancanza di radicalitá nelle sue scelte giovanili e nel modo di orientare poi la sua vita. In realtá le sue scelte apparivano ai suoi occhi certamente radicali ma non conseguentemente radicali, non radicali fino alle estreme conseguenze, radicali sí, ma con una buona rete di protezione. Non aveva avuto fiducia nelle sue scelte, nel suo istinto, nel suo cuore. Per questo la sua gioventú era stata anche piú stupida e miserabile di quanto sia solito esserlo una gioventú media in un paese sviluppato. Meschina gioventú a tratti abbietta, prologo adeguato a una vita segnata dal fallimento. Tuttavia non aveva nemmeno fiducia nel sentire comune, nella strada maestra, nel conformismo, anzi en aveva ancora di meno di quanta non en avesse in sé. E non si limitava a non avere fiducia, si spingeva fino a provare fastidio, disprezzo, ribrezzo per la vita conforme alle regole comuni dettate dalla paura, dall'ansia, dalla debolezza. Non seguiva la traccia e non si gettava a rompicollo nel bosco. Sostava piuttosto pigramente in tutte le radure a contemplare il sentiero ben tracciato e lui poi finiva per perdersi nella nebbia. E si lamentava, aveva il coraggio di lamentarsi, Preparava cosí con determinazione la sua dannazione, no solo per la mancanza di misericordia ma anche per accidia.
Nel momento in cui era stato in grado di ragionare in termini culturali de artistici si era gettato nell'abisso. Aveva preso la sua vita e l'aveva buttata di sotto. La sua vita era acqua sporca, il bambino bello e asciutto si succhiava l'alluce sottocoperta. Il fatto è che ci sono diversi modi di gettarsi nell'abisso, nell'ignoto. Uno è quello classico, con le braccia aperte, il corpo ben teso i piedi uniti e il capo eretto, Dreiser Cazzaniga si era gettato in posizione fetale.Nel primo caso si finisce per volare, nel secondo caso no. Ci si sfracella. E l'odore non è bello.
Avrebbe voluto farsi un'anima mostruosa, era riuscito a farsi un'anima con un po' di orticaria e una micosi spirituale, un'anima tendenzialmente fungosa.
Avrebbe voluto essere silenzioso e abbronzato bevitore di liquori roventi, era stato un timido chiacchierone scontroso dalla chioma unta.
Alla soglia della vecchiezza avrebbe voluto tornare a credere in Rimbaud, nella sua adolescenza cosí maestosamente superficiale, nella generositá della sua illusione. Era troppo tardi per cambiare di rotta, era abbastanza presto per rendersi conto con luciditá di quello che aveva fatto della sua vita.
Si sforzava di guardarsi con lo sguardo di Rimbaud e si disgustava.


