mercoledì, ottobre 29, 2014

La vita è una favola di streghe

Ê bello perdere quando si avvicinano gli uomini
Bella è la rovina e la fine
Bella la morte piena di escrementi
Nell'azzurro cemento
Ove persi la vita.

*

Ah! Colomba trionfante
Che voli sugli escrementi
Invocando qual nome tremante
Che invocasse il dolce papavero del cemento
Alla cui luce si spegne questo concento.

*

Non sapendo se esisto
Non sapendo
Da solo non sapendo, circondato da fiori pallidi
Che abitano il cemento
E la colomba dorata che investo
Senza poter sapere se esisto.

*

Bello è l'uccello azzurro della rovina
Dove una regina guarda nelo specchio
E Biancaneve si domanda se esiste.

*

Immobile come la morte è il poema
E scivola l'uccello fonema
Come un rettile sul mio nome
Ah! Crudele uccello della rovina
Che dietro l'arbor vago la mano situa
Sapendo per le foglie che io esisto.

*

Oh dio padre della morte
Uccel di rovina
Fior del disastro
Albero che nasce in escremento
Escremento di vita e suo narcotico
Dove albero maestro
Brilla la bandiera della rovina
Bandiera di vecchiezza e di rovina.

*

Ah! Colomba che nasci sulla rovina
Che nella botte inciampi della rovina
Nella botte dell'odio e del fallimento
Dive come un uccello
Albeggia rovina.

*

Ah! Uccello dell'odio
Uccello senza becco della morte
Uccello che nasci, non dalla fronte di Zeus
Ma dal peggior mostro
Il disastro.

*

Viva la sconfitta, viva il brillare oscuro della rovina
Che assalti il lettore in vicoletti oscuri
Dove Ecate brilla all'incrocio dei sentieri
Ah! Circe traditrice che saccheggi Sicilia
Le strappi il nome per poi battezzarla
Con quello dell'uccelo e di rovina.

*

Della poesia solo restano le voci
Che nel letto oscuro insultano e sbeffeggiano
Questo vecchio pazzo che sono
Chje adora l'uccello di rovina
Ah! Tremito dell'albero sotto la grandine
Che colpisce la mia testa
Mi disfa il volto
Scrivendo nel poema
Il bianco seme del nulla.

*

La firma del disastro e della rovina
Che conduce i morti
Oscura epifania
Abbraccio del poema che abbraccia il nulla
Dell'inferno peggiore dell'orrore e del disastro.

*

Lieve è il vento del poema
Come gli uccelli lontani che Rudel cantava
Tutti leggono nella chioma di Pandora
Il torbido leone senza la criniera
Con se stesso nel periglio del nulla
Dove senza nessuno
Ancora galleggia una chioma

*

L'uccello della voce, ah l'uccello della voce
Che nell'inverno brandisci ancor la chioma
Scalpata da un Sioux a bordo pagina
Dove come un albero galleggiano i miei capelli
Porati via da vento di rovina.

*

Leopoldo Maria Panero
trad. genseki

Teopoesia

Ogni poesia (in modo molto diretto o molto indiretto cerca Dio, ... questa ricerca, peró contiene in sé il fallimento. Trovato (e perduto) ad ogni istante, scritto (e cancellato) ad ogni istante, il nome di Dio è contenuto nella poesia di ogni autentico poeta (...) ad ogni istante il poeta decifra il nome di Dio e ad ogni istante questo nome a lui si occulta.

Dámaso Alonso

Dopo l'amore

Con il tamburello delle mie ossa
Accompagnavo il ritmo del tuo cuore
Erano così stanchi i mei occhi
Di scorrere nell'alveo della vista!
La tua pelle abbandonata tra il basilico
Era quanto restava dell'abbraccio
La vecchiaia era giunta con l'ombra
del temporale
Mi sarei ridestato troppo tardi
All'ombra di me stesso.



martedì, ottobre 28, 2014

La senda bonita


Poesie di Arcónceli

Ad Arcónceli una foresta in orazione
Rosari in fiamme -
Ai calessi aggiogati Angeli Custodi
Mi trascinavano lassú
Fino alla fossa battesimale
Scuotevo le mie ossa
Come un impiccato le nacchere
Ero fresco come la notte
Come il fango del cimitero
Nudo e crivellato aspettavo
La sua radiazione
Il suo dono per me
Al tramonto latrati canini
Ricamavano la luna di delizia

*

Il balcone come una preghiera
Come il seno di una vestale
Si sporgeva sul mistero sacramentale del giardino
Sul boschetto degli stami
Sul prato di squame;
Respiravo col naso
Nelle mani stringevo il Rosario:
Il Terzo Mistero Doloroso?
La mia corona di spine
Erano le tue ossa
Le tue unghie i miei fagelli
Lividi
Mi ero lavato da tempo
Le mani con il vino
Col vomito della speranza
Trafitto da una squadrglia di scarabei
Mi sollevavo fino lla tua croce

*

Il mio cuore era pronto a fiorire
Ma tu tardavi ancora
Forse eri soltanto una favola infantile
Un vecchio leone addormentato
In una tenda beduina
Forse non accoglievi che guerrieri
Capaci di usare la disperazione
Come scudo, come ascia bipenne
Il mio cuore era un ramo di mele
Fiorito troppo tardi
Le tue api raccoglievano altrove il polline
Per il miele delle tue ferite

*

genseki

lunedì, ottobre 27, 2014

Cristo


El arbol encarnado en leño humano

L. Panero

Leopoldo Panero


Epitaffio

Ê morto
Crivellato dai baci dei suoi figli,
Assolto dagli occhi piú dolcemente celesti
E il cuore piú tranquillo che in altri giorni,
Il poeta Leopoldo Panero,
Che nacque nella cittá di Astorga
E maturó la vita nel silenzio di una quercia.
Molto amó,
Bevve molto e ora,
Gli occhi bendati,
Attende la resurrezione della carne
Qui, sotto la pietra.

Leopoldo Panero (1909 – 1962)
Trad. genseki

Glossa per un epitaffio

Lettera al Padre

And Fish catcth regeneration
Samuel Butler: " Pescator di morti"

Solo tu de io, e irrimediabilmente
Uniti dalla morte torturati ancora da
Fantasmi che lasciamo per pigrizia
Che ci graffino il corpo e lottino per le spoglie
Del sudario, ma entrambi morti, e sicuri
Della nostra morte; lasciando che lo spettro prosegua in vano
Con il torbido affare dei dati: muto,
Il corpo, questo impostore nel ritratto, e tutti e due seguendo
Quest'altro gioco dell'anima che non risponde a nulla,
Che lotta con la sua ombra nello specchio – soli,
Caduti di fronte a lui vedendo
Dietro al cristallo la vita come pioggia, dietro il cristallo stupefatti
Dagli altri, da quelli Vous êtes combien che ci sopravvivono
E dicono che ci conoscono, e cichiamano
Con il nostro nome grottesco, ah! Il sordido il
Viscoso tempio dell'umano.
E tuttavia
Solo noi due, e uniti dal freddo
Che appena sfiora cappa brillante
Solo noi due in questa pausa
Eterna del tempo che non sa nulla non vuole, ma dura
Come la pietra, solo noi due, e ci amiamo
Sul letto della pausa, come si amano
I morti
“Amó”, dicesti, autorizzato dalla morte
Perché sapevi di te come terza persona
“Bevve”, dicesti, perché Dio stava (Pound dixit)
Nel tuo bicchiere di whisky
“Amó, bevve” dicesti, ma adesso aspetta
Aspetta? E infatti la resurrezione
Da un cristallo invalido ti avvisa
Che con armi la nostra morte fiorisce
Per te che solo
Sapevi della morte. Qui
Sotto o sopra?
Di questa pietra
Tu che dorasti la natura soprannaturale e il
Dolore soprannaturale degli edifici nudi
In quale prospettiva
  • Dimmi – accogliere la morte?
    Sul tavolo di anatomia
Tu che danzasti
Impazzito sulla piazza deserta
Incampando
Ferendoti le mani al trapezio del silenzio
In piedi contro le foglie morte che
Si attaccano al tuo corpo e contro l'edera che tappava
Ossessivamente la tua bocca gonfia di ubriaco,
Danzi, danzasti
Senza spazio, caduto, ma
Non voglio errare nella mitologia
Di questo nome del padre che manca a tutti noi
Perché forse siamo soltanto fratelli di un'invasione dell'impossibile
E i tuoi passi ripetono l'eco dei miei in un lungo
Corridoio dove
Retrocedo infaticabile, senza
Mai muovermi
Ah! i fratelli, i fratelli invisibili che fioriscono,
Nel Terrore! Ah! I fretelli, i fratelli che si difondono
Inutilmente della luc del mondo con le mani,
Che si proteggono dal mondo per Paura, e coltivano nell'ombra
Del loro orto nefasto la minaccia dell'eterno, nel
Mondo malvagio dei vivi Ah! I frateli,
E l'uccello,
L'uccello che vola sul mondo in fiamme, dicendo soltanto
Ai mortali che si agitano al di sotto, dicendo
Soltanto: ABISSO, ABISSO!
Abisso, si, tiepida tana
Del nostro amore di fratelli, padre
Ma tanto soli
Tanto soli! Fantasmi che rendono visibile l'edera
                                -Come ederamerlino come bimbatestatagliata come
Donnapipistrello la bambina che giá è albero -
Crescono foglie
Nella foro, e un fiorire ti strappa
Dalle labbra cannibali di nostra madre Morte, madre
Della nostra preghiera
Fioriscono i morti fioriscono
Uniti forse dal sudore gelato
Morto di molte teste affamate dei vivi
Ti aspettiamo uccello, uccello nato
Dalla testa che esplose al crepuscolo
Uccello disegnato nella pietra e pieno
Di quanta dolcezza è possibile, del suo sapore
Alieno che è piú della vita, della sua crudeltá
Che è piú della vita
Ira
Della pietra, ira che la realtá insulta,
Che bastona
Nella capanna pigra della menzogna con verbi
Che non sono, risplendono, ira
Suprema dei mondi!
(Ti aspettiamo
Sulla riva sottile di ció che cade, sul prato
Notturno che attraversano lenti
Gli elefanti
Percepite il freddo
La
Cospirazione delle alghe
Gelatina, squama mano
Che spunta dalla tomba
Mani che sorgono dalla terra come steli
Solchi arati dalla morte,
Teste di impiccati che fioriscono.
Di decapitati che diaolgano
Alla luce decrescente delle candele
Chi ci dará la rima
La musica, il suono che spezza la campana
Della asfissia, i cristallo opaco
Del possibile, la musica del bacio!
Di questo bacio, finale, padre, in cui spariscano
In un soffio le nostre ombre, per
Afferrati da questo metro impossibile e feroce, restiamo
A salvo dagli uomini per sempre,
Solo io e te, amata mia,
Qui, sotto questa pietra.

