martedì, aprile 12, 2011

Don Ciopo

Don Alàmo detto Ciopo

Tra i condiscepoli di Dreiser Cazzaniga negli anni spensierati del'infanzia studiosa del Barrio di Briggio uno merita distinta menzione vuoi per una speciale ossessione che negli sparsi frammenti memorialistici di Dreiser Cazzaniga egli pare aver nutrito nei suoi confronti, vuoi per la spettacolare carriera e il successo che sempre premiollo facendo di lui come l'opposto dialettico di Dreiser Cazzaniga.
Il piccolo Alàmo, fin dalla sua primissima infanzia aveva dato prova di una singolare certezza di vocazione: voleva essere presbitero, poi obispo e infine se possibile pontefice. Dreiser Cazzaniga come si sa era un ghibellino e nei suoi scritti le dignità ecclesiastiche son sempre, rigorosamente scritte con la minuscola. Così, essendo ancor picciol fantino occorreva che tutti si abituassero a chiamarlo Don Alàmo e non Alàmo, dapprima con una sorta di diverita tenerezza che sbocciava negli animi di chi vedeva questa ingenua creatura accarezzarsi le mani torcendole come un monsignore avezzo a tutte le sottigliezze della casuistica, sollevare con gesto sicuro e umile un pezzettino di cartone tagliato come un'ostia simulando la cerimonia della consacrazione, distribuire immagine di santi e sante in cambio di quelle dei calciatori:
San Gennaro, San Crispiniano, San Gamal e San Ghinaccio (protettore dei macellai del barrio di Briggio noto anche come San Guinaccio) in cambio di Sentimenti IV o Cuccureddu.
Quando gli altri monelli si dedicavano a percorrere i campi che tracciavano i margini del barrio armati di fionde rimediate, in bellicose bande dalle ginocchia spellate e dalle camicie sudice per rubare ciliege o bietole o per scontrari in battaglie la cui posta solo era l'onore con bande di altri Barrios egli li seguiva inalberando una gran croce di rami e biascicando pater e rosari. Il soprannome di Ciopo gli veniva da un avolo suo: il Cioppo che era l'unico confratello della un tempo venerabile confraternita dei battuti verdi. Dreiser Cazzaniga ricordave la grassissima sua figura trascinarsi dietro la processione del santo patrono dei bigliai di Briggio o del Corpus Domini inalberando fieramente un immenso stendardo verde in cui si vedeva distintamente il cane che fissava la piaga che si apriva rosa appena sopra il ginocchio del santo che a sua volta inalberava uno stendardo su cui era dipinto un agnello che era sormontato da un altro stendardo ancora, bianco questa volta e diviso in quattro parti ineguale da un croce rossa. Come avvenne poi che Don Alàmo ereditasse dal Cioppo il nomigliolo privato di una consonante Dreiser Cazzaniga non lo sapeva o se lo sapeva non lo volle scrivere da nessuna parte, quello che è certo che Don Alàmo era comunemente conosciuto nel barrio con il nomigliolo del nonno ma scempio.
L'adolescenza di Don Alàmo detto il Cioppo si rivelo' come il frutto ancora acerbo del fiore della clericatura che fu la sua infanzia, il Cioppo cresceva in sordida doppiezza e maldicenza, vischiosa irrequietezza e una tendenza a portare lo sguardo e l'interesse suo su tutto quanto eravi di torbido e morboso ascoso nel barrio di Briggio.
Soleva conquistare la fiducia di ingenui giovanotti briggiani, figli di forti bigliari adusi al vino rosso, al gelo sulle guance e alle sane scazzottate il sabato al ballo per insinuare nelle loro elementari coscienze il germe della corruzione che egli aveva poi cura di educare e una volta che la putrefazione morale era conclamata tradiva l'amico suo svergognandolo in pubblico con accesa veemente indignazione. Leggeva e copiava i diari segreti delle compagne di corso, frugava nella biancheria sporca dei compagni di campeggio, apriva lettere d'amore confidate alla sua discrezione, si ritorceva le mani, il suo sorriso era sempre stanco e dolce, lo sguardo obliquo, camminava a passettini, si esprimeva con sudiata melliflua lentezza, tra tutti coloro che lo circondavano più intimamente diffondeva con pazienza germi di discordia e sospetto.
Con queste capacità prosperò rapidamente nel Santo Collegium in cui si formavano i presbiteri di Briggio, non tanto grazie alla sua conocenza delle scritture o all'eleganza del suo latino ma alla pratica costante della delazione, di cui presto divenne un autentico cesallatore. Una volta ordinato con splendida pompa e gloriosa procesione per le vie del barrio decorate di fronde fragranti di castagno e casti mazzolini di fresche rose di campo Don Ciopo subito diresse i suoi passi verso il Soglio. Non ebbe nemmeno la molestia di passare qualche mese in una lontana parrocchia montana, o di coadiuvare un vecchio presbitero maniaco nei suoi doveri quotidiani allo scopo di provare la solidità della sua fede nell'ordine. No subito oltrepasso la porta e si installò nello splendore. La rapidità della sua ascesa fu causa di orgoglio immenso per i briggesi, anche per i più ghibellini fra di loro, e a tal segno crebbe l'entusiasmo che in Briggio si finì per credere come cosa certa che Monsignor Ciopo presto sarebbe salito al Soglio Supremo. Egli, intanto, percorreva con passo celere e sicuro la strada maestra della gloria: Monsignore, Obispo, Principe, Nunzio, Archimandrita, Nunzio nelle lontane contrade della noce moscata e della cannella da cui tornava al barrio per brevi visite alla madre. La madre non sembrava gradire particolarmente queste visite. Don Ciopo appariva nel barrio con immense limusine bianche e gialle, che profumavano di incenso e di limone. Solerti giovani previtarielli avvolti nei panneggi semplici di ampie tuniche bianchissime aprivano lo sportello, estraevano dal baule interminabili quantità di bagagli dalla fogge sovente peregrine, si inginocchiavano e segnavano benedicenti come in un balletto imparato a memoria. I loro occhi sottili erano impenentrabili, un sorriso impercettibile curvava le loro labbra strette strette, grige sulla pelle color rame del volto. Poi tutti scomparivano sotto la spessa vegetazione della Villa del defunto Monsignor Pistolotti, Vescovo libertino e pistolero, che nel secolo passato fu baluardo contra i ghibellini e gli averroisti con il suo schioppo e la sua verga e nella quale Don Ciopo soleva alloggiare in queste sue brevi visite al Barrio. I pii briggesi sussurravano di orge sacre sotto i grandi cipressi, di cerimonie blasfeme e ancor più profondamente andavano convincendosi della predestinazione che segnava la vita di Don Ciopo: egli sarebbe stato Pontifex!
Dreiser Cazzaniga lo disprezzava con furia rabbiosa, con cupa disperazione, avrebbe voluto sputargli sulla faccia, e quando lo incrociava per caso, Don Ciopo lo salutava torcendosi le mani; con uno sguardo dolce e umile andava interessandosi della sua salute, della sua famiglia e della sua carriera e Dreiser Cazzaniga rispondeva alla di lui paterna sollecitudine con lo sguardo basso, la voce flebile, come un seminarista sopreso dal prevosto con le mani sotto la tonaca e il suo cuore ribolliva come un bracere di mercurio. Monsignor Ciopo era una bestia perversa, un drago di iniquità, ma quello che Dreiser Cazzaniga non giunse mai a comprendere fu che la Iglesia lo innalzava per far capire come la sua santità non dipenda dalle persone che la compongono ma dai meriti del Sangue che il Suo Divino fondatore versò per tutti noi poveri peccatori.


