Che il linguaggio fosse qualche cosa oltre il quale si dovesse cercare di sollevare gli occhi, le orecchie e il resto della testa per non annegare alla fine nel significato era una cosa che Dreiser Cazzaniga non ebbe mai ben chiara. En discutemmo a lungo negli ultimi tempi. Egli aveva tendenza a considerare le nostre povere parole sclerotizzate e ridotte a supporto dello scambio coatto come strumenti adeguati ad esprimere la bellezza e a esplorare l'essere. Non era solo quasi quasi convinto che con il liguaggio si possa comunicare qualche cosa che non sia attinente alla sequenza di comando e sfruttamento, era pure convinto, fino a un certo punto, che servisse per conoscere. Il linguaggio, invece, si imputridisce nei blog e nei libri di facce. Anche le facce sono un segno. Ci sono solo facce, ormai, i volti tendono a scomparire cosí come le maschere. I volti sono la presenza, le maschere la possibilitá vuota che permette il fiammeggiare di questa presenza o, per attenersi in modo piú rigoroso all'etimologia della parola, la sua risonanza. Entrambi sono stati sostituiti dalle facce che sono soltanto il pietrificarsi dell'assoluta mancanza di interioritá, dello spazio interiore che la maschera garantisce al volto. Le facce annullano le maschere, Dove ci sono facce non ci sono piú maschere. Le facce non si distinguono dalle maschere e viceversa. Su questo tema Dreiser Cazzaniga non mostrava una sensibilitá apprezzabile. Certo egli era ossessionato dai volti come prodotto della cultura e della storia. Era affascinato dai volti dei film di Pasolini e di Paradjanov. Tuttavia continuó a considerare volti le facce che incontrava sui sudici treni pendolari dove trascorse tante ore della sua vita come volti e i loro occhi come fornaci capaci di sviluppare il calore di intere galassie.
A cura di genseki
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