Leopoldo Maria Panero

Da: “Poemas del Manicomio de Mondragón”
Trad. genseki

venerdì, ottobre 24, 2014

Fragmentos de "El Desencanto" de Jaima Chávarri

Max Jacob


Francis Poulenc | Le Bal Masqué Chant Profane sur des poèmes de Max Jacob

Max Jacob

Poesie scelte
trad. genseki

Malvina

Eccone una che, spero, vi spaventi
La signorina Malvina non molla il suo ventaglio
Se lo tiene ben stretto
Fin da quando ella è morta.
I guanti grigio perla sono stellati d’oro
E come un cavatappi
In un valzer gitano
Viene a morir d’amore
Accanto alla tua soglia
Proprio vicino al sasso
Dove posi le canne.
Mettiamo che sia morta, diciamo,
Di diabete
Morta di quel profumo
Che aveva appeso al collo.
Oh che onesto animale sì casto e poco folle
Golosa senza gusto
Avea sangue pesante
Di docente di lettere di ruolo
Era con il cilindro che le facean la corte.
Ella avrebbe gradito le maniere degli ussari!..
Fantasma di Malvina che Iddio ti benedica!

***

La dama cieca

La Dama cieca dagli occhi sanguinanti sceglie le sue parole
E non parla a nessuno dei suoi mali.
Ha capelli muschiosi,
Gioielli in pietra rossa
La Dama grassa e cieca cui sanguinano gli occhi
Scrive cortesi lettere con margini e interlinea.
Le pieghe della felpa le costan molta cura
Ma si sforza di fare qualche cosa di più.
Non parla del cognato che qui non è stimato,
Perché beve e fa bere anche la Dama cieca
Che ride, allora ride con un sordo muggito.

***

Riparatore invalido di vecchi autoveicoli
Ahimè l’anacoreta è tornato al suo nido.
Sangue della mia barba, son vecchio per Parigi
L’angolo delle case m’entra nelle caviglie.
Il mio gilet a quadretti, si dice, ha un’aria etrusca,
Il cappello marrone, non s’adatta ai miei stracci.
Avviso, è un volantino che ho posto alla mia porta:
Questa vecchia baracca puzza di capra morta.

***

A una Santa nel giorno della sua festa

Santa, santa, quando m’opprime
La tentazion del peccato
Mostratemi ch’è un delitto
Solo averlo pensato.
E nel giorno beato
Tutto a voi dedicato
Il Signore pregate
Che da sconce passioni
Purifichi il mio cuore.
Di guerra sulla terra
Che non sia più questione
Goda la Francia intera
Di vostra protezione.
Pregate che comprendano
Gli uomini tutti quanti
Il potere del sangue del nostro Salvatore
E che sotto il suo giogo
Tutti pieghino lieti.
Poiché siam tutti figli
Di quell’Unico padre
Con una sola fede
Fratelli obbediremo
Al Dio di questa legge.
Sono il Diavolo e la sua banda
Lascia che ti risponda
Pecca a destra, pecca a manca
Girati come vuoi
Tu abiti nella mia stanza
Esser di Dio non puoi.

***

Conchiglie d’ali! O foglie morte
Labbra dischiuse d’insetti rossi,
Non sono foglie quelle alla soglia
Ma sono insetti color del mogano
Mi parleranno? S’involeranno?
O sopra i coppi vorran salire?
Piovve ripiovve intorno al presbiterio
Attendo e intendo passi di cavalieri.
Attendo e intendo gracidar ranocchie
Attendo intendo il sibilo dei rospi
Salimmo infine sulle foglie di zucca
Attendo e intendo gocciolare d’acque.

***

Marina a Roscof

fLa palma nana vieta lancia in resta
Al giorno chiaro di sfiorare i peri.
Chi dunque ha riso nella sera offesa?
Hanno cantato. Saranno gli ebanisti.
O vita! O morte! O terra di mistero
Che cosa celi che svelano le sere?
Di che tesori sei tu tesoriera?
O vita! O morte! Dove son le cisterne?
Hanno cantato! Intorno all’organino
Son le coriste di canto gregoriano
Che ogni sera in mezzo al campo d’orzo
Fondono l’anima col poema cristiano.
L’una col libro e l’altra col pedale.
Attendo! Intendo la pianta che mi parla.
Lo sguardo attendo dei fiori morituri.
Petalo! Attendo un occhio sulla perla
Che nessun’ombra potrà mai incupire.

***

Il cielo e il mare color della lavagna
Quando lo straccio vi cancella il gesso!
C’è un battelliere sulla riva opposta?
Verso il piccolo Hotel del promontorio.
Nera e profonda è l’acqua,
Alti e lisci gli scogli non offrono riparo,
La luce smorza l’abat-jour di nuvole
La terra ondeggia … che cosa succede
Nelle scodelle come marezzate?
Cosa s’aggira agli angoli deserti
“Comprendo ciò che dite quando siete silente”
Cupa una cappa! Una garitta verde
Presto la notte: sarà dura in mare.

***

Il Contadino

Sotto gli olmi più vecchi di mio padre
Sotto gli olmi più vecchi di mio nonno
Sotto gli olmi di Mont Frugy d’Odet.
Sotto i castagni delle rive d’Odet
Ove son nato oggi ho visto passare
Il contadinello ammalato.
No, non guardarmi come se andassi a morire
Tu sei me stesso, sempre ti ho conosciuto
Un bimbo, un bimbo del cielo o dell’inferno?
Sorridi
Ti riconoscerò dal tuo sorriso.

***

S’apre la porta! Parlano!
Non c’è nessuno! Io sento che c’è qualcuno.
Accendo la lampada e s’anima il muro;
I fiori di carta sanguinano dalle ali
Ogni animale sanguina dai petali.
Tutto s’anima e avanza fino al centro
Del tappeto dove è un cono il crepuscolo
Del caminetto: In quale stato mi troverà
Domani il mio domestico! A tentoni,
Nell’ombra trovano le mie dita l’angolo del letto,
O letto, mia salvezza se non mi porta via!
Nessuno troverà quell’uomo coricato
Al suo posto c’è una bestia
Una bestia viscosa.