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genseki

giovedì, marzo 31, 2011

Variazioni dell'albero

(L'albero e la mano)

Proprio dove si approssima il sangue non accorda
L'ardore degli occhi resta ormai nel paesaggio,
E non appena interpreta il suo corpo colpito,
Dell'albero nemico, la voce muove i rami.

Eccolo qua! Ritorna, il corpo ha venduto la scia
Il cane, non piú guardia, mansueto se ne fugge.
Quello che ci separa, amicizia, artifizio
Erra come una stella sul tavolo del magi

Albero galleggiamte, presago, marino
Rotola fino all'essere mio strano, ripetuto,
Come passi sfrattati duramente risuonano.

Albero disdegnato, la mia mano lo spinge;
E funereo s'infrange sulla roccia,
Mentre piange la mano di durezza intoccabile.

*
II

(Distruzione notturna dell'immagine arborea)

La caduta dell'albero lo distingue
Lento se ascende attrazione non cresce
Albero solo. dimorando inizia
A distrugger spazio; e bruciandosi, torna.

Negli occhi, ormai, l'icona ben tessuta,
Nel cui incendio ondeggiano le fronde
Ed occhi e pietre, aprono le foglie
Al tempo nuovo che in sangue mi crocchia.

Un albero restava, l'immagine, la notte
Immobil fiera, battuta e volontaria,
Fruga coll'unghie e col fiato distrugge.

La notte che all'albero si allaccia
Duramente lo spazio incorpora al fluire
Del fiume che scorrendo la distrugge.

*

III

(L'albero e il passaggio distrutto dalla notte)

Un immenso galoppo nel fondo della stiva
Sa giuungere e facendo la muraglia svanisce
Il rumore sinistro ed il sinistro volo
Dell'Icaro di seta grave petto caduto.

Come una barca l'albero conosce
Cadono foglie, penzolano mani
L'albero spoglio mormora
Pesano le domande sulle mani sfinite.

La notte galoppando trae oppio dalle alghe,
Circonda le cittá, le statue avvolge
All'uomo inumidito solleva le spalle

Dopo la notte bollono e la foglia e l'uccello
La cittá devastata muove avanti le torri
Ma non dimora l'albero presso il fiume ed il sogno.

*

IV

(L'artifizio allunga la notte)

Immagine ha creato, sull'albero ricade
Si concentra e distrugge il suo speccio vorace.
Impossibie il salto
Sulla neve della razza migrante

Processione, nastri nero di tamburi,
Che dal fondo dell'acqua fabbrica inalterabile,
E quando va avvolgendo il suo raggio distrutto
Come un figlio il tamburo, ecco che cinge il padre.

Nelle ceneri sue frusta si sdoppia
Il sogno si fa greve e serra le sue smorfie
Chi un albero riceve si armonizza durevole,

Per cadere in un petto giammai prima raccolto
Il fiume rintoccava come un cane impiccato
Ora conduce e macina, adesso contro il fuoco.

José Lezama Lima
trad. genseki

mercoledì, marzo 30, 2011

Rubén Darío

Il Servo di Darío

Goyito il figlio di Gregorio Blandón
Allevato dai Darío
Si presentó al poeta - ed entró al suo servizio
Quando ritornó dal suo ultimo viaggio.

Oggi coperto da un lenzuolo
In mezzo alla strada
Sua nipote lo piange.

La sera leggeva Rubén Darío.
Sapeva persino a memoria "Le ragioni del lupo".
Poi non gli rimase che il ricordo.
Una catarrata
Lo introdusse lentamente
Nella nebbiosa contrada della cecitá.
- Don Rubén era un principe,diceva
Non appena la febbre gli concedeva una pausa si vestiva
Limpido e impeccabile. E si sedeva
Nella sua poltrona di vimini con un libro in mano.

Lo ricordo vestito di lino di cotone e col panciotto.

Le scarpe brillavano

La cravatta azzura

I capelli che cominciavano a scarseggiare
A farsi bianchi.
- Goyo: porta via la spazzatura! - mi diceva
>Non sopportava la sporcizia.
Sembrava distratto
Ma non sfuggiva niente

Ai suoi occhi svegli e esigenti.


