martedì, giugno 07, 2011

Paul Louis Courier De Méré

Petizione alla Camera dei Deputati per dei paesani ai quali si impediscedi ballare

I parte

L'oggetto della mia petizione è piú importante di quello che sembra; posto che, pur trattandosi effettivamente solo di ballo e di divertimento, da una parte queto divertimento è del polpolo, e nulla di ció che lo riguarda puó esserVi indifferente; dall'altra la religione è coinvolta, o compromessa, per dirla megli, a causa di uno zelo malinteso, penso, nonostante le divergenze che possono esserci tra di noi, che Voi tutti considerete la mia richiesta degna di attenzione.

Chiedo che sia permesso, come nel passsato, agli abitanti di Azai di ballare la domenica sulla piazza del loro comune, e che ogni divieto, fatto, in questo sesno, dal prefetto sia annullato.

Noi, abitanti di Veretz siamo interessati alla questione, perché andiamo alle feste di Azai, cosí come quelli di Azai vengono alle nostre. La distanza dei due campanili è piú o meno una mezza lega: noi non abbiamo vicini migliori. Loro a casa nostra, noi a casa loro, ci si invita a turno, ci si diverte la domenica, si balla sulla piazza, dopo mezzogiorno, d'estate..
Dopo mezzogiorno giungono il violini e i gendarmi contemporaneamente; a questo proposito devo fare due osservazioni.

Noi danziamo al suono del violino, ma questo a datare da una certa epoca. Il violino era riservato, un tempo, ai balli delle classi elevate; in Francia si trovavano pochi violini, Il gran Re li fece venire dall'Italia e formó un'orchestra perché la corte ballasse con gravitá, i cavalieri in parrucca nera le dame col guardinfante, Il popolo pagava i violini ma non poteva servirsene: ballava poco, a volte al suono della piva o cornamusa come indica il ritornello: “Arriva il pellegrino che suona la cornamusa: balla Guillot, salta Perrette.” Noi nipoti di Gullot e Perrette abbiamo abbandonato i modi dei nostri padri e balliamo al suono dei violini come la corte di Luigi il Grande. Quando dico come dico per dire. Infatti noi non andiamo al ballo con le nostre mogli, le amanti e i nostri bastardi. Questa è la prima osservazione; la seconda eccola qua:

I gendarmi si sono moltiplicati in Francia, piú ancora dei violini, anche se sono meno utili al ballo. Noi en faremmo volentieri a meno nelle feste del paese, e a dire il vero nopn siamo noi che li mandiamo a chiamare: il governo è dovunque oggi e questa ubiquitá arriva anche ai nostri balli, ove non si fa un passo senza che il prefetto voglia esserne informato per renderne conto al ministro.
Sapere chi trova simili attenzioni piú spiacevoli e maggiormente fastidiose, chi en soffre di piú, se i sorvegliati o il governpo, è una questione ben curiosa e difficile, che tuttavia mi vedo costretto a trascurare, per paura di complicarmi la vita con le classi elevate o di dire qualche parola che possa essere considerata tendenziosa.

Oltre i balli ordinari della domenica e dei giorni festivi, vi è quella che è chiamata l'assemblea, una volta all'anno, in ogni comune che riceve tutti gli altri a turno. Grande è l'affluenza e grande la gioia dei giovani. I violini non mancano, come potete immaginare. Al primo colpo d'archetto ci si mette in posizione e ognuno conduce la sua promessa. Altrove si gioca a bocce o a birilli o al paletto. Molti sono coloro che, invece, discutono di affari; si concludono atti di compravendita, varie vacche passano di mano in mano tra quelle che non si erano potute vendere alla fiera, insomma queste assemblee non sono soltanto appuntamenti di svago ma anche di interesse per il popolo e per i singoli e il luogo in cui si tengono non puó essere indifferente. La piazza di Azai sembra essere fatta apposta per questo situata al centro del comune, in terra battuta, senza pavé, è adatta a ogni sorta di gioco e di esercizio; circondata da negozi, prossima alle locande, alle osterie, dato che pochi sono gli affari che si negoziano senza bere, poche contraddanze finiscono senza vuotare qualche boccale di birra; nessun disordine, mai nemmeno l'ombra di una rissa. È oggetto d'ammirazione per gli Inglesi, che ogni tanto ci vengono a vedere e quasi non possono capire che le nostre feste popolari trascorrano con tanta tranquillitá, senza pugilato come da loro, senza assassinii come in Italia, senza sbronze come in Germania.

