sabato, marzo 25, 2023

Yecla



Il rosa dei peschi fioriti fluttua come un lenzuolo sulla terra grigia e secca, risalta sulle strisce d’erba verdissima che ne definiscono i limiti e lo esaltano nella sua indefinizione. Come su un tappeto si distende lo sguardo che cerca il conforto del riposo, il tappeto meraviglioso si srotola davanti a ai miei occhi come il limite del loro campo, ed è quasi doloroso il suo púdico tremore. 

Un velo trasparente di pallidi colori ondeggia e cela la verità dell’istante. Pare che un soffio del tempo il soffio più lieve del divenire lo possa sollevare e spazzare via come il vento spazza le nubi bianchissime sul cielo di cobalto.

Ecco il rosa dei peschi, il verde delle strisce di prato o di lattuga sono il colore della mia stessa pelle, sono la mia pelle che si increspa per il desiderio di pioggia, quella stessa pioggia che sciogliendo il colore, schiaccerà nel fango le mille sfumature di quelle corolle, fresca sui petali delle mie palpebre.



Ana Blandiana


Trad. Pietro



Certo con la morte tutto inizia.

Non sappiamo per che cosa:

Preferiamo confondere il mistero con il nulla.

Solo quando un essere amato,

Una gran parte di te, forse,

Varca la linea di separazione,

Tutto si illumina

Il tempo di un lampo

E vedi come lungo il cammino

Che inizia proprio in quel punto.

È cosí lungo

Che non vedi dove ti conduce

Ma non importa,

Quello che importa è che ricomincia.


***


Nulla è statico,

La morte non è come sembra

Una mineralizzazione, un punto e basta.

La sparizione di qua è apparizione 

In un altro luogo pe altri fini. 

Sempre in movimento

L’esistenza e la non esistenza

Si combinano 

Mano a mano

E ti spingo come su un piano inclinato

Verso un altro universo

Dove davanti alle porte imperiali

Non ti arresti

Ma scivoli via scivoli allontanandoti

Sempre più sorpreso.


Da: Variazioni su un tema dato



venerdì, marzo 24, 2023

Il Carrubo




Il carrubo irradia i suoi remi, li scaglia con forza verso il cielo, forse con ira, come raggi di clorofilla,; il suo cuore è rosso, le sue ossa vegetali fragili, trema tra le sue piccole foglie la luce fresca di questa dolorosa primavera. La primavera è dolorosa per le vecchie ossa, le mie e quelle del carrubo, ossa fragili dal midollo rosso, pronte a spezzarsi per l’urto della luce e quello del desiderio. In fitte diramazioni si incrociano i rami, i più alti e i più bassi, quelli secchi e quelli che seccheranno, si propaga la vita da un’intimità che ignora il tempo, ignora qualsiasi abbraccio che non sia quello del vento o quello della pioggia, irradio con lui le mie parole, vorrei essere centro di questa pace, diramarmi pure io nel tempo e nello spazio, deporre le pulsazioni e gli impulsi, vivere come un flusso, come una serie di flussi che cresce in direzione della luce, senza spinte senza pressione, si direbbe che fluisca verso l’alto come il rigagnolo scivola in mezzo alle erbe verso il piano sottostante.

Non amo questo albero, non mi adatto alla sua presenza con la piena disponibilità con cui vivevo l’odore di pane dei castagno, la metallica impassibilità del faggio, alla sua ombra mi sento uno straniero, l’ultimo arrivato a queste terre.



Pietro

giovedì, marzo 23, 2023

La collana di perle



Dal mio punto di vista la morte è sempre la mia morte. La morte degli altri è anche la mia morte. Nella morte altrui vivo la mia morte, essa è una parte della mia morte.

Conferma e riconferma la certezza che anch’io dovrò morire, la coscienza della ma impermanenza. Questa coscienza è già la morte. È la mia morte in ogni istante. “Mai più”, la consapevolezza totale del “mai più” paralizza la vita, perché l’infinito del “mai più” divora la vita proprio in quanto finita.