E Goyo ogni sera tornava
Ai suoi ricordi come a una Accademia
Puntuale, e i suoi gesti
Si facevano piú distinti.
Tutte le sere saliva
La scalinata di un palazzo.
Serviva Il principe.
Don Gregorio
Il paggio.

Ora sua nipote
Prega quelli che passano
Che la aiutino a comprare una bara.

- Aveva una voce dolce, ma

Quando entrava in collera

Tuonava. Don Rubén era allora

Chi lo avrebbe mai creduto! Volgare.

Donna Rosario diceva:
Un poeta

Cosí non puó parlare.


E don Gregorio il paggio
Assumeva un aria protettrice
Di fronte alla debolezza del Principe. -

Una volta litigó con Donna Chayo

Storie vecchie. Gelosie stagionate

A don Rubén brillavano gli occhi.
E lei

Gli ricordava

Che lui impegnó i suoi gioielli a Panamá.


Quel giorno

Don Rubén ebbe una ricaduta e molta febbre.


"
Un numero infinito di cose
- Dice Borges -
Muore in ogni agonia".

Con questo veccio servitore forse si spengono
Le ultime orecchie
Che conservarono la voce di Darío.

Seppellendo Goyo nella fossa comune
Seppelliamo il popolo
E con il popolo La voce del suo poeta.

Pablo Antonio Cuadra

Trad genseki

martedì, marzo 29, 2011

Clara Janes

Nasce una rosa nella brace, il suo splendore chiaro come rugiada si trasmette alle mie labbra. Sillabe destinate a spogliare l'anelo alla danza degli specchi.

Trad genseki

Equatoriale

In quel tempo si spalancavano le mie palpebre
Allora cominciai a cantare da lontananze sfrenate

Le bandiere sporgendo dai nidi
Tuonavano nel vento

UOMINI NELL'ERBA
IN CERCA DI FRONTIERE

Su un campo qualsiasi muore il mondo
Da teste premature
Germogliano ali ardenti
Nella trincea dell'Equatore
Dentro il tritume
All'ombra di aeroplani vivi
Cantavano nel chiarore vespertino i soldati.

Ad una ad una si spengono
Le cittá dell'Europa

Camminando verso l'esilio
L'ultimo re portava al collo
Una catena di lacrime opache

Le stelle cadenti
Erano lucciole nel muschio

I manifesti impiccati
Pendevano dai muri

Un'ombra scivoló giú dalla falda dei monti
Dove il vecchio organista dirige il coro della foresta

Il vento mescola gli orizzonti
Appesi a vele e gomene

Un uccello cantava
Sull'arcobaleno

Spalancate la montagna

Dovunque sul suolo
Ho visto ali di rondine

Il Cristo al decollo
Dimenticó la corona di spine
Guardiamo il nostro tempo
Seduti sul parallelo.

Vicente Huidobro
Ecuatorial

Trad. genseki

Un carillon

Dapprima, quello che volli, fu essere un carillon. Me ne avevano regalato uno e mi sembrava una cosa cosí meravigliosa che bastasse alzarne il coperchio per udire la musica, ma senza bisogno di fare domande a nessuno mi resi presto conto da sola che non avrei mai potuto essere un carillon.


*


Tutti sono soli, ognuno è solo. Non avró mai nemici e non crederó mai che qualcuno mi ami in modo speciale e non lo desidereró nemmeno mentre prima mi divorava un bisogno di essere amata, che mi volessero bene.


*


Andare verso l'altro senza gesto, senza offerta, solo dimorando nella veritá dell'essere qui, essere povera cosa...


*


Non pretendere che nulla ci copra di splendore, non mettersi in mostra agli occhi di nessuno, farsi notare solo il minimo indispensabile, senza darsi importanza; andare direttamente l cuore delle cose, trattare gli altri senza paura e senza vanitá.


* Sono cattolica perché nacqui cattolica. Io non rinnegheró.


Maria Zambrano


A modo de Autobiografia

trad genseki

D. Shostakovich - (1/5) String Quartet No. 15 in E-flat minor - I. Elegie

Ti braccavo

Ti braccavo


La fame che avevo dei tuoi movimenti

Era quella che lasciava tante tracce sulla neve

Ti braccavo e tu mi alimentavi

Con la sequenza armoniosa dei tuoi gesti

Con l'acqua di cui conoscevi le fontane

Ti braccavo e erano solo carezze

Dietro le spesse cortine rosse dove i pesci

Apparivano e sparivano come scintille

Da un fiume anteriore carsico nel tempo

Ti braccavo e tu scorrevi fluida

Con i tuoi piedi freschi tra le mie caviglie

Come anemoni che interrogano resti di neve

Ti braccavo e non la smetteva mai di piovere

Come una canzone scrosciava allora il mio desiderio

Di te e mi rendeva grigio nuvoloso

Ti braccavo e tu eri fumo di legna

Bruciata sulla neve odore di cenere spenta

Stanchezza nei miei occhi arrossati

Speranza nel rifugio di altre mani.


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genseki



Hegel


L'animale e la morte


L'inadeguatezza dell'animale all'universalità è la sua malattia originale ed è il germe innato della sua morte.


lunedì, marzo 28, 2011

César Vallejo

Trilce LXIII


Piovendo allegria. Pettinata


Quando la mattina chioma fina


Ben ormeggiata malinconia,


Nel mal asfaltato ossidente d'India arredato


Vira, appena s'adagia il destino




Cieli di puna senza senza entusiasmo


Per il grande l'amore, cieli di platino, torvi


D'impossibile




Rumina il gregge e vi si afferma


Il nitrito andino




Di me stesso mi sovvengo. Ma bastano


Le aste del vento, i timoni quieti fino


A farsi uno


E il gallo della noia e il gibboso gomito infrangibile.




Basta mattina di libere trecce


Di pece preziosa, montana


Quando esco e cerco le unidici


E son solo le dodicci a controra.