Dalle: “Memorie di Dreiser Cazzaniga”
a cura di genseki

martedì, aprile 20, 2010

Barabba


Barabba

Da: "Il calice dorato"
di Georg Trakl
Trad. genseki

Barabba

Avvenne proprio alla stessa ora in cui trascinavano il figlio dell'uomo verso il Calvario che era il luogo in cui venivano giustiziati i ladri e gli assassini.
Accadde proprio all'ora alta e ardente in cui egli compí l'opera sua.
Accadde in quella stessa ora in cui una rumorosa moltitudine dilagava per le vie di Gerusalemme, tra la moltitudine andava Barabba, ladro e assassino con il capo orgogliosamente eretto.
Intorno a lui andavano puttane ingioellate con le labbra dipinte di rosso
E intorno a lui andavano uomini dagli sguardi illuminati dal vino e dal vizio. In tutti i discorsi era palese il peccato della loro carne; il disordine dei loro desideri era l'espresione dei loro pensieri.
Molti che agitavan lingue ubriache si stringevano a lui e gridavano: “Viva Barabba!” e tutti rispondevano: “Viva Barabba!”. Qualcuno aveva persino gridato: “Osanna!” Ma fu zittito perché giá avevano osannato quell'altro che era entrato in cittá come re e avevano posto foglie fresche di palma ai suoi piedi. Oggi, invece, il suolo lo coprivano di rose rosse e giubilavano: “Barabba!”.
Quando giunsero davanti ad un palazzo udirono provenire da dentro accordi musicali, risate e il rumore di un'orgia.
Un giovanotto vestito riccamente a festa uscí loro incontro. I suoi capeli erano lucidi di olio profumato il suo corpo odorava di costosissime essenze d'Arabia. I suoi occhi brillavano di gioia orgiastica e il sorriso della sua bocca era eccitato per i baci della sua diletta.
Quando il giovanotto ebbe riconosciuto Barabba si fece avanti a gli disse: “Entra nella mia casa o Barabba, devi riposare sui piú morbidi dei miei cuscini, le mie schiave cospargeranno il tuo corpo con il nardo piú costoso, ai tuoi piedi una fanciulla suonerá sul laud le melodie piú dolci, e nelle mie coppe piú preziose ti mesceró i miei vini piú ardenti e nei vini scioglieró le piú perfette delle mie perle. O Barabba sii oggi mio ospite e al mio ospite di oggi appartiene la mia diletta che è piú bella dell'aurora primaverile. Entra o Barabba e corona di rose il tuo capo e rallegrati perché oggi muore colui il cui capo fu coronato di spine.
Avendo quel giovane cosí parlato giubiló il popolo e Barabba ascese la scalinata marmorea come un vincitore. Il giovane si tolse le rose che lo coronavano e le accomodó alle tempie di Barabba, l'assassino. Pi entró in casa con lui mentre il popolo giubilava nella via.
Su morbidi cuscini riposó Barabba le schiave cosparsero il suo corpo con nardo costosissimo, ai suoi piedí una fanciulla suonó il laud e la diletta del giovane si sedette a lui in grembo, era piú bella dell'aurora primaverile. Risuonarono risate, verso inauditi piaceri si affrettarono gli invitati, che tutti erano nemici giurato dell'Unico, serve del sinedrio e farisei.
All'una il giovane chiese che si facesse silenzio, ogni rumore cessó. Allora il giovane riempí la sua coppa dorata con il vino piú costoso e nella coppa il vino era come sangue ardente. Vi gettó una perla e la porse a Barabba. Poi afferró una coppa di cristallo e bevve con Barabba dicendo: “Il Nazareno è morto! Viva Barabba!” E nella sala giubilarono. “Il Nazareno è morto! Viva Barabba!” E il popolo nelle vie gridava:
“Il Nazareno è morto! Viva Barabba!”
Di colpo il sole si spense la terra tremó nel piú profondo e un'orribile oscuritá avvolse il mondo. Tremó la creatura.
Alla stessa ora si compí l'opera della salvezza.

A un palmo dalle mele

Ad un palmo dalle mele
Allora fu tutto l'oro scoppiando
Tra mele tra merli inerti rammemoravi, ancora
L'ondata dei tuoi sentimenti
spenta come ancora piú vaga ascoltavi
nell'ultimo scorrere del sangue
La prehiera piú negra
lasciami serpente, diamante
Credere ancora nel pane
Domani sará il melo ancora piú ritorto
A vicende connesse i suoi chiodi
Il crocifisso
Lascia che baci il tuo mantello
Signora
dalla fodera rosa.

*

Una ferita, apre sempre
Rosa paradiso di rose
Miele di luce acquatica e sale
Oltre tutte le paure sgorga
delfino minerale lo spirito
a logiche piú alte alternando lo slancio
Portato dalla schiuma del suono
Di cristalli scroscianti di strepitose trombe.

genseki

Georg Trakl

Georg Trakl

L'Autunno del solitario

Ritorna l'oscuro autunno in abbondanza di frutti,
Splendore ingiallito dei bei giorni estivi.
Puro azzurro s'insinua dallo sfascio delle colline;
Da antiche saghe risuona volo d'uccello
Riposa giá il vino, morbida quiete
Riempie di risposte sussurrate l'oscura domanda.

Su alture deserte stanno sparse croci;
Nel bosco rosso si perde un gregge.
Vaga la nube sullo specchio del lago;
Quieta riposa la capanna del contadino
L'ala azzurra della sera dolcissimamente sfiora
Un tetto di paglia secca, la terra nera.