***

La Guerra


I viali esterni, di notte, sono pieni di neve; i banditi sono soldati; mi attaccano con sagole e risate, mi spogliano: fuggo per ricadere in un altro isolato. E’ il cortile di una caserma, o quello di una locanda? Quante sciabole! I lancieri! Nevica! Mi pungono con una siringa: è veleno, per uccidermi. Un cranio di crespo velato mi morde un dito. Vaghi riflessi proiettano sulla neve la luce della mia morte.

***

Un cappello di paglia dall’Italia


Là dove Algeri è un presagio di Costantinopoli, le spalline d’oro non furono altro che rami d’acacia e viceversa. Vanno di moda grappoli d’uva di celluloide, le signore li appendono dappertutto a mo’ di gioielli. Un cavallo che mangiò gli orecchini d’una delle mie amanti è morto avvelenato, il carminio del suo muso e la fucsina del pampino si mescolarono in veleno mortale.

***

Il corno chiama come una campana
Come un colore nelle foreste.
Corno lontano d’albero a roccia.
Ora che parte la caccia al Liocorno
Esci con quelli che ti sono amici.
Sella e cavallo mostrano il sentiero
Sella e cavallo legati ad un albero.
Siedono a tavola fuor della magione
Mangiano gamberi con la maionese.
Vieni! All’appello dei tuoi cari amici.
Udivo grida venire dalla casa
Mi ritrovai seduto tra brillanti bottiglie
Quando mi accorsi che non conoscevo nessuno
E i lamenti di dolore provenienti dalla casa
Si mescolavano ai discorsi svagati, alle canzoni.
Lontano il gallo come scoppio di risa
L’angelo mio custode mi sussurrò all’orecchio:
- Sta in guardia! Troppo tardi che la terra tremava
Sotto di me, Signore Iddio soccorso!

***

Agonia

Mio Dio son tanto stanco di non aver speranza
Di rotolar la botte della mia decadenza
Senza giammai riuscire a rinunziare al mondo.
Porto Satana in me come un intermediario,
Il mio blasone intacco quando scuoto le briglie,
Rivolgo nella notte le mie visioni ai morti,
Con il cranio percoto le rocce dell’inferno
Le coltri del mio letto son di lana di ferro.
Sovente nel mio sonno la stessa isola elettrica
Marchia con il coltello i nomi patronimici
Sulla mia pelle. Membra, pacchi d’anguille
Che con un gaio ghigno i diavoli spidocchiano.

***

Viaggio

Strada di notte, notte della strada! Luna
Sul lago, lago nei tuoi occhi. Carrozza
Che rapisce il nostro viaggio di notte
Occhi di viaggio sono ora i tuoi occhi
Occhi di viaggio di convalescenti. Quando
Il postiglione cesserà di cantare
Soltanto allora ti dirò il mio pensiero
E’ una questione di geologia architettonica
Sull’infinito dei monti e di lor forme, C’era
Sulla coperta ad artigli una tazza di
Porcellana ove la luna formava un punto. Nel
Mezzo sole della carrozza – il postiglione
Canta – tu canta, o postiglione – credevo che la luna
Fosse la tazza, e la coperta ad artigli fosse
Le montagne, e che non fossimo più sulla
Terra. Non c’è più luna! O notte delle strade!
O strada delle notti: sono i tuoi occhi occhi di
Mare ed io non ti conosco. Così
Procedevamo con tutta la nostra indulgenza verso
Un paese che non è lontano e che non volevo
Conoscere e ove una certa angoscia
Mi mostra che mi conduce il postiglione
Cantando. Ora è il momento della paura!

***

Amore del prossimo

Qualcuno ha visto il rospo attraversar la strada?
Non è che un omettino: grande come una bambola.
Striscia sulle ginocchia: fors
forse per la vergogna.
Ma no, soffre di artrite e trascina una gamba,
Dove va zoppicando? Vien fuori dalla fogna,
Il povero pagliaccio.
Nessuno che abbia scorto il rospo per la strada.
Un tempo nessuno mi notava per strada,
Si beffano ora i fanciulli della mia stella gialla.
Com’è felice il rospo… Senza la stella gialla.

***


Non ritorneranno più

Quando ritorneranno i becchini alla fossa di Ofelia? Ofelia ancor non giace nella sua tomba immortale; sono i bechini che ci finiranno a un cenno del caval bianco. E il bianco destriero si reca tutti i giorni a brucare quei sassi. E’ il cavallo bianco della locanda del cavallo bianco, proprio davanti alla tomba. La tomba è una finestra che s’apre sul mistero.

***

Jabès su Max Jacob

Penso che scrivere sia anche scrivere in modo piatto. Credo che nonè necessario cercare di allontanare la trivialitá da un testo a qualunque prezzo. La trivialitá è un mezzo. Partendo da essa, possiamo andare piú a fondo. Altrimenti come facciamo a sapere che stiamo apporfondendo? La trivialitá è la superficie, una superficie che dobbiamo esplorare, per poi frantumarla.
Max Jacob mi rese molto sensibile a questo tipo di problemi. Quando gli lasciavo i miei testi a volte mi diceva – troppo coinciso – altre volte – troppo diluito -, o – troppo lirico -. - Legga i classici per il pudore -, mi scriveva, o – troppo laconico – legga Chateaubriand per la frase -solo molto piú tardi compresi che scrive voleva dire essere allo stesso tempo coinciso e profuso e anche scrivere a volte in modo piatto: la piattezza serve da supporto all'imagine, al pensiero e fa sí che risaltino.

**

Max Jacob detestava il caos. Soleva dire che la forma di una poesia debe essere perfetta proprio come un uovo e che sebbene all'interno del testo debe essere vigente una libertá totale, il testo stesso debe trovare imperativamente la struttura che gli è propria. “Quando un cantante ha una voce ben rodata, puó divertirsi facendo gorgheggi” Scrisse nel 1916 nella prefazione del “Cornet à dés”.

**

Il fatto che i surrealisti non abbiano mai riconosciuto Max Jacob come uno dei loro predecessori si debe alla sua conversione al cattolicesimo e anche al fatto, che a differenza di oro, egli non si sentí mai un discendente di Rimbaud e Lautréamont.

Frammenti da: Du désert au Livre intervista di E. Jabès con Marcel Cohen

Trad. genseki

mercoledì, ottobre 22, 2014

Poesie di Arconceli

Arconceli

Dirotta lavava la pioggia
L'albero sciupato dei ricordi
Betulla o vertiginoso ontano
Da radici di fango
Fino alla diaspora delle serpi
Mi lasciavo ascoltare
Come un sacco di pelle
Il lamento delle sue stigmate
Solo i diamanti ormai
Potevano bruciare il cielo
Ad Arconceli mi dissanguavo sul muschio
Ogni goccia di sangue partoriva un paradiso

*

Nella foresta dei suoni sfinito
Mi svuotavo degli ultima attimi
Di senso
Allora sí che brillavano le sillabe
Come brillavano!
Altre libertá si forgiavano in Arconceli
Necessarie come le fragole
Alla perfezione della quercia
Fragorosa la danza del faggio
La danzavano i fantasmi
Dei conigli dei rabbini
Degli ultimi daini lebbrosi.

*

Il sipario della nebbia si alternava
Era un sottobosco di bottiglie vuote
L'ebrezza si sfregava
Alle cortecce piú rugose
Fu quando ci congedammo dalla nostra pelle
Tutte le poesie erano morte
Come le squame iridate dell'autunno.

genseki

Palinsesto

"Er resplan la flor enversa"
Lo disse Raimbaut d'Aurenga
Convertendo stracci in fischi
E fischiando al diavolo: "Tiger burning in the night"
Qual mano immortale, quale occhio
Poté creare la tua spaventosa simmetria
Lo disse Blake mentre i suoi piedi ardevano
Nel fuoco segreto del nulla dove abitano
Pulci e insetti piú viscosi della vita,
O tigre, tigre che ardendo con forza
Ci riscatti dalla vita.

*

Palinsesto II

O donna che s'oblía
Amor de loing
Lanquan li jorn son lonc en mai
O corpo senza vita del poema
Quando son lunghi i giorno di maggio
Perché non vi é altro coraggio
Che quello di scrivere di fronte al nulla

*

Oh! concerto di tenebre
Quando gli azels cantano sulla tomba
Del poema
Cuore del silenzio
Cuore del nulla
E scrivere il poema
È come sorridere su una vergine morta
Laddove non piango
E il poema è come una vergine morta
Come il silenzio della schiuma,
Come la bava del poema
Davanti a una vergine morta.