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Trilce LXIX




Che mai vuoi da noi, mare coi tuoi volumi


Docenti! Che inconsolabile, atroce


Resti in pieno sole febbrile,


Salti con le tue zappe,


Salti con le tue falci,


Potando, potando ritornano le onde, dopo


Aver scorticato i quattro venti


E tutti quanti i ricordi in piattelli labiati


Di tungsteno, contatti di canini,


E statiche elle chelonie




Filosofia di ali nere che vibrano


Al tremito spaventoso delle spalle del giorno




Il mare, un'opera in piedi


Nel suo unico foglio il recto


Sta di fronte al verso.



Trad. genseki


Tugsteno

César Vallejo

Tungsteno





Tungsteno è la sola opera narrativa di un certo respiro di César Vallejo. In italiano esiste una traduzione molto difficile da trovare uscita presso Savelli. Questa è un primo saggio di una traduzozione che spero possa essere integrale.
genseki

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César Vallejo










Il Tungsteno


I





Quando, finalmente, l'impresa nordamericana “Mining Society” fu padrona delle miniere di Tungsteno di Quivilca, nel Cuzco, la direzione di Nuova York decise di far cominciare immediatamente l'estrazione del minerale.


Una valanga di braccianti e impiegati uscì da Colca e dai luoghi di transito, dirigendosi verso le miniere. A questa valanga ne seguì un'altra e poi un'altra ancora, tutte contrattate per la colonizzazione e per i lavori in miniera. Il fatto che non si trovasse nei paraggi e nelle province vicine ai giacimenti, e neppure a quindici leghe di distanza, la mano d'opera necessaria, obbligava l'impresa a far venire da villaggi remoti e assettamenti rurali, gruppi numerosi di indios destinati al lavoro in miniera.




Il denaro cominciò a correre rapidamente e in abbondanza come mai si era visto a Colca, capitale della provincia in cui si trovavano le miniere. Le transazioni commerciali raggiungevano proporzioni inaudite. Da tutte le parti, nelle osterie e nei mercati, per strada e sulle piazze si osservavano persone che discutevano di acquisti e di affari. Molte proprietà urbano e rurali passavano di mano, e vi era un'animazione costante presso i notai e nei tribunali. I dollari della “Mining Society” avevano comunicato alla vita della provincia, prima tanto quieta, un movimento inabituale.





Tutti sembravano essere in viaggio. Persino il modo di camminare, prima lento e incurante si fece rapido e impaziente. Passavano gli uomini vestiti di cachi … pantaloni per cavalcare, con una voce che aveva anch'essa cambiato timbro, parlavano di dollari, documenti, assegni, marche da bollo, minute, cancellazioni, tonnellate, utensili. Le ragazze dei sobborghi uscivano per vederli passare, e un dolce brivido le scuoteva quando pensavano ai minerali lontani, il cui esotico fascino le attraeva irresistibilmente.





Sorridevano e arrossivano mentre chiedevano:


- Signore, va a Quivilca?


- Si. Domattina molto presto


- Che fortuna! Andate tutti ad arricchirvi in miniera!


Così cominciavano quegli amori che poi dovevano annidare sotto le volte oscure delle vetas favolose.




Con i primi gruppi di braccianti e minatori giunsero a Quivilca gli amministratori, i direttori e gli alti impiegati dell'impresa: Tra di loro vi erano in primo luogo i Signori Taik e Weiss direttore e vicedirettore della “Mining Society”; il cassiere della società, Javier Machuca; l'ingegnere Peruviano José Marino, che aveva ottenuto la concessione in esclusiva del bazar e del caporalato per la “Mining Society”, il comissario degli impianti Baldazari e l'agronomo leonida Benites, aiutante di Rubio, questi portava con sé la moglie e due bambini piccoli. Marino portava un nipotino che picchiava ogni tanto, tutti gli altri erano soli.





Il luogo dove si stabilirono era una falda desolata del versante orientale delle Ande, rivolto alla regione dei boschi. Quivi incontrarono come solo segno di vita umana una capannuccia di indigeni, i Soras. Questa circostanza che permetteva loro di servirsi degli indios come guide nella regione solitaria e sconociuta, unita al fatto che nella topografia del luogo fosse quello il punto centrale dell'azione della compagnia mineraria, fece si che le basi del villaggio minerario furono gettate proprio intorno alla capanna dei Soras.





Per poter stabilire un ritmo di vita e di lavoro normale in quelle pune si dovettero dispiegare grandi e rischiosi sforzi.





L'assenza di vie di comunicazione con i villaggi civilizzati con i quali quel sito era unito solo da un sentieri scoscesi costituì, all'inizio, una difficoltà quasi insuperabile.





Varie volte si dovette sospendere il lavoro per mancanza di utensili e non poche per fame e malattia della gente sottoposta ad un clima glaciale e implacabile.





I sora, presso i quali i minatori trovarono sempre conforto e una ingenua e allegra mansuetudine svolsero un ruolo la cui importanza crebbe tanto che in più di una occasione l'impresa sarebbe fallita senza il loro opportuno intervento. Quando finivano i viveri e non ne arrivavano altri da Colca, i sora cedevano il proprio grano, il bestiame, utensili e servizi personali, seza tariffa, senza stare a pensarci e sopratutto senza fatsi pagare. Si accontentavano di vivere in amicizia e disinteressata armonia con in minatori che i sora osservavano con una sorta di curiosità infentile mentre si davano un gran da fare giorno e notti in un viavai continuo di macchine misteriose e fantastiche. Da parte sua la “Mining Society” non ebbe bisogno del lavoro dei sora nelle miniere per via della mano d'opera che aveva fatto venire da Colca e lasciava tranquilli i sora, da questo punto di vista, fino, almeno, a quando le miniere avessero reclamato più lavoro e più uomini. Sarebbe mai giunto quel giorno? Al momento i sora continuavano a vivere senza essere coinvolti nel lavoro in miniera.