Davanti all’infinito la vita finita scompare. L’infinito del “mai più” è il “mai più” del “proprio adesso”.

Non ti rivedrò mai più vuol dire che non ti ho mai visto. Non torneremo a stringerci in un abbraccio significa che non ci siamo mai abbracciati. Perché nell’infinito del nulla non resta spazio per il finito dell’adesso. L’infinito del nulla non è un contenitore, una scatola e, se è infinito, occupa ogni spazio possibile, ogni spazio di possibilità.


A questo punto però, credo, ia situazione si capovolge. Si capovolge perché non vi è dubbio che ora sto vivendo nonostante l’infinito nulla che mi aspetta e che essendo infinito già ora mi ha ghermito, ad ogni istante, senza sosta mi nega.

Eppure sono vivo, le mie dita si muovono veloci sulla tastiera, il sonno mi pesa sulle palpebre, in qualche punto dell’essere di cui ignoro le coordinate sono cosciente dei mie ricordi. La vita ferita a morte, la preda dell’artiglio tagliente sempre di nuovo trionfa e si riafferma come vita, come l’istante che esiste testardamente di fronte al nulla, oltre ogni possibilità del pensiero, oltre la logica.

È la sorpresa irradiante dell’esistenza che nella sua completa insignificanza non cessa di momento in momento di creare il significato.

Allora quel è la dialettica tra nulla infinito ed esistenza momentanea?

Tra l’oscurità infinita e l’irrilevante, istantaneo lampeggiare della luce?

Credo che sita possibile pensare che è la luce istantanea che in qualche modo rende possibile il nulla infinito. Perché senza questa luce, per quanto ferita mortalmente già al suo apparire il nulla infinito non potrebbe essere né nulla e neppure infinito. Perché il nulla è nulla di qualche cosa e l’infinito è infinito di un finito.

Credo di poter dire che questo pensiero si può esprimere anche con la forma teologica di creazione dal nulla. Dio mi ha creato dal nulla. Ê come dire che l’infinito mi ha tratto da sé e che questo sé dal quale mi ha tratto, nel momento e dal momento in cui mi ha tratto è per me nulla. Lo posso pensare soltanto come nulla, lo posso sperimentare soltanto come nulla cioè nell’angoscia.

La fede è il salto che mi permette, invece di sperimentarlo come Amore.

La vera meraviglia, l’impossibile, l’impensabile è proprio questa vita finita, la vita concreta banale, di tutti i giorni, di ogni secondo, di ogni istante con i suoi gesti piè meschini sempre minacciati dall’angoscia, scossi dalla nausea e dalla paura e che si ripetono come pure perle. Perle di una collana di amore.


Pietro

lunedì, marzo 20, 2023

Salinas de San Pedro del Pinatar



La bellezza di questa luce fresca che accarezza il mare e la salina, la bellezza di questi voli bianchi e grigi, di queste scintille sulle creste delle onde, della spuma che si frange in candidi spruzzi si apre a me come un dono, quando mi apro ad essa, quando sono disposto ad accoglierla, quando lascio che la mia individualità si estenda fino al punto di svanire. Si distenda piuttosto che estendersi fino al limite della dissoluzione, al confine della scomparsa, solo in questo limite, su questo filo di rasoio la colgo e mi inonda. Perdersi perché questo dono, o meglio questa grazia, questa benedizione sia anche disvelamento, perdersi è la condizione necessaria. Non si tratta di voler fermare il tempo, questo movimento distrugge la belleza, si tratta di lasciare che il tempo ci trascini nel suo fluire che ci neghi e che in lui possiamo riemergere di nuovo in una spossante altalena di nulla e appena qualcosa. Tra questo nulla e questo qualcosa si da la belleza che è allora promessa e speranza, ignoto e nido, apertura all’orizzonte e capanna alla soglia del bosco, al bordo del deserto rossastro.