Il popolo è saggio, malgrado i rapporti segreti. Lavoriamo troppo per avere tempo di pensare a fare il male, e, se è vero questo antico proverbio: pigrizia madre di ogni vizio, occupati come siamo, sei giorni alla settimana senza tregua e buona parte del settimo, cosa che taluni criticano e a ragione. Io vorrei che in quel giorno ogni fatica cessasse; la domenica e nei giorni di festa, in tutti i paesi del contado si dovrebbe fare esercizio di tiro, di maneggio delle armi, pensando alle potenze straniere che pensano a noi tutti i santi giorni. Cosí fanno gli Svizzeri, nostri vicini, e cosí dovremmo fare noi per essere atti a difenderci nel caso che i forti volessero attacar briga. Infatti è meglio imparare la carica in dodici tempi e sapersi sbarazzare di un cosacco piuttosto che raccomandarsi al cielo e confidare nel proprio buon diritto. Lo dico e lo ripeto: arare, seminare a tempo debito, stare nel campo fin dal mattino, non basta, bisogna difendere il raccolto. Cura le tue viti, vendemmierai l'anno prossimo e un giorno, se Dio vuole, farai del buon vino, ma chi se lo berrá? Rotopshin, se non sei pronto a difenderlo. Signori, pensateci un po' su, e vedete un po' voi se non sarebbe il caso, considerate le presenti circostanze e le imminnenti, di darsi, nel santo giorno della domenica, dopo la messa, naturalmente, a quegli esercizi tanto graditi al Signore degli eserciti qualli sono il passo di carica e il fuoco di battaglione. Sarebbe una profittevole maniera di impiegare, con grande vantaggio per lo stato, il tempo che si perde ballando.

Ma i nostri devoti la vedono in un altro modo. Loro vorrebbero che la domenica non si facesse niente altro che pregare e recitare le Ore, Certo la salvezza eterna è l'interesse principale. Ecco peró l'esattore; bisogna pagar e lavorare anche per quelli che non lavorano. E quanti credete che siano quelli che pesano sulle nostre braccia? Bambini, vecchi, mendicanti, frati, lacché, cortigiani; quanta gente da mantenere! E lussuosamente in certi casi! E poi c'è il lustro del trono, poi la Santa alleanza; che costi, che spese! E per far fronte, avanza ancora tempo libero? Voi lo sapete e lo vedete bene, Signori; coloro che odiano tanto il lavoro domenicale vogliono emolumenti, mandano le pittime, aumentano il budget. Secondo loro, noi dovremmo lavorare meno e pagare di piú ogni anno.

Come spiegarlo? La lettera uccide e lo spirito vivica, quando la Chiesa diede il precetto di astenersi dal lavoro servile in certi giorni, vi erano servi della gleba, fu per loro, in loro favore che fu istituito il riposo. Allora non vi era santo che i braccianti non festeggiassero con entusiasmo, a perderci era solo il padrone; doveva nutrirli, e senza i santi li avrebbe massacrati di lavoro. Saggio fu il precetto, salutare la legge nei tempi dell'oppressione. Ora, peró, non vi sono piú feudi, non si veste piú la cotta di maglia; siamo liberati dall'antica servitú e, una volta pagate le tasse, lavoriamo per noi stessi e se non lavorassimo, sarebbe a nostre spese; obbligarci a riposare è peggio che la decima, perché almeno la decima serve ai cortigiani, il nostro ozio non serve a nessuno. Il lavoro che ci viene sottratto, il cibo e i vestiti che ci sono totli non lo sono a vantaggio di nessuno, non producono emoluementi, benefici, pensioni. E nuocere in per nuocere.