Leopoldo Maria Panero
Trad genseki

lunedì, ottobre 20, 2014

Prisionero de si mismo

"Voy a intentar narrar cómo pensaba que me podría relacionar en la cárcel. Empezaré por cómo me imaginaba yo que era una población de delincuentes. No había tenido nunca ni a ningún nivel, ni tan sólo una hora o un minuto, ningún contacto con la cárcel.
Como bien se sabe, desde que la Policía Judicial le da a uno la bienvenida, el trato es a base de golpes. Además, son tales las técnicas de opresión en los países tercermundistas y subdesarrollados que uno acaba por firmar cualquier acto que no cometió.
A partir de ahí, uno se va volviendo o no paranoico porque no se trata de paranoia sino de realidad. ¿Quién no tiene núcleos internos de contenido paranoico sin tocar?. Yo creo que todo el mundo, y aquella realidad los potencia aún más. Entonces, cuando uno cae en manos de ellos, empieza el caos. Un caos en el cual la amenaza constante y presente es la de la muerte.
Por lo que uno oye, ve, por lo que te hacen, por tus compañeros y la gente que está ahí no se trata de muerte psicológica sino de muerte real, de la muerte en vida. Después de pasar por las dependencias judiciales la llegada al Penal es fácil. Cuando supe que me tocaba una cárcel de 1.300 personas, me figuraba, deducía, (no por necesidad de investigar sino de saber) que la estructura de un delincuente es la de una persona rebelde, fóbica al miedo y por lo tanto enmascarada de violencia y agresión como mero mecanismo de subsistencía.
En un ambiente como aquel no ser violento propiciaría que me sometieran no porque me falte capacidad para ser agresivo y violento sino porque no me convencía aquello de pagar con la misma moneda. Era gente de un nivel cultural muy bajo, sin ningún conocimiento personal, con esa costumbre tan propia de los penales de querer dirigir a los demás, de vivir a través del otro dándole seguridad, protegiéndole.
Dentro de la cárcel, dentro de los dormitorios, existe un inframundo independiente de los vigilantes y de la dirección. Aquellas normas y valores de los delincuentes estriban en el reconocimiento del que más robó, asesinó o violó. Al peor de todos se le considera el jefe mayor.
Yo, al no tener ninguna de esas conductas delictivas de la cual presumir delante de ellos, sino todo al contrario, fantaseaba que el orden, el silencio y el hablar bien podía ser una provocación.
Me angustiaba el cómo dar el primer paso, no esperar a que se acercaran sino ir yo hacia ellos. No sabía quiénes eran mis compañeros de celda. El robo es algo corriente en la cárcel. Por mi propia patología, soy exagerado en todo. La austeridad no es mi fuerte, y me imaginaba que esto podría representar una mayor provocación. Lo que sí tenía claro era que no respondería a ninguna agresión. Así podría dar pie a que no siguieran manteniendo el mismo tipo de diálogo. Mi edificio agraciada o desgraciadamente era el peor, el más ruinoso, violento y con mayor nivel de drogadicción. Tuve la suerte o la desgracia de caer allí.
Había otra alternativa que nunca quise coger: consistía en acercarme a la dirección para que me dieran la oportunidad de trabajar en algo. En estosmomentos, me sentía muy mal internamente por la pérdida de la libertad.
El medio ambiente era muy agresivo, muy hostil.
Los compañeros de edificio son invasivos, intentan tomarle el pelo a uno. No se quieren sentir menos que uno, y entoncestodo nuevo tiene que pasar por la novatada, y la novatada es explotarlo a uno. Lo primero que hice no conscientemente, por lo menos no creo que lo haya tenido calculado fue no perder el centro de atención sobre mí, mantenerme lo más posible alerta; no como vigía paranoide sino atento a mis respuestas, a mis palabras,al contenido de mis palabras, atento a mi respiración, atento, atento a mí.
Al estar tan ocupado en aquello, no me daba tiempo de ver el exterior, ponerme a analizar, a cuestionar a los demás. Me era más productivo estar conmigo, más sano que buscar disculpas fuera: las había y en abundancia si las quería encontrar, porque en un ambiente como éste existen todos los factores de provocación. Opté por no perder mi centro de gravedad, y cuando digo gravedad me refiero al presente, al estar consciente. Un estar consciente de la cárcel, de no ponerme la etiqueta de superioridad económica, intelectual o psicológica, sino de ser sencillamente uno más.
Era posible e imposible serlo porque no teníamos nada en común. Lo único que compartíamos era la pérdida de la libertad. Yo asumía el por qué estaba aquí y veía que en el fondo ninguno de ellos aceptaba
la cárcel en el sentido en que no se responsabilizaban de los actos que provocaron el ingreso en ella. Veía en las manifestaciones de destrucción de la institución, la misma rebeldía, y en el reclamo y en la demanda la
no-aceptación de haber delinquido.
Mi situación era ir limpiándome lenta y claramente porque directa o indirectamente yo había optado por estar aquí. Podría disculpar la forma y la situación en que ocurrió pero era muy consciente de haber decidido estar aquí.
Eso me tranquilizaba, me daba la posibilidad de no estar en el exterior, de no perder el tiempo en el reclamo. Por tantas cosas qué digo, por la agresión a través de la violencia, me era difícil relacionarme con mis compañeros y también con el área de vigilancia.
Me parece evidente que cualquier trabajador se identifique consciente o inconscientemente con el lugar en el que trabaja. Lo que intento decir,es que los custodios (las personas que trabajan en un penal) tienen una
maldad reactiva convertida en bondad, y que tienen los mismos pensamientos y la misma reacción puesta del lado de la pseudo-bondad.
Me costó aceptar que la autoridad nada tenía que ver con losconocimientos intelectuales, económicos o de crecimiento personal. El aceptar la autoridad por la autoridad no era congruente con mi situación pseudo- evolucionada, y que un patán, un ignorante, alguien grosero,violento e inhumano pudiera ejercerla fue todo un trabajo para mí, me confronté con que yo no podía hacer otra cosa que integrar lo que sentía y lo que pensaba. Me descubría constantemente escabulléndome en interpretaciones y justificaciones de lo que me rodeaba. De no haber proseguido con la auto-observación constante, hubiera caído en las tentaciones que se me presentaban y esto es una jungla de tentaciones. Se trataba ante todo de no ponerme en la actitud de desvalorizar a los demás,descalificarles por ignorantes.
Lo primero que hice en este edificio (que ya comenté que era el peor, por rebeldes, por antisociales, por agresivos, por fármaco dependientes, por reincidentes, con una población nada uniforme sino muy diferente en delitos y personalidades), lo primero que hice fue localizar a los líderes, saber quiénes eran los que gritaban más fuerte, los que de una manera u otra llevaban la batuta. No era premeditado, sino que iba percibiendo mis intenciones sobre la marcha. No me costó localizarles ni comunicarme con ellos. Ya sabían porqué yo estaba aquí, ya tenían la información de mi caso por periódicos de mucho escándalo y me creían un pez muy gordo.
Fui acusado de narcosatánico. Me parece que ellos no me la creyeron y pensaron que era parte de una estrategia montada por mí.
Durante mucho tiempo, insistieron en que les contara qué hacía yo con los cadáveres y las magias negras. Cuando les dije la verdad hubo encuentro. Hablé por separado con cada uno de ellos. Siempre he creído que la palabra va a la mente, y que la gente pregunta desde la cabeza y ese preguntar es pura satisfacción narcisista, egocéntrica. Yo intentaba llegarles al corazón, que mis respuestas tuvieran la capacidad suficiente
como para llegar a la esencia de ellos: al corazón.
Contestar con la verdad y que ellos tuvieran el derecho de creerme o no, pues es difícil en el imperio de la mentira que me la creyeran a mí a la primera; Yo sabía que esto lleva tiempo, pero sucede que merecer la confianza es toda una labor: se gana con la actitud, no a través del convencimiento intelectual, que confíen en mí me llevaría mucho tiempo.
Por mi propia seguridad tenía que actuar de inmediato. Estaba atento a no intentar dar un doble mensaje y no despertar fantasías. Era muy consciente de que lo que sembrara se me iba a rebotar. Al saber ellos que
yo era terapeuta me vieron como alguien en quien confiar. Empezaron a hacerme preguntas, a preguntarme sobre su familia, ellos creían que yo era abogado), a consultarme como médico hasta que (y eso me costó mucho trabajo) les logré aclarar que mi trabajo era ser terapeuta: es decirestar en el lugar más adecuado, en el imperio del sufrimiento. Les decía que yo estaba en el lugar idóneo, en el campo más fértil para trabajar. Les solía leer y contar historias a menudo. Les acostumbraba a que se escucharan hablar, a que se dieran cuenta de cómo se traicionaban y se delataban a sí mismos, cómo eran ellos mismos cómplices o traidores en la relación con la policía tanto como con sus compañeros de banda o de cárcel. Les invitaba a que despertaran a que abrieran los ojos, a que vieran qué mal se engañaban a sí mismos.
Me gané su confianza siendo uno de ellos pero sin victimizarme. No quitarme el saco sino dejármelo bien puesto, cosa que les desconcertaba porque veían que yo no negaba mi posición de delincuente.
Ese desconcierto en lugar de provocar en ellos inseguridad e incertidumbre hizo que yo fuera bien recibido. No tenían porqué desconfiar de mí. No tenía ni la conducta ni las características de un delincuente y eso les hacía confiar. Poco a poco, al relacionarme con ellos, iban reflexionando sobre el por qué de su estancia en la cárcel, ¿por qué repetían tanto? ¿por qué provocaban tanto a los custodios y a las áreas? ¿por qué buscaban inconscientemente todas las disculpas posibles para poder seguir siendo retenidos o para seguir siendo castigados?
Hicieron un buen trabajo. Muchos lograban captar cómo se trampeaban a sí mismos en esta aparente lucha intelectual de que lo único que les importaba era su libertad, cuando eso era mentira, porque terminaban haciendo lo imposible un día antes de salir para quedarse.
Era como el síndrome del niño golpeado que termina identificándose con el objeto opresor. Lo cual era ya una perversión. Yo les explicaba que al identificarse con el opresor terminaban negándose a sí mismos.
Tenía que hacerlo con mucha sutileza y claridad para no ser malinterpretado, ya que esto iba aparentemente en contra de su manera de pensar. Les hacía notar que el trabajo es sano y saludable y que el lugar donde vivimos es donde estamos, no donde queremos estar; que es nuestra casa y nosotros la hacemos casa o cárcel. No se podía negar que esto fuera cárcel pero yo no creo que la pérdida de la libertad física sea el valor más grande sino que la cárcel estriba en el impedimento de la libertad de expresión.
La invasión de tanta violencia del exterior, la violencia tan gratuita de mis compañeros, tanta agresión, tanto descontento, tanto resentimiento, para mí eso sí que era cárcel y lo sigue siendo.
Transformar a 1.300 era toda una odisea. Lo único que quería era vivir un poquito más en paz, que pudieran escuchar un poco de música clásica(la que ellos escuchaban no hacía más que reforzar la misma angustia, ansiedad y violencia). Intentaba que a través de la música se pudiera descansar y estar en silencio. El silencio aquí es casi imposible por los mismos niveles de angustia en que se vive, pero se logró bastante.