Pietro

Felissa



Felissa è un nome dal sapore di menta, appena un poco amara, dall’odore della lavanda tra vecchie camicie impercettibilmente ingiallite Felissa è una anziana, vestita umilmente di panni grigi, nel mio ricordo di infanzia, mi conduce per mano fino a un chiaro nel bosco di pini e mi ingiunge di respirare profondamente il forte odore di resina, non lo dice con affetto, non vi è traccia di tenerezza in lei, semmai di una certa severità che comunque non si esprime. Mi tiene per mano, mi conduce verso il bosco, non so bene chi realmente sia né se possa rivelarsi ostile. Mi adatto a credere che no, che non ha intenzione di farmi del male, che non sono stato abbandonato. Questa passeggiata si ripete ogni mattina, come un rito celebrato esclusivamente da noi due. Non so nulla di lei, non so perché mi prenda per mano e mi conduca alla radura tra i pini, l’odore di resina, di terra bagnata, l’indaffararsi delle coccinelle tra i rannuncoli mi fa battere il cuore, respiro profondamente, e questo mi fa sentire come un batuffolo di mondo e di un mondo sacro, tra scoppi di pigne. Ê la sensazione di essere divenuto degno della morte, di una morte anonima come carne di pino, con il colore della terra appena mossa, e mi sento annegare da questa inebriante dolcezza, da questa dolorosa sicurezza. Respiro forte, forte l’odore dei pini tra il ronzio delle mosche.

domenica, marzo 19, 2023

Sulle belle favole



Sono immerso nella realtà, questa realtà è tale per me solo perché la accetto senza riflettere. La realtà nella quale ci incontriamo mi sembra essere una forma di automatismo, una serie di risposte immediate e univoche a una serie di stimoli predisposti. Se mi fermo un frammento di istante a riflettere ecco che la realtà mi appare molto meno reale.

Nella stanchezza, negli istanti immediatamente precedenti al sogno, nell’amore, di fronte al dolore, di fronte alla morte.

In queste situazioni l’automatismo cessa e posso percepire in un altro mondo.

Normalmente sono prigioniero delle parole, le parole sono come le grate di una gabbia che mi dicono che cosa devo percepire, come devo percepire, quali parole costituiscono la risposta ad altre parole.

Cessa per un istante questo incantesimo che simula la necessità e sorge la speranza.

Le parole e il loro modo di concatenarsi, di richiamarsi, di riecheggiarsi sono anche quello che considero il mio essere me stesso. 

Per un istante le parole tacciono, il ronzio del linguaggio si fa flebile, la superficie si sfaglia in lievi crepe, tutto è tremore allora, ma anche levità, fragilità non esente da letizia, allora tutto è mistero e rivelazione.

Perché le nostre parole il nostro linguaggio sono come una benda sugli occhi di qualcuno che è già cieco, non possono dirci nient’altro che la realtà, non possono aiutarci a percepire quello che sta oltre.

Neppure il silenzio rende possibile uscire dalla gabbia. Si tratta di qualche cosa di intermedio tra la parola e il silenzio, Una sospensione del linguaggio, un silenzio che ancora freme o si fa tremore, qualcosa che è molto meno di un sussurro, uno spazio in cui il silenzio avvolge le parole senza sopprimerle. Le discioglie in qualcosa che non è più parola ma nemmeno è la sua abolizione.

In questa sospensione anch’io scemo, vado sfumando, mi riconosco in un ricciolo di luce, nella trasparenza di una foglia, nel ticchettio della pioggia, sono ancora e non sono già più, la speranza sboccia costantemente dalla disperazione.

Questo è il mondo delle belle favole, qui è dove sgorgano tutti i sogni, qui dove tutto è sospeso, indefinito, intermedio si prepara la rivelazione e la verità può diventare immagine e le immagini possono rappresentare la verità.

martedì, marzo 14, 2023

Mostri

Dámaso Alonso


Trad Pietro



Tutti i giorni recito questa preghiera

Al risveglio:


Oh Dio,

Non tormentarmi più.

Dimmi che cosa significano

Questi spaventi che mi circondano.

Attorno a me pullulano i mostri

Che mi pongono mute domande,

Propio come anch’io li interrogo.

