martedì, giugno 07, 2011

Paul Louis Courier De Méré

Petizione alla Camera dei Deputati per dei paesani ai quali si impediscedi ballare

I parte

L'oggetto della mia petizione è piú importante di quello che sembra; posto che, pur trattandosi effettivamente solo di ballo e di divertimento, da una parte queto divertimento è del polpolo, e nulla di ció che lo riguarda puó esserVi indifferente; dall'altra la religione è coinvolta, o compromessa, per dirla megli, a causa di uno zelo malinteso, penso, nonostante le divergenze che possono esserci tra di noi, che Voi tutti considerete la mia richiesta degna di attenzione.

Chiedo che sia permesso, come nel passsato, agli abitanti di Azai di ballare la domenica sulla piazza del loro comune, e che ogni divieto, fatto, in questo sesno, dal prefetto sia annullato.

Noi, abitanti di Veretz siamo interessati alla questione, perché andiamo alle feste di Azai, cosí come quelli di Azai vengono alle nostre. La distanza dei due campanili è piú o meno una mezza lega: noi non abbiamo vicini migliori. Loro a casa nostra, noi a casa loro, ci si invita a turno, ci si diverte la domenica, si balla sulla piazza, dopo mezzogiorno, d'estate..
Dopo mezzogiorno giungono il violini e i gendarmi contemporaneamente; a questo proposito devo fare due osservazioni.

Noi danziamo al suono del violino, ma questo a datare da una certa epoca. Il violino era riservato, un tempo, ai balli delle classi elevate; in Francia si trovavano pochi violini, Il gran Re li fece venire dall'Italia e formó un'orchestra perché la corte ballasse con gravitá, i cavalieri in parrucca nera le dame col guardinfante, Il popolo pagava i violini ma non poteva servirsene: ballava poco, a volte al suono della piva o cornamusa come indica il ritornello: “Arriva il pellegrino che suona la cornamusa: balla Guillot, salta Perrette.” Noi nipoti di Gullot e Perrette abbiamo abbandonato i modi dei nostri padri e balliamo al suono dei violini come la corte di Luigi il Grande. Quando dico come dico per dire. Infatti noi non andiamo al ballo con le nostre mogli, le amanti e i nostri bastardi. Questa è la prima osservazione; la seconda eccola qua:

I gendarmi si sono moltiplicati in Francia, piú ancora dei violini, anche se sono meno utili al ballo. Noi en faremmo volentieri a meno nelle feste del paese, e a dire il vero nopn siamo noi che li mandiamo a chiamare: il governo è dovunque oggi e questa ubiquitá arriva anche ai nostri balli, ove non si fa un passo senza che il prefetto voglia esserne informato per renderne conto al ministro.
Sapere chi trova simili attenzioni piú spiacevoli e maggiormente fastidiose, chi en soffre di piú, se i sorvegliati o il governpo, è una questione ben curiosa e difficile, che tuttavia mi vedo costretto a trascurare, per paura di complicarmi la vita con le classi elevate o di dire qualche parola che possa essere considerata tendenziosa.

Oltre i balli ordinari della domenica e dei giorni festivi, vi è quella che è chiamata l'assemblea, una volta all'anno, in ogni comune che riceve tutti gli altri a turno. Grande è l'affluenza e grande la gioia dei giovani. I violini non mancano, come potete immaginare. Al primo colpo d'archetto ci si mette in posizione e ognuno conduce la sua promessa. Altrove si gioca a bocce o a birilli o al paletto. Molti sono coloro che, invece, discutono di affari; si concludono atti di compravendita, varie vacche passano di mano in mano tra quelle che non si erano potute vendere alla fiera, insomma queste assemblee non sono soltanto appuntamenti di svago ma anche di interesse per il popolo e per i singoli e il luogo in cui si tengono non puó essere indifferente. La piazza di Azai sembra essere fatta apposta per questo situata al centro del comune, in terra battuta, senza pavé, è adatta a ogni sorta di gioco e di esercizio; circondata da negozi, prossima alle locande, alle osterie, dato che pochi sono gli affari che si negoziano senza bere, poche contraddanze finiscono senza vuotare qualche boccale di birra; nessun disordine, mai nemmeno l'ombra di una rissa. È oggetto d'ammirazione per gli Inglesi, che ogni tanto ci vengono a vedere e quasi non possono capire che le nostre feste popolari trascorrano con tanta tranquillitá, senza pugilato come da loro, senza assassinii come in Italia, senza sbronze come in Germania.

Il popolo è saggio, malgrado i rapporti segreti. Lavoriamo troppo per avere tempo di pensare a fare il male, e, se è vero questo antico proverbio: pigrizia madre di ogni vizio, occupati come siamo, sei giorni alla settimana senza tregua e buona parte del settimo, cosa che taluni criticano e a ragione. Io vorrei che in quel giorno ogni fatica cessasse; la domenica e nei giorni di festa, in tutti i paesi del contado si dovrebbe fare esercizio di tiro, di maneggio delle armi, pensando alle potenze straniere che pensano a noi tutti i santi giorni. Cosí fanno gli Svizzeri, nostri vicini, e cosí dovremmo fare noi per essere atti a difenderci nel caso che i forti volessero attacar briga. Infatti è meglio imparare la carica in dodici tempi e sapersi sbarazzare di un cosacco piuttosto che raccomandarsi al cielo e confidare nel proprio buon diritto. Lo dico e lo ripeto: arare, seminare a tempo debito, stare nel campo fin dal mattino, non basta, bisogna difendere il raccolto. Cura le tue viti, vendemmierai l'anno prossimo e un giorno, se Dio vuole, farai del buon vino, ma chi se lo berrá? Rotopshin, se non sei pronto a difenderlo. Signori, pensateci un po' su, e vedete un po' voi se non sarebbe il caso, considerate le presenti circostanze e le imminnenti, di darsi, nel santo giorno della domenica, dopo la messa, naturalmente, a quegli esercizi tanto graditi al Signore degli eserciti qualli sono il passo di carica e il fuoco di battaglione. Sarebbe una profittevole maniera di impiegare, con grande vantaggio per lo stato, il tempo che si perde ballando.

Ma i nostri devoti la vedono in un altro modo. Loro vorrebbero che la domenica non si facesse niente altro che pregare e recitare le Ore, Certo la salvezza eterna è l'interesse principale. Ecco peró l'esattore; bisogna pagar e lavorare anche per quelli che non lavorano. E quanti credete che siano quelli che pesano sulle nostre braccia? Bambini, vecchi, mendicanti, frati, lacché, cortigiani; quanta gente da mantenere! E lussuosamente in certi casi! E poi c'è il lustro del trono, poi la Santa alleanza; che costi, che spese! E per far fronte, avanza ancora tempo libero? Voi lo sapete e lo vedete bene, Signori; coloro che odiano tanto il lavoro domenicale vogliono emolumenti, mandano le pittime, aumentano il budget. Secondo loro, noi dovremmo lavorare meno e pagare di piú ogni anno.

Come spiegarlo? La lettera uccide e lo spirito vivica, quando la Chiesa diede il precetto di astenersi dal lavoro servile in certi giorni, vi erano servi della gleba, fu per loro, in loro favore che fu istituito il riposo. Allora non vi era santo che i braccianti non festeggiassero con entusiasmo, a perderci era solo il padrone; doveva nutrirli, e senza i santi li avrebbe massacrati di lavoro. Saggio fu il precetto, salutare la legge nei tempi dell'oppressione. Ora, peró, non vi sono piú feudi, non si veste piú la cotta di maglia; siamo liberati dall'antica servitú e, una volta pagate le tasse, lavoriamo per noi stessi e se non lavorassimo, sarebbe a nostre spese; obbligarci a riposare è peggio che la decima, perché almeno la decima serve ai cortigiani, il nostro ozio non serve a nessuno. Il lavoro che ci viene sottratto, il cibo e i vestiti che ci sono totli non lo sono a vantaggio di nessuno, non producono emoluementi, benefici, pensioni. E nuocere in per nuocere.

Gli Inglesi che vengono alle nostre feste si stupiscono tutti alla stessa maniera, pensano tutti la stessa cosa; ma tra loro alcuni si stupiscono un po' di piú: sono i piú anziani, che venuti in Francaia in tempi anteriori, si ricordano ancora come fosse la vecchia Turenna e il popoli dei buoni sovrani. Anch'io me en sovvengo: giovane allora, vidi, prima della grande epoca, in cui soldato volontario della Rivoluzione abbandonai i luoghi tanto cari della mia infanzia, vidi i contadini affamati, cenciosi, tendere ovunque la mano alle porte e sulle strade, nei viali delle cittá, presso i conventi, i castelli, ove la loro inevitavile apparizione era il tormento proprio di coloro che la comune prosperitá rende oggi indignati e desolati. Rinasce la mendicitá, lo so bene, e fará, se è vero quel che si dice, rapidi progressi, ma per molto tempo ancora non raggiungerá quel grado di miseria. La descrizione che potrei darne sarebbe debole per quelli che lo hanno conosciuto, come me, e per gli altri sembrerebbe inventata: ascoltate allora un testimone, un uomo del Grand Siècle, osservatore esatto e disinteressato; il suo discorso non puó essere sospetto, si tratta di La Bruyère.

