lunedì, novembre 17, 2014

Vittorio Alfieri


Papa Benedetto XVI

Ratzinger – In spe salvi


La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmen assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una « prova » delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest'ultimo non è più il puro « non-ancora ». Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future.


*

La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento sul quale l'uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale, l'affidabilità del reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una nuova libertà di fronte a questo fondamento della vita che solo apparentemente è in grado di sostentare, anche se il suo significato normale non è con ciò certamente negato. Questa nuova libertà, la consapevolezza della nuova « sostanza » che ci è stata donata, si è rivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte allo strapotere dell'ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro morte, hanno rinnovato il mondo. Essa si è mostrata soprattutto nelle grandi rinunce a partire dai monaci dell'antichità fino a Francesco d'Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e Movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l'amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell'anima. Lì la nuova « sostanza » si è comprovata realmente come « sostanza », dalla speranza di queste persone toccate da Cristo è scaturita speranza per altri che vivevano nel buio e senza speranza. Lì si è dimostrato che questa nuova vita possiede veramente « sostanza » ed è una « sostanza » che suscita vita per gli altri. Per noi che guardiamo queste figure, questo loro agire e vivere è di fatto una « prova » che le cose future, la promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza: Egli è veramente il « filosofo » e il « pastore » che ci indica che cosa è e dove sta la vita.







Leopoldo Panero

Nella soltitudine del mio corpo

Al mio fianco dietro le sottili
Pareti, debolmente si confondono
I fiocchi con il vento della notte.
Dentro il mio cuore, quello che ho vissuto
Pur si confonde, e sono un paesaggio
Che diventa ogni volta piú profondo
Sono il mio corpo oscuro e solitario
Che con l'anima ora si. Confonde.
Ora che solo sto cnella mia carne,
E l'eco del mio corpo è solo morte
Ed il rischio del sangue nel silenzio
Come un'ape tra il rosmarino assente,
Mentre il suo splendor continuo e mite
Nel querceto lassú in mezzo all'ombra,
Posa la neve dai piedi d'uccello.
Ora, o Signore, che stringo la puerzza,
Come un bimbo che dorme tra le braccia,
Voglio tutto obliar del corpo mio
Abbandonar del tutto il mio volere
Nella notturna tenebra, dove
Duole piú la speranza, o corpo mio.
Ora che sono cosí vicino e che tu solo
Mi separi, mio corpo, corpo mio
E l'anima è divinino annebbiamento,
Sostanza intiepidita della vita
Nella pietá del cuore … e ora
Mi sento come privo delle mani
Non mi posso toccare per sentirmi,
Oltre i tremore nel quale si unisce
L'uomo alla nostalgia e Iddio al vento!
Ora che sono, il mio corpo, sottile
Parete sulla notte, corpo mio,
Come rotto dal tempo e che mi attende
La scura libertá della campagna
Voglio obliar tutto il mio nome illuso
La pelle mia di ombra, Perché adesso,
Appena resti tu, dolcezza effimera,
Di chi ti dette la mano da bambino
Di chi drizzó il tuo petto da ragazzo
Di chi lento verrá a te da vecchio
Per aprirti la porta del giardino.

Trad. genseki

sabato, novembre 15, 2014

La Feroniade

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 V'era la rosa che mandâr primieri
di Damasco i giardini e di Mileto;
quella rosa che poi, nel fortunato
grembo translata dell'ausonia terra,
fu pestana nomata e prenestina.
Sua sorella minor, ma di più grido,
le fioriva da canto la modesta
licnide figlia delle ambrosie linfe,
di che le Grazie un dì le belle membra
lavâr di Citerea, quando dai primi
ruvidi amplessi di Vulcan si sciolse.
 
V. Monti

Giusto de' Conti



Quel cerchio d'oro che due trecce
Bionde alluma si, che il Sol troppo
Sen dole, e il viso ove fra pallida viole
Amor sovente al'ombra si nasconde;

E l'armonia che tra si bianche e monde
Perle risuona anheliche parole;
E gli occhi, onde il mattin riprende il Sole
La luce che perduta avea tra l'onde;

E la vaghezza del soave riso
Coll'atto altero dell'andar beato.
Che ogi vil cura dal cor m'allontana;

E il bel tacere da 'nnamorar Narciso, è
Quel che tanto ha sopra ogni altro stato
Nobilitata la natura umana.



Scritto ad ogni istante

Leopoldo Panero

Dove vanno le aquile

Una luce veemente oscura, di tormenta
Ondeggia sulle cime dell'alto Guadarrama
Dove vanno le aquile, Sende la sera lenta
Lungo i verdi sentieri, caldi tra le ginestre

Sonnolenta tra i sassi risplende una scintilla
Del sole occulto e freddo. La luce tra le fronde
Como volo d'uccello nell'ombra si nasconde
Bruscamente il silenzio balena come fiamma.

Ho paura, Alzo gli occhi. Dio flagella
Il mio cuore. Il vapor della neve si raffredda
Proprio come un ricordo, Fluttua sui monti

La pace e l'anima sogna la propria lontananza
Una luce veemente germoglia dal mio sonno
Verso l'amore. Vespero cupo s'addorme ai miei piedi.

Trad. genseki








venerdì, novembre 14, 2014

Sulla famiglia

“All’interno del problema da voi toccato nelle domande, vi è una cosa molto triste, molto dolorosa. Penso che la famiglia cristiana, la famiglia, il matrimonio, non siano mai stati così attaccati come avviene ora. Attaccati direttamente o attaccati di fatto. Forse mi sbaglio. Gli storici della Chiesa ci sapranno dire, però la famiglia è colpita, attaccata, la famiglia è, a dir poco, imbastardita, quasi fosse una forma come un’altra di associazione… Beh, si può chiamare famiglia tutto, no? Inoltre, quante famiglie sono ferite, quanti matrimoni sfasciati, quanto relativismo nella concezione del Sacramento del Matrimonio. Ormai si può parlare di una crisi della famiglia, e questo dal punto di vista sociologico, oppure di quello dei valori umani, o ancora dal punto di vista del Sacramento cattolico, del Sacramento cristiano. Ed è una crisi perché la bastonano da tutte le parti e la lasciano davvero ferita. Quindi è chiaro, non si può non fare qualcosa. Dunque, la tua domanda: che possiamo fare? Certo, possiamo fare bei discorsi, dichiarazioni di principi, sì, anche queste vanno fatte, no? Le idee chiare! Guardate, quello che state proponendo non è un matrimonio. E’ un’associazione, però non è un matrimonio. Cioè, a volte bisogna dire le cose con molta chiarezza. E questa cosa bisogna dirla. La pastorale è di aiuto, ma solamente in questo è necessario che sia ‘corpo a corpo’. Quindi accompagnare, e questo significa perderci il tempo. Il grande maestro nel perdere il proprio tempo in questo è Gesù, no? Ne ha perso di tempo per accompagnare, par far maturare le coscienze, per curare le ferite, per insegnare! Accompagnare è fare un cammino insieme. E’ ovvio che il sacramento del matrimonio è stato svalutato; si è passati, irresponsabilmente, dal sacramento al rito. La riduzione del sacramento al rito. Quindi si fa del sacramento un fatto socialE ...