Presto si annideranno le stelle nelle fronti spossate;
In fresche locande circolano silenzi novelli.
Escono delicatamente gli angeli dagli occhi azzurri
Degli amanti che teneramente soffrono
Freme il canneto, osseo grigio assalto,
Quando nera rugiada stilla da nude pareti.

trad. genseki

Le gocce del tuo tempo

Diverse erano allora le parole e diverso il dolore
Il calore dell'agosto traboccava dagli olmi
L'ombra sgorgava ancora dalla soglie delle capanne
E la corsa scrosciava ai madidi talloni
Feriti come rami dall'ombra dei ruscelli
La piuma della tua iride era nera di corvo
Il palmo della mia mani stringeva tutti i tuoi sguardi
(alcuni sgusciavano via tra le dita non abbastanza serrate)
Nell'amido d'amore fecondo si covava
La speranza solare falena vellutata
Dalla ferita scoscesa stillava il desiderio
Alla palma era inchiodato dal nitrito festivo
Le gocce del tuo tempo le lasciavi cadere
E conservavi il fiato come un petalo trasparente
Tremante sull'avena che inclinava la nuca
In rari diagonali brividi d'argilla.

*
Altri vestiti altre erbe no non volevo provarli
Indossarli come l'acque indossa la corrente
Come il vento prova sul suo corpo vibrante
La fibra trasparente dei sofffi e dei voli
Preferivo cadere allora tra i rintocchi
Frantumarmi in un volo di accordi
In uno scroscio di significati e di ciglia dal battito asincrono
E poi i tuoi erano neri – con quei denti – e ricamati
Vestiti a dorare la primavera nei meli
Quante piume anch'esse nere erano sparse nel prato
Tra la colza, sulla neve, tra gli olivi impoveriti
Dal passo troppo rapido della storia!
Altre erbe altri racconti ad una svolta del senso
Promettevano che la parola fosse carne e ricamo.

*

genseki

venerdì, aprile 16, 2010

Wang Wei


Si tratta della riproduzione tarda di un dipinto di paesaggio di Wang Wei.

Wang wei



Questi nell'immagine sopra alla sinistra sono i caratteri della poesia analizzata nel testo di François Chgeng tradotto nel precedente messaggio.

Non sono una meraviglia ma non ho trovato di meglio.
genseki


Introduzione alla poesia cinese

La parola e il vuoto

Da François Cheng

La scrittura poetica cinese


Nell'ordine lessicale e sintattico, la preoccupazione piú importante dei poeti si riferisce (...) all'opposizione tra parole piene (i sostantivi e i due tipi di verbi, quelli di azione e quelli di qualitá) e parole vuote (pronomi personali, avverbi, preposizioni, congiunzioni, comparativi, particelle, etc.).
l'opposizione tra questi due tipi di parole si da in due registri. In un registro piú superficiale si tratta di alternare ingeniosamente parole piene e parole vuote per dar luogo al verso. Tuttavia i poeti si resero presto conto che la funione ritmica in poesia legata alla nozione filosofica di soffio vitale, puó svolgere una funzione sintattica, cioé di separare o di unir le parole (quello che nella lingua normale fanno le parole vuote) in modo che i poeti procedono, in un registro piú profondo a una riduzione di parole vuote (pronomi personali, comparativi, preposizioni e particelle) conservando solo alcuni avverbi e congiunzioni.
In questo modo introducono nella poesia la dimensione del vero vuoto corrispondente al soffio mediano. In questi, come in altri casi, il pensiero cinese considea il vuoto (...) come il luogo in cui gli esseri viventi e i segni si incrociano e si scambiano in modo non univoco, e per questo come il luogo per eccellenza dove si moltiplica il senso. In certi casi i poeti giungono persino a usare una parola vuota al posto di una piena (nella maggior parte dei casi un verbo) sempre con il proposito di introdurre il vuoto nel pieno ...
Nelle parole piene vi sono altre sottocategorie come per esempio tra parole morte e parole vive: si-zi e huo-zi; parole statiche e parole dinamiche: jing-zi e dong-zi che marcano la differenza tra sostantivo e verbo, ma anche tra verbo di qualitá (aggettivo) e verbo di azione. Per i poeti che cercano di afferrare l'azione segreta delle cose un verbo puó avere tre stati: dinamico (quando si usa come verbo di azione), statico, (quando si usa come verbo di qualitá), e, infine vuoto (quando al suo posto si usa una parola vuota).
...
Il “vuoto” ... tra i segni e “dietro” i segni modifica le loro relazioni e le loro implicazioni e ottiene l'effetto di restituire agli ideogrammi la loro natura ambivalente e mobile, il che permette l'espressione di una simbiosi sottile tra l'uomo e il mondo, simbiosi che la poetic cinese esprime con la combinazione di sue termini qing “sentimento interiore” e jing “paesaggio esteriore”.