- Perché fai sempre così? - Chiese un sora ad un operaio che aveva il compito di ungere le gru.

- É per sollevare …
- E perché lo sollevi?
- Per lucidare la vena e liberare il metallo
- Che ci fai con il metallo?
- A te non piace avere dei soldi brutto selvaggio?

Il sora vide che l'operaio sorrideva e anche lui si mise a sorridere automaticamente. Lo seguì osservandolo tutto il santo giorno e moli altri giorni per vedere come finiva quella storia di ungere le gru. Un altro giorno, il sora tornó a chiedere all'operaio, sulle cui tempie scorreva il sudore:

- Ce l'hai già il denaro
- Che cos'è il denaro?

L'operaio rispose con fare paterno facendo risuonare le tasche della sua blusa:

- Questo è denaro. Vedi? È denaro. Lo senti?...




Disse l'operaio e tiró fuori alcuni nichelini. Il sora li vide come qualcuno che proprio non riesce a capire:


- Che ci fai con 'sto denaro?

- Ci compro quello che voglio. Va! Che sei una bella bestia!

E giù a ridere, l'operaio. Il sora se ne andò fischiettando e saltellando.

In un'altra circostanza, un altro sora, che contemplava apertamente e come stregato un operaio che martellava sull'incudine della Forgia, si mise a ridere con una allegria sana e burlona. Il fabbro disse:

- Di che ridi, cholito? Vuoi lavorare con me?
- Si. Voglio farlo anch'io.
- No. Non lo sai fare, dai! È difficile.

Ma il Sora si intestardì che voleva lavorare alla forgia. Alla fine lo accettarono e il Sora lavorò con i fabbri quattro giorni filati, e giunse ad aiutare davvero i meccanici. Il quinto giorno, a mezzogiorno, il Sora, di colpo, mise d parte le sue barre e se ne andò

- Ehi! - Gli dissero – Perché te ne vai? Continua a lavorare.
- No – disse il Sora – Non mi piace più
- Ma ti pagheranno. Ti pagheranno per il tuo lavoro. Dai continua a lavorare.

- No, non ne ho più voglia.


Trad. genseki

giovedì, marzo 17, 2011

Trilce

César Vallejo

Trilce
LXII

Tappeto
Quando entrerai nella stanza che tu sai
Entraci pure ma sta bene attento a chiudere il paravento
Che spesso si socchiude
Tira bene la catena ché nn possano voltarsi altre schiene

Corteccia
Quando esci di che torni presto
A chiamare il canale che ci separa
Solidamente legato a un lato della tua fortuna
Ti so irreparabile
E mi trascini accanto alla tua anima.

Tappeto
Solo dopo la nostra morte. Chissà!
Solo allora saremo separati
Ma se al cambiar passo, toccasse a me
La bandiera sconosciuta, ti aspetterò di là
Alla confluenza dell'alito e dell'osso
Come un tempo
Come un tempo al cantone degli sposi
Occidenti della terra.

Da li ti seguirò lungo
Altrimondi, e potranno persino
Servirti i miei no di muschio contratto,
Per posarci sopra le ginocchia
Nelle sette cadute di questa salita senza fine
Perché ti fcciano meno male.

César Vallejo
Trad genseki

La vergine

La Vergine che dipingemmo ascoltava
Le campane come mughetti
mescolava i rintocchi al latte
In un polline di fresca bianchezza
Le mosche ronzavano come rami
Nella festa dei fiori d'azoto
A sciami.

Giacinti e gabbiani

Volavano alte sai le ghirlande
Alte come la nostra conoscenza
Dei limiti, come gli spruzzi
Di non essere giacinti gabbiani
Sempre alle prese con la lama
Livida, con l'oscurità della soglia
Della memoria, con tutte le avventure
Della luna mentre tra la salvia
Correvano i roditori come palline di fumo
Coscienti dell'eternità di ogni trascorrere
Di quanto sia vischioso il divenire
E infinite le cause che ci ricamano
Su uno sfondo di pascoli e abeti
Seppia nella cartolina la tua scrittura
Inclinata e sottile mi diceva
Che la pietà non la conoscevi
Nemmeno per te ne avei ma avuta
Come eri alta allora sulla diagonale degli sfondi.

**

genseki

La tua voce

La tua voce

Non sapevo fino a quando la tua voce
Avrebbe costituito la mia pena
Chiudendomi nella sua coppa
Nel rintocco sferico del suo cristallo
Che la purpurea lingua del vino
Lampo luminoso spezza prossima all'udito
La tua voce condanna di silenzio
La tua voce vero corpo di cenere
Le ossa della tua voce triturate nella memoria
Stridono come flauti senza rame
Invano raccolgo gli accenti tra le viole
Sono gli occhi di Proserpina
Che rotolano sotto i funghi
Il tuo amaranto lo voglio seminare nel mio canto
Quando anche il mio inno sarà vento disfatto.

**

La fedeltà del prezzemolo
Impallidiva il prato
Quando la nebbia si stracciava in tante grida
Erano gli occhi crepe tra due cappe di vento
Così lunghe sembravano allora le tue dita
Che il loro pallore non poteva ricoprirle
Come cespi di luna sparsi tra la maggiorana
Benedetti brandelli i tuoi capelli.


genseki

Fede III

Schiller

Virtualmente trovo nella religione cristiana tutte le tendenze verso quanto vi èe di sublime e di più nobile; quanto alle differenti forme che essa assume nella vita quotidiana esse mi paiono repellenti e di cattivo gusto solo perché non sono altro che rappresentazioni inadeguate del sublime che vi è in essa.