Francesco I

Alejandra Pizarnik

Origine

Bisogna salvare il vento
Lo bruciano gli uccelli
Tra i capelli della solitaria
Che riemerge dalla natura
A tessere tormenti
Bisogna salvare il vento.

*

Da: “L’albero di Diana”

Sono balzata da me stessa all’alba
Accanto alla luce ho posato il mio corpo
Ho cantato la tristezza del nascente.

*

Solo la sete
Il silenzio
Nessun incontro
Attento a me amor mio
Attento alla silenziosa nel deserto
A colei che viaggia con un vaso vuoto
E all’ombra della sua ombra.

*

Lei si spoglia nel Paradiso
Della sua memoria
Non conosce il destino feroce
Delle sue visioni
Lei teme di non saper dar nome
A ciò che esiste.

*

Salta con la camicia in fiamme
Di stella in stella
D’ombra in ombra
Di morte lontana muore
L’amante del vento.

*

Spiegare con le parole di questo mondo
Che venne a me un battello portandomi.

*

Quando vedrò quegli occhi
Che porto tatuati nei miei.

*

Come poesia informata
Del silenzio delle cose
Parli per non vedermi

*

Nella notte
Uno specchio per la morticina
Uno specchio di cenere.

*

Colpo d’alba tra i fiori
Ebbra di nulla mi lascia e di luce lilla
Ebbra d’immobilità e di certezza.

*

Ora
In quest’ora innocente
Io e colei che fummo ci sediamo
Alla soglia dello sguardo.

*

La poesia che non dico
Quella che non merito
Paura di essere due
Sulla via dello specchio
Qualcuno che dorme in me
Di me mangia, mi beve.

*

La piccola viaggiatrice
Moriva dispiegando la sua morte
Dolci animali di nostalgia
Visitavano il suo corpo ancora caldo

*

Nella gabbia del tempo
Colei che dorme fissa i suoi occhi soli
Le porta il vento
La leggera risposta delle foglie.

*

Nell’attesa dell’oscurità
Questo istante che non si dimentica
Così vuoto concesso dalle ombre
Così vuoto rifiutato dagli orologi
Questo povero istante adottato dalla mia tenerezza
Nudo nudo di sangue e d’ali
Senz’occhi per ricordare le angoscie d’un tempo
Né labbra per raccogliere succo di violenze
Perdute nel canto di gelidi campanili.
Proteggilo bimba cieca d’anima
Dagli i tuoi capelli scheggiati dal fuoco
Abbraccialo piccola statua di terrore.
Indicagli il mondo in convulsioni ai tuoi piedi
Ai tuoi piedi dove muoiono le rondini
Tremanti di paura del futuro
Digli che i sospiri del mare
Inumidiscono le uniche parole
Per cui vivere vale la pena.
Ma in questo istante sudato di nulla
Accoccolato nella conca del destino
Senza mani per dire mai
Senza mani che regalino farfalle
Ai bimbi morti.

*

Poesia

Tu scegli il punto della ferita
In cui parliamo il nostro silenzio
Tu rendi la mia vita
Come una cerimonia troppo pura.

*

trad. genseki

Rivelazioni

Di notte al tuo fianco
Le parole son chiavi, grimaldelli
Si fa Re il desiderio di morire
Che il tuo corpo sia sempre
Un luogo amato di rivelazioni.

*


L’obscurité des eaux 

Ascolto risuonare l’acqua che cade nel mio sogno. Cadono le parole, come l’acqua io cado. Disegno nei miei occhi la forma dei miei occhi, nuoto nelle mie acque, mi dico i miei silenzi. Tutta la notte attendo che il mio linguaggio possa infine darmi forma. E penso al vento che mi viene incontro. Tutta la notte ho camminato sotto la pioggia sconosciuta. Mi hanno dato un silenzio pieno di forme e di visioni (dici). E corri desolata come l’uccello unico nel vento.

*

Dall’altro lato
Come una clessidra cade la musica nella musica.
Triste sto nella notte di zanne di lupo.
Cade la musica nellla musica come la mia voce nelle mie voci.

*

La gabbia

C’è sole fuori.
E’ soltanto un sole
Ma gli uomini lo guardano
Per poi cantare
Non conosco il sole.
Conosco la melodia dell’angelo
Il caldo sermone del vento.
So gridare fino all’alba
Quando la morte si posa nuda
Sulla mia ombra.
Piango sotto il mio nome
Agito fazzoletti nella notte e battelli assetati di verità
Ballano con me.
Nascondo chiodi
Per ferire i miei sogni malati.
C’è il sole fuori
Io mi vesto di cenere.


*

Salvezza

Fugge l’isola,
La giovane torna a scalare il vento
A scoprire la morte dell’uccello profetico.
Ora
È carne
Foglia
Pietra
Perdute nelle fonti del tormento
Come il navigatore tra gli orrori della civiltà
Che rende puro il cadere della notte.
Ora
La giovane trova la maschera dell’infinito
E rompe il muro della poesia.

*

Alba

Nudo sognando una notte solare.
Ho dormito giorni animali.
Il vento e la pioggia mi cancellarono
Come fuoco, come una poesia
Scritta sul muro.




Trad genseki

La Festa dei Folli

 



Gemain Colin-Bucher(1475-1545)

Epitaffio di un Bevitore

Qui giace, ed or ne udrete meraviglie
Un famoso assassino di bottiglie,
Anti-Bacco, crudele vinicida
Mai gotto non lasciò pieno né vuoto.
Taccio il suo nome perché puzza di vino
Ma v’era in lui uno spirito divino
Solo a mirarlo dava sete a tutti
Latte avea in uggia e ciliegie e il melone
I fichi, l’uva passa e l’altri frutti
Solo avea care le noci e ‘l provolone,
Al gargarozzo sentiva tanto male
Che si nutriva sol di carne al sale
Iddio e i Santi copriva di bestemmie
Quegli anni ch’eran scarse le vendemmie
Per questo, gente mia, dovete credere
Che venne al mondo per bere e non per gemere.
Deh non piangete la sua dipartita!
Ché la sua vita al vino era asservita.
Fate piuttosto a Bacco orazione
Si ch’infine l’accolga in sua magione
E lo sistemi in fondo alle cantine
Ché degna di sua vita sia sua fine.
*



Jean Lemaire des Belges

Rondò

Grande Concordia con picciola Avarizia
Cuori devoti a nobile Milizia
Audacia in guerra ed in pace equità
Posero Roma in tale autorità
Che stava il mondo intero al suo servizio.
Quivi fu posto il trono di giustizia
E così bene svolse il proprio offizio
Ch’ognun stimava tal felicità
Ben grande.
Quando Vertù cedette ‘l loco al Vizio,
Quando ricchezza ed ambizion inizio
Di tutti i mal varcarono sue mura
Con esse entraro e ruina e paura
E sua caduta fue senza mesura
Grande.
*