Elisse dei pronomi personali
Il proposito di evitare il piú possibile le tre persone grammaticali è una decisione cosciente e da luogo a un linguaggio che situa il soggetto in una relazione particolare con le cose e con gli esseri. Cancellando o sottintendo la sua presenza il soggetto interiorizza gli elemeti esterni.
...
Montagna vuota/nulla vedere
Solo udire/ voce umana risuonare
Sol ponente/ penetrare bosco profondo
Ancora un istante/ illuminare muschio verde

In questa quartina di Wang Wei, poeta, pittore e seguace del Chan si descrive un paesaggio di montagna che è contemporaneamente un'esperienza spirituale del vuoto e della comunione con la natura. I due primi versi dovrebbero intepretarsi cosí: “Nella montagna deserta non vedo nessuno, solo posso udire voci lontane”. Con l'eliminazione del pronome personale e dei locativi il poeta si identifica inmediatamente con la montagna deserta che non è piú un complemento di luogo. Cosí, nel terzo verso il poeta è il raggio di sole che alla sera penetra nel bosco profondo.
Dal punto di vista del contenuto i due primi versi presentano il poeta come qualcuno che ancor non vede ...; i due ultimi versi, invece si centrano sulla visione: vedere lo splendore dorato dei raggi del sole al tramonto sul muschio verde (...). Vedere significa qui illuminazione e comunione profonda con l'essenza delle cose.

François Cheng
L'Écriture Poëtique en Chine
Trad. genseki

giovedì, aprile 15, 2010

Apollinaire


Apollinaire

Guillaume Apollinaire

Sulla poesia

Quella che segue è una pagina di Apollinaire, tratta da una lettera a Lou nella quale egli tenta di delineare una definizione della funzione del poeta e della poesia. Certo si tratta di un testo davvero goffo. Si puó perdonare una tale goffagine in considerazione del conteso e della persona a cui il testo è diretto? A Guillaume Apollinaire si puó perdonare tutto anche solo in virtú della “Chanson du mal aimé” ma qual era il suo fine nel voler ridurre il poeta a una specie di Giulio Verne in versi?
Che cosa cercava di dire a Lou spiegandole che la poesia trova la sua giustificazioe non in sé ma in altro da sé sie esso l'amore che come fu dett piú tardi consiste nel “dare ció che nonsi ha a qalcuno che non lo vuole” o, piuttosto l'immaginazione anticipatrice che, poi come si evince da altri testi dello stesso Apolinnaire è immaginazione tecnologia (i poeti per primi hanno immaginato il volo umano, etc). quest'ultimo fine è davvero risibile e ogi si è adirittura capovolto. È la tecnica che immagina da sola quello che nessun poeta mai poté immaginare: internet o la clonazione, Un testo davvero goffo.
genseki

“Ti devo pregare che non ti facia piú beffe dell'ufficio di poeta. So che non lo fai con cattiva intenzione ma se continui così diverrá un vizio. Per prima cosa, essere poeta non vuol dire che non si sia capaci di fare nient'altro. Molti poeti hanno fatto dell'altro e in modo rigoroso. (...). Inoltre, l'ufficio di poeta non è inutili, né folle e neppure frivolo. I poeti sono i creatori. ( Poeta viene dal greco e significa effettivamente creatore e poesia significa creazione). Peratnto sulla terra non esiste nulla, nulla appare agli occhi degli uomini che prima non sia stato immaginato da un poeta. L'amore stesso è poesia naturale della vita, l'istinto naturale che ci spinge a creare la vita, a riprodurci. te lo dico perché tu ti renda conto che non mi dedico all'ufficio di poeta per simulare di fare qualche cosa e dedicarmi al dolce far niente. So che coloro che si dedicano al lavoro poetico fanno qualche cosa che è essenziale, prmordiale, necessario, in definitiva divino. Naturalmente non mi riferisco ai semplici versificatori. parlo di coloro che con un processo penoso, amoroso o geniale giungono giungono poco a poco a esprimera una cosa nuova e muoiono per l'amore che gli ispirava.