Hay que cuidarse de esos 1.300. Si te golpean y subes a dirección, te consideran un traidor, entonces no sólo te castigan sino que te rechazan dentro de la población y pierdes su confianza. Hay una ley general abajo: que si eres robado tú tienes que recuperar esa prenda (incluso a golpes) pero no puedes apoyarte ni en los vigilantes ni en la dirección, porque has traicionado a la población, a las normas delincuenciales por decirlo de alguna manera. Es necesario andar con mucho cuidado, lograr establecer buena relación con los líderes, con los compañeros.
Otra cosa que yo necesitaba era mantenerme, no perder la libertad, no disolverme entre todos, no perder mi centro, mi yo, mis ideales, mis pensamientos. La regla de oro para mí era rogarle a Dios que no me volviese duro, que no perdiera la capacidad de sentir, de amar, aunque eran grandes las tentaciones. Yo no quería ser violento, duro, insensible, demandante.
Otra preocupación mía era que mis ojos no perdieran la capacidad de llorar y así lavar mi alma. El precio a pagar por negar el sufrimiento y el dolor era la muerte en vida, por eso no quería endurecerme, convertirme en una piedra, volverme insensible. Sentir que en la mente tenía un mantra (OM NAMA CHIBA YA) fue una gran ayuda, un gran apoyo. Prefería decir Om Nama Chibaya que sentir latigazos, devolver las agresiones o querer aplastar a alguien. Luego, por las tardes, reflexionaba sobre las muchas posibilidades que tiene uno de no hacerse responsable de su situación. Hay cosas que dependen de uno y otras que no, pero sí tenía conciencia de que yo tenía que responsabilizarme porque era el único que podía hacer algo ahí. Este era el lugar más adecuado para hacerme la cárcel más cárcel o hacerme un proceso de crecimiento. El lugar también más difícil para ver de qué tamaño soy, de qué tamaño era yo y cuáles eran mis límites y mis capacidades. Era una revisión general y tenía disculpas de sobra para justificarme pero no se volvería a repetir esa oportunidad para aprender. Darme cuenta de eso fue importante. De otra parte, querer ser uno más era pura pretensión. No tenía nada que ver con mi realidad interna.
Era algo falso, soberbio, pues al no sentirme uno más por mis conocimientos era precisamente como yo podía servir a los demás.Me hubiera podido quedar empachado de lo poco que sabía pero era más útil ayudar a los compañeros y así ayudarme también a mi mismo.
¿A qué conclusión quiero llegar con todo eso? ¿Tenía esta visión de las cosas cuando me internaron? Hay una sola respuesta: que ha sido la cantidad de años de tratamiento terapéutico personal. Vi la inversión, la generosidad de ese proceso, el regalo que ha sido para mí, aunque puede parecer un poco loco decir que los frutos de la terapia fueron la capacidad de estar en la cárcel.
Pero es cierto: gracias a mi proceso, a mis maestros, a mi maestro Claudio Naranjo era capaz de asimilar, de aceptar, de comprender que tenía que pasar por ahí, y hacerlo del modo más limpio y auténtico posible.
Gracias al proceso terapéutico, se generaba el encuentro entre el dolor y la aceptación. Por un lado, estaba inmune a tantas provocaciones que en ese momento no me tocaban, y por otro lado me sentía vulnerable ante tanto sufrimiento. La enfermedad es la incapacidad de aceptar el dolor, el dolor entre humanos. Aunque suena loco decirlo, es bello el trabajo que se puede hacer aquí, el trabajo que se tiene que hacer aquí, por eso cada día siento menos deseos de salir.
La vida es donde uno está y es cierto que para vivir cualquier lugar es bueno. Los obsesivos del movimiento solemos creer que la libertad física es la que nos otorga la capacidad de satisfacemos y de placer. Cuando uno se da cuenta de que eso es así sólo en apariencia, encuentra la paz, la tranquilidad consigo mismo. Con ese eterno ir, escapar de uno, cuesta trabajo dar con el lugar donde uno tiene que anclar. Por lo menos a mí me sucedió que era un descanso muy merecido abdicar, huir de mí, no oponerme.
El segundo paso fue también importante. Me impuse participar en las actividades del centro. Ir a la escuela me daba mucho gusto. Quería hacer todo el recorrido de la escuela. El grado mayor que hay es bachilleres.
Yo no tenía ganas de ir a bachilleres. Tenía ganas de ayudar a hacer un trabajo muy especial. Sentía que aún no era el momento de dar la cara. No me sentía todavía limpio y me apunté a primero de enseñanza primaria. Recordaba que la primera y única oportunidad que tuve de cursar primaria fue cuando era pequeño. En aquel entonces me sentía torpe, tonto, feo, bobo y aterrado por haber sido separado de mi madre. Ahora quería ir a la escuela seguro de mí mismo, sin terror, sin ser forzado. Quería aprender por
voluntad y deseo propio.
Tuve la gran suerte de conocer a esas maestras pedagogas que son a la vez sanas y naturales. Para mí fue un verdadero encuentro con los conocimientos. Me pareció de una gran permisividad el no ponerme trabas
para el aprendizaje. Quería aprender. Tenía ganas de saber. Veía las dificultades que tenía antes con las tablas de multiplicar y recuerdo también los tablazos de mi padre. Las tablas no eran responsables de la fobia que les tenía. Todas las reglas gramaticales iban entrando y colocándose con la facilidad y memorización extraordinarias. También los planetas y la biología. Era tal el hambre de aprender que parecía que se despertara después de cuarenta años. Ahora la libertad de aprender la veo como algo natural en el ser humano, y esa mujer fue el paso siguiente y necesario. Fue cuando empecé a escribir, a leer, a comprender muchísimas cosas. El orden, la autoridad no eran un orden infra-humano sino un orden cósmico, el orden de un sistema necesario para un buen vivir en este planeta, en este país, en la tierra.
Había que estar simplemente atento a no molestar. Era ese orden mismo el que proporcionaba ponerse a su disposición con una buena actitud hacia él para que las cosas sucedieran y sucedieran las buenas cosas.
Ese encuentro fue muy significativo en mi vida aquí, pues donde he sentido mi libertad ha sido en la cárcel. Después de que terminé el año saqué un diez.
Nunca había acudido con tanto gusto a una entrega de diplomas. Con alegría, dispuesto, iba a recibir lo que me había costado lograr por esfuerzo propio y ese esfuerzo era muy gratificante. Tiene su gloria el esfuerzo. El ir a la escuela era para mí ir con alegría. Después, iba a seguir el segundo año de primaria.
Debo decir que en esa clase éramos un grupo de cuarenta personas, un grupo brillantísimo, un verdadero grupo que hablaba mucho del ser humano.
Yo intervenía mucho ahí. Fue un grupo modelo, un grupo de mucha cosecha como individuos que éramos. Teníamos una disciplina, un orden, una limpieza, un buen nivel académico. La gran mayoría de los que asistían a primero de primaria iban con la misma carga con la cual uno va de pequeño.
La cárcel se volvía a repetir como la primera cárcel que tuvimos, que fue la escuela al principio. Era meternos en un lugar que no queríamos (y aquí cárcel en la cárcel). Resultaba duro que lo entendieran.
Con mis compañeros nos juntábamos para hacer las tareas y los dibujos. Era bonito por la actitud de ellos y también porque yo aprovechaba aquellos momentos de las tareas para el desarrollo de la convivencia, para estar juntos, para platicar, para convivir (¡tan difícil aquí!)
Algo se transformó dentro de mí y no fue intencionado. Como consecuencia casual fui invitado a trabajar al pabellón de los psicóticos, a dar un curso de verano. Éramos sólo dos personas para un grupo de 64 enfermos mal atendidos a nivel psiquiátrico, con irregularidad total en la toma de medicinas, pero en trato, cero en tratamiento psicológico, cero en movilidad. Se les trataba mal y mal era la organización. Era la vergüenza de las vergüenzas, con todo los daños que acarrean las enfermedades crónicas o mejor dicho que se hicieron crónicas por no haber sido bien atendidas.
Cabe mencionar que se trata de patologías y contenidos patológicos algo diferentes de los pacientes tradicionales del exterior.
Normalmente los terapeutas trabajamos con sueños, pensamientos y fantasías, mientras aquí, con psicóticos delincuentes, el tabú ha sido realmente trasgredido. Es presente. Se ha encarnado. Aquí la patología abarca como mínimo parricidas, matricidas y no es lo mismo soñar con asesinar a la madre, al hijo, al padre o al hermano que haberles matado de verdad.
¿Qué alternativas les podía ofrecer yo para que se volvieran cuerdos?¿Qué otro modo más grato tenía yo para brindarles después de sacarles de donde estaban? Lo que únicamente les proponía a cambio era la conciencia de lo que hicieron y un muro alrededor.
A mí me costaba trabajo comprender eso y aceptar que les iba a sacar de un mundo muy personal (bueno o malo) a tener conciencia de sus 30 ó 40 años de cárcel, lo cual no es muy agradable. Tampoco es compensatorio vivir en la conciencia de 40 años de prisión o muy posiblemente de una cadena perpetua, ya que a esas personas sólo les puede sacar la misma familia que ellos dañaron, y por eso muchos de ellos están en una situación no explícita pero sí implícita, de cadena perpetua, de morir aquí por el abandono de sus familiares. Entonces se ponía peor todavía el negocio de la terapia y el negocio de la salud; y la negociación era precisamente ofrecerles a ellos algo muy fuerte: que esto es la verdadera prisión, no ya la interna, sino que no había más que ofrecer. Yo estaba más o menos en las mismas que ellos, en el sentido de que no hay un lugar adecuado para ser persona, sino que uno es el que hace el lugar, el que lo convierte
en algo agradable o en el infierno.
Empecé a trabajar con ellos, unos 42 que iban desde psicóticos, lesionados cerebrales por inhalantes, personas con daños congénitos, esquizofrenias de todo tipo, lesiones neurológicas, toxicómanos crónicos ...Era mucho material humano y había mucho que hacer pero yo me sentía en pañales y con total ignorancia sobre la realidad tan pesada y fuerte que tenía enfrente.
Aquí se requería de alguien que no negara el miedo y tuviera experiencia en haber caminado por los pasillos del infierno personal, conocer la locura del otro por empatía con la propia. Haberla vivido y reconocerla sería la única posibilidad de contactar con ellos, de relacionarse con ellos, gente tan mal tratada. Tenían desconfianza de la desconfianza y yo miedo del miedo.
Recuerdo que duré más de quince días en la puerta, era lo único que hacía:me sentaba en la puerta e iba revisando todos mis prejuicios, mis cobardías y mis soberbias.
Cuando me aclaré de mis prejuicios, de mi miedo principalmente, fue cuando di el primer paso, intentando no invadir su casa, el terreno de ellos, por una pretensión personal de conocimientos. Era muy consciente de que el primer paso para tocar su tierra era verles como personas. El momento que les vi como tales fue cuando ví, di el paso y me metí en ellos. Después de un añoy ocho meses, hoy es reconocida como la primera comunidad terapeútica delincuencial y propuesta en todo México. Les será evidente a todos ustedes que no sé aplicar la terminología gestáltica adecuada, pero he preferido "estar atento" en el vivir cotidiano antes que en el buen uso de lo aca-endémico.