“Si vedono, dice, certi animali selvatici, maschi e femmine, sparsi per le campagne, neri, lividi, arsi dal sole, legati alla terra che frugano e rimuovono con una invincibile testardaggine. Possiedono una sorta di voce articolata, e quando si drizzano in piedi mostrano fattezze umane, e, infatti, sono proprio uomini; di notte si ricoverano in una sorta di tane dove vivono di pane nero, acqua e radici. Essi risparmiano agli altri uomini lo sforzo di seminare, di arare e di raccogliere per vivere emaeritano che non manchi loro quel pane che hanno seminato”.

Ecco le sue autentiche parole; parla di quelli fortunati, di quelli che avevano pane e lavoro; erano una minoranza, allora.

Se La Bruyère potesse tornare sulla terra, come soleva accadere nel passato, e presentarsi a una delle nostre assemblee vi troverebbe non solo volti umani, ma visetti femminili di fanciulle piú belle e soprattutto piú modeste di quelle della sua corte tanto vantata, sono vestite con piú gusto, non vi é dubbio, agghindate con piú grazia, con decenza; che ballano meglio, che parlano la stessa lingua (propria del paese) ma con una voce tanto graziosamente e dolcemente articolata che credo en sarebbe soddisfatto. Le vedrebbe rientrare la sera, non nelle loro tane ma in case ben costruite e ammobiliate. Se si mettesse a cercare gli animali di cui aveva parlato non li troverebbe da nessuna parte e forse benedirebbe la causa, qualunque fosse, d'un tanto grande e felice cambiamento.

La festa di Azai era celebre tra tutte quelle dei nostri borghi, attirava il concorso di una folla dai campi e dai comuni dei dintorni. In effetti, da quando i giovanotti fanno ballare le fanciulle, cioè da quando noi contadini delle sponde del Cher siamo padroni di noi stessi, la piazza di Azai fu sempre il nostro punto di incontro preferito per il ballo e per gli affari. Vi ballavamo come vi avevano ballato i nostri padri e le nostre madri, senza che mai scoppiasse uno scandalo, senza che vi fossero denunce, per quanto si ricordi, e non pensavamo essendo cosí tranquilli, non avendo mai causato molestia alcuna, di poter essere, noi, molestati nell'esercizio di questo diritto antico, fondato sulle primitive leggi della ragione e del buon senso; è chiaro che ognuno ha diritto di ballare a casa sua e il pubblico dove starebbe di casa se non sulla pubblica piazza? Eppure ci cacciano via. Una nota firmata de prefetto che egli chiama ordinanza, recentemente pubblicata, proclamata al suono del tamburo, “Considerando, etc” vieta di ballare nel futuro, di giocare a bocce o ai birilli su detta piazza e questo con la minaccia di castigo. Dove andremo a ballare? Da nessuna parte; non si debe ballare e punto. Questo non sta scritto nellordinanza del Signor Prefetto ma è un articolo tra lui e altri poteri, come poi si è visto. Ci comunicarono questo divieto pochi giorni prima della nostra festa, la nostra assemblea di San Giovanni.

trad genseki

mercoledì, giugno 01, 2011

Joseph Joubert



Joseph Joubert

Joseph Joubert, il saggio di Villeneuve sur Yonne, fu defininto da qualcuno: autore senza opera, scrittore senza scritti.

Chateubriand pubblicó postumi i pensieri e le note raccolte nei suoi quaderni.


Il capitalismo non sfamerá mai l'uomo (Bordiga)


La naura ci ha dato un muso per frugare nella terra o piuttosto mani per ararla? Seminare e raccogliere ecco la relazione essenziale che intercorre tra questo globo e noi.


*


Il capitalismo come puro spirito


L'orologio. Idea che se ne fa un selvaggio. Il suo errore non è completo, Effettivamente ogni macchina è stata messa in moto da uno spirito che poi si è ritirato.


*


Internet come protesi


La mente è per la'nima una specie di organo, una sorta di occhio, di lingua, di udito, di vista e persino di cervello, una specie di portavoce, di telescopio, di compasso. A volte tale organo agisce da solo. BISOGNA AVERE UN'ANIMA POETICA E UNA MENTE GEOMETRICA.


*


L'educazione non consiste soltanto nell'adornare la memoria e illustrare l'intelletto: deve occuparsi soprattutto di illuminare la volontá.


*


Sessi


Uno sembra una ferita, l'altro uno scorticato.


*


Il velo?


Solo per il volto siamo noi stessi, il corpo nudo di una donna mostra il suo sesso piuttosto che la sua persona. Non si pensa al volto della donna di cui si vede il corpo nudo. Per questo il vestito mette in mostra il volto. La persona è tutta nel volto, solo la specie nel resto.


*


Strauss Kahn


Alle donne piacciono le avventure, gli incontri, il sesso, proprio perché a loro piace concedersi e non essere concesse. Per questo sesso fare un dolce uso del proprio corpo significa disporre liberamente di esso. Una volta compiuto questo atto di libertá dipende solo dagli uomini che siano costanti. A parte questo lo sono solo in un caso, quando sono state prese di forza; e parlo di forza fisica e non sociale.

Tale violenza fa loro sperare di poter esercitare un grande potere su quell'uomo che hanno dominato fino a farlo uscire di senno. Cosí come sperano una grande condiscendenza dall'uomo al quale hanno sacrificato tutto.

N.B. Bisogna che si tratti della violenza di un uomo non di un uomo brutale.


*


Chi non è mai stato ingannato non è mai stato amico.


*


Ogni anima è un occhio, proprio come il corpo è interamente tatto, l'uno percepisce molte veritá di cui non puó impadronirsi, l'altra raggiunge molte cose che non puó maneggiare.


trad genseki

martedì, maggio 31, 2011

Dreiser Cazzaniga e la Bibbia

Il primo risvegliarsi in Dreiser Cazzaniga dell'amara coscienza dell'ingiustizia che pervade le nostre societá umane e dell'ingenua volontá di porvi riparo per quanto dipendesse dalle sue povere forze coincise con la sua lettura della Bibbia. Fu precisamente il testo del profeta Amos che gli rivelò tutto un universo di pensieri, di pene, angustia e sdegno e lo gettó cosí come era, privo di discermnimento e avvolto da nebbiosa passione, nello stato in cui si mantenne per tutta la vita di scorticata ribellione. Certo la societá che le parole del profeta tanto violentemente denunciavano, minacciavano in nome del Signore e invitavano al ravvedimento era una societá sconosciuta nelle sue forme al giovane Dreiser Cazzaniga. Una societá agro pastorale, arcaica e di pura sussistenza in cui l'orfano e la vedova sprovvisti di protezione rischiavano presto la morte per fame o per malattia. Dreiser Cazzaniga aveva si conosciuto gli ultimi abitanti delle grandi cascine della Sierra, che scendevano al barrio profumando di stalla sui carri cigolanto trainati dai buoi pazienti, aveva giocato con l'acqua che si raccoglie nei solchi che le loro ruote marcavano sulla strada, aveva spiato i fanciulli e le fantine che menavano al pascolo le greggi sparute nel grigio novembrino dei colli.asi Ma il mondo dei pastori e dei contadini era estraneo alla sua vita quotidiana. Egli conosceva, invece, molto e bene il mondo operaio, la sua vita e i suoi giochi erano regolati dalle sirene degli opifici, il cui prolungato lamento lo richiamava a casa per il pranzo o per la cena e il sonno nel vespero. Avanzava nella folla mesta al ritmo del passo grave degli operai tutti vestiti di blu che profumavano di grasso, e e vino, e viveva solo in virtú di questa comunione quotidiana di passante il loro orgoglio, le loro umiliazioni la determinazione della loro lotta per l'esistenza. Così fu, che senza riflettere, quando leggeva di vedove e orfani e di ingiustizia pensava ai padri dei suoi condiscepoli del barrio, al freddo delle loro case, alla brutalitá del loro alcolismo, alla condizione di ingiustizia sotto la quale dovevano piegare il capo. Il Profeta poco a poco venne nella sua mente assumendo insensibilmente i tratti del rivoluzionario, del mestatore, del rubello, dell'insorto, del giacobino, ma sotto i suoi nuovi panni era sempre il Profeta che esercitava la sua influenza sul piccolo Dreiser Cazzaniga. Gli è che il Profeta era uomo oscuro, semplice, che viveva in silente solitudine e solo dopo dura lotta con Dio accettava di essere lo strumento dell'annuncio della sua giustizia. Il Profeta non avrebbe parlato, non avrebbe potuto parlare, era stato separato, isolato, mondato, e per essere un semplice efficace strumento del verbo di giustizia. In questo scontroso isolamento, in questa appassionata austera solitudine, nella timidezza, nele senso di inadeguatezza che lo faceva sentire inferiore e superiore al contempo a chiunque, in questa ridda di confusi sentimenti, il giovane Dreiser Cazzaniga si identificava col Profeta nel piú intimo della sua anima e sognava. Poi la lettura del Magnificat gli si squadernó davanti come una gloriosa indomita rivendicazione di giustizia facendo della Vergine una madre paterna occulta.
Negli anni della sua militanza giacobina, duri e violenti vennero poco a poco cancellandosi dai suoi ricordi coscienti, la figura del Profeta e quella della Vergine, ma in realtá dall'occulta profonditá dell'anima sua mai non cessarone di guidare i suoi passi. Nel giacobinismo ahimé egli si spense non volle essere accolto dalle braccia di Abramo.

a cura di genseki

giovedì, maggio 26, 2011

Giovanni Giudici: Le mie radici

Giovanni Giudici

Mi chiedi cosa vuol dire

Mi cheide cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone

che ti vende ─è consegnare
ciò che porti─ forza, amore,
odio intero ─per trovare
sesso, vino, crepacuore.

Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.

Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
a te stesso da cui parte.


Alla beatrice


Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra
arrampicato su una scala di corda
affacciato dal fuori in posizione precaria
dentro i tuoi occhi celeste vetro
dentro i tuoi vizi capitali
dentro i tuoi tremori e mali


Beatrice sui tuoi seni io ci sto a spiare
ciò che fanno seduti intorno a un tavolo
i tuoi pensieri su sedie di paglia
ospiti appena arrivati o sul punto di partire
raccolti sotto la lampada gialla
uno che ride uno che ascolta e uno che parla


Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa
Dalla notte esteriore superstite luce
Nella selva selvaggia che a te conduce
Dalla padella alla brace
Estrema escursione termica che mi resta
Più fuoco per me tua minestra


Beatrice – costruttrice
Della mia beatitudine infelice


Beatrice dai tuoi seni io vengo a esplorare com’è
La stanza dove abitare
Se convenienti vi siano i servizi
E sufficiente l’ordine prima di entrare
Se il letto sia di giusta misura
Per l’amore secondo natura.
Beatrice dunque di essi non devi andare superba
Più che dell’erba il prato su cui ci sdraiamo
Potrebbero essere stracci non ostentarli
Per tesori da schiudere a viste meravigliate
I tuoi semplici beni di utilità strumentale
Mi servono da davanzale

Beatrice – dal verbo beare
nome comune singolare.

Giovanni Giudici

Giudici sui tuoi versi io ci sto alla finestra
Come fosse tutta una Provenza dopo tanta onesta Milano
Quella che trovavo in fondo al tunnel di Mignanego.
Ed era solo basilico
Camion scordati e fumo nero
Sul cassone appollaiati tanti giovani stranieri

Giudici sui tuoi versi salivo da corsia dei servi
In cerca di due stanze ed un giocondo tinello
In fondo al bicchiere leggevo la pubblicitá sella SITA

Giovanni tra i pini e l'arida luce del mare
Sul tuo sorriso sto a guardare
Il volo che dal canto appare.

genseki

mercoledì, maggio 25, 2011

La pioggia


Vi è, mentre dura la pioggia, una certa oscuritá che allunga tutti gli oggetti. Causa, inoltre, per la disposizione che il nostro corpo è obbligato ad assumere, una sorta di raccogllimento, che rende l'anima infinitamente piú sensibile. Anche il suo rumore, che i latini esprimevano chiamandola "densissimus imber", occupando costantemente l'udito risveglia l'attenzione e la mantiene perennemente vigile. Il color grigio che l'umiditá conferisce ai muri, agli alberi, alle rocce contribuisce a rendere piú intensa ancora l'impressione che tali oggetti producono. La solitudine e il silenzio che si estende intorno al viandante, obbligando gli uomini e gli animali a tacere e a restare al coperto, finsce per rendere la sua percezione ancora piú netta. Avvolto nel suo mantello, con il capo coperto, camminando per sentieri deserti, tutto lo colpisce, tutto appare piú grande alla sua immaginazione o al suo sguardo. I ruscelli si gonfiano, l'erba s'addensa, i minerali si fanno piú visibili, il cielo si approssima alla terra e tutti gli oggetti, racchiusi in un orizzonte ristretto, occupano piú spazio e si appaiono piú importanti.

J. Joubert
trad genseki

martedì, maggio 24, 2011

Bella

Eri bella
Come quello che resta dell'uscio
Dopo il mare, dopo il silenzio,
Bella
Come l'assalto verticale delle chiocciole alla verbena
Come l'arco delle ciglia dello stupore
Come la soglia varcata dalla statua dell'arcere
Come la caduta a ventaglio di un mazzo di carte
Sul pavimento
Come il gesto di aprire
Ció che già fu spalancato
Come l'evidenza del vuoto
Le ossa cave
La corrosione del cranio
Il silicio
La demenza vegetale del carrubo
L'impudicizia della sua fibra rosa
Il tuo ombrello gettato su una stufa spenta
Una sigaretta
Il latte avizzito delle tue unghie
Il tuo passo azzurro tra i serpenti
Lo smalto spezzato
Il bicchiere nella mano di un altro
Il sonno che ti leviga il corpo
Come un ciottolo nel torrente
Come l'affannarsi della tua stanchezza
La mia pochezza
Il nostro incontro
L'irrompere di te nel mio ricordo
Come il vento tra i capelli in un armadio.

Hurt

Ferito

Mi sono ferito da solo
Per sapere se provavo dolore
Nel dolore ho posto il mio centro
Soltanto il dolore è reale.

Un foro prodotto dall'ago
La vecchia ben nota iniezione
Ucciderla era quello che volevo
Eppure continuai a ricordare.

Che cosa sono ormai diventato?
Dolcissimo amico
Coloro che ebbi vicino
La fine con sé li trascina
Eppure lo avrei posseduto
Il mio impero di spazzatura.

Saró pe te delusione
Ti faró molto male

Io porto corona di spine
Sul mio trono di bugiardo.
Rotti sono tutti i miei pensieri
Nessuno li puó riparare.
Le macchie del tempo
Cancellano brame.
Non sei diversa dagli altri
E io resto qui.

Che cosa sono ormai diventato?
Dolcissimo amico
Coloro che ebbi vicino
La fine con sé li trascina
Eppure lo avrei posseduto
Il mio impero di spazzatura.

Saró pe te delusione
Ti faró molto male.

Se di nuovo potessi cominciare
Lontano, lontano da qui,
Mi prenderei cura di me,
Sicuro ce la pòtrei fare.

genseki

Johnny Cash Hurt

L'aceto

Furono le gocce d'aceto
A calmare il ronzio, a sedare
Il bruciore di tutti quei fiori
Che fiorivano di piaghe il petto il dorso
Le spalle il volto
A fior d'ascella appena rispondeva
Un'assenza di petali e cascate
Di riccioli biondi come anelli
Insanguinati
(La pioggia era un lontano ricordo)
A volte si ricordave persino del ricordo:
Quello dei rottweiler per esempio, del filo spinato
Del pane azzimo, la bellezza mattutina
Dei dirigibili, il panneggio delle orecchie
Sbrindellate degli elefanti
Stracci grigi dai riflessi opachi,
Poi era ricacciato nel presente dei chiodi
Della ruggine delle tenaglie
Del sudore verde
Degli occhi celesti nella loro cornice di sangue
Dei bubboni
Dell'ombra degli olmi
Come una pozza di frescura
Tra le vampate del frumento
L'aceto era il fiore
Sbocciato sulla cuspide della lingua
Le piaghe stelle al margine
Dei capezzoli, sulle scapole
Moriva per i corvi, per i rospi
Moriva
E il vento disperdeva sui campi di cotone
Le borse di plastica a milioni
Le lattine vuote, le bottiglie,
Moriva per i merli e per le chiocciole
Le tigri da tempo si erano estinte
La morte gli fioriva in petto
Nel sudore violaceo annegava
Nella rapida intermittenza dei ricordi di tutti.

genseki

venerdì, maggio 06, 2011

Monti lontani

Lontani, monti fraterni,
Il ricordo in frammenti ignora
Come volti, dita, coralli
Fiori d'avvento, articolazioni
Gattici di spavento
Nella primavera che odora
Di biancospino
Gli ultimi stracci del freddo
Si sfilacciano sul languore del rovo
Anche il ricordo è rosa
Come la pietra piú sorda.

genseki

Nel raccolto dei suoni

Nel raccolto dei suoni, raro
Trasformava, la sua sistole
In qualche cosa di pú intimo
Un abbraccio forse, sale di datura,
Cristallo di un altro cielo
Di altre ore, screziato come il fiore
Della campana, il suo pistillo
Feroce,
Insidiava la volta, il croco, limitrofo
Alla paura.
Sarebbe toccato anche a lui:
Di non svegliarsi, di rabbrividire
Avvolto nel candore abbagliante
Di tutta quella vita che rintoccava
Di cristallo in cristallo fiammeggiando
Sull'impalcature cosmica
Come una cascata coagulata di beatitudine
Come il sale che ci rende immemori
La pellicola opaca delle parole
Che profumano di ali come il prezzemolo
E occultano la morte, la contraddicono
Fino all'ennesima nota oscura
Sul pentagramma dell'agonia.

genseki

giovedì, maggio 05, 2011



Coscienza, immediatezza, realtá

Nel testo seguente Kierkegaard commenta, nei panni di Johannes Climacus, le prime pagine della Fenomenologia Hegeliana. Il suo scopo è quello di porre il linguaggio, il Verbo, come motore della dialettica e della formazione della coscienza La coscienza è per kiergaard l'in sé per sé dell'immediatezza e dell'idealitá: sintesi, insomma. La sintesi che è data anche qui come relazione. Nella forma della particolare dialettica hegeliana la sintesi è relazione e la negazione presupposto. La negazione nega il suo oggetto presupponendolo, la mediazione presuppone l'immediatezza, il modo piú semplice di negarka. Se l'immediatezza è la realtá ecco che allora la mediazione deve situarsi su un altro piano. Questo piano è quello simbolico, che K, chiama idealitá. Il linguaggio è ció che rende possaibile la negazione. Il linguaggio é negazione. Ed è negazione nel momento in cui esprime quello che nega. L'immediato è quello che è atteso, sperato.