G Apollinaire
Lettres à Lou
Trad. genseki

mercoledì, aprile 14, 2010

Il temporale viola

Fu la tartaruga che conobbe per prima
Il peso dei segni, la gloria del sigillo,
Il temporale viola, intanto lavava via il polline
Dalle case e il vento rubava i canti alle puerpere
Impazzando tra le lenzuola bianche
Stese a ad asciugare sull'erba
Anch'esse prone al pennello,
Destinate al rintocco di campane
In una profusione di pistilli e cristalli
A lei chiesero allora l'oracolo,
Il cammino verso i sentieri di incenso
Il temporale viola spazzava l'innocenza
Dalle labbra e dalle lenzuola.

genseki

Dreiser Cazzaniga e il passato

Alla soglia della vechiezza, nei primi anni del suo esilio volontario, Dreiser Cazzaniga si volse all'indietro e scoprí che alla sue spalle si esetendeva un mondo intero, il mondo del ricordo, il passato.
Scoprì che questo mondo era piú ricco e interessante che quello della speranza, dell'imaginazione, del vagheggiamento del futuro al quale fino ad allora aveva rivolto la sua attenzione, Mondo nebbioso questo dell'avvenire, fatto di vaghe coincidenze di linee, di orizzonti soltanto probabili, di paludi in cui il desiderio lasciava macerare la ragione. E poi si faceva stretto stretto. Sempre piú prossime apparivano alla coscienza angustiata le scogliere bianche come zanne su cui si frangevano le correnti dell'abisso. Non ce la faceva piú il suo cuore, quando le pioggerelline dell'impermanenza
infracidavano le lande, a afferrare il mantello della Vergine, a scaldarsi alla candela di una fede.
Fu in queste ambasce che si volse l'anima sua al ricordo. Il paese del ricordo era lui stesso che lo aveva creato, era quello che di se stesso egli aveva fatto e ancora poteva fare, aggiustando le interpretazioni, cercando le coincidenze, coordinando i percorsi, variando indefinitamente le rotte. Vivere nel ricordo divenne per lui una passione e una ragione. Le sue memorie divennero il suo talismano. Nelle regioni dell'adolescenza si ergeva sovrano il giovinetto divino, il poeta dai calzari alati, il goffo, bellissimo, scontroso Rimbaud e molti dei fili della sua vita si dipanavano dalla fede cieca che nella prima adolescenza aveva avuto in lui, fino a vedere con gli occhi di lui il fresco paesaggio della dolce Francia, i temporali sulla Sologna, i campi coperti dai corvi nelle sere fredde dell'estremo autunno, viaggiare nel ricordo fu per Dreiser Cazzaniga, in un primo momento ritornare a credere in lui, scoprire le ragioni della sua fede e valutare quanto immensamente un verso che egli aveva poi dimenticato, avesse potuto condizionare in forma concreta la sua vita.
Intensa fu la meraviglia che in questo periodo Dreiser Cazzaniga dedicó alla ventura amororsa dell'amico suo Lu Spadaro di Quittengo. Egli sembrava aver goduto di una esperienza molo simile a quella di Dreiser Cazzaniga. Soltanto che per lui la scoperta del ricordo, il paese del passato aveva assunto la forma molto concreta e poco metaforica del corpo e dell'anima della bella Unica, monade del suo amore adolescente, per la quale sempre arse nel suo cuore fiammeggiante Minne. Amava finalmente ancora riamato l'amore dei suoi teneri anni che aveva creduto perduto. Dreiser Cazzaniga si chiedeva come concretamente potesse darsi una simile esperienza, che cosa potesse restare in un corpo segnato dalla crudeltá degli anni e accresciuto in bellezza, questo è certo, dalle ferite del tempo trascorso, della freschezza primaverile di quegli occhi verdi o lilla di Riviera, in cui tuffarsi come lo sguardo negli olivi, e poi giú fino al mare sul promontorio. Dreiser Cazzaniga ricordava i loro motorini appaiati tracciare calligrafie di tenerezza nel traffico raro del primo pomeriggio. Non ricordava quasi niente di lei, solo forse che soleva indossare maglioncini bordó o di un qualche sensuale colore vinoso. La veritá era che Dreiser Cazzaniga era stato geloso di lei, geloso fino all'ariditá del cuore di colei che legitimamente poteva stringere l'amico suo in piú lacci e piú amplessi. Dreiser Cazzaniga si consolava della gelosia, allora, leggendo e mettendo a punto minuziosamente il suo insuccesso, organizzando con lieta incoscienza i suoi futuri fallimenti.