Pierre Gringoire

Il Bando del Principe de’Folli

Orsù folli lunatici, folli storditi e saggi
Abbandonate i borghi, le castella, i villaggi,
Folli furiosi, folli stolti e sottili,
Deh! Folli innamorati, folli sparsi e selvaggi.
O folli vecchi e nuovi, de’ più vari legnaggi,
Folli stranieri, barbari, gentili,
Folli perversi, folli loici e vili,
Il Prence Vostro senza tirare il fiato
Sarà Martedì Grasso in Piazza del Mercato.
O dame folli, o folli damigelle,
Folli vegliarde e giovanette snelle,
Folli codarde e ardite, laide e belle,
Voi tutte folli che amate l’augellino,
Folli secche dolcissime o rubelle,
Folli che bramano il loro bottino,
Folli che trottano per ogni cammino,
E magre e rosse e col cranio spelato
Martedì starà il Prence in Piazza del Mercato.
Folli embriachi, pilastri dell’osto,
Folli che sputan scaracchi di mosto,
Folli cui piace ‘l dado, il vino e ‘l sesso,
Folli ch’a notte braccano la topa,
Folli che spesso impugnano la scopa,
Folli che a Dame lo forniscon spesso
Folli ben mondi folli cui pute il fiato
Martedì starà il Prence in Piazza del Mercato.
Mamma de’Folli invita le piccine
Orsù correte tutte voi beghine
Che di nascosto ‘l buon tempo vi date
Folli gaie, carine, delicate,
Folli di miel che le gonne levate,
Folli che fate gli uomini godere,
Folli nordici e folli cameriere,
venir dovete con il capo agghindato
Martedì starà il Prence in Piazza del Mercato.
Scritto e approvato trincando a gran boccali,
Senza obliar nessuno della greggia
Dal Prence istesso e da’ suoi offiziali
Il sigillo è di dama una scoreggia.


*

trad. genseki

giovedì, novembre 13, 2014

Bello ed util del par, fervido ordigno
Quattro immense impernate ali rotanti
Spiegando, ei quivi allaccia i figli erranti
Del Dio, ch'è in mare all'uom talor maligno.

Ratto aggirasi intanto alto macigno,
Con mille ruote  stridule, assordanti,
D'una in altra se stesse propaganti,
Dan moto stritolante, ampio, ferrigno,

La grave mola i Ceréali aurati
Doni infrange, che infranti altrui dan loco,
Cadendo in bianca polve trasmutati.

Esce da questo industre aéreo giuoco
Quel pane poi, che al povero i magnati
Contrastan spesso , o dan malvagio il pane.

Alfieri


Benedetto XVI



Possiamo allora chiederci: qual è la ragione per cui alcuni vedono e trovano e altri no? Che cosa apre gli occhi e il cuore? Che cosa manca a coloro che restano indifferenti, a coloro che indicano la strada ma non si muovono? Possiamo rispondere: la troppa sicurezza in se stessi, la pretesa di conoscere perfettamente la realtà, la presunzione di avere già formulato un giudizio definitivo sulle cose rendono chiusi ed insensibili i loro cuori alla novità di Dio. Sono sicuri dell’idea che si sono fatti del mondo e non si lasciano più sconvolgere nell’intimo dall’avventura di un Dio che li vuole incontrare. Ripongono la loro fiducia più in se stessi che in Lui e non ritengono possibile che Dio sia tanto grande da potersi fare piccolo, da potersi davvero avvicinare a noi.

Alla fine, quello che manca è l’umiltà autentica, che sa sottomettersi a ciò che è più grande, ma anche il coraggio autentico, che porta a credere a ciò che è veramente grande, anche se si manifesta in un Bambino inerme.


Manca la capacità evangelica di essere bambini nel cuore, di stupirsi, e di uscire da sé per incamminarsi sulla strada che indica la stella, la strada di Dio. Il Signore però ha il potere di renderci capaci di vedere e di salvarci. Vogliamo, allora, chiedere a Lui di darci un cuore saggio e innocente, che ci consenta di vedere la stella della sua misericordia, di incamminarci sulla sua strada, per trovarlo ed essere inondati dalla grande luce e dalla vera gioia che egli ha portato in questo mondo.


Benedetto XVI


Omelia nella Solennità dell’Epifania del Signore, 6 Gennaio 2010

Guerra di civiltá


venerdì, novembre 07, 2014

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Don Baldássare

Come tutti i pargoli del Barrio anche il piccolo Dreiser Cazzaniga dovette frequentare la Scuola per apprendere l'abbecedario e l'abbaco come allora era costume, prima che la Grande Oscuritá rendesse le scuole luogo di cupe pratiche ludico-meditative.
Nella scuola del Barrio regnava in quei giorni la figura della Pedantessa, vecchie pie, miopi e sdentate impartivano le arti del quadrivio a pargoli inquieti, puzzolenti e dalle unghie listate a lutto, vestivano cappottini lisi con colletti di pelle di coniglio e le chiome bianche avevano sfumature celesti, gli occhi di pietra brillavano freddi seminascosti da occhialini ovali.
Dreiser Cazzaniga ebbe fortuna, a lui tocco come maestro Don Baldassare. Come tuti i pedanti era uomo di etá giá avanzata, forse una dozzina di lustri, e al piccolo Dreiser Cazzaniga pareva antico come le colline che circondavano il Barrio o perlomeno come l'altissimo ponte del drago ferreo che lo dominava, avvolto nel suo pastrano dal colore reso indistinguibile dal tempo.
Al principio del secondo anno di scuola il piccolo Dreiser Cazzaniga non aveva ancora conseguito l'abilitá grafica necessaria a scrivere versi endecasillabi e alessandrini ma financo ottonari senza andare a capo rompendo cosí la bella armonia della pagina.
Don Baldassare non lo castigó per quasta sua intollerabile mancaza, piuttosto si avvicinó al piccolo Dreiser Cazzaniga, colse la sua manina con la mano grassottela dalle dita corte e gialle di nicotina e la condusse per l'impervio sentiero di un esametro particolarmente orografico fino al bordo della pagina alla sponda di tanto altalenare.
Fu come se qualche cosa si fosse impresso nell'anima del piccolo Dreiser Cazzaniga, un abito meccanico incacellabile in virtú del quale non ebbe mai piú la necessitá di troncar versi, come involontario carnefice dell'armonia, senza sforzo niuno.
Don Baldássare soleva giocare al biliardo la sera nella taverna del Barrio tra barattieri e malandrini, e quando ali sbirri del bargello occorreva di fare irruzione nella piola o posada grigia e ammuffita, il gioco, infatti, era vietato a' pedanti e alle pedantesse del Regno, agile come giovinetto pastore fuggiva per i tetti con gli altri peccatori menando gran chiaso tra' gatti intenti alle loro faccende notturne.
Vivea solo con la vecchia madre come zitello coatto, la madre volle che fosse presbitero  e non potendo conseguirlo per la ripugnanza di lui e la sua convinta empietá  costringerlo seppe, tuttavia al celibato.
Alla morte di lei poté infine sposarsi con la vedova benestante ch'ella avea previdentemente eleto alla funzione di madre sostituta in abito legale di consorte. Fu un'unione infelice.
Don Baldassare odiava la neve, quando i primi fiocchi cadevano lenti e svagati sui prati grigi e i tetti bruni del Barrio Don Baldássare soffriva in preda a una rabbia sorda che si esprimeva in melanconia e talora in attachi di una furia astratta ch'egli volgeva contro gli incolpevoli suoi pupilli, specie i piú sudici e i sardi, disprezzava egli segretamente i sardi giunti con il Drago di ferro e dediti alle mansioni piú umili come era consuetudine ovvia nel Barrio,
La Chionofobia di Don Baldassare non trovava la sua eziologia nel Barrio ma nelle lontane steppe della Scizia.
Egli infatti partecipó, come tutti i suoi coetanei del Barrio alla tragica Spedizione Scitica come milite della Legione Cozia. Da quella terra gelata, dalle infinite pianure innevate dai monti avvolti in tormente perenni egli fu uno dei pochi che ebbe la sorte di essere restituito ai suoi cari tutto d'un pezzo e vivo.
Leghe e leghe infinite leghe di neve calpestó sferzato dal gelido staffile del vento caucasico, stremato dalla fame e dalla sete, poté sopravvivere grazie soltanto all'ausilio compassionevole prestato, a lui e ai suoi compagni nella disfatta, dalle pietose vecchierelle delle isbe, dai villani, dai decrepiti pope e anacoreti delle capanne di betulla, la zuppa calda di barbabietola e cavolo, il conforto del riposo permisero loro il ritorno.
E questa ospitalitá, questo ausilio dato al nemico sconfitto e morente invece della vendetta meritata, lo fu nel nome di quel Cristo Signore ch'egli aveva prematuramente rinnegato,