"La coscienza puó permanere nell'immediatezza? Ecco una domanda senza senso, perché se potesse, allora non vi sarebbe nessuna coscienza. Allora come è tolta l'immediatezza? Attraverso la mediazione che abolisce l'immediatezza presupponendola.Che cos'è allora l'immediatezza? La realtá. CHe cos'è la mediazione? La parola. In che modo questa abolisce quella? Esprimendola. Perché ciò che si esprime sempre è presupposto.
L'immediatezza è la realtá, il linguaggio l'idealitá; la coscienza è la contraddizione.Nel momento in cui si esprime la realtá si ha la contraddizione, perché ciò che dico è l'idealitá.


trad. genseki

Vallejo-Kandinsky




Trilce XIII

Ecco che sfuggo a una finta per un pelo
Un proiettile che non so dove cadrá,
Incertezza, tramonto, giuntura cervicale.

Schiocco di mosca morente
Che a metá del suo volo cade a terra
Che dice ora Newton?

César Vallejo
trad. genseki

martedì, maggio 03, 2011

Abbandono

Venire a patti

Non ci restava ormai nessun'altra via d'uscita
Che non fosse quella di venire a patti con la morte
La nostra morte quella che ha sempre due facce
Perchè con noi muoiono gli altri e
E con gli altri moriamo anche noi
A questa morte non ci ribelliamo
Accettiamo di essere nella sua messe
Nel suo raccolto come frutta inutile
A questa morte infine ci abbandoniamo
Che ci tritura come strame fetido
In nulla secco e cenere per tutti i secoli
Nella morte fraterna ci abbandoniamo
Nelle sue braccia recliniamo l'orgoglio
L'io ritorna al suo nido all'albero nero
Di cui ogni foglia è specchio di silenzio.


genseki

Il dolore

Tuttavia c'è anche il dolore
Il dolore sarà richiamo costante
Alla bellezza di ogni istante
Al dolente solo bellezza è data
Senza consolazione alcuna
Egli l'accetta come pura fragrante
Perchè non vi è passato nell'abbandono
Chi dice si non conosce futuro
Bellezza solo nel dolore è dono
Quando l'anima non può essere
Rifrancata dall'arsura che la consuma.

genseki

Hegel sulla Religione e la Ragione


Vi son qui due forze antagoniste che combattono la filosofia. Anticamente era la religiosità che giudicava la ragione o il pensiero incapace di conoscere la verità . Spesso ha dichiarato che, per raggiungere la verità, è necessario rinunciare alla ragione, che la ragione deve umiliarsi davanti all'autorità della fede; la ragione abbandonata a s stessa, il pensiero per sé, conducono allo smarrimento, all'abisso del dubbio …

L'altro aspetto è che la ragione si è posta contro la fede, contro le rappresentazioni religiose, contro le dottrine rivelate, che cerca di rendere razionale il cristianesimo, e si èe posta tanto in alto, che solo la propria evidenza, la propria convinzione, dovrebbero essere gli strumenti attraverso i quali l'uomo sarebbe obbligato a riconoscere qualche cosa come vera. L'affermazione del diritto della ragione viene tanto prodigiosamente esagerato, al considerarlo un risultato finale, che la ragione non pào conoscere nulla che sia vero. Questa religione cominciò per questo a dirigere, in nome e per virtù della ragione pensante, la lotta contro la religione; ma prima si ribellò contro se stessa e divenne nemica della ragione affermando che solo il presentimento, il sentimento, la convinzione propria era la regola soggettiva che doveva essere valida per l'uomo. Tuttavia tale soggettività non presenta nulla di nuovo che non siano opinioni. Poi la cosiddetta ragione ha cambiato l'opinione in ciò che deve essere definitivo per l'uomo, e così, l'affermazione della religione, che la ragione non può giungere alla verità, è confermata; solo che lo è con l'affermazione che la verità non è raggiungibile in nessun modo.

Hegel
Introduzione alla storia della filosofia.
Trad. genseki

Heinrich Heine

Il tuo bel volto

Heinrich Heine

Il tuo ben volto che mi fu si caro
Che giovinetto in sogno contemplavo
Si è fatto dolce come volto d'angelo
E il dolore lo rende tanto pallido.

Sulle tue labbra che furono vermiglie
Presto la morte poserà il suo bacio
E spegnerà lo splendore celeste
Che nei tuoi occhi teneri era acceso .

trad genseki

Resurrezione

Fior di mandorlo latte appena
Gocciola la musica sottile della menta
E sono crepe quelle tra i serpenti
Signora Luna e la dama demente
Intrecciano una danza di dita
Di anelli, il quarzo sibilando
Ai cancelli s'avvolge intero
D'edera novella
Congiuro al corpo solleva la cenere
E rinnovato nuota nella pelle.

genseki

Il tuo sangue

Il tuo sangue

Il tuo sangue lava il nostro dolore
Il sangue a fiotti sulla tenera
Calligrafia fioritura ricamo
E tutte quelle spine fredde come il patire
Il tuo sangue lava il rapace
Dalle macchie della sua vista perfetta
Il falco l'aquila sono il chiodo
Conficcato nel cuore del mondo
Con ogni battito sgorga il tuo sangue
Le mani a coppa le leviamo
Per colmarle del tuo sangue dolciastro
Come il rubino e la foglia di menta
Negli occhi delle faciulle morte
La poseremo più tardi con tenerezza
Con infinita tenerezza ai nostri figli morti
Bruceremo i rami di artemisia
E gli dei saranno ghigni di vecchi tronchi
Nel sabato della nebbia
Ma ora le nostre mani grondano sangue
Il sangue immenso che ci doni
Ad ogni sussulto del quarzo
Siamo nell'intimità del tuo dolore
Nella comunione del tuo sangue
A caro prezzo siamo riscattati
A caro prezzo infine mondati.

genseki

L'ordine

L'ordine ultimo era questo tumulto
L'accorrere dei convolvoli
Sul mucchio di paglia la snella
Danza delle crucifere alle stelle
L'ordine era nella pena – sai? -
Di tutte quelle delusioni
Nella lavagna di ardesia
Nella polvere di gesso che pulluluva
Sul velluto nero dei pantaloni
Quando avrebbe voluto essere serio e ingenuo
Quanto lo avrebbe voluto!
L'ordine era nella fermentazione
Dei pollini nel ronzio delle api
Nelle orbite degli insetti
Attorno al sogno dei loro voli
Nella fila dei punti e degli a capo
Nella guerra interminabile delle formiche
Nell'astio dei funghi e nella nudità degli olivi
Nel peso di ogni istante
Sulle sue spalle di bambino
Che lo sapeva eterno ogni istante
Di quei pomeriggi in cui le piastrelle
Del pavimento del corridoio
Si estendevano ciascuna come una pianura estiva
E i vetri polverosi delle fineste
Erano lattei ghiacciai abbaglianti
Avrebbe voluto avere grandi occhi allora
Seri e spalancati ma si sentiva
Opaco sapeva di poter sudare
Il sudore lo faceva vergognare
Galoppava quindi sulle piastrelle
In diagonale
E tutto il mondo si faceva oblicuo.
Ed ecco che l'ordine erano le code
I campanacci il latte oscenamente sfracellato
Sul selciato e tutti quegli zoccoli
Quei sandali l'ingenuità dei piedi
La parietaria
Infine

genseki

giovedì, aprile 21, 2011

Sofia Gubaidulina "De Profundis" part 2

Viaggio I

Il poeta

Aveva cercato di farcela con i suoi mezzi
Non gli mancava certo la testardaggine
Quella certa durezza occipitale che sparge
Schegge e scintille sul pavimento
Prima dei temporali quando il cielo
Si fa di bronzo e le prime gocce
Fanno oscillare le foglie del platano
Aveva vissuto a lungo in un giardino
Da bambino
La nonna ci viveva in camicia da notte
Aveva i capelli azzuri come la corrente elettrica
Lui la corrente elettrica la vedeva serpeggiare
Sotto la superficie delle pareti
Come le vene della nonna
Sulle sue mani
Gli interrutori erano rotondi e si giravano
Come una chiave
Aveva vissuto a lungo in un giardino
Con la nonna da bambino e poi vi nuotava
Come un pesciolino tra le dalie cinerine
Tra i cinerei crisantemi e tutti quei
Fiori grigi che avevano appena un bagliore di cobalto
Cercava di resistere di non perdersi di non divagare
Il poeta
Fino a raggiungere quell'altro giardino
Quello delle pietre
Il giardino
Spazzato senza pietà ogni giorno ogni notte
Dalla fitta spazzola del sole
Dalla spazzola di seta della luna
Il giardino delle ombre di ragno
Delle rose-fungo, delle rose micotiche
Delle viole della paura che non lascia pensare
Delle viole candelabri di oscenità
Il giardino senza fonti senza cristalli
Senza ombre senza uova senza battiti
Il giardino dal cuore spinoso
Dove le forme affiorano dall'ebollizione
Dello scoramento cercando sotto ogni ciottolo
La scolopendra pietosa il metro la misura
Insomma una musica possibile
Anche nel silenzio della dissoluzione
Il verso come una sequenza di passi
Su un suolo dapprima sabbioso
Poi sempre più solido
Con costanza con baldanza procede ora il testardo
Verso le onde verso la nausea
Attraverso il fluttuare dei volti
Lo aveva sempre saputo che ogni volto
È fornace, è stella è messa di ioni e gioconde
Molecole lampeggianti in fondo
Alle equazioni della singolarità
Volti che irradiano la speranza
Il dubbio vacillano esplodono
Aprono bocche e rughe
Pori come crateri e l'intimità
L'intimità sola possibile oltre il volto
Oltre la pelle il madore la peluria
L'intimità d'essere sempre l'altrove di ogni volto.
Signore dei volti chi ha cancellato il nostro?
Vi abbiamo rinunciato in nome della parola
Vi abbiamo rinunciato in virtù della parola
Per amore della parola vi abbiamo rinunciato
Al nostro volto di accordi di favilla
Di rugiada di seta di muco di polvere di farfalla
Di spine di velcro
O signore dei volti
Ad ogni attimo concedi il suo volto
Il nostro volto di ogni attimo
Il nostro volto di sempre e di nullamai
Di eternoniente di eone in eone
Volto ignoto incandescente spento
Volto che nostro ci accogli in spavento
Si aprono le porte del soffio al suo spasmo