La Locura lo cura

Manifestazione terapeutico


Dall'era del fuoco
Al principio dell'umanitá
La razza umana
Ebbe una sola preoccupazione:
La consapevolezza.

Nel corso della sua esistenza
Ognuno di noi
È Gilgamesh-Enkiddu,
Abbiamo bisogno di entrambe queste forze
Per il processo di trasformazione.

Il malessere nasce dalla confusione,
La confusione dall'inganno,
L'inganno dal risentimento,
El risentimento del disamore.

Lungi dall'accettare che la solitudine sia una pausa
Per un'anima prigioniera
Dimentichiamo che la non identificazione
É la liberazione del nostro essere;
Negando la nostra necessitá originale
Ci concentriamo nella mancanza
cosí perpetuamo la nostra dipendenza
nella distrazione quotidiana;
Dimentichiamo il principio dell'eternitá;
Vivere il presente.

Ossessionati dal produrre la nostra insicurezza
Ci condanniamo alla speranza;
La fantasia ci mette davanti la nostra mediocritá

Nessuno appartiene a nessuno
Niente è di nessuno,
Nemmeno se stesso.

Vivere non ha bisogno di giustificazioni;;
Essere lungi da giudizi e pregiudizi,
Si trasforma in veritá.
Attraverso la trasparenza
Focalizziamo l'attenzione.

Bisogna morire con i cinque sensi ben desti,
Con una mente senza giudizi e una calda emozione
In cui l'azione è una cadenza
Che invita alla contemplazione,
E ci riconosciamo intensamente piccoli

Il potere sovrano non permette comparazione,
Il vuoto nutre l'io
Accompagnandolo sulle strade del processo.

La difficoltá non consiste nel risvegliarsi
Bensí nel permanere ben desti,
Ogni caduta è un ricordo della distrazione
Ogni errore è un oblío di se stessi.

La tolleranza è l'unico bálsamo per la caduta.

Siamo soltanto testimoni, vedette di un oceano che
Si perpetua nel suo ondeggiare,
La sicurezza consiste solo nel navigare
Dimenticando l'approdo a un porto sicuro,
Assumendo l'imprevedibile della vita.

Il marinaio si rafforza mantenendo la sua nave al riparo
Ben lungi dal pretender di restare nella bonaccia
Si fa piú forte al centro dell'uragano,
L'uragano ci approssima all'essenza.

Tutto è al suo posto,
Ognuno ha quello che gli tocca,
A nessuno manca nulla.

Il mistero della vita
È lasciare un punto aberrante
Che sempre ci ha disorientato.

Il tramonto di un sole
Inviterá la pienezza di una notte
Perché, a sua volta,
Il circolo si completi con l'alba,
Tutto è circolare,
Dove si comincia si finisce,
Dove si finisce si continua.