Nella classe del piccolo Dreiser Cazzaniga non eravi croce alla parete, per fermo volere, scellerato oserei dire di Don Baldassare, bensí un piccolo, ma grazioso altare dedicato a Nostra Señora la Virgén Negra de la Cumbre per la quale avea una speciale devozione che trasmise al piccolo Dreiser Cazzaniga e che questi, sebben ghibellino e inimico della fede non abbandonó mai. Sul picciol altare non mancavanno mai candele di cera fragrante e fiori freschi del bosco,

Don Baldássare era per il piccolo Dreiser Cazzaniga la garanzia del ritrno delle stagiioni, del ciclo del giorno e della notte, la sua settimana era organizzata secondo uno schema che si ripeteva come una liturgia per da San Martino a San Giovanni. Le giornate erano anch'esse scandite su di un ritmo sapientemente fissato dall'alba a mezzodí.
Ottobre era dedicato al ricordo e alla lode del navigatore eccelso che aprí un nuovo continente alla Parola di Dio, Novembtre era il San Martino che compartiva il suo mantello di soldato con il povero ottenendo per tutti una breve estate, era il San Martino temuto da' mezzadri, mese delle fiere che attraevano i villani al Barrio e ai borghi per il negozio del bestiame, Dicembre il dolce natale tanto caro al cuore, Gennaio cominciava con il pargoletto anno nuovo e la lista dei propositi per una vita retta.  Febbraio veniva con il corteo delle maschere antiche: le Colombine, i Balanzoni, i Pantaloni, Aprile piovoso e fecondo mese del disgelo, Maggio caro al cuore, il mese della Vergine Maria e il ciclo ripetevasi di anno in anno, legge eterna dell'umano e dell'universo come un vivente libro d'ore miniato dello splendore dell'infanzia.
Fu Don Baldássare che modelló l'anima di Dreiser Cazzaniga rendendola tanto sensibile al Culto della Virgén Negra de las Cumbres (benché fosse egli ancor ghibellino e averroista arrabbiato), ai riti e alle cerimomonie.

A cura di genseki

giovedì, novembre 06, 2014

Elisabeth Jennings



I remember reflecting 
Women who don't believe in God 
 Don't bother to look elegant ...



Elzabeth Jennings

Modi di morire

Scenderemo in picchiata come uccelli che l'aria piú non sostiene
Cadendo giú precipitando, in preda alla vertigine
Mentre la mente scossa  lentamente s'annebbia
E la carne s'approssima alla polvere, alla solitudine?

Lanceremo strazianti grida, forsennati,
Come rabbie di bimbi all'asilo strillando: - non è giusto!
Volevo fare tante cose, e tante cose non ho visto"
In preda alla fame, all'ira, alla lussuria?

O quieti giaceremo sperando di allentare
La stretta della Straniera sul nostro cuore che rallenta
O spariremo nei cunicoli del sogno
A quale notte diretti a quale incontro?

Elisabeth Jennings

trad. genseki

mercoledì, novembre 05, 2014

Giusto de' Conti


Questa Angioletta mia dall' ale d' oro,
mandata qui dal regno degli Dei,
non so che nell' aspetto aggia con lei,
che come cosa santa sempre adoro.

De i spirti eletti il più gentil di loro
venendo a noi con gli altri Semidei,
(nel fronte porto scritti i pensier miei)
dalla più degna sfera ed alto coro,


dal volto acceso d' un celeste raggio
sfavilla, e da i begli occhi la vaghezza,
che il cor m' ha pien d' ardente caldo, e gelo :


e dalla bocca colma di dolcezza,
riversa il bel parlar si dolce e saggio ;
come colei che lo imparò dal cielo.

La bella mano

Sonetto V

Sara

Il fiore piggro del miio fallo
Mostra al diavolo una rosa
Che é la rosa della morte
L'unico fiore che esiste
- La morte fu un maestro tedesco
Era giovine e celeste
Gioventú che mi fuggi qual cervo divino
Oro celeste del silenzio
Vegetazione pìgra che invita al nulla
Colore remoto del silenzio
Oh tu che mi fuggi qual cervo 
Timoroso del nulla.

*

Oh labbro oscuro della rosa
Donna legata a un morto
Fiore senza emozioni
Del poema
Saltimbanco nel circo del poema
Ove ogni animale ha disertato
- Oh lo disse Yeats
  Mostrando una rosa segreta al branco

*

I miei unici amici
Erano i bambini
Che hanno paura dell'oscuritá
Dell'oscuritá della paura
Quando trovano
Una lucertola nel letto
E piangono, perché il diavolo abbia pietá di loro
Oh tu Sara
Lacrima del diavolo e fiore del nulla
Che brucia oscuramente nel silenzio
E implora 
La caritá ai morti
              Unici signori del nulla
              Oh splendore del silenzio
              Isola
Legata a un morto
Oh palazzo dell'anima
Retata del poema
Cattura delle cose
Per mezzo della parola
             qu'enans fo trobatz en durmen
             sus un chivau

Leopoldo Maria Panero

Trad genseki




Le fruit permis I




Sonia Delaunay  Untitled gouache (Illustration for Tristan Tzara's

Tristan Tzara - Dada Into Surrealism (1959)