genseki

Il caffe l'uovo fritto l'occhio

Il caffe l'uovo fritto l'occhio
Dolente. In sogno avevo vagato
Su un cammello
Nella foresta di asparagi
E c'erano tanti mazzetti fragranti
Tra le dita dei caduti
Mozzate dagli almogavari
Azzurrissimo l'orizzonte
Si schiudeva come una volta
Come una rosa
Sanguinavo da una ferita
Che si allungava dal pollice all'ascella
Inflittami da Prudenzia
Che portava la chioma alla basca
Poi mi accorsi che il banco era di zinco
Il caffe sfrigolava nel tegame
Le dita dei miei piedi
Si muovevano nelle mie scarpe
Con tutta la libertà del mattino.

**

genseki

Momento

Non volevo vedere dietro l'angolo
Tutte quelle code diritte, fameliche
Ridicole code pelose deodoranti
E i crampi delle pupille, per seguire
Il tuffo della mente oltre il cervello
Oltre i neurotrasmettitori e le loro passioni
Di transistor in un universo valvolare
Comunque non volevo vedere dietro l'angolo
Dove sibilavano come crotali villani
Dove le code imitavano i funghi
Goffamente come potevano anche il veleno
E la mosca ubriaca, si la mosca spiaccicata
Sulla porta della muscarina
Divinizzata nella sua povera immediatezza
Fino all'eternità del suo istante
Fino a esplodere nella totalità di uno scuotere di elitre
Senza un segmento di autocoscienza naturalmente
Minacciosa possibilità la vista si rovesciava
Come il dito di un guanto
Con un senso di uovo fresco di vomito
Dietro l'angolo sbrecciato
Dietro la porta abbiettamente sudicia
Dietro i mattoncini sporchi di salnitro
Dall'altro lato della vista e del vissuto
Sarebbe esplosa la mia paura di non morire
Il rituale di non desiderare
Nel tripudio di code e di lische
Mentre la faccia incontrava violentemente
Il selciato molto prima che gli occhiali
Sprizzassero verso la luna
Come gocce dementi di mercurio
E il Verde inondasse questo polo.

**

genseki

Calligranmma

Thesa
La Bella
Principessa gentile
È una bianca stella
Una stella giapponese
Thesa di Kyoto il piú divino fiore
E quando passa trionfante nel suo palanchino
Pare un tenero giglio un pallido loto pare
Strappato una sera d'estate dal giardino imperiale.

Tutti la adorano come una dea anche il Mikado
Ma ella passa tra loro indifferente
Nessuno mai l'amor suo ha goduto
Ella è sempre graziosa sorridente.
Ofelia giapponese
Che i cari fiori
Folle monella
Trionfante
Bacia.



Vicente Huidobro

Trad.genseki

Calligramma

Lezama Lima

Lezama Lima

La madre

Di nuovo vidi il volto di mia madre
Era una notte che pareva aver separato
La notte dal sogno.
La notte avanzava o si arrestava,
Come un coltello che pareggia i margini
Soffio di uragano,
Il sogno, tuttavia, non procede verso la sua notte.
Sentiva che tutto pesava verso l'alto,
Era dove parlavi, dove appena sussurravi,
Per le orecchie di un piccolo granchio,
Lo so bene, lo so perché vidi il suo sorriso
Che voleva giungere
Regalandomi questo animaletto,
Per vederlo camminare con grazia
O impanarlo in ardente farina.
La pannocchia matura come il dente di un bambino
Come una cassetta con formiche platinate
La similitudine della cassetta come una vipera,
Quella grande come un braccio, quella che trucciolo
Lingua nella sua estensione ripiegata, quella degli orologi
Vecchi, la temibile
E risibile cassetta parlante.
Percorreva i fili della porta,
Per cominciare a sentire, tappandomi gli occhi,
Sebbene lentamente non immobilizzava,
Che la parte restante pesava di più,
Con la leggerezza del peso della pioggia
O le persiane dell'arpa.
Il pubblico in cortile comprendeva
La luna completa e gli altri satelliti invitati.
Propizio, era e magico l'itinerario della sua consuetudine.
Ma il resto del corpo restava tra quanto su sottratto,
Come chi cominci a parlare,
Ritorni a ridere,
Però come si passeggia tra la porta
E chi altri resta,
Sembra che se en sia andato,
Ma è proprio allora quando torna.
Chi resta forse è Dio,
Meno son io,
A volte la raschiatura solare
E in esso forse a crepapelle, forse, l'io.
Al mio fianco l'altro corpo,
Respirando, non staccava lo sguardo
Dalla rocca della vuotezza sferica.
Venne riducendosi
A un metallo volante con i bordi
Assaliti dalla brevità delle fiamme,
All'evaporazione di una tazzina
Mattutina di caffé,
A un capello.

**

Lezama Lima
Trad. genseki

martedì, aprile 12, 2011

Lo scrittore lumpen

Considerazioni si Bolaño


I romanzi e i racconti di Bolaño in una certa misura rappresentano l'irruzione del punto di vista del sottoproletario, del "lumpen" nel mondo della letteratura. Anzi del sottoproletario e del "lumpen" di quello che fino a pochi anni fa era il terzo mondo.


Questa irruzione è possibile perché il territorio della letteratura comincia a non essere più presidiato dai rappresentanti, degeneri, delle classi dominanti che fino ad ora se eneerano incaricati.


In effetti non ci sono quasi più rappresentanti degeneri delle classi dominanti, tutti sono ormai solidali e omogenei al visione del mondo del frammento sociale in cui la sorte gli ha fatti nascere.


Lo scrittore, come Bolaño stesso fa dire a uno dei personaggi de “Los detectives salvajes” era uno che si ribellava contro la sua classe di provenienza. Il fatto di essere scrittore, il fatto puro e semplice era la colpa e l'esilio la pena per questa inespiabile colpa.


Lo scrittore sottoproletario scrive per integrarsi nella classe dominante, quello del terzo mondo di allora, inoltre, anche per potere entrare in Europa con i documenti in regola. La letteratura è una marca di confine che le convulsioni del capitalismo nella fase della sua suprema degenerazione affermazione ha lasciato libera dalle guarnigioni. Lo scrittore "lumpen" vi penetra con il suo sguardo avidamente "lumpen", con la sua laboriosità affannosa, con i suoi modi che possono a volte apparire piagnucolosi e teneri. Lo scrittore "lumpen" si muove spesso come un cucciolo. Lo scrittore l"umpen" è cosmopolita, non appartiene a una tradizione, combina i frammenti disordinati dei libri che propone il mercato editoriale, letti avidamente, ma che sono comunque libri-merce, non libri-opera. Qui appare evidente la differenza con Rimbaud. Rimbaud era di razza contadina. Rimbaud è il prodotto di un testardo radicamento di una stirpe su di un territorio, la sua rottura, la sua ribellione può essere così violentemente tellurica, può scuotere la poesia dalle sue fondamenta, proprio perché irrompe dalle viscere del tempo e della tradizione e en rende incandescenti i frammenti come un vulcano con lapilli e lava. Bolaño è il prodotto di un collasso, è nato dentro un esodo, le sue radici sono immaginarie, la sua ribellione ha la consistenza di una bolla di sapone, la sola intimità possibile è, per lui il sesso vissuto con indifesa tenerezza.