Che forse ti domandano

Quelle stesse cose con le quali io turbo invano

Il silenzio della tua notte invariabile

Con la mia straziante interrogazione. 

Sotto la penombra delle stelle

E sotto la terribile penombra della luce solare,

Mi spiano occhi ostili

Forma grottesche mi vigilano

Colori tagliente mi tendono trappole:

Sono mostri,

Sono circondato da mostri!


Non mi divorano

Divorano il riposo che anelo,

Fanno di me un’angustia che sviluppa se stessa,

Fanno dime un uomo,

Un mostro tra altri mostri.

Nessuno, però, tanto orribile

Come questo Dámaso frenetico

Come questo millepiedi giallo

Che grida a te con i suoi folli tentacoli,

Come questa bestia immediata

Trasfusa in fluida angoscia;

No, nessuno è così mostruoso

Come questo parassita che grufola verso di te,

Come questa straziata incognita

Che ti insulta ora con gemiti articolati,

Che ora ti dice:

“ O Dio, non tormentarmi più,

Dimmmi che cosa significano

Questi mostri intorno a me,

Questo intimo spavento che geme verso de nella notte.

domenica, marzo 12, 2023

Voce dell'albero



Damaso Alonso

Trad. Pietro


Che vuole da me la tua mano? 

Che pretende da me, dimmelo albero mio!

Era la brezza che ti muoveva, ma il gesto

Era tuo, tuo.


Come il bambino, cagliato di tenerezza

Che a lui sboccia nelle viscere e che no sa 

Esprimere, lentamente tristemente

Mi hai sfiorato il volto con la mano,

Fu una carezza del tuo ramo

Che dolcezza vi era

nel tuo tocco!Che limpida 

Deve essere la tua voce! Cosa mi hai chiesto?

Che vuoi da me ,albero mio?


La pietra sterile testarda 

Concentrata nel suo lutto

Frenetico mutismo o grido immobile -,

Riesce a dire il suo duolo

A forza di silenzio accumulato.


L’uomo 

- Oh menagramo gracidare, inutile ululato

È voce nel vento, voce sola nell’aria.

Il vento e il mare non udranno mai i suoi lamenti.

Ahimè, il cielo non udrà mai il suo grido;

Mai, mai, gli uomini.  


Tra l’uomo e la roccia

Con che malinconia

Mi sai comunicare la tua tristezza,

Albero, tu, triste e buono, tu il più profondo

Il più oscuro degli esseri! Lenta

Condensazione lúgubre

Di tenebrosi succhi minerali,

Materia in soave, lento ribollire,  chiusa

In volontà di essere, dove l’inerte

Sale con ardua affinità di foglie

Fino alla totale frenesia!

Tu, genio, furia

Espressione della terra dolorosa,

Che ti erigi, acuto, contro il cielo,

Come un ahimè, come una fiamma,

Come un clamore! Insomma mostro con braccia,

Artigli e chioma

:

Oh soave e triste mostro verde,

Davvero, davvero pensoso

Con profonditi di tempo,

Con silenzi di Dio!


Non so quali alti segni

Lontani, di un amore triste e diffuso,

Di una grande amore di nebbia e splendori

Vorrebbe recare il tuo verde ramoscello

Che, con il vento, ora

Mi sta sfiorando il volto.

Ignoro il suo messaggio

Profondo. Lo ho colto, baciato

(Un bacio profondo)

No so che cosa vuoi dirmi!