Da bere e da scegliere

Vi è una bianca servitu che si estende sulla fuga del tempi vi è per tutta la durata del suo impulso il debito del sangue che si impregna vi è una nuvola una sola ma il suo peso è maggiore della terra sull'incoscienza degli anni vi è nell¡asprezza delle grida stridenti di latte la lancetta di una voce che cresce tropicale vi è l'infaticabile ccucitura degli alberi sul percorso avvelenato vi è un orrore indicibile sulla fronte di quelli che ridacchiano vi è per il terremoto montano il cervo rimbalzante la testa che urla l'uccello fuciliere vi è la foglia morta nell'iris della pioggia lo sguardo di nervatura e il fieno perdonato vi sono mille teste in una cifra e il rimorso a salteli vi è chi si confonde nella porpora dei propri propositi di filo vi è la lana che avvelena la brocca vuota dei cranii vi sono coloro che nell'acqua lasciano immergere i loro saponi sottili di memoria  vi è lo stupore stupido di tutti quelli che guardano che non la smettono mai di guardare durante il trascorrere della vita degli altri vié il gemoto divenuto bestia da soma
vi è l'occhio fresco alla cascata
vi è che non vi è la giovane tenerezza flautata sulla mia guancia d'infanzia
             all'orecchio perduto
sprofondate deregolamnetazioni chimiche delle suonerie del tramoto nell'oceano tapezzato di stelle morte
io continuo ad avere fame

i nostri giorni si guardano
senza conoscersi e non si lasciano
testa calpestata sguardo schiumante basta a un solo bagliore di
               raccogliere il suono umano per avere l'acquolina in bocca
che i cavalli si impennino nelle vene folgoranti di mille supposizion di
               diamante
mentre la regina avvolta nelle scaglie del sonno regina delle nostre pene nevica per
                le nostre mani
rizza anche la testa sotto le ingiurie delle strade e il fuoco delle strade e il fuoco delle suole che il vento dell'inverno
                  ci butta in faccia nel cuore delle notti vacillanti come una sola frontiera incrostata si è l'eterna feritadei pasei dell'infanzia
che ha bruciato il suo sangue
lungo la lampada dei desideri supplicanti
raddoppiando il suo dolore
ha visto nascere la luciditá dei lupi su uno spazio d'oblio e la gioia che conduce alla
                       luce

Tristan Tzara
da "Le fruit permis"
Trad genseki

venerdì, ottobre 31, 2014




Giunse a natura il bel pensier gentile
 per informar tra noi cosa novella; 
ma pria mill'anni immagino, che a quella 
faccia leggiadra, man ponesse, e stile.

Poi nel più mansueto, e nel più umile 
lieto ascendente di benigna stella, 
creò quest' innocente fera e bella
alla stagion più tarda, alla più vile.

Ardea la terza spera nel suo cielo
onde si caldamente Amor s'informa, 
il giorno che il bel parto venne in terra.

Ed io mirava la più degna forma, 
quando vesti d'un si mirabil velo 
quest'anima gentil che mi fa guerra.

Giusto de' Conti


Poemas Humanos

Vallejo
Da: “Poemi Umani”
trad. genseki


Ma prima che finisca

Ma prima che finisca
Tutta questa fortuna, perdila, accorciala,
Prendine la misura, se superasse il tuo cenno, superala
Guarda se ci sta, distesa nella tua estensione.

Ben la so dalla chiave,
Anche se spesso non so se la fortuna
Vada sola, appoggiata alla disgrazia,
O suonata, solo per darti gusto,
Nelle falangi tue.

Ben la so unica, sola,
In solitaria sapienza.

Nella tua orecchia bella è la cartilagine
E per questo ti medito e ti scrivo
Nel sogno ricordati di pensare che sei felice
Che profonda è fortuna al terminare,
Ma seco reca al giungere un aroma
Caotico di asta morta.

Fischiando alla morte
Cappello ad alta tesa,
Bersaglio ti defili a vincere la pugna delle scale,
soldato dello stelo , filosofo del seme, meccanico del sogno
(Animale mi senti?
Mi lascio comparare in quantità?
Taci e silente mi fissi
Attraverso le età della parola).

Schivando la fortuna, tornerà
A chiamarla la tua lingua, a congedarsi
Fortuna disgraziata nel durare.

Prima terminerà violentemente,
Dentata, dura stampa,
Allora sentirai come vo’ meditando
Come l’ombra tua è questa mia svestita
Allora fiuterai quanto ho sofferto.


*

Confida nella lente e non nell’occhio

Confida nella lente e non nell’occhio;
Nella scala, giammai nello scalino;
Nell’ala, non nell’uccello
E in te solo, in te solo, in te solo.

Nella malvagità confida, non nel malvagio
Nel bicchiere ma non nel liquore;
Nel cadavere, non nell’uomo
E in te solo, in te solo, in te solo.

Fidati dei molti non di uno;
Dell’alveo, giammai della corrente
Dei pantaloni, e non delle gambe
E in te solo, in te solo, in te solo.

Fidati della finestra, non della porta;
Della madre, ma non dei nove mesi;
Del destino, non del dado d’oro,
In te solo, in te solo, in te solo.

*

Due bambini anelanti

No. Non hanno spessore le sue caviglie; Non è il suo sprone
Dolcissimo, che colpisce le due guance.
Solo la vita è, vestaglia e giogo.

No. Plurale non ha la sua risata,
né per essere uscita da mollusco perpetuo, agglutinante,
Né per essere entrata in mare scalza,

Essa è quella che pensa e va, ed è finita.
È la vita; nient’altro che la vita.

Lo so, lo intuisco cartesiano, automa,
Moribondo, cordiale, infine splendido.
Nulla v’è
Sul crudele sopracciglio del teschio;
Nulla tra ciò che diede ed afferrò con guanto
La colomba, e con guanto,
L’eminente lombrico aristotelico;
Nulla davanti e nulla dietro il giogo
Nulla resta del mare nell’oceano
E nulla
Nell’orgoglio severo della cellula.
Solo la vita; tale; ed audacissima.

In estesa pienezza
Portata astratta, fausta, effettivamente,
glaciale ed impetuosa, della fiamma;
Freno del fondo, coda della forma.
Ma quello
Grazie al quale son nato, ventilandomi
E crebbi con affetto e dramma propri,
La mia fatica lo rifiuta,
Lo avvolgono i miei sensi e la mia anima.
Solo è la vita stabile e teatrale.

Su questa rotta,
L’anima mia estingue la serie dei suoi organi
E per questo indicibile cielo indemoniato,
Il mio apparato di sibili tecnici,
Passò la sera nel mattino triste
E palpito e mi sforzo e sento freddo.

*

Compagno, serve ancora po’ di calma

Compagno, serve ancora un po’ di calma
Un molto immenso, nordico, completo,
Feroce, d’una calma piccolina,
Al servizio minor d’ogni trionfo
All’audace servizio dello scacco.

Ubriaco fin troppo, e non havvi
Tanta follia nella ragione quanto
Questo tuo muscolare raziocinio, né
Fallo più razional che l’esperienza.


Ma, per parlar chiaro
A ben pensarci, sei fatto d’acciaio
Se sol tonto non fossi
A rifiutare
D’entusiasmarti tanto per la morte
E per la vita, sol con la tua tomba.

Occorre che tu sappia
Contenerti in volume senza correre né affliggerti,
La tua realtà molecolare intera
E più oltre, la festa degli evviva
E meno oltre, gli abbasso leggendari.

Tu sei fatto d’acciaio, come dicono,
A patto che non tremi, e che non fugga
A crepare, compare
Del mio calcolo, enfatico figlioccio
Dei miei Sali luminosi!