A cura di genseki

martedì, aprile 13, 2010

Michele e Cristina

Orsú se il sole lascia queste lande
Fuggi chiaro diluvio dall'ombra delle strade
Sui salici, nel vecchio cortile spande
Dapprima il temporale gocce ampie.

Oh cento agnelli d'idillio soldati biondi,
Dagli acquedotti, da pallide brughiere
Fuggite! piano, deserti, prateria, orizzonti
Il rosso temporale sta lavando!

Can nero, pastor bruno di vorticosa cappa
Fuggite ormai dai raggi superiori
Biondo gregge al nuotar d'ombra e di zolfo,
Orsú discendi ai ripari migliori.

Ma io Signore! Il mio spirito vola
Oltre il rosso dei cieli gelati alle
Nuvole celesti che correndo sorvolano
Cento Sologne lunghe come binari.

Poi mille lupi mille semi selvaggi
Solleva, ben attento ai convolvoli,
La religiosa sera di tempesta
Sull'Europa da tante orde percossa.

Poi chiara luna, ovunque la landa
Arrossa, la fronte volta ai cieli neri i guerrieri
Lenti van cavalcando i pallidi corsieri
Come suonano i ciottoli sotto la fiera banda!

Ch'io torni a riveder il bosco giallo
La sposa, occhi celesti, l'uomo di fronte rossa, Gallo!
L'Agnello, l'Ostia, ai loro piedi amati
- Michele e Cristina - Cristo! - Fine dell'idillio.

A. Rimbaud
Trad. genseki

Poesia e calligrafia

Du Fu


Storia della calligrafia cinese

François Cheng

La calligrafia

La calligrafia esalta la bellezza visuale degli ideogrammi e non invano divenne in Cina un'arte maggiore. Quando pratica quest'arte un arte, un cinese scopre il ritmo profondo del suo essere e comunica con gli elementi. Per mezzo dei tratti significanti si consacra interamente. Lo spessore e la scioltezza dei tratti gli permettono di esprimere i molteplici aspetti della propria sensiblitá: forza e tenerezza, impulso e quiete, tensione e armonia. Quando ottiene l'unitá di ogni ideogramma e l'equilibrio tra i caratteri, il calligrafo attinge alla cosa in sé e realizza la sua propria unitá. Gesti immemoriali e sempre di nuovo intrapresi, la cui cadenza, come in una danza con la spada si plasma istantanemante grazie ai tratti che si slanciano, si incrociano, volano oppure affondano che assumono un significato e aggiungono altri significati a quello codificato delle parole. In efetti si puó parlare di senso per quanto riguarda la calligrafia perché la sua indole gestuale e ritmica non permette in nessun modo di dimenticare che opera con segni. Durante una esecuzione, il calligrafo ha sempre in qualche modo in mente il significato del testo. Per questo la scelta di un brano non è mai gratuita o indifferente.

I testi preferiti dai calligrafi sono senza dubbio i testi poetici. (Versi, poesie, prose poetiche). Quando un calligrafo affronta un poema non si limita a un mero atto di copia. Nel calligrafare risuscita integralmente il movimento gestuale e il potere immaginario dei segni. È questa la sua maniera di calare nella realtá profonda di ciascuno di essi, di adattarsi alla cadenza propriamente fisica del poema e alla fin fine di ricrearlo.