Da: Hijos de la ira

venerdì, marzo 10, 2023

 Lettera di Dreiser a Ludovico

Caro Ludovico,

Mi farebbe piacere se avessi la pazienza di leggere queste poche righe che hanno la pretesa di spiegarti alcune cause e ragioni di questo mio cambiamento o involuzione ideologica. Io sono nato in una famiglia della classe lavoratrice, della classe operaia ( im miei genitori erano maestri ma i venivano tutti e due da famiglie che non erano povere, erano miserabile e devastate dall’alcolismo e dai problemi di salute mentale che ne derivano) in un mondo popolare (il quartiere operaio) sono andato a scuola con figli di operai, fino al liceo. Io fin da piccolo e poi da adolescente conoscevo la durezza della vita della classe operaia e tutte le ingiustizie sotto le quali doveva curvare le spalle: la disoccupazione lo sfinimento fisico, il cancro nell’industria chimica, dall’alcolismo che era quasi necessario per sopportare quelle condizioni di vita e più tardi la crisi industriale, i quartieri vuoti, le famiglie spezzate, l’eroina che massacrava i giovani. Io ero stupido e idealista a 16 anni e mi pareva ovvio essere comunista e anarchico e viveva la militanza come un dovere, credevo nell’Unione Sovietica, soprattutto perché faceva paura ai ricchi e ai borghesi che io conoscevo, che erano stupidi ed arroganti, (quelli che conoscevo). Mi entusiasmavano le manifestazioni del Primo di Maggio con ondate interminabili di lavoratori in tutta e le loro famiglie e le grandi gru del porto e le sirene delle fabbriche, i ritratti Marx, Engels, Lenin, Togliatti, Longo e Berlinguer (Berlinguer presi a odiarlo per via dell’eurocomunismo e dell’alternativa democratica: “La rivoluzione di Ottobre ha perso la sua spinta propulsiva”. Io veneravo l’Armata Rossa, piangevo per l’eroismo dei difensori di Stalingrado, amavo e amo la Russia in sé stessa ieri come oggi. Ma vi erano altre cose che amavo: la poesia, il surrealismo, Rimbaud (il comunardo), André Breton e la generazione del 27 in Spagna (ascoltavo i dischi di Arnoldo Foa che leggeva Lorca, la musica classica, l’opera, la religione cristiana e il mio cuore era spezzato dalla speranza di poter vivere i’amore per Cristo (che mia nonna mi aveva inculcato) e il Comunismo. Il profeta Amos era il mio referente: “avete venduto i miei poveri per un paio di sandali”. Non era un fatto ideologico, non ne facevo un`ideologia, non ero cattocomunista, proprio non riuscivo a non essere cristiano, era più forte di me. Una situazione infelice, di fatto mi iscrissi all’Universitá Cattolica dove fui il Leader del Partito Comunista. Ero stupido, si, proprio stupido. Lo ho già scritto nelle prime righe di questo testo.


Da adulto, sui trent’anni aderii, a Rifondazione Comunista, una delle forze politiche più sciocche, ipocrite e ridicole che siano mai sorte nel martoriato suolo del nostro povero paese e quasi mi distrussi in una militanza frenetica cieca e dolorosa, dolorosa perché mi rendevo conto della stupidità della situazione e non riuscivo a scappare via da quella banda di poveri disgraziati rancorosi. Il rancore più autolesionista era la prospettiva politica di RC. 

Più tardi passai a Lotta Comunista. Qui la militanza era ancora più esigente, ma erano brava gente, leali, seri e studiosi. Finii per distruggermi del tutto la salute, fino per ammalarmi, al ritorno da un viaggio militante dalla Cina, mi era massacrato a studiare cinese di notte e avevo dimenticato, in quegli anni che cosa fosse il sonno.

Cosí mi ritrovai immobile per quasi sei mesi, con dolori atroci in tutto il corpo ad ogni movimento e una invincibile stanchezza addosso che trasformava in uno sforzo inaccettabile il minimo gesto quotidiano. A questo punto lasciai la militanza.

Non sono mai stato di sinistra e neppure democratico. Io sono stato comunista, proprio comunista. Questo era il mio orizzonte politico, la sinistra era qualche cosa della borghesia come il pacifismo e l’ecologismo, il femminismo, Scalfari, Repubblica e il Manifesto, io mi volevo fedele alla Classe Operaia, con la maiuscola, che si sarebbe presto estinta, che stava estinguendosi per la deindustrializzazione mentre i vecchi operai morivano a centinaia di cancro e di asbestosi in un olocausto su cui nessuno mai, e meno ancora la gente di sinistra versará una lacrima.