Trad genseki

Fede II

Hans Urs von Balthasar

Fede

Fede è abbandono della propria intelligenza, abbandono che si può realizzare in modo radicale e duraturo solo se si compie per amore e per fedeltà. Fede è preferire la verità divina ad ogni verità propria, perché Dio è Dio. La fede è l'amore della conoscenza di Dio. Secondo San Tommaso l'amore è il pincipio di ogno merito e in ultima istanza anche di quello della fede, della sua oscurità, della rinuncia che in essa si manifesta e la carità è l'abbandono di ogni volere e di ogni esssere.

Trad genseki

Fede I

Ultimo desiderio

Di quella fede che da nulla sboccia
Dal nulla che la fede volge a spina
Illeso salto di magica bocca
Che con sangue ripaga chi cammina.

Se più rimbalza a noi soltanto tocca
Torre pietre alle sponde del destino,
L'epidermide magica che scocca
Nel corallo d'un arenil divino.

Nel mormorio dei pini siderali
Le nubi per l'inganno ben costrutto
Del corpo, fiore dell'antico spazio.

Alla città di stranezze materiali
Cristalli invia ancor prima del lutto
Non cessa di filar nubi con strazio.

Lezama Lima


**

Trad.genseki

Lezama Lima

Posso guardare

Posso guardare le tue mani preferite
e l'acanto delle tue tempie dorate
posso guardare l'uccello sepolto
dalle fredde ghirlande dell'autunno
Voglio guardare lamine di sabbia
con i fuochi precisi che le infestano
Sto guardando la tua domanda preferita.

Volano le ghirlande e altre sabbie rotolano
Meglio che nella domanda indifferente
- carrozza di mitili e delfini -
Che correva tra consigli d'oro,
Tiepida divenuta rinata
Iride così cocciuto
Da obbligarmi a segnalare i fiumi
Sulla mappa del tuo ricordo,
Freddo scompigliato dal vento.

Se s'approssima dormendo
Estesa e prolungata,
Tra lenzuola che gloria en avvolgono
Proclamandola teneramente
Astraendosi in bianco, prolungandosi
In celeste chiamata al tuo candore
Se mi desto inciampo
Nell'alone che il tuo respiro rende opaco
In quell'umidità novella
Che l'incantato tatto corrompe
E al fervor è carezza.

Se addormentato
La conchiglia recente mezzaluna
Freccia della domanda tua dormiente
Non amplia e non diverte
Pietra semimobile e foglie congedate
Verso il centro della tua città
Arresa e percossa
Dalla tua fuga, dalla mia fuga.

Resto a guardare la tua domanda preferita.

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Trad. genseki

Juan Larrea

Vestito di foglie morte

Sognami sognami vestito in fretta stella di terra
Coltivata dalle mie pupille prendimi
Per i miei manici d'ombra
Inebriami d'ali di marmo in fiamme stella stella
Tra le mie ceneri
Poter potere infine ritrovare nella mia
Vertigine la statua
Di un eroer di sole con i piedi a fior d'acqua
Gli occhi a fiore d'inverno
Addio al mondo tra i miei sogni d'addio
Gli uomini
Addio agli uomini e ai paesini delle
Loro mani
Ovunque vi sono spade che mi tagliano
A pezzetti
Oh
Cascate di spade
Cascate di spade èe l'ordine in marcia
Son io che cammino su caverne
Che scrichiolano come crani
Nessuno ancora si era annegato
Nessuno allora stava nell'ombra
Oggi sono io ma io non appartengo
A me stesso più di quanto gli uccelli
Che dormono nei miei occhi
Appartengono a loro.

Trad genseki

Mandorla

Dentro una mandorla si aprì
Questa danza di soli
E il concerto delle vele solo
Là dove più terso soffiava l'alito dell'alloro
Dentro una mandorla ti accolse il tempo
La pioggia di latte e ricino di marzo
Le ali straziate al ritmo del biancospino
Dentro una mandorla si aprì
Questa danza di soli e stelle
Di specchi e lune umida come il bacio
Della salvia
Sul punto di lasciar esplodere
Intera la notte dei suoi fiori
L'oscurità lilla dei suoi petali
Dentro una mandorla fosti latte e gemito
Avvolto in sette sudori
Come veli di ninfe miele ombelicale voli di vespe
Stirando con evidente piacere le dieci dita dei tuoi piedi.

genseki

Vicente Huidobro e Juan Larrea

Luigi Nono : No hay caminos, hay que caminar ... (1/3)

VIcente Huidobro

La poesia è un attentato celeste

Sono assente ma nel fondo di questa assenza
È me stesso che attendo
Il mio ritorno
Mi trovo in altri oggetti
Viaggiando spargo un po' della mia vita
La dono a certi alberi a certi sassi
Che mi hanno atteso per molti anni

Poi stanchi dell'attesa si sedettero

Ci sono e non ci sono
Nello stato dell'attesa sono assente e presente
Essi avevano bisogno delle mie parole per esprimersi
Io avevo bisogno delle loro parole per esprimerli
Ecco l'equivoco, l'equivoco atroce

Angoscioso lamentevole
Vado penetrando queste piante
Sto perdendo i vestiti
La mia carne cade a terra
Il mio scheletro lo ricopre la corteccia

Ecco che sto diventando un albero Quante volte mi sono
Covertito in qualche altra cosa
È un processo doloroso e pregno di dolcezza

Potrei gridare ma finirei per spaventare la transustanziazione
Bisogna tacere de aspettare in silenzio.

trad. genseki

Ho parlato

Ho parlato

Ho parlato fino a divenire danno e vento
Mano distesa
Finestra aperta sul bosco disfatto
Ho cambiato parole con perle
Ho cambiato la parola come un serpente la pelle
Ho covato la parola sotto la lingua
Come il testimone custodisce la prima pietra
Quella della condanna -

Ho parlato per levigare la parola
Fino a farla diventare così sottile
Da essere trasparente al silenzio
Ho parlato fino a che il suono delle mie parole
Fu come il fragore della sabbia
Nell'incendio

Ora ogni fiore è rintocco di campana
Ogni foglia un brivido
In silenzio ora ballo tra la cenere.