Anche i testi di indole incantatoria attraggono i calligrafi. In essi, l'arte calligrafico restituisce ai segni la loro funzione magica e sacra. I monaci taosti giudicano l'efficacia dei talismani o degli incantesimi che tracciano dalla qualitá della calligrafia che permette la comunicazione adeguata con l'al di là. ...

Il poeta non puó essere insensibile alla funzione sacra dei segni tracciati. Come il calligafo che nel suo atto dinamico ha l'impresione di vincolare i segni al mondo originario, di scatenare un movimento di forze armoniche o contrarie, il poeta non dubita che combinando i segni ruba qualche segreto ai genii dell'universo, come dimostra questo verso di Du Fu:
Finito il poema stupiscono demoni e dei

Questa convinzione ha come conseguenza che ognuno dei segni che compongono il poema acquisisce una presenza e una dignitá eccezionali. Questo spiega anche la ricerca, durante la composizione del poema di una parola chiave: la parola occhio che illuminando in un sol colpo il poema intero rivela il mistero di un mondo occulto. Numerosi annedoti rivelano come un poeta si prosterna davanti ad un altro e lo venera come “Maestro di una parola” all'avergli “rivelato”la parola assolutamente esatta e necessaria che li permette di finire il poema e cosí di “completare la creazione”.

François Cheng
La scrittura poetica in Cina
Trad. genseki

lunedì, aprile 12, 2010

Georg Trakl

Quelle che seguono sono due proposte di traduzione da Georg Trakl. Ho sempre cercato di tradurre Trakl, sempre sono rimasto deluso del risultato. L'antinatinatura tutta mentale di Trakl simula il paesaggio e ci coinvolge invece in un teatro cattolico del crepuscolo e del disfacimento. Quasi ai limiti della putrefazione dei contenuti psichici.
La traduzione non trasmette pienamente queste sensazioni ma è un primo approccio.
genseki

Georg Trakl

Canto a sette della morte

Quiete e silenzio

Pastori seppellirono il sole nel bosco fresco
Un pescatore trasse
Dal rabbrividente stagno la luna nella sua rete

In azzurro cristallo
Abita il pallido uomo, le guance volte alla sua stella
Oppure china il capo in sonno purpureo.

Tuttavia sempre sfiora nero volo d'uccelli
Chi guarda, il santo fiore azzurro,
Pensa prossimo silenzio d'obliato, angelo spento.

Di nuovo annotta la fronte in pietra lunare
Radiosa giovinetta
Appare la sorella in autunno e nero marcire

*



Nascita

Monti: nero, silenzio e neve.
Rossa dal bosco scaturisce caccia
Oh lo sguardo muschioso della fiera.

Silenzio materno, tra neri abeti
S'aprono mani dormienti
Quando cadente fredda luna appare
Oh, la nascita dell'uomo. Notturna mormora
Acqua azzurra sul fondo della falesia;
Sospirando sfiora la sua immagine l'occhio dell'angelo caduto.

Pallido si risveglia nella stanza soffocante
Come due lune
Risplendono gli occhi di pietrificata vegliarda.

Ahimé, il grido della puerpera. Con nera ala
Culla la notte sogni di bimbo,
Neve che lenta discende da nubi purpuree.