Comunque sia lasciai la militanza. Al ritorno dalla Cina. E posi il timone su di una rotta religiosa: la rotta buddista. Durante venti lunghi anni ho passato ore e ore al giorno per settimane e anche mesi nella posizione del loto e osservando lo scorrere dei miei pensieri, senza smettere di sentirmi cristiano e di cercare una sintesi concreta ed esistenziale tra buddismo e cristianesimo, cioè mettendomi in un vicolo cieco. Mentre stavo seduto davanti al mio muro il buddismo zen cominciava insensibilmente a decadere scivolando verso le forme New Age, la Terapia Gestalt, la Mindfulness e altre sciocchezze e io mi radicalizzai ancora di più in una pratica assidua ed esigente, soprattutto per me che soffro di dolori incessanti  alle articolazioni e di stanchezza cronica che sembra una scusa ma è una malattia invalidante che devo ai miei anni di militanza. 


Attraversai vari gruppi minuscoli e seri e integri ma invecchiati senza speranza per non aver potuto integrare persono più giovani alla loro pratica. Nel frattempo erano apparsi anche i telefonini e con i giovani non c’era più niente da fare, L’illusione dello Zen in Europa era uno stagno con molti batraci, che andava seccandosi fino a diventare una pozza e poi una pozzanghera. E cosí dovetti sciogliere la posizione del loto e alzarmi e guardare il mondo in cui non vi erano più comunisti (tranne pochi pagliacci), non vi erano più operai, si era rotta la trasmissione dei cicli di lotta, la memoria dei sacrifici e delle speranze di una classe e di tante persone che avevano dato la vita giorno per giorno per una speranza che non si realizzò. Era la coscienza definitiva di una sconfitta di un disastro umano e sociale devastante. Io con la gente che si diceva di sinistra a partire dal 2010 non trovavo e non trovo nessun punto in comune. Le lotte che ho vissuto nella mia adolescenza erano per la giustizia sociale, per la liberazione dall’orrore del lavoro salariato ed erano giunte a un passo dalla possibilità concreta di costruire un mondo senza sfruttamento, senza lavoro salariato. Io non avevo interesse alle lotte dei gay, del femminismo, del LGTB insomma.

Il mio cuore era anticapitalista e continua ad esserlo per il rifiuto di ció che questo modo di produzione fa all’uomo e alla natura: li trasforma in merce che genera profitto da investire per generare altra merce fino a ridurre la vita intera a merce, quella biologica e quella spirituale. Questo movimenti e ideologie che si dicono in continuità con le lotte della sinistra (in senso molto lato) mi parvero subito, adesso con assoluta certezza spinte da un desiderio profondo e soffocante di trasformare se stessi in merce, la propria identità in merce, la propria intimità in merce, di non riconoscere nessun altro contenuto nel mondo che la merce. La merce è cosa morta e divora la vita, vi è un’ansia di morte e di estinzione in questi gruppi, in queste ideologie che mi ripugna profondamente. Vi è una volontà di rottura con il passato, con le grandi opere del passato, con tutto quel mondo della cultura che ho sempre amato, ingenuamente, come abbacinato dallo splendore della bellezza, la solidarietà con i morti, la continuità con la civiltà classica con lo splendore della Grecia, con l’indomabile volontà di giustizia della Bibbia. Tagliano le radici con il passato e fanno seccare il futuro: “cancel culture” “wokeness”, etc. Svuotano la persona umana di qualsiasi possibilità di orientamento e di radicamento che non sia quella proposta dal mercato, dal potere. Le loro creazioni sono brutte la loro estetica propria di fesceninni romani, di suburra (la volgarità senza limiti dei gay pride), la tristezza del sesso trasformato in ossessione, in merce, del desiderio separato dalla cultura, dalla bellezza. Infine l’odio vero e proprio per la gente semplice, per i lavoratori manuali, per i popoli non europei, per la mia Russia  da tanto venerata, per le buone cose della vita, come imparare a cucinare dalla nonna, piantare un orto, accendere un fuoco. 