genseki

Vicente Huidobro

Vicente Huidobro

Incoronazione della morte

Moriva una colomba sotto i grandi alberi del mondo
Che amara è l'aria nei paesi che sfilano davanti a me
Le nuvole di congedano tra piccole lacrime in cerca
Di un appoggio celeste
Moriva la rosa tremante sul suo piedistallo. Quante leggende
Furono cantate su toni diversi alla sera
Il canto si diffondeva nelle stanze più oscure
Moriva la colomba-in-fiore e il figlio poneva il suo dolore in petto
Al mondo
Partiva nell'aria la colomba-in-fiore e un profondo silenzio cadeva
Sui sentieri
Voglio parlarvi degli occhi della morte. Dell'ultimo respiro
Dei modi di morire che differiscono come differiscono i modi di camminare
Figlio che vuoi fare del tuo dolore passeranno i mesi e gli anni verranno
Altre primavere
Il corteo dei soli e delle stelle con tanto spirito e voci ben scelte
Ho meso tutta l'anima in quest'ultimo sospiro, allora che sarà di me?
Terra senza alberi cuore senza erbe e senza colombe
Come puoi camminare tra le altrui speranze
Che voce solenne è sorta dalla mandorla che canta
Questo era mio che non conosco
Il mare si riempie di anime e le rose ascoltano e le sabbie
Non sanno che fare, che dire
Così si muore con una lieve brezza tra i denti un tremito
Nei petali un riflesso di rugiada extraumana nei
Capelli dolenti e rassegnati
Che voce solenne entra in questo albero di memoria
Fragile come il fumo, come le corde dell'arpa
Che pianto millenario di tribù nella notte e di età
Perdute avvolge i petti dei secoli
Che latrato di caciatori di fortune assassinati nei boschi oscuri
Che singhiozzo orrendo caduto di colpo sotto il letto.
Il sorriso era una cosa dell'alba
L'altra riva dell'amarezza. Il tempo dei semi
Porta scintille nelle sue spade una cappa di gloria sulle spalle
Il sorriso era cosa da magnolie, da bucato
Nel fiume tra la schiuma
Il sorriso era cosa da frutta e finestre aperte era cosa
Da colori sparati nel sole
Oh sospiro dei morti oh anima figlia di mille rose
Perché mi hai sfogliato mentre andavi sfogliandoti fior -di-colomba
Giunge eccolo il sospiro. Tutto è inutile oh vento dall'altra sponda
Ansioso di trovare il suo posto parte il sospiro
Con esso me en vo' spingendo le porte della morte.

Trad genseki

lunedì, febbraio 28, 2011

 
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Le rose dei tuoi petali

Per primi furono i colori a deformarsi
Ritirandosi nelle loro forme geometriche
Poi la neve che con lo sguardo obliquo
Fissava la fuga del branco sull' eisberg
Pericolosamente inclinato della speranza
La lingua penzoloni, tra le nuvole di vapore degli aliti
Cercava la soglia il branco
La soglia tra parola e voce
La tua voce fu la prima a scomparire
A ritirarsi come un cucciolo nella tana della memoria
Raggomitolata nel suo tiepido pudore
Nella sua speranza rassegnata
Anche la corsa del branco era soffice
Le zampe frusciavano sul velluto del ghiaccio
Anche le rose dei tuoi petali erano gelate
E le labbra che non mi baciarono mai
Poi fu lo sguardo ad occultarsi
Tra le pieghe della notte stellata
Restò allora il tuo passo
Il tuo passo che chiedeva tenerezza
I tuoi gesti che la rifiutavano
E le tue parole che divoravano i baci
E la corsa arruffata di tutto il branco
Nell'ansia della luna
Nell'attesa del serpente
La corsa verso il limite ove tutto stinge
per primi i colori poi le dita
E le forme con tutte le loro unghie
E i sorrisi riposti nel carillon
Con la collana di perle false
Con la collana di denti di latte
Nel velluto rosso che il tempo
Va trasformando in farina.

Poi spalancasti gli occhi senza voce
Non avevano più voce i tuoi occhi
La voce gli aveva abbandonati
Nello stupore di uno spasimo di luce

Come dire che amavo l'mpossibilità del tuo amore?
Più profonda di qualsiasi amore
Amavo l'impossibilità di amarti e di essere amato
E in questa negazione ho posto la mia fedeltà
e l'ho tradita teneramente di non poterla smarrire.

È una notte di luna e di ghiaccio
Questa notte di stupore di occhi spalancati
Di oceani come stelle fredde
La cerimonia della fiducia, quella del sogno
Non forniscono protezione in questi casi
Comunque non avresti potuto sopportarne lo sforzo
Dentro l'occhio sbarrato si smarrì la tua voce
Un bosco, una foresta di voli, la separava ormai
Dagli altri rintocchi
Avevi appena finito di ordinare le tue cose nell'armadio
Avevi predisposto tutto con limpida speranza
La morte non osavi sperarla
Non osavi chiedere il suo abbraccio.

*

Una tempesta di campane pesava sulle nostre tempie
Come una corona
Ma fu dei tuoi occhi l'ultimo rintocco

Smarrita la tua voce si guardava intorno
Tra il brusio di tutte quelle foglie
Mentre il dentro diventava il fuori
E tutte le fotografie si accartocciavano
Al fuoco al sangue

Ma questa volta era la parola a udire
La parola ad ascoltare le tue pupille.