genseki

Don Ciopo

Don Alàmo detto Ciopo

Tra i condiscepoli di Dreiser Cazzaniga negli anni spensierati del'infanzia studiosa del Barrio di Briggio uno merita distinta menzione vuoi per una speciale ossessione che negli sparsi frammenti memorialistici di Dreiser Cazzaniga egli pare aver nutrito nei suoi confronti, vuoi per la spettacolare carriera e il successo che sempre premiollo facendo di lui come l'opposto dialettico di Dreiser Cazzaniga.
Il piccolo Alàmo, fin dalla sua primissima infanzia aveva dato prova di una singolare certezza di vocazione: voleva essere presbitero, poi obispo e infine se possibile pontefice. Dreiser Cazzaniga come si sa era un ghibellino e nei suoi scritti le dignità ecclesiastiche son sempre, rigorosamente scritte con la minuscola. Così, essendo ancor picciol fantino occorreva che tutti si abituassero a chiamarlo Don Alàmo e non Alàmo, dapprima con una sorta di diverita tenerezza che sbocciava negli animi di chi vedeva questa ingenua creatura accarezzarsi le mani torcendole come un monsignore avezzo a tutte le sottigliezze della casuistica, sollevare con gesto sicuro e umile un pezzettino di cartone tagliato come un'ostia simulando la cerimonia della consacrazione, distribuire immagine di santi e sante in cambio di quelle dei calciatori:
San Gennaro, San Crispiniano, San Gamal e San Ghinaccio (protettore dei macellai del barrio di Briggio noto anche come San Guinaccio) in cambio di Sentimenti IV o Cuccureddu.
Quando gli altri monelli si dedicavano a percorrere i campi che tracciavano i margini del barrio armati di fionde rimediate, in bellicose bande dalle ginocchia spellate e dalle camicie sudice per rubare ciliege o bietole o per scontrari in battaglie la cui posta solo era l'onore con bande di altri Barrios egli li seguiva inalberando una gran croce di rami e biascicando pater e rosari. Il soprannome di Ciopo gli veniva da un avolo suo: il Cioppo che era l'unico confratello della un tempo venerabile confraternita dei battuti verdi. Dreiser Cazzaniga ricordave la grassissima sua figura trascinarsi dietro la processione del santo patrono dei bigliai di Briggio o del Corpus Domini inalberando fieramente un immenso stendardo verde in cui si vedeva distintamente il cane che fissava la piaga che si apriva rosa appena sopra il ginocchio del santo che a sua volta inalberava uno stendardo su cui era dipinto un agnello che era sormontato da un altro stendardo ancora, bianco questa volta e diviso in quattro parti ineguale da un croce rossa. Come avvenne poi che Don Alàmo ereditasse dal Cioppo il nomigliolo privato di una consonante Dreiser Cazzaniga non lo sapeva o se lo sapeva non lo volle scrivere da nessuna parte, quello che è certo che Don Alàmo era comunemente conosciuto nel barrio con il nomigliolo del nonno ma scempio.
L'adolescenza di Don Alàmo detto il Cioppo si rivelo' come il frutto ancora acerbo del fiore della clericatura che fu la sua infanzia, il Cioppo cresceva in sordida doppiezza e maldicenza, vischiosa irrequietezza e una tendenza a portare lo sguardo e l'interesse suo su tutto quanto eravi di torbido e morboso ascoso nel barrio di Briggio.
Soleva conquistare la fiducia di ingenui giovanotti briggiani, figli di forti bigliari adusi al vino rosso, al gelo sulle guance e alle sane scazzottate il sabato al ballo per insinuare nelle loro elementari coscienze il germe della corruzione che egli aveva poi cura di educare e una volta che la putrefazione morale era conclamata tradiva l'amico suo svergognandolo in pubblico con accesa veemente indignazione. Leggeva e copiava i diari segreti delle compagne di corso, frugava nella biancheria sporca dei compagni di campeggio, apriva lettere d'amore confidate alla sua discrezione, si ritorceva le mani, il suo sorriso era sempre stanco e dolce, lo sguardo obliquo, camminava a passettini, si esprimeva con sudiata melliflua lentezza, tra tutti coloro che lo circondavano più intimamente diffondeva con pazienza germi di discordia e sospetto.
Con queste capacità prosperò rapidamente nel Santo Collegium in cui si formavano i presbiteri di Briggio, non tanto grazie alla sua conocenza delle scritture o all'eleganza del suo latino ma alla pratica costante della delazione, di cui presto divenne un autentico cesallatore. Una volta ordinato con splendida pompa e gloriosa procesione per le vie del barrio decorate di fronde fragranti di castagno e casti mazzolini di fresche rose di campo Don Ciopo subito diresse i suoi passi verso il Soglio. Non ebbe nemmeno la molestia di passare qualche mese in una lontana parrocchia montana, o di coadiuvare un vecchio presbitero maniaco nei suoi doveri quotidiani allo scopo di provare la solidità della sua fede nell'ordine. No subito oltrepasso la porta e si installò nello splendore. La rapidità della sua ascesa fu causa di orgoglio immenso per i briggesi, anche per i più ghibellini fra di loro, e a tal segno crebbe l'entusiasmo che in Briggio si finì per credere come cosa certa che Monsignor Ciopo presto sarebbe salito al Soglio Supremo. Egli, intanto, percorreva con passo celere e sicuro la strada maestra della gloria: Monsignore, Obispo, Principe, Nunzio, Archimandrita, Nunzio nelle lontane contrade della noce moscata e della cannella da cui tornava al barrio per brevi visite alla madre. La madre non sembrava gradire particolarmente queste visite. Don Ciopo appariva nel barrio con immense limusine bianche e gialle, che profumavano di incenso e di limone. Solerti giovani previtarielli avvolti nei panneggi semplici di ampie tuniche bianchissime aprivano lo sportello, estraevano dal baule interminabili quantità di bagagli dalla fogge sovente peregrine, si inginocchiavano e segnavano benedicenti come in un balletto imparato a memoria. I loro occhi sottili erano impenentrabili, un sorriso impercettibile curvava le loro labbra strette strette, grige sulla pelle color rame del volto. Poi tutti scomparivano sotto la spessa vegetazione della Villa del defunto Monsignor Pistolotti, Vescovo libertino e pistolero, che nel secolo passato fu baluardo contra i ghibellini e gli averroisti con il suo schioppo e la sua verga e nella quale Don Ciopo soleva alloggiare in queste sue brevi visite al Barrio. I pii briggesi sussurravano di orge sacre sotto i grandi cipressi, di cerimonie blasfeme e ancor più profondamente andavano convincendosi della predestinazione che segnava la vita di Don Ciopo: egli sarebbe stato Pontifex!
Dreiser Cazzaniga lo disprezzava con furia rabbiosa, con cupa disperazione, avrebbe voluto sputargli sulla faccia, e quando lo incrociava per caso, Don Ciopo lo salutava torcendosi le mani; con uno sguardo dolce e umile andava interessandosi della sua salute, della sua famiglia e della sua carriera e Dreiser Cazzaniga rispondeva alla di lui paterna sollecitudine con lo sguardo basso, la voce flebile, come un seminarista sopreso dal prevosto con le mani sotto la tonaca e il suo cuore ribolliva come un bracere di mercurio. Monsignor Ciopo era una bestia perversa, un drago di iniquità, ma quello che Dreiser Cazzaniga non giunse mai a comprendere fu che la Iglesia lo innalzava per far capire come la sua santità non dipenda dalle persone che la compongono ma dai meriti del Sangue che il Suo Divino fondatore versò per tutti noi poveri peccatori.


**

genseki

giovedì, marzo 31, 2011

Variazioni dell'albero

(L'albero e la mano)

Proprio dove si approssima il sangue non accorda
L'ardore degli occhi resta ormai nel paesaggio,
E non appena interpreta il suo corpo colpito,
Dell'albero nemico, la voce muove i rami.

Eccolo qua! Ritorna, il corpo ha venduto la scia
Il cane, non piú guardia, mansueto se ne fugge.
Quello che ci separa, amicizia, artifizio
Erra come una stella sul tavolo del magi

Albero galleggiamte, presago, marino
Rotola fino all'essere mio strano, ripetuto,
Come passi sfrattati duramente risuonano.

Albero disdegnato, la mia mano lo spinge;
E funereo s'infrange sulla roccia,
Mentre piange la mano di durezza intoccabile.

*
II

(Distruzione notturna dell'immagine arborea)

La caduta dell'albero lo distingue
Lento se ascende attrazione non cresce
Albero solo. dimorando inizia
A distrugger spazio; e bruciandosi, torna.

Negli occhi, ormai, l'icona ben tessuta,
Nel cui incendio ondeggiano le fronde
Ed occhi e pietre, aprono le foglie
Al tempo nuovo che in sangue mi crocchia.

Un albero restava, l'immagine, la notte
Immobil fiera, battuta e volontaria,
Fruga coll'unghie e col fiato distrugge.

La notte che all'albero si allaccia
Duramente lo spazio incorpora al fluire
Del fiume che scorrendo la distrugge.

*

III

(L'albero e il passaggio distrutto dalla notte)

Un immenso galoppo nel fondo della stiva
Sa giuungere e facendo la muraglia svanisce
Il rumore sinistro ed il sinistro volo
Dell'Icaro di seta grave petto caduto.

Come una barca l'albero conosce
Cadono foglie, penzolano mani
L'albero spoglio mormora
Pesano le domande sulle mani sfinite.

La notte galoppando trae oppio dalle alghe,
Circonda le cittá, le statue avvolge
All'uomo inumidito solleva le spalle

Dopo la notte bollono e la foglia e l'uccello
La cittá devastata muove avanti le torri
Ma non dimora l'albero presso il fiume ed il sogno.