Vanne, nient’altro; decidi,
Considera la crisi, somma, avanti,
Tagliala, abbassala, guastala;
Il destino, le intime energie, i quattordici
Versetti del pane: quanti diplomi
E poteri, al bordo fededegno del tuo slancio!
Quanto dettaglio in sintesi, con te!
Quanta pressione identica ai tuoi piedi!
Quanto rigore e quanto patrocinio!

Idiota è
Questo modo di patire,
In luce modulata e virulenta,
Se solo con la calma fai segnali
Seri, caratteristici, fatali.

O uomo andiamo, fammi dunque vedere;
Dimmi quel che m’accade,
Che io anche se grido, resto sempre ai tuoi ordini.

*

Questo…

Questo
Avvenne tra due palpebre; tremai
Nella mia guaina, collerico, alcalino,
Immoto accanto al lubrico equinozio
Al piè del freddo incendio in cui m’estinguo,
Scivolata alcalina, vo dicendo,
Di qua dell’aglio, sciroppo sopra i sensi,
Più dentro, molto più di queste ruggini,
Quando va l’acqua al ritornar dell’onda.
Scivolata alcalina
Anche e soprattutto, nel montaggio ciclopico del cielo.

Che dardi e arpioni lancerò, se muoio
Nella mia guaina; sboccerò in foglie di banana sacra
I miei cinque ossicini subalterni,
E nello sguardo il medesimo sguardo
(dicono edificarsi nei sospiri
Tattili fisarmoniche di ossa,
Che morendo così quanti si estinguono,
Muoiono ahimé fuori dall’orologio,
Afferrando una scarpa solitaria)

Se tutto lo comprendo, il colonnello
E il resto, nel lacrimoso senso della voce
Da solo mi torturo, e tristemente estraggo,
Nella notte, le unghie;
E poi non ho più nulla e parlo solo
Correggo i miei semestri
E per gonfiar le vertebre mi tocco.

*

Al cavillar la vita, al cavillare

Al cavillar la vita, al cavillare
Pian piano nello sforzo del torrente,
Allevia, e un seggio offre all’esistenza,
Condanna a morte;
Cade tutto ravvolto in stracci bianchi,
Cade come pianeta
Bollito il chiodo nella pesantezza; cade!
(La mia sinistra, acredine ufficiale;
E tasca vecchia, in sé considerata, questa destra).

È tutto lieto, tranne la mia gioia
E tutto, lungo, meno il mio candore,
La mia incertezza!
Se giudico la forma, tuttavia vado avanti,
zoppicando all’antica,
Per le lacrime mi dimentico degli occhi (Interessantissimo)
Salgo fino ai miei piedi da una stella.
Tesso ; d’aver filato, vo tessendo.
Cerco ciò che mi segue nascosto tra arcivescovi,
Sotto l’anima mia e dietro il fumo del mio alito,
Tale era la delusione sensuale
Della vergine capra che ascendeva,
esalando fatidici petroli,
Ieri domenica in cui persi il mio sabato,

Tale la morte, con suo audace consorte.

*

Chitarra
Il piacer di soffrire e di odiare, mi tinge
La gola dei suoi plastici veleni,
Ma la setola che impianta ordini magici,
e taurina grandezza, tra la prima
E la sesta
E l’ottava mendace, tutte soffre.

Il piacer di soffrire… Chi? Per chi?
Chi, i denti? Per chi la società?
I carburi di rabbia dell’alveolo?
Come essere
E star senza dar collera al vicino?

Vali più del mio numero, uomo solo,
E valgon più che tutto il dizionario,
Con la sua prosa in verso,
Con il suo verso in prosa,
La tua funzione aquila,
Il tuo congegno tigre, dolce prossimo

Il piacer di soffrire
Di aspettare speranze sulla mensa
La domenica con tutte quelle lingue,
Il sabato d’ore della Cina o del Belgio,
La settimana con i suoi due sputi.

Il piacere di attendere in ciabatte,
Di attendere contratto dietro un verso,
Di attendere con forza a mala rabbia;
Il piacer di soffrire: inganno di femmina
Morta con una pietra alla cintura
E morta tra la corda e la chitarra,
Piangendo i giorni mentre canta i mesi.

*

30/04/2006 10.31


Per il puro calore ho tanto freddo
Per il puro calore ho tanto freddo
Sorella Invidia!
Leccano i leoni la mia ombra
E il topo morto mi rosicchia il nome,
Madre, anima mia!

All’orlo dell’abisso vo,
Cognato Vizio!
Tintinna il bruco la sua voce,
E la voce tintinna il suo bruco,
Padre, corpo mio!

Mi sta innanzi il mio amore,
Nipotina colomba!
In ginocchio, il terrore
Di testa, la mia angoscia
Madre, anima mia!

Fin quando un giorno senza due
Tomba mia sposa,
Risuoni il mio ultimo ferro
Di vipera dormiente,
Padre, corpo mio!

*
Son restato a scaldare l’inchiostro in cui mi affogo

Son restato a scaldare l’inchiostro in cui mi affogo
Ad ascoltare la mia grotta alternativa,
Notti di tatto e giorni di astrazione.

Rabbrividì l’incognita in amigdala
E crepitai d’annua melanconia,
Notti di sole, dì di luna, tramonti di Parigi.

Ed ancora, oggi stesso, verso sera,
Digerisco sacratissime costanze,
Notti di madre, giorni di pronipote
Bicolore, lasciva, urgente, bella.

E ancora
Giungo fino al mio aereo da due posti,
Nel mattino domestico brumoso
Che emerse eternamente da un istante.

E ancora,
Anche ora
In fondo all’aquilone ove ho raggiunto
Il bacillo felice e dottorale,
Eco che caldo, udente, terro, sole e luno,
Incognito attraverso il cimitero,
Prendo a sinistra, fendo
L’erba con alcuni endecasillabi,
Anni di tomba, litri di infinito,
Inchiostro, penna, laterizi e perdoni.

*

La ruota dell’affamato
Dentro i miei propri denti vo fumando,
Dando voce, spingendo,
Calandomi le brache …
Vuota stomaco mio, vuota budella,
Dai denti miei mi tira la miseria
Con uno stecco infilzato ad un polsino.

Una pietra ove sedermi
Non c’è per me?
Nemmeno la pietra in cui inciampa la donna che ha partorito,
La madre dell’agnello, la causa, la radice,
Non ci sarà adesso per me?
Oppure l’altra
Che ha trafitto l’anima piegandosi!
Almeno una calcarea o cattiva (umile oceano)
O quella che non serve nemmeno per tirarla contro l’uomo,
Datela a me, quella li!

Almeno quella che troveranno sola e trafitta in un insulto,
Datela a me, quella li!
Almeno la contorta o coronata, ove risuona
Solamente una volta il passo di rette coscienze,
o, almeno, quest’altra, che gettata in degna curva,
Va a cader da se stessa,
Professando da autentica interiora,
Datemela adesso quella li!