Non furono le tue dita a sfiorarmi le tempie
Altrove scostandomi dalla fronte i rami del sicomoro

genseki

Juan Larrea

Dente per dente

Nel paese del riso la cenere precede il fuoco
La neve precede gli uccelli
Le lacrime i loro troni

Quello che all'inizio è speranza camminando si fa orma
Quello che accade lascia separati i colori
Ma soggetti a un qualche oscuro inganno

Per perdere la vita non vi èe che un motivo il cielo
Le bocche hanno l'odore del desiderio di scoprire un bel delitto
Un caffé non è mai lontano

Uniti da una medesima tendenza
Quando l'alba paga le sue nubi con la vita
Uniti come monete nel prezzo di una donna nuda
Le membra di un uomo non vi lasciano niente da desiderare
Come eclissi parziali
Assoli d'arpa
Come spari nel vento
Come fiammifferi

III

Tanto progresso introdotto nella
Nostra pallida nevralgia miseria di stufa
Senza dolore senza domatore senza
Nulla di simile al ventre materno
A occulti tesori

Vecchi lupi di speranza fumando
All'origine delle lacrime lontano dalle
Montagne che sanguinano dal naso dei fiori
Amarezza rimpiazza le ulcere di ceralacca
I granchi nelle notti di pioggia
Le donne perdute in ogni
Imboscata di freddo che
Si sporge ancora dai rami mascherati di statura
Merci luminose delle sue ginocchia
Disposte a cadere al bordo del'ombra in fiamme
Come gru di impulsi sinceri
Catena degli incompresi sempre

Da “Oscuro Dominio”
trad. genseki
 
Posted by Picasa

Per Il volo possibile

Il solo volo possibile fu quello delle tue iridi
Ma non vi arrise il sorriso
No, sfuggente alla piena libertà del dolore,
Si stancava per tutti noi
Per le foglie caduche
Per i gattici novelli
Per le piume smarrite – solo per sé non aveva rimpianti -
Ora il tuo sguardo è rame e fragore
La tua voce stridula richiama
Il germano che vola sul greto tra la nebbia
All'altro capo di nessun telefono
Ti distendo le mie parole
Come tante mancanze vuoti intermittenze
Sei pioggia di campane ora
Nubifragio di rintocchi misericordiosa
A tutti i viventi alle loro lacrime grata
Tu che amarezza piegasti a tenerezza
Ora consoli
L'arida disperazione che si screpola in lamenti
Sei pioggia e mormorio e carezza – ora -
E riva di un mare dolcemente violetto
Come la luna che fu
A te non culla
Ma falce


genseki

giovedì, febbraio 24, 2011

Berg Violin Concerto pt 1 - Frederieke Saeijs

Alla mamma

Novellamente foglie d'olivo

Altro vento si disfa anche più chiaro

Ancora appena appena più chiaro

In questo sospiro dorato, di tromba o zampogna

E tutte quelle pelli che pendono dai pali

Con macchie di sangue rappreso,

Pelli di coniglio, pelli di lepre, di fauno, di leprecauno

Pelli di lucciola e di bisonte, e pelli conciate

Con il minio, con la cenere

Con succo di felci, con calce, con caolino

Aspettando un vento che apra la porta

La porta del monte, quella dell'arcobaleno

In una pioggia fitta di aghi, in un mulinello di conifere

L'osteria dove ci eravamo fermati a bere

Sporgeva pericolosamente inclinata

Sul burrone accanto al cedro, sul lago

E non vi era maniera di fermare il tempo

Lanciato giù per i foschi tornanti

Anche se era evidente che ogni gesto

Era infinito immobile nel sempre;


Ora sei tu nella libertà cava della foresta

Nello spazio incalcolabile del nulla

Noi qui i prigionieri delle posate,

Della teiera, delle briciole sul capodimonte

Noi qui strettamente contenuti nei limiti opachi

Dell'essere

Della vita

Non possiamo più conoscerti

Non possiamo udire il graffiare delle tue unghi sottili

Sulla pellicola sferica dell'esistenza come cinque lune d'argento

Affilate

Come dieci lune pallide sottili svelate alla fine in un sibilo solo


Avresti voluto tu abbandonarti nel grembo fresco di Kannon

Udire con le sue mille e mille orecchie

La solitudine e il dolore del mondo

E mutarti, rivelata a te stessa compassione universale che non godesti


Il vento risveglia lo splendore dell'erba

mescola rosmarino e mimosa in un solo abbaglio

A una svolta si sciolgono i capelli

Come grandine battono sull'eternit le perle di Proserpina


Da un angolo hai visto il mondo

Dal tuo angolo senza pretendere più di uno sguardo

Dal mondo e sul mondo

Scontrosamente certa di non poter pretendere altro che quella insicurezza

Di bambina amara per sempre

In un bosco di mandorli su prati di prezzemolo, sfogliando la fredda

acidità

Del croco

Grano a grano, magra, tu ferita dalla nebbia


Lui averbbe dovuto essere li lei con il suo cappotto blu

Lui biondo e con la febbre, lei con le bende virginali

Ritta sulla luna, sul serpente con la tua valigia nella mano

Piena di foto, adesso, di cioccolato e di speranza.


Dove si erano smarriti?


Le dita delicate delle fave escono dalla terra

A liberare le anime dei morti recenti

de è tutta una festa di nebbia che tintinna, che trilla

Sbronza d'api come fibbie sul broccato delle crucifere


Avresti dovuto essere per un momento la mia bambina

Cercare la mia mano con gli occhi spalancati

Avrei asciugato le tue lacrime se cadendo ti ferivi le ginocchia.


Avrei asciugato le tue lacrime, sai?

Morendo mi sveli alla morte mi spalanchi la sua porta

C'è vento

I tuoi occhi non li riconosco

Sono di rame i tuoi occhi adesso


Il vecchio barbuto getta i remi sul fondo del suo palustre barcone

I fiori qui sono acidi come il gelo della primavera

La tua moneta la stringi contro il petto

Nelle manine la serri per non dargliela

Cerchi le tue lacrime che fuggono su su per le funi di pioggia come insetti opachi

Gli occhi del vento hanno pupille come ali di bronzo

Che si aprono e si serrano con fragore.


Adesso posso percorrere tutti i sentieri

Nella febbre incipiente del disgelo

Sono un seme, lo sai? piantato dalla tua morte.