La ruota della fortuna è la vita,
L'intensitá sottovaluta la sottigliezza
La tenerezza riposa nella pace;
Solo nel silenzio ci manifestiamo
E permettiamo la presenza degli altri
La comunicazione è la egittimitá
Di due monologhi ininterrotti

Non dobbiamo afferrarci a nulla
Perché tutto è nostro;
La metamorfosi la si ottiene senza minimizzare
Nessuno stato anteriore;
Ogni parte è necessaria per completare il tutto.
L'incongrueza e l'ingiustizia
Allattano la accettazione

Ognuno di noi è un'epopea,
Il guerriero si investe
Manifestando la sua nuditá,
Ê giunto il momento di partire per la guerra santa,

Guillermo Borja (1995)
Trad genseki

martedì, ottobre 14, 2014

Il castello di carte

ê piú bello che il colore di questo guanto abbandonato nel mare
e nei solchi deserti non trovo piú nulla
ma piú lontano gli strumenti musicali si riuniscono
in un'alcova
in un carro quadrato
e l'amore comincia
con festoni ai quattro angoli
e battaglie senza fine
addio meraviglia addio non hai cuore
ma un pioppo mansueto
nella coperta della borsa
e non è senza dare l'allarme che la mia voce giunge alla tua cittá
la barca in cui si suicidano i fantasmi dopo una prolungata immersione nel cadmio delle consacrazioni
La barca nuda si presenta alla mia porta
e chiama con tutto il suo cielo nero
“pallida, dice lei, piú pallida della tua sposa”
e quei denti nel suono dello sguardo mi triturano
quei denti di catena e di incendio
incendio in cui le donne formano la catena
per impedire che nasca il nove di spade
e le donne in cittá sono piú povere di quanto sperassi
piú povere della della mia vendetta
e della mia furia
piú povere di un postino che solo possiede l'abbandono
su di una casa di otto piani
di un biglietto di andata e ritorno per la forca
è allìncrocio del cammino e della morta
dove si alza il pilone segnaletico degli innamorati
dove giungono tutti i mesi a raccogliere i rumori
dove si incontrano ma non si vedono mai
lo spaventapasseri del castello di carte
il manichino del silenzio
con armatura di stoppie
con la sua fiamma e la sua bandoliera
lo spaventapasseri dei secoli
all'uscita del soterraneo
non vi è labirinto che importi
tutte le ali e tutte le chiavi aprono le porte del castello di carte

Pierre Unik
trad. genseki

Edgard Varese - Ionisation

A Haute Flamme



A fuoco alto

Sono passati mille anni e non era che un giorno
Sonno prendilo per i piedi buttalo nella spazzatura
nel fieno della sua tenerezza raggomitolato pugnala la vita
che il cancarone sparso nella stalla sporchi il sangue carte su tavola niente
nelle tasche niente nelle mani niente niente piú niente
sono passati mille anni e era una notte sola
un pesce spaccato per la lunghezza tiepida e il sogno ci risucchia nelle sue viscere
aperte i claxons non hanno piú forza i camion si sono parcheggiati
agli orologi nessuna finta

mezzanotte passa il mondo passa
e io passo tutto passsa ammassiamoci coprifuoco nella folla densa lenta non vi è ness'unaltra via d'uscita fa freddo fa caldo e il sogno è una carta assorbente ancora un mucchio di ferraglia tra invincibili saluti dell'aurora tra gli stracci infamanti delle infanzie squisite del ricordo caldaie da bucato in testa materassi materassi sul tetto delle auto vi ho visto in Spagna e il dolore mi fa ancora fremere con tutta la ridicola potenza che l'uomo crede aver domato ne abbiamo viste molte altre e la paglia e l'asse la quaglia e il fucile delle poltrone Luigi XV a brandeburghi sul petto e delle casse gabbie bagagli tutto forbito colocato infangato macchie di sangue sulle lenzuola gli sguardi fustigati perduti nei ritornelli adulterini delle tracce di passi nel fango che sappiamo delle case abbandonate della morbida intimitá desbordante dalle viscere del pesce sventrato dal confuso ammasso dei pensieri stonacati dei maniaci muffe delle ripetizioni e degli stracci coltivati in giardini pensili di tutte le miserabili grandezze e del latte oscuro della passione la vita multiple degli umani naufragati che siamo mucchio di imbecilli abbandonati a la noncuranza dei solstizi tenera tenera è la notte
agli scampati della paura
il sonno immobile
la pietra al collo


mille anni sono trascorsi e era una sola notte
non sono re magi che sento sotto la finestra non sono buone notizie che sento abbuffare lo spazio non è la porcellana dei gorgheggi
tra i rami gioia aperta ai bambini
che odo nella mia miseria
sono nudo di speranza
annodata all'albero vertiginosa ramificazione di fronde aspetto la folgore e il lampo
mi offro all'ascia del taglialegna dall'alto in basso e con un solo coplo che spezza la vendetta della terra e si rianima la folgore nei pressi del mio sfinimento
son passati mille anni e solo era una notte e anche questa notte notte i re magi marciano a scaldare la gioia dei camini cantando trasformare la sabbia in erba dolce la pietra in sorgenti e le ortiche in cristallo nelle conchiglie c'è sempre il riso lontano soggiorno delle caravelle di briganti mille anni di riso in una sola conchiglia e mille conchiglie chiuuse nel cuore della mia ben amata dove sei testa di spiedo
in quali onde di velluto si è perso il sogno assurdo di nuovo le strade si sono alzate con il sole lentamente lentamente gli occhi sbattuti la nebbia in testa nel ventre quanti kilometri dalla Porta della Muta un mondo intero ci separa
è giorno a Parigi non ci sono piú venditori di vestiti Parigi è cieco e le discariche sono vuote i mercati coperti di tegole di silenzio la Flora tapezzata da rose del deserto notte nera non riconosco piú le strade del mio quartiere avanza dunque testa d'impagliato
a Parigi non ci sono piú patate fritte è scuro a mezzogiorno ecco l'artiglieria sbocca a in senso contrario è spenta e grigia come la nostra avanzata andate testa di porco
è il crepitare della mia giovinezza che sibila tra le mitragliette leggere anch'essa spente
specchio senza risorse,
Parigi Parigi mia cittá aperta ritorno indietro cittá aperta agli assassini vestiti a festa cittá proibita venduta insozzata tumefatta nella luce insradicabile della tua primitiva fierezza la Tour Saint-Jacques resta ove risuona il riso di Desnos e il riso ricade in mille petali di polvere sollevano sul selciato lo spavento degli usignoli sono e battelli lavatoio che vanno a la deriva è l'Ile de la Citá dove si imbrogliano le ali i canti sono costernati in pose eterne i gesti familiari ritrovati a quest'ora si dice che non la rivedremo mai piú
Rigaud gare Montparnasse Benvenuta stazione a te cosí vanno le cose all'immortalitá se credere in una buona partenza non fa male a nessuno i nostri sono partiti portandosi via il nostro cuore pezzo per pezzo e mattone dopo mattone si spoglia la cittá dei pianti
Crevel Passy Concorde strazi dementi fummo di questo mondo ove manate di mani nascevano sullo slancio amico delle libertá tenaci la Senna tra Via du Beaune e des Saints-Pères quante sbornie colarono nelle nostre vene e se en andarono ad ingrossare i debiti dell'aurora o Closerie questa notte o visto affondare tanti lillá nelle tombe aperte che la mia vista si confonde
quanto altri lo hanno conosciuto come Unik di Via Vaugirard l'Ile Saint-Louis Montmartre Auteuil Porte Saint-Denis era la guerra di Spagna al tempo della purezza e noi correvamo al centro incandescente di braci nessun orrore al mondo ci avrebbe fermato tanto i nostri cuori martellavano alla stessa cadenza la tragedia serena che ricopriva il sangue delle strade
Madrid pietra sigillata nel mio dolore antica cittá chiusa all'amore come il mio amore tradito Parigi mia cittá aperta torno indietro i sentieri battuti delle mie giovano estati ove sono le passeggiate e scoprendo Parigi la Ferme di Belleville o il libro d'ore pagina a pagina al tornante delle risa Paul ancora ti vedo tra il manifesto LU e quello di Bovril la Porte de la Villette che amavi come un indovinello la cittá si gargarizza di claxons d'autobus i rami dei metro fanno scaturire geysers le donne sono regine vanno come chiatte ignare della loro bellezza le loro teste sono altrove
en abbiamo contato i carichi impalpabili tesori che passano a filo d'acqua passaggi o passaggi pazienti impazienti passiamo sui nostri amori ci porterebbero troppo lontano le fiamme si sono spente ai quattro angoli del mondo e i miei amici sono morti proprio nel cuore di Parigi
non sono mica nato ieri
e le rime intorno alla vita il sole a bandoliera le dolci pozioni torttando alle mie tempie l'aria di festa che attraversa il petto la gaiezza carnale che si eleva
offerta in onore di questa luce