Io non ho niente a che fare con questa gente, io mi sento parte degli sconfitti del comunismo, della classe lavoratrice schiacciata ora da un’oppressione brutale che giunge fino allo sterminio della guerra come nella prima guerra mondiale. L’orrore della carneficina in Ucraina, il ritorno della guerra di sterminio nel cuore dell’Europa alla quale nessuna organizzazione femminista o gay ha tentato di opporsi, anzi. L’8 marzo era una buona occasione per il femminismo di dimostrare di essere una causa di tutta la umanità, come lo fu il movimento operaio, bastava che le manifestazioni femministe fossero contro la guerra, non lo hanno fatto, a loro non importa assolutamente nulla delle centinaia di giovani e di giovanissimi che ogni giorno muoiono in quelle terre. Adesso per lo meno per me è chiaro che il femminismo è una delle ideologie del capitalismo, dell’imperialismo, senza compassione per la gioventù povera che è triturata in una carneficina tragica nel bel mezzo dell’Europa negli stessi luoghi dove si celebrarono altri stermini di massa della povera gente, dei giovani maschi patriarcali e privilegiati per poter morire di fame, di freddo di fuoco e di dissenteria nelle steppe.

La mia gente operaia ha potuto conseguire (attraverso le lotte) una società nella quale una famiglia di lavoratori, con il solo salario del padre poteva comprare una macchina, un appartamento, fare studiare i figli all’università e avere una sanità gratuita e una scuola dell’obbligo di qualità, tutto questo è stato spietatamente smantellato da personaggi di sinistra come Prodi, Amato, Monti, Gentiloni, Letta Renzi etc. E tutti i capi sindacali a partire da Trentin che hanno cancellato le garanzie salariali e di continuità del posto di lavoro. Per me questo è stato un tradimento gigantesco, una rabbia e una delusione che non posso e non so processare. Adesso un giovane lavoratore non può comprasi nemmeno una lambretta nuova, se ancora esistono. Il tradimento della sinistra è incomprensibile, imperdonabile.


Allora ho cominciato a riflettere e a leggere e studiare, a cercare di capire che cosa diavolo era successo perché un capo della sinistra come D’Alema potesse vantarsi in pubblico per aver reso possibile l’orrendo massacro di Belgrado, quell’inferno di fuoco, sulle fabbriche, le scuole, gli ospedali, come è stato possibile che gli intellettuali di sinistra abbiano celebrato l’agonia della Siria, l’inferno causato in Libia dall’imperialismo più feroce.


Beh, insomma ho pensato tanto e sono giunto alla provvisoria conclusione che questo è stato possibile perché i movimenti rivoluzionari, cioè sorti dalla rivoluzione francese, condividono tutti la sfiducia più assoluta nella capacità della ragione umana di conoscere la verità (cosa in cui credevano i Greci), di stabilire principi, di avere fiducia nella realtà fenomenica ed un solido rapporto con l’essere degli enti. La ragione rivoluzionaria è una ragione utilitaria, calcolatrice, astratta, che prescinde dalla realtà umana concreta e dalla realtà naturale. Cosí si può credere a una sciocchezza come l’esistenza di diritti umani (il solo diritto è la forza e la sola umanità è rinunciare a usarla per amore per se stessi e per gli altri e questa rinuncia è l’essenza pura del cristianesimo) tutti i diritti di tutta l’umanità muoiono ogni volta che un giovane muore su uno degli schifosi campi di battaglia aperti nel mondo e non ci sono diritti, la sola speranza è nella rinuncia alla forza e questa speranza non può essere naturale ma solo soprannaturale.


Anche il comunismo appartiene a questa forma di nichilismo utilitarista e questo spiega il cinismo che ha finito per distruggerlo cominciando da Gramsci.

Credo che l’unico anticapitalismo possibile è un anticapitalismo realisticamente conservatore o tradizionalista. Ovvero rallentare la trasformazione inmerce di tutta la vita umana e naturale ad opra della tecnologia, del nichilismo e dell’individualismo. Questo è possibile solo restaurando la forma della sacralità. È una posizione disperata e snob. Io per me non vedo altra alternativa.


Con affetto 

Dreiser