Trad genseki

Il piccolo Monchiero

Monchiero era piccolino
E condannato, lo avreste abbigliato
potendo – di pelle di lepre,
Leprotto, dai grandi occhiali rotti
I riccioli pieni di spighe
E forse scarpe che non ricordo
Dormiva sul balcone, Monchiero,
Tra le ceste di lumache poste a spurgare
Nel candore della farina tutti i peccati
Della loro lascivia, uno a uno
In fondo la linea del fiume il gelo
Il filare dei pioppi il pastore Thorvaldsen
Maledicendo il silenzio di tutti quei ciottoli
Mentre pascolava i suoi cani rossi
Che freddo sul balcone,
La madre dormiva al calduccio del metano
Tra le lenzuola unte nell'odore della lana fracida
Che ha odore di cane e di fango di fiume
Dove si macerano gli ontani
I suoi peccati li scontava al freddo
Il piccolo Monchiero
A colazione la madre lo obbligava
A predere il bricco del latte bollente
Con le mani nude
Lo avresti rivestito di pelliccia
Di merlo
potendo – il piccolo Monchiero
Con un berreto fatto con metá guscio
Di una nocciola di Cortemilia con le sue ditina rosse rosse
E screpolate, cadeva e si rialzava
Solo nei punti in cui il selciato
Era piú duro e tagliente
Era proprio come suo padre il piccolo Monchiero
Uno zingaro di tutti i peccati, un porco di tutti i macelli
Era come suo padre e lei gliele avrebbe fatte pagare tutte
Quelle che lui le aveva fatto a lei, alla mamma
Del piccolo Monchiero, zampe di gatto su unghie spezzate
Contento di ripetermi con tutta la sua innocenza
Che lui era cosí proprio come suo padre
Che non sapeva far nulla, un fagnano da nulla
Le avrebbe pagate tutte quelle che le avrebbe combinato
A lei con la moto sul balcone al freddo di tutti i peccati
Non seppi mai guardarlo con la venerazione
Che il suo martirio avrebbe meritato
Il piccolo Monchiero, io che attraversavo
Tutte le mattine le lastre di ghiaccio in bicicletta
Con un berretto basco e il chiuei rosso,
Non lo seppi guardare, ora da morto
Mi affligge quaggiú il raggio glorioso
Della sua bellezza fangosa.

genseki

*

venerdì, aprile 09, 2010

Erano quasi gioielli

Erano quasi gioielli, questi,
Che andavano poco a poco trasfomandosi
In una idea meno cangiante di se stessi
Quasi splendori boccioli sfarinando
Germinazioni di mitili e di marne
Bandiere fresche alla corrente aperte
Sullo sfondo screziato di un mare
Come un oltraggio a ogni altra ferita
Altri, forse, frammenti di schiuma
Spruzzi fosilizzati alla soglia del culmine
All'ansia del precipizio, al punto esatto
Della fronte dove fibrilla l'elitra del sogno
Ove il bagliore è presentito nella tenebra
E fulmina la coscienza con la dolorosa necessitá
Di cominciare tutto il suo processo
Erano quasi spendore, scintilla dileguandosi
Nell'effimero del loro pullulare, sciami
Gemme appena, grani cristalli di placton
Si combinavano allora rispecchiandosi
Ognuno nel suo riflesso ecchimosi
Fino a riemergere allora da un qualche fondo
Provvisti ora di un interno e di un esterno
Erano quasi gioielli, quasi talismani
Di rigenerazioni disorganiche, miriade
Frammentaria e tagliente nell'assoluta
E limpida infine ineludibile crescita
Delle loro sere, sereni quasi sibili.

genseki

*

sabato, marzo 27, 2010

Orphée


Corot

Orfeo

Orfeo

Orfeo portava con sé l'odore delle cabine dei bagni
Odore di sudore, iodio, sale polpa putrida di legno, bucce di banana
Disseccate dal sole
Orfeo veniva con il suo bandoneon da lontane pampas
Con un poncio ovale, con la caffettiera in tasca
Con la tasca che sapeva di uova tostate nell'orzo
Orfeo suonava ovale e il mondo s'inclinava a spirale
Davanti al suo naso di emarginazione
Il suo naso negro indio il suo naso triste come le ande
Come le araucarie deportate tra i sambuchi
Delle brianze immemoriali di tutte le umide prealpi
Orfeo compartiva le sue bistecche con i suoi sogni di topolino affamato
Faceva due passi avanti un inchino un ipotesi una disgiuntiva
Nelle parentesi aperte tra due tacchi
Orfeo scioglieva i cani del pianto dalle feritoie lebbrose degli occhi
Quando ricordava Muchacha Minnehaha con la chioma caffelatte
A rivoli nella segala e le ditina dei piedi divaricate
A ogni spinta poderosa dei suoi lombi di allora
Il passo di orfeo, con le sue scarpe di vernice
Schiva l'ombra del tacco di un alto tacco
Evoca un tarlato anfiteatro e colpisce come un crotalo
La sistole di una smarrita solitudine.

genseki

Sarastro Ballanche

Pierre Simon Ballanche