Gli Inglesi che vengono alle nostre feste si stupiscono tutti alla stessa maniera, pensano tutti la stessa cosa; ma tra loro alcuni si stupiscono un po' di piú: sono i piú anziani, che venuti in Francaia in tempi anteriori, si ricordano ancora come fosse la vecchia Turenna e il popoli dei buoni sovrani. Anch'io me en sovvengo: giovane allora, vidi, prima della grande epoca, in cui soldato volontario della Rivoluzione abbandonai i luoghi tanto cari della mia infanzia, vidi i contadini affamati, cenciosi, tendere ovunque la mano alle porte e sulle strade, nei viali delle cittá, presso i conventi, i castelli, ove la loro inevitavile apparizione era il tormento proprio di coloro che la comune prosperitá rende oggi indignati e desolati. Rinasce la mendicitá, lo so bene, e fará, se è vero quel che si dice, rapidi progressi, ma per molto tempo ancora non raggiungerá quel grado di miseria. La descrizione che potrei darne sarebbe debole per quelli che lo hanno conosciuto, come me, e per gli altri sembrerebbe inventata: ascoltate allora un testimone, un uomo del Grand Siècle, osservatore esatto e disinteressato; il suo discorso non puó essere sospetto, si tratta di La Bruyère.

“Si vedono, dice, certi animali selvatici, maschi e femmine, sparsi per le campagne, neri, lividi, arsi dal sole, legati alla terra che frugano e rimuovono con una invincibile testardaggine. Possiedono una sorta di voce articolata, e quando si drizzano in piedi mostrano fattezze umane, e, infatti, sono proprio uomini; di notte si ricoverano in una sorta di tane dove vivono di pane nero, acqua e radici. Essi risparmiano agli altri uomini lo sforzo di seminare, di arare e di raccogliere per vivere emaeritano che non manchi loro quel pane che hanno seminato”.

Ecco le sue autentiche parole; parla di quelli fortunati, di quelli che avevano pane e lavoro; erano una minoranza, allora.

Se La Bruyère potesse tornare sulla terra, come soleva accadere nel passato, e presentarsi a una delle nostre assemblee vi troverebbe non solo volti umani, ma visetti femminili di fanciulle piú belle e soprattutto piú modeste di quelle della sua corte tanto vantata, sono vestite con piú gusto, non vi é dubbio, agghindate con piú grazia, con decenza; che ballano meglio, che parlano la stessa lingua (propria del paese) ma con una voce tanto graziosamente e dolcemente articolata che credo en sarebbe soddisfatto. Le vedrebbe rientrare la sera, non nelle loro tane ma in case ben costruite e ammobiliate. Se si mettesse a cercare gli animali di cui aveva parlato non li troverebbe da nessuna parte e forse benedirebbe la causa, qualunque fosse, d'un tanto grande e felice cambiamento.

La festa di Azai era celebre tra tutte quelle dei nostri borghi, attirava il concorso di una folla dai campi e dai comuni dei dintorni. In effetti, da quando i giovanotti fanno ballare le fanciulle, cioè da quando noi contadini delle sponde del Cher siamo padroni di noi stessi, la piazza di Azai fu sempre il nostro punto di incontro preferito per il ballo e per gli affari. Vi ballavamo come vi avevano ballato i nostri padri e le nostre madri, senza che mai scoppiasse uno scandalo, senza che vi fossero denunce, per quanto si ricordi, e non pensavamo essendo cosí tranquilli, non avendo mai causato molestia alcuna, di poter essere, noi, molestati nell'esercizio di questo diritto antico, fondato sulle primitive leggi della ragione e del buon senso; è chiaro che ognuno ha diritto di ballare a casa sua e il pubblico dove starebbe di casa se non sulla pubblica piazza? Eppure ci cacciano via. Una nota firmata de prefetto che egli chiama ordinanza, recentemente pubblicata, proclamata al suono del tamburo, “Considerando, etc” vieta di ballare nel futuro, di giocare a bocce o ai birilli su detta piazza e questo con la minaccia di castigo. Dove andremo a ballare? Da nessuna parte; non si debe ballare e punto. Questo non sta scritto nellordinanza del Signor Prefetto ma è un articolo tra lui e altri poteri, come poi si è visto. Ci comunicarono questo divieto pochi giorni prima della nostra festa, la nostra assemblea di San Giovanni.

trad genseki

1 commento:

Anonimo ha detto...

piaciuto molto

da