*

IV

(L'artifizio allunga la notte)

Immagine ha creato, sull'albero ricade
Si concentra e distrugge il suo speccio vorace.
Impossibie il salto
Sulla neve della razza migrante

Processione, nastri nero di tamburi,
Che dal fondo dell'acqua fabbrica inalterabile,
E quando va avvolgendo il suo raggio distrutto
Come un figlio il tamburo, ecco che cinge il padre.

Nelle ceneri sue frusta si sdoppia
Il sogno si fa greve e serra le sue smorfie
Chi un albero riceve si armonizza durevole,

Per cadere in un petto giammai prima raccolto
Il fiume rintoccava come un cane impiccato
Ora conduce e macina, adesso contro il fuoco.

José Lezama Lima
trad. genseki

mercoledì, marzo 30, 2011

Rubén Darío

Il Servo di Darío

Goyito il figlio di Gregorio Blandón
Allevato dai Darío
Si presentó al poeta - ed entró al suo servizio
Quando ritornó dal suo ultimo viaggio.

Oggi coperto da un lenzuolo
In mezzo alla strada
Sua nipote lo piange.

La sera leggeva Rubén Darío.
Sapeva persino a memoria "Le ragioni del lupo".
Poi non gli rimase che il ricordo.
Una catarrata
Lo introdusse lentamente
Nella nebbiosa contrada della cecitá.
- Don Rubén era un principe,diceva
Non appena la febbre gli concedeva una pausa si vestiva
Limpido e impeccabile. E si sedeva
Nella sua poltrona di vimini con un libro in mano.

Lo ricordo vestito di lino di cotone e col panciotto.

Le scarpe brillavano

La cravatta azzura

I capelli che cominciavano a scarseggiare
A farsi bianchi.
- Goyo: porta via la spazzatura! - mi diceva
>Non sopportava la sporcizia.
Sembrava distratto
Ma non sfuggiva niente

Ai suoi occhi svegli e esigenti.


E Goyo ogni sera tornava
Ai suoi ricordi come a una Accademia
Puntuale, e i suoi gesti
Si facevano piú distinti.
Tutte le sere saliva
La scalinata di un palazzo.
Serviva Il principe.
Don Gregorio
Il paggio.

Ora sua nipote
Prega quelli che passano
Che la aiutino a comprare una bara.

- Aveva una voce dolce, ma

Quando entrava in collera

Tuonava. Don Rubén era allora

Chi lo avrebbe mai creduto! Volgare.

Donna Rosario diceva:
Un poeta

Cosí non puó parlare.


E don Gregorio il paggio
Assumeva un aria protettrice
Di fronte alla debolezza del Principe. -

Una volta litigó con Donna Chayo

Storie vecchie. Gelosie stagionate

A don Rubén brillavano gli occhi.
E lei

Gli ricordava

Che lui impegnó i suoi gioielli a Panamá.


Quel giorno

Don Rubén ebbe una ricaduta e molta febbre.


"
Un numero infinito di cose
- Dice Borges -
Muore in ogni agonia".

Con questo veccio servitore forse si spengono
Le ultime orecchie
Che conservarono la voce di Darío.

Seppellendo Goyo nella fossa comune
Seppelliamo il popolo
E con il popolo La voce del suo poeta.

Pablo Antonio Cuadra

Trad genseki

martedì, marzo 29, 2011

Clara Janes

Nasce una rosa nella brace, il suo splendore chiaro come rugiada si trasmette alle mie labbra. Sillabe destinate a spogliare l'anelo alla danza degli specchi.

Trad genseki

Equatoriale

In quel tempo si spalancavano le mie palpebre
Allora cominciai a cantare da lontananze sfrenate

Le bandiere sporgendo dai nidi
Tuonavano nel vento

UOMINI NELL'ERBA
IN CERCA DI FRONTIERE

Su un campo qualsiasi muore il mondo
Da teste premature
Germogliano ali ardenti
Nella trincea dell'Equatore
Dentro il tritume
All'ombra di aeroplani vivi
Cantavano nel chiarore vespertino i soldati.

Ad una ad una si spengono
Le cittá dell'Europa

Camminando verso l'esilio
L'ultimo re portava al collo
Una catena di lacrime opache

Le stelle cadenti
Erano lucciole nel muschio

I manifesti impiccati
Pendevano dai muri

Un'ombra scivoló giú dalla falda dei monti
Dove il vecchio organista dirige il coro della foresta

Il vento mescola gli orizzonti
Appesi a vele e gomene

Un uccello cantava
Sull'arcobaleno

Spalancate la montagna

Dovunque sul suolo
Ho visto ali di rondine

Il Cristo al decollo
Dimenticó la corona di spine
Guardiamo il nostro tempo
Seduti sul parallelo.

Vicente Huidobro
Ecuatorial

Trad. genseki

Un carillon

Dapprima, quello che volli, fu essere un carillon. Me ne avevano regalato uno e mi sembrava una cosa cosí meravigliosa che bastasse alzarne il coperchio per udire la musica, ma senza bisogno di fare domande a nessuno mi resi presto conto da sola che non avrei mai potuto essere un carillon.


*


Tutti sono soli, ognuno è solo. Non avró mai nemici e non crederó mai che qualcuno mi ami in modo speciale e non lo desidereró nemmeno mentre prima mi divorava un bisogno di essere amata, che mi volessero bene.


*


Andare verso l'altro senza gesto, senza offerta, solo dimorando nella veritá dell'essere qui, essere povera cosa...


*


Non pretendere che nulla ci copra di splendore, non mettersi in mostra agli occhi di nessuno, farsi notare solo il minimo indispensabile, senza darsi importanza; andare direttamente l cuore delle cose, trattare gli altri senza paura e senza vanitá.


* Sono cattolica perché nacqui cattolica. Io non rinnegheró.


Maria Zambrano


A modo de Autobiografia

trad genseki

D. Shostakovich - (1/5) String Quartet No. 15 in E-flat minor - I. Elegie

Ti braccavo

Ti braccavo


La fame che avevo dei tuoi movimenti

Era quella che lasciava tante tracce sulla neve

Ti braccavo e tu mi alimentavi

Con la sequenza armoniosa dei tuoi gesti

Con l'acqua di cui conoscevi le fontane

Ti braccavo e erano solo carezze

Dietro le spesse cortine rosse dove i pesci

Apparivano e sparivano come scintille

Da un fiume anteriore carsico nel tempo

Ti braccavo e tu scorrevi fluida

Con i tuoi piedi freschi tra le mie caviglie

Come anemoni che interrogano resti di neve

Ti braccavo e non la smetteva mai di piovere

Come una canzone scrosciava allora il mio desiderio

Di te e mi rendeva grigio nuvoloso

Ti braccavo e tu eri fumo di legna

Bruciata sulla neve odore di cenere spenta

Stanchezza nei miei occhi arrossati

Speranza nel rifugio di altre mani.


**


genseki



Hegel


L'animale e la morte


L'inadeguatezza dell'animale all'universalità è la sua malattia originale ed è il germe innato della sua morte.


lunedì, marzo 28, 2011

César Vallejo

Trilce LXIII


Piovendo allegria. Pettinata


Quando la mattina chioma fina


Ben ormeggiata malinconia,


Nel mal asfaltato ossidente d'India arredato


Vira, appena s'adagia il destino




Cieli di puna senza senza entusiasmo


Per il grande l'amore, cieli di platino, torvi


D'impossibile




Rumina il gregge e vi si afferma


Il nitrito andino




Di me stesso mi sovvengo. Ma bastano


Le aste del vento, i timoni quieti fino


A farsi uno


E il gallo della noia e il gibboso gomito infrangibile.




Basta mattina di libere trecce


Di pece preziosa, montana


Quando esco e cerco le unidici


E son solo le dodicci a controra.




**




Trilce LXIX




Che mai vuoi da noi, mare coi tuoi volumi


Docenti! Che inconsolabile, atroce


Resti in pieno sole febbrile,


Salti con le tue zappe,


Salti con le tue falci,


Potando, potando ritornano le onde, dopo


Aver scorticato i quattro venti


E tutti quanti i ricordi in piattelli labiati


Di tungsteno, contatti di canini,


E statiche elle chelonie




Filosofia di ali nere che vibrano


Al tremito spaventoso delle spalle del giorno




Il mare, un'opera in piedi


Nel suo unico foglio il recto


Sta di fronte al verso.



Trad. genseki


Tugsteno

César Vallejo

Tungsteno





Tungsteno è la sola opera narrativa di un certo respiro di César Vallejo. In italiano esiste una traduzione molto difficile da trovare uscita presso Savelli. Questa è un primo saggio di una traduzozione che spero possa essere integrale.
genseki

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César Vallejo










Il Tungsteno


I





Quando, finalmente, l'impresa nordamericana “Mining Society” fu padrona delle miniere di Tungsteno di Quivilca, nel Cuzco, la direzione di Nuova York decise di far cominciare immediatamente l'estrazione del minerale.


Una valanga di braccianti e impiegati uscì da Colca e dai luoghi di transito, dirigendosi verso le miniere. A questa valanga ne seguì un'altra e poi un'altra ancora, tutte contrattate per la colonizzazione e per i lavori in miniera. Il fatto che non si trovasse nei paraggi e nelle province vicine ai giacimenti, e neppure a quindici leghe di distanza, la mano d'opera necessaria, obbligava l'impresa a far venire da villaggi remoti e assettamenti rurali, gruppi numerosi di indios destinati al lavoro in miniera.