Un pezzo di pane! Non v’è neppure quello ora per me!
Ormai essere devo ciò che sempre sarò,
Ma datemi
Una pietra per sedermi,
Datemi
Per favore, un pezzo di pane ove sedermi,
Datemelo,
In spagnolo
Qualcosa che io possa infine bere, mangiare, vivere, riposare,
Poi me ne andrò…
Trovo strana la forma, strappata
E sporca la camicia
E non ho proprio nulla, e questo è orrendo.

*

Trad, genseki






Poesie


Il padiglione del vuoto

Vado con la vite
Ponendo domande alla parete
Un suono senza colore
Un colore coperto da un manto.
Però vacillo e momentaneamente
Cieco, posso appena sentirmi.
D’improvviso ricordo,
con le unghie vado aprendo
il tokonoma nel muro.
Ho bisogno di un piccolo vuoto
In cui ridurmi
Per poter riapparire,
Palparmi e porre la fronte al suo posto.
Un piccolo vuoto nel muro.

Sono in un caffè
Moltiplicatore di noia
L’insistente daiquirì
Ritorna come inutile volto
Per morte e primavera.
Percorro con le mani
Il risvolto che mi par freddo.
Non aspetto nessuno
Convinto che qualcuno dovrà pur venire.
D’improvviso, con l’unghia
Abbozzo un forellino nel tavolo.
Ora ho il tokonoma, il vuoto,
L’insuperabile compagnia
La conversazione in un angolo di Alessandria.
Sono con lui in un carosello
Di pattinatori al Prado.
Era un bimbo che respirava
Tutta la tenace rugiada del cielo,
Col vuoto, ormai come un gatto
Che ci avvolge il corpo intero,
D’un silenzio pieno di luci.

Tenere accanto a ciò che ci circonda
Accanto al nostro corpo
L’idea fissa che l’anima nostra
E l’involucro suo son contenuti
In un piccolo vuoto dentro il muro
O in un foglio di carta di seta
Graffiato con l’unghia.
Son fatto un punto che scompare e ritorna
Intero mi contiene il tokonoma.
Mi rendo invisibile
E nel rovescio ricopro il mio corpo
Nuotando sulla spiaggia
Circondato da bacellieri con nivei stendardi,
Matematici e giocatori di pallone
Che descrivono un gelato di mamey.
Il vuoto è più piccolo di una carta da gioco
E può essere grande come il cielo,
Ma possiamo farlo solo con un’unghia
Sul bordo di una tazza da caffè
Nel cielo che ci cade su una spalla.

Il principio s’unisce al tokonoma,
nel vuoto può nascondersi un canguro
senza perdere il giubilo del salto.
L’apparizione di una cavità
È misteriosa e sviluppa il terribile.
Nascondersi è tremare,
Suonano i corni dei cacciatori
Nel bosco congelato.
Ma calmo è il vuoto,
Lo possiamo attirare con un filo
Inaugurarlo nell’insignificanza.
Graffio d’un’unghia sopra la parete
Cade la calce
Qual pezzo di conchiglia
Della celeste tataruga
L’aridità nel vuoto
Sarà il primo o l’ultimo sentiero?
M’addormo, nel tokonoma
Evaporo nell’altro che continua il cammino.

***


Invisibile rumore

Quando s’innalza nel cielo spogliato
Danzando nell’abisso dell’altura
Che cancella nel frutto la figura
Cui danno forma i sensi del suo aroma

Onda breve disfatta nel matraccio,
impero illuso di una mano impura
distacco, fuoco vinto, biancheggiare
d’un mar finito sue ceneri doma.

Per l’odore del frutto trattenuto
Vanno le mani elaborando un senso
A restaurare l’inerzia d’un sorriso.

Così la freccia i suoi silenzi move
E cieca va cercando tra la neve
La propria stella quale frutto e muore.

***

Freccia e distanza sognano il rumore
Molle rugiada cade sulla seta,
A mezzaluna luce nuova pena
Che il suo silenzio magistral ci vieta.

Nell’articolazion sì dolce posa
Lenta dell’irridente fiume l’ombra
Del ciel che rende neve la sua morte,
Come ubriaco della sua scansione.

Non ciò che passa e che muto risuona
Non ciò che cade senza inganno o figura,
Ciò che invece ricade dietro l’ombra.

Peccato senza colpa, eterna pena
Che accompagna e che sfregia l’amarezza
Di ciò che cade e che nessuno noma.


***


Ma se ci assisti; ora là ti vedo
Onda su onda, manto dominato
Che giunge ad invitarmi a ciò che credo;
Il mio verbo, il tuo cielo, l’incarnato.

Tra i rami del ciliegio buon ristoro,
O di vimini in cesti governato
Il brutto nel passaggio ridestato
Si muterà nel volto dell’amato.

Si bagnerà lo spillo nella rosa
Sogno sarà col suo senso l’aroma
Noia l’aria che muove il cavaliere.

L’albero abbasserà la bella voce
La morte cesserà d’essere un suono:
l’eternità è all’ombra tua più breve.

***

Intermezzo ispanico di Pietro

A Gabriella

En el barco de estrelas llega el frìo
Tù dejalo llegar
Hablamos en la tienda de piel
Pajarillos latiendo
A la vela del corazòn.

***

En el barco de tus ojos
Llega el fuego
Lo espero
A luz de los alamos escondidos.

***

Pajaros de tus dientes
Me dan gana
De volar en el cielo de tu piel
Como chispa brotando
Sobre ramas
Nuevas en la primavera de tus manos.

***

Nieve te haces
brotando
En la extensiòn del prado de corderos
Tus pies miden sin miedo
La distancia que nos une.

***

Battaglia cinese

Separati dalla collina ondulata
Due eserciti mascherati
Lanciano interminabili barditi di battaglia.
Il capo nella sua tenda da campo,
interpreta la furia ancestrale del popolo.
L’altro fissando la linea del fiume,
Vede in un altro corpo la sua ombra e si rinnega.
La musica crescendo con il sangue
Precipita la marcia nella morte.
I due eserciti, come avvolti da nubi,
Si addormentano cancellando gli scarti temporali.
Come mutati in pietra stanno i capi
E contan l’ombre sfuggite dai corpi,
Contano i corpi fuggiti lungo il fiume.
Uno degli eserciti riuscì a mantenere
Unita la sua ombra al proprio corpo
Ed il suo corpo con il fiume fugace.
L’altro fu vinto da un immenso deserto sonnolento.
Rende il suo capo la spada con orgoglio.

***

Ah, te ne fuggi!

Ah, te ne fuggi proprio nell’istante
In cui avevi ormai raggiunto la tua miglior definizione
Ah, cara amica che tu non voglia credere
Alle domande della stella appena amputata
Che inumidisce le sue punte in altra nemica stella.

Ah, se potessi essere certo che all’ora del bagno
Quando nella medesima acqua discorsiva
Si bagnano il paesaggio immobile e i più fini animali:
Antilopi, serpenti dal passo breve, evaporato
Sembrano tra i sogni sollevare tranquilli
I capelli più lunghi e l’acqua del ricordo.
Amica se ci avessi lasciato
Nel marmo puro di tutti gli addii
La statua che ci avrebbe accompagnato
Ora che il vento, il vento burlone
Qual gatto si distende
Perché lo definiamo.