Tristan Tzara
da “ A Haute Flamme”
trad genseki

lunedì, ottobre 13, 2014

Tan Dun: Zheng Concerto [4/4]

A fuoco alto


Avevo centomila anni
ed eccomi gregge ed eccomi foglia morta de eccomi fresco alberello che scuote la chioma davanti a colui che io sono mentre passo in mezzso agli altri
il blu filava la lana o folle o mischie e io seguivo docile la stella strana stella verso quali tardivi re magi conduceva la speranza schiantata con la dura catena ai polsi delle strade stella di sventura luce cardinale ero io o non lo ero piú non sapevo che cosa dire tanto la tristezza conquistata alle parole semplici sbarrava il cammino della ragione che sfuggiva
mai estate piú splendida
mai bellezza accecante ci trovó piú stupidi di quanto fossimo allora sulla strada senza fine dicevano è bel tempo non credevamo ai nostri occhi e nemmeno ci pensavamo ed era inutile nei fiocchi di luce sprofondava la ragione in mulinelli sfavillanti della memoria che avremmo dovuto fare dei giochi amorosi nascosti nell'abbaglio muto della coorte
l'uccello agli anelli del suo canto infilava interminabili promesse di fidanzamento e nell'añpiezza di un popolo intero al centro delle meraviglie sonore e vive ero io solo coperto di solitudine
mentre camminavamo andavamo affanti di bellezza straziata nelle nostre mani ciascuno la sua solitudine fiore solitario invisibile candore che nasconde il rimpianto e la paura senza conoscere da sola la fatica dei nostri corpi invasi tratteneva il pensiero su questa terra maledetta
al diavolo le sofferenze e che si spiaccichi il cuore lunghe crepe al cuore dei muri impliciti sottile speranza sul filo di quei giorni perché la morte unanime non ci ha compresi nel gruppo designato alle maree della dimenticanza inghiottiteci onde assurde nel letto dell'oblio dolce dolcezza dell'oblio

Tristan Tzara
trad. genseki

lunedì, ottobre 06, 2014

La gerarchia di esclusione



La gerarchia di esclusione è una tassonomia sviluppata nella serie fantascientifica di Orson Sott Card “La saga di Ender”, per classificare gli esseri viventi:

Utlannings:

Forestieri del proprio mondo, come persone di un'altra nazione o di un'altra lingua o di un'altra cittá;

Främlings

Sono persone della stessa specie ma provenienti da un altro mondo: pianeta, sistema solare o galassia;

Ramen

Sono esseri viventi di un'altra specie con cui è possibile comunicare, convivere, raggiungere accordi;

Varelse

Sono esseri viventi con cui non è possibile la comunicazione, che non hanno punti in comune con l'umanitá, di essi non possiamo cogliere gli obiettivi e le motivazioni che li inducono ad agire in un modo piuttosto che in un altro.

L'inclusione in una o nell'altra categoria non dipende dalla natura dell'oggetto della classificazione ma da chi la produce. Cosí per esempio gli africani o gli aborigeni australiani sono stati classificati Varelse poi e a volte Utlannings.

genseki


Rosa Chacel

Rimprovero

A Sara e al suo gioiello

Dimmi, la perla, il frutto della tua mano, quando maturerá
Un cuore come il tuo, puro e duro, insensibile all'arsura!
Ben fermo , al tuo dito, come un ramo bianco, non ti pesa mai il suo peso?
Come puó conservare tanto a lungo il segreto del tuo io improrogato?
...
Leprotta bianca, non ti trovó forse tua madre in una perla?
Anch'io, pensaci, dove saremmo senza l'autunno dorato e la sua vendemmia?

L'anello d'oro, peró, conserva il frutto della tua mano, la tua banbina è chiusa
Nel suo guscio bianco, puro e duro.
Diró al sole che non sprechi i suoi raggi.

Da: "Otros Poemas"

trad. genseki

*

A Teresa

Appena ti conosco, ma in cambio
Conosco bene quel laboratorio
Dove, molti anni prima che nascessi
Si condensava la tua pura idea.

Perché anima e corpo hanno soltanto
Una bocca insaziabile in comune, gli occhi,
Per questo ben conosco le materie mischiate
Nella dolce pozione frutto della tua formula

So che furono gigli e l'Angelo Caduto,
E fogli grigi, appesi a una bacheca
Ove Platon parlava seguendo il carboncino
Dal petto di un atleta o da una fonte sacra.

So che nell'aule e negli spessi tomi
Le parole spogliate ci mostrano le viscere
E anello dopo anello, la magica catena,
Con cui amore, logica e numero le uniscono.

E tutto in primavera, nell'autunno, in inverno
In estate, tra i pini ove piangon le tortore
Sui sentieri ombreggiati da pioppi e da betulle:
Tutto questo sommato genera un bene: Teresa

Da "Otros poemas"

Trad. genseki

*

La colpa

Sera allo Zoo de La Plata

La colpa sorge all'occaso
Oscuritá la rischiara
Il tramonto le è aurora...

S'ode l'ombra che avanza da lontano
Quando sugli alberi il cielo è sereno
Come una pampa verde-azzurro, intatta
E il silenzio percorre i quieti labirinti di arrayanes

Giungerá il sonno: resta allerta l'insonnia
Prima che cada la cortina oscura,
Gridate almeno, uomini,
Come il pavone meccanico che gracchia il suo lamento

Straziato tra i rami dell'araucaria,
Gridate con multiple voci
Pigolate tra i rampicanti
Tra le edere e le rose
Nel glicine cercate rifugio
Con tordi e passeri
Perché avanza l'onda della notte
La sua assenza di luce,
L'ospite suo implacabile
Dai passi felpati, il pericolo ...

da: "Otros poemas"

trad. genseki

*


Are You Safe Now ? Tokiko Kato|今どこにいますか 加藤登紀子

giovedì, ottobre 02, 2014

Tan Dun: Zheng Concerto [3/4]

Origini



Ho conosciuto la tua fonte, o fiume:
Era acqua frizzante come l'uncinetto che rapido attraversa
L'indumento rigido della roccia. Sì, per davvero,
Fiume, ho conosciuto la tua fonte.

Con il palmo della mia mano ho toccato la tua frescura,
Il tuo indimenticabile splendore
l'erba novella era in attesa del tuo bacio.
Con il palmo della mia mano ho toccato la tua frescura

Rossa e nera era la forma eterna della roocia
scolpita dal vento, da cima a fondo
In estate roventi, inverni a lungo dimenticati.
Nera e rossa era la forma eterna della roccia.

Proprio cosí, non l'avrei mai lasciata la tua fonte
Mi ci sarei bagnata, piuttosto, battezzata , e illuminata
nella sua primordiale luce santa,
No, no, non l'avrei mai lasciata la tua fonte.

Nina Cassian
Trad genseki


mercoledì, ottobre 01, 2014

Tan Dun: Zheng Concerto [2/4]

Variazioni digitali su Alcyone di G D'annunzio

Ho regolato il segno lucido

lasciando la schiuma delle sue labbra:

nomo i vecchi e la recente

So che li compongono con arte bella.

I musicisti hanno modi umani

diversi dal dorico al frigio:

Melodia divina infinita

Creo nell'esiguo vestigio.

Indurimento d'onda trascrive

l'esecuzione sulla sabbia bagnata;

attraverso il mito fuggitivo

accordi e pause avvincendo.

O mia sabbia melodiosa,

vostro non è un granello di silice

Vorrei donare la pomice Ascosa

fonte dell'ìlice d'ombra.

Brilli innumerevole e immensa

Crescendo alla mia scrittura;

e l'acqua che bevete l'addensi,

l'induri sale sterile.

Il rilievo così sottile,

dedotto con arte in modo frugale,

che gli uomini infranga puerili

d'archi davanti al

 sopracciglio .

Di tanto in tanto impronta trisulca

le caratteristiche intercide;

peste umana, se vi opprimono,

impregnati di luce e sorrisi.

Figure di neumi son Elle

in questa concordia discorde.

Curva, O cetera io suono,

o un plettro il dito ti morde.

Spendo; e il grande Concento

taciturno dentro di me è soddisfatto,

dall'unghie del mio piede d'argento

alle vene nelle mie tempie.

Scerne l'orecchio con calma

i toni dell'onda che giunge,

Indago con chiara pupilla

più di ogni segno  lene;

genseki