Il denaro cominciò a correre rapidamente e in abbondanza come mai si era visto a Colca, capitale della provincia in cui si trovavano le miniere. Le transazioni commerciali raggiungevano proporzioni inaudite. Da tutte le parti, nelle osterie e nei mercati, per strada e sulle piazze si osservavano persone che discutevano di acquisti e di affari. Molte proprietà urbano e rurali passavano di mano, e vi era un'animazione costante presso i notai e nei tribunali. I dollari della “Mining Society” avevano comunicato alla vita della provincia, prima tanto quieta, un movimento inabituale.





Tutti sembravano essere in viaggio. Persino il modo di camminare, prima lento e incurante si fece rapido e impaziente. Passavano gli uomini vestiti di cachi … pantaloni per cavalcare, con una voce che aveva anch'essa cambiato timbro, parlavano di dollari, documenti, assegni, marche da bollo, minute, cancellazioni, tonnellate, utensili. Le ragazze dei sobborghi uscivano per vederli passare, e un dolce brivido le scuoteva quando pensavano ai minerali lontani, il cui esotico fascino le attraeva irresistibilmente.





Sorridevano e arrossivano mentre chiedevano:


- Signore, va a Quivilca?


- Si. Domattina molto presto


- Che fortuna! Andate tutti ad arricchirvi in miniera!


Così cominciavano quegli amori che poi dovevano annidare sotto le volte oscure delle vetas favolose.




Con i primi gruppi di braccianti e minatori giunsero a Quivilca gli amministratori, i direttori e gli alti impiegati dell'impresa: Tra di loro vi erano in primo luogo i Signori Taik e Weiss direttore e vicedirettore della “Mining Society”; il cassiere della società, Javier Machuca; l'ingegnere Peruviano José Marino, che aveva ottenuto la concessione in esclusiva del bazar e del caporalato per la “Mining Society”, il comissario degli impianti Baldazari e l'agronomo leonida Benites, aiutante di Rubio, questi portava con sé la moglie e due bambini piccoli. Marino portava un nipotino che picchiava ogni tanto, tutti gli altri erano soli.





Il luogo dove si stabilirono era una falda desolata del versante orientale delle Ande, rivolto alla regione dei boschi. Quivi incontrarono come solo segno di vita umana una capannuccia di indigeni, i Soras. Questa circostanza che permetteva loro di servirsi degli indios come guide nella regione solitaria e sconociuta, unita al fatto che nella topografia del luogo fosse quello il punto centrale dell'azione della compagnia mineraria, fece si che le basi del villaggio minerario furono gettate proprio intorno alla capanna dei Soras.





Per poter stabilire un ritmo di vita e di lavoro normale in quelle pune si dovettero dispiegare grandi e rischiosi sforzi.





L'assenza di vie di comunicazione con i villaggi civilizzati con i quali quel sito era unito solo da un sentieri scoscesi costituì, all'inizio, una difficoltà quasi insuperabile.





Varie volte si dovette sospendere il lavoro per mancanza di utensili e non poche per fame e malattia della gente sottoposta ad un clima glaciale e implacabile.





I sora, presso i quali i minatori trovarono sempre conforto e una ingenua e allegra mansuetudine svolsero un ruolo la cui importanza crebbe tanto che in più di una occasione l'impresa sarebbe fallita senza il loro opportuno intervento. Quando finivano i viveri e non ne arrivavano altri da Colca, i sora cedevano il proprio grano, il bestiame, utensili e servizi personali, seza tariffa, senza stare a pensarci e sopratutto senza fatsi pagare. Si accontentavano di vivere in amicizia e disinteressata armonia con in minatori che i sora osservavano con una sorta di curiosità infentile mentre si davano un gran da fare giorno e notti in un viavai continuo di macchine misteriose e fantastiche. Da parte sua la “Mining Society” non ebbe bisogno del lavoro dei sora nelle miniere per via della mano d'opera che aveva fatto venire da Colca e lasciava tranquilli i sora, da questo punto di vista, fino, almeno, a quando le miniere avessero reclamato più lavoro e più uomini. Sarebbe mai giunto quel giorno? Al momento i sora continuavano a vivere senza essere coinvolti nel lavoro in miniera.


- Perché fai sempre così? - Chiese un sora ad un operaio che aveva il compito di ungere le gru.

- É per sollevare …
- E perché lo sollevi?
- Per lucidare la vena e liberare il metallo
- Che ci fai con il metallo?
- A te non piace avere dei soldi brutto selvaggio?

Il sora vide che l'operaio sorrideva e anche lui si mise a sorridere automaticamente. Lo seguì osservandolo tutto il santo giorno e moli altri giorni per vedere come finiva quella storia di ungere le gru. Un altro giorno, il sora tornó a chiedere all'operaio, sulle cui tempie scorreva il sudore:

- Ce l'hai già il denaro
- Che cos'è il denaro?

L'operaio rispose con fare paterno facendo risuonare le tasche della sua blusa:

- Questo è denaro. Vedi? È denaro. Lo senti?...




Disse l'operaio e tiró fuori alcuni nichelini. Il sora li vide come qualcuno che proprio non riesce a capire:


- Che ci fai con 'sto denaro?

- Ci compro quello che voglio. Va! Che sei una bella bestia!

E giù a ridere, l'operaio. Il sora se ne andò fischiettando e saltellando.

In un'altra circostanza, un altro sora, che contemplava apertamente e come stregato un operaio che martellava sull'incudine della Forgia, si mise a ridere con una allegria sana e burlona. Il fabbro disse:

- Di che ridi, cholito? Vuoi lavorare con me?
- Si. Voglio farlo anch'io.
- No. Non lo sai fare, dai! È difficile.

Ma il Sora si intestardì che voleva lavorare alla forgia. Alla fine lo accettarono e il Sora lavorò con i fabbri quattro giorni filati, e giunse ad aiutare davvero i meccanici. Il quinto giorno, a mezzogiorno, il Sora, di colpo, mise d parte le sue barre e se ne andò

- Ehi! - Gli dissero – Perché te ne vai? Continua a lavorare.
- No – disse il Sora – Non mi piace più
- Ma ti pagheranno. Ti pagheranno per il tuo lavoro. Dai continua a lavorare.

- No, non ne ho più voglia.


Trad. genseki

giovedì, marzo 17, 2011

Trilce

César Vallejo

Trilce
LXII

Tappeto
Quando entrerai nella stanza che tu sai
Entraci pure ma sta bene attento a chiudere il paravento
Che spesso si socchiude
Tira bene la catena ché nn possano voltarsi altre schiene

Corteccia
Quando esci di che torni presto
A chiamare il canale che ci separa
Solidamente legato a un lato della tua fortuna
Ti so irreparabile
E mi trascini accanto alla tua anima.

Tappeto
Solo dopo la nostra morte. Chissà!
Solo allora saremo separati
Ma se al cambiar passo, toccasse a me
La bandiera sconosciuta, ti aspetterò di là
Alla confluenza dell'alito e dell'osso
Come un tempo
Come un tempo al cantone degli sposi
Occidenti della terra.

Da li ti seguirò lungo
Altrimondi, e potranno persino
Servirti i miei no di muschio contratto,
Per posarci sopra le ginocchia
Nelle sette cadute di questa salita senza fine
Perché ti fcciano meno male.

César Vallejo
Trad genseki

La vergine

La Vergine che dipingemmo ascoltava
Le campane come mughetti
mescolava i rintocchi al latte
In un polline di fresca bianchezza
Le mosche ronzavano come rami
Nella festa dei fiori d'azoto
A sciami.

Giacinti e gabbiani

Volavano alte sai le ghirlande
Alte come la nostra conoscenza
Dei limiti, come gli spruzzi
Di non essere giacinti gabbiani
Sempre alle prese con la lama
Livida, con l'oscurità della soglia
Della memoria, con tutte le avventure
Della luna mentre tra la salvia
Correvano i roditori come palline di fumo
Coscienti dell'eternità di ogni trascorrere
Di quanto sia vischioso il divenire
E infinite le cause che ci ricamano
Su uno sfondo di pascoli e abeti
Seppia nella cartolina la tua scrittura
Inclinata e sottile mi diceva
Che la pietà non la conoscevi
Nemmeno per te ne avei ma avuta
Come eri alta allora sulla diagonale degli sfondi.

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genseki

La tua voce

La tua voce

Non sapevo fino a quando la tua voce
Avrebbe costituito la mia pena
Chiudendomi nella sua coppa
Nel rintocco sferico del suo cristallo
Che la purpurea lingua del vino
Lampo luminoso spezza prossima all'udito
La tua voce condanna di silenzio
La tua voce vero corpo di cenere
Le ossa della tua voce triturate nella memoria
Stridono come flauti senza rame
Invano raccolgo gli accenti tra le viole
Sono gli occhi di Proserpina
Che rotolano sotto i funghi
Il tuo amaranto lo voglio seminare nel mio canto
Quando anche il mio inno sarà vento disfatto.

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La fedeltà del prezzemolo
Impallidiva il prato
Quando la nebbia si stracciava in tante grida
Erano gli occhi crepe tra due cappe di vento
Così lunghe sembravano allora le tue dita
Che il loro pallore non poteva ricoprirle
Come cespi di luna sparsi tra la maggiorana
Benedetti brandelli i tuoi capelli.


genseki