***

Minerva definisce il mare

Estrae Prosepina il fiore
Dell’infernale mobile radice
E il granchio seppellito alfin s’innalza
Alla grandezza ammirata del pistillo.
Cinge Minerva dispensatrice
Imbruna e confonde il mare.

Il granchio porta una corona.

Battente spuma, anemone
Sviscera l’orologio della notte
La pinna pettorale del nuotatore Ida.
Il suo petto, delfino oltredorato,
Coltello dell’aurora.
Saltano i pesci ciechi della grotta
Ritorcono, dissimulano, affrettano
I comandi dorati della dea
Colomba emanatrice.
Tra le colonne avvolte dalle alghe
Serpenti, i nascondigli delle aringhe
Socchiudono le labbra biforcute
Dentro i fiori remando i lor contorni
E’ lo specchio che serra il domino
Inciso nella porta cavernosa.
È un albero il suo lampo
Nella notte, nel suo sguardo
È il ragno azzurro che va disegnando
Le stalattiti del proprio tramonto.
Accampano nell’eros conoscente
Il mare che prolunga i suoi agnelli
Di rovine raddoppiate al salubre.
Ed al rintocco di dentati pesci,
Ecco il granchio che porta la corona.
Caduceo di serpi e di verzura
Il mare fronteggia lo specchio,
La sua lotta silente di riflessi
Che disdegna ogni oltraggio
Del nuotator gettato alla marina
Per macinare migliore farina.
Gettando il volto nell’acqua dello specchio
Va interrogando gli staffilati
Trilli del colibrì e il balenottero.
Il dito e il dado
Puntellano il caso
L’eternità nel suo gocciolìo
Il falso tremito del murice secato.
Il mascheron della Minerva
Il grandinare
Delle rovine del suo corinzio
Balbettare,
Ingannano il sale che brucia
Le viscere del mare.

Il ballerino si estende con il fiore
Freddo nelle fauci del pesce
Tra le rocce si estende
Per non giungere al mare.

È rotto il mascheron della Minerva
Non ora la piana di carezze della fronte
E il casco che ricopre le uova della tartaruga.
Saliva sopra il fico della danza,
Esteso il ballerino, in fior riassunto,
Il mare non lo poté toccare,
Tagliato il fuoco per mano dello specchio.
Senza invocarti, maschera colpita di Minerva,
Continua a distribuire agnelli di schiuma.
Scalinata tra il fiore e lo specchio
Il ragno che spalanca l’albero della notte,
Non poté giungere al mare.

Ecco il granchio che porta una corona.

***

La foglia caduta ammiro

La foglia caduta ammiro
Ché nel tuo oblìo decresce
La qualità del sospiro
Fermo che a voce si mesce.

E l’ombra del tuo ritiro
A notte non appartiene
Se insisto e quell’ombra ammiro
La tua assenza crescente non viene

Del vuoto la sostanza
Solo trova il suo concerto
Lo svelarsi elaborando

Presagio di rigido corpo
O dea perduta nel cielo
Che col mio corpo perseguo.

***

Corpo nudo

Corpo nudo nella barca
Un pesce vi dorme accanto
Che fuggito vuota il corpo
D’un nuovo punto d’argento.

Tra quel punto ed il fogliame
Estatica barca esala.
Mi trema la brezza al collo
L’uccello svaporava.

Il magnete tra le foglie
Tesse duplice corona.
Soltanto un ramo caduto
Illesa coglie la barca
Quell’albero che ricorda
Sogno da serpe ad ombra.


Gonzalo Arango




Picnic nell'aldilá



Quella notte mi invitarono a un picnic sulla riva del mare.

Appoggiato a un tronco con il cervello pieno di fumo, la logica divenne cenere nel sacro rogo.

Di colpo sentii che la pelle mi abbandonava con una dolcezza ronzante e si incendiava a stella, lassù, lontano.

Ero affascinato dal prodigio.

Per le mie vene non scorreva sangue, bensí un etere serafico che mi alleviava dalla pesantezza del corpo.

Chiusi i circuiti del pensiero, volavo all'infinito dentro me stesso. Verso Dio.

Un certo momento mi assalí un terrore relativo alla mia vita. Sentii che trasmigravo...

Un torbido sentimento di colpa pesava sulla mia anima per osare entrare negli enigmi.

Presentii, terrorizzato, che stava per succedere la stessa cosa della mia pelle: una forza brusca, soprannaturale, mi avrebbe strappato da me stesso per lanciarmi nel vuoto.

Con una paura impotente mi afferrai al tronco per evitare la caduta, ma il legno cominció a scricchiolare disintregrandosi, in un divorzio dal mio corpo, come se la materia mi avesse esiliato dalla sua realtá.

Assolutamente indifeso evocai ció che amavo di piú, la cosa piú bella che avrebbe potuto trattenermi da questo lato del mondo: quella donna e la perturbante promessa della sua tenerezza sessuale.

Tutto inutile.

Nulla poteva raggiungermi nella vertigine di quell'abisso in cui giravo lontano da ogni possibilitá umana.

Naufrago del cielo, perduto nel turbine delle costellazioni, scintilla di nulla nell'eternitá, ero trascinato da quella marea di terrore verso un regno di luce spettrale, alle illimitate colline del non-essere...

Si non mi ricordo male, questo giallore mistico imitava un cielo religioso in cui la luce era beatitudine.

Sicuramente ero morto sulla terra. Questa evidenza si impose con una tale chiarezza che non aveva senso ribellarmi.Consentii alla mia morte e nemmeno potevo ricordarmi come corpo.

Eccomi qua spogliato della materia, vagare senza memoria in cieli vuoti.

Mio Dio, che deserti! Pure solitudini... luce senza limit...senza distanze... ove mi sento perduto.

Non vedo Dio e non ho speranza di incontrarlo.

Mi metto a cercare disperatamente quella donna che amai sulla terra da cui una volta di piú mi sarebbe giunta la salvezza.

Questa illusione gravita in me come un destino

Percorro tutti gli stadi dell'eternitá: nulla, nessuna presenza, nessun segno. L'umano è assente dal mondo.

O Dei, dve nascondete i mortali?

L'idea che dovró vivere tutta l'eternitá in questa assenza, duole alla mia anima come un esilio.

Sento la tenera e terribile nostalgia della terra, la sete di succhi, il giubilo del rum intorno al fuoco, una cascata in montagna che lava una donna nuda, la mia donna in un campo di girasoli, una amaca sotto le stelle di Tolù. Odore di campi arati, fiui di miele, di rugiada, oh sì!, la terra, regno trasparente di luce di pienezza!

Quando ritornai i pellicani giocavano sulle onde dell'immenso loto, bolle di sole nell'aria.

La terra era un sogno che risvegliava dall'incubo di Dio, e era verde.

La benedissi



***



Poema tristissimo



Se muoio

Ti invito al sole

Anima mia

E non dimenticare

Di portare con te

Il tuo corpo



Soffriremo felici

E insieme saremo

Carne di luce

Nella memoria di Dio



E se Dio non esiste

Fa lo stesso



Ci ricorderemo del sole

Che ci piaceva tanto

A Calì in Colombia

Nuovo Mondo. Ricordi?



Gonzalo Arango

trad genseki