giovedì, ottobre 08, 2009
Se avessi lasciato
Ancora qualche luna
Mi sarei ritrovato ad affrontarlo
Mutato
In diverso timore
Questo tumore verdognolo
Questa ghianda che serra
Sicuramente un'antica pianta
Nalle membrane vegetali di tutte le sue potenzialità
Ma le lune che scorrrevano
Richiamando l'acqua dai pozzi
L'acqua bianca come lo sperma
Delle generazioni inghiottite
Dalle parole,
Consumavano il mio istinto
La mia determinazione, quello che restava del mio desiderio
Di non separarmi da me.
Alla finestra, dalle terrazze, sui balconi
Quel popolo festoso continuava
A guardare la televisione
E io mi lasciai finalmente marcire
Come un fagiolo appena seminato.
genseki
mercoledì, ottobre 07, 2009
L'Islam, l'Iran e la filosofia antica
Damascio
Damascio nacque tra il 480 e il 490 ad Alessandria in Egitto e fu discepolo di Ammonio che a sua volta era stato discepolo del sommo Proclo. Compiuta la sua formazione e consolidata la sua fama si trasferì ad ad Atene. Aveva intorno ai cinquanta anni quando fu scelto come sucessore di Zenodonte, come Scolarca della Scuola di Atene, occupando cosí la cattedra di Platone.
Credo che si possa considerare il neoplatonismo come una filosofia mistica che aveva assunto nelle forme esteriori e nelle pratiche molti, moltisimi elementi rituali e si presentava quasi come una religione.
Per rendere l'idea di che cosa fosse nell'estrema antichitá il neoplatonismo si potrebbe forse utilizzare l'espressione “Buddhismo di Occidente”. La sua attivitá come Scolarca duró quasi dieci anni, nel rapido, turbinoso disfacimento del pensiero antico e del mondo culturale pagano. Nel 529, infatti, Giustiniano chiuse la Scuola di Atene e confiscó i beni dei Platonici.
Questa confisca dei beni ci fa pensare che i platonici fossero una specie di comunitá, qualche cosa di molto simile a un ordine religioso.
Comunque questi provvedimenti non significarono la fine della scuola, come avevano sprao, probabilmente i Vescovi cristiani che gli ispirararono. L'imperatore filosofo dei Sassanidi offrí loro rifugio e protezione, mi pare nella cittá di Bactria, l'attuale balkh nell'Afghanistano attuale dove sorgeva anche una rinomata universitá buddhista. Secondo altre fonti, quello che restava della Accademia fu ospitato in Ctesifonte.
I nomi di questi filosofi erano Damascio, Simplicio, Prisciano di Lidia, Eulamio di Frigia, Hermias di Fenicia, Diogene di Fenicia e Isidoro di gaza. Nel 532, Cosroes vittorioso nella guerra impose ai bizantini la fine del loro esilio e quasi tutti loro ritornarono in Occidente. Damascio rientró in Egitto.
Di lui conserviamo pochi frammenti dalla “Vita di Isidoro” grazie a Fozio. Si suppone che abbia composto un “Commento al Filebo” che fu atribuito a Olimpiodoro e un “Commento al Fedone” anche esso attribuito a Olimpiodoro.
Tuttavia la sua opera filosofica principale è: “Aporie e soluzioni sui primi principi” che puó essere consierato una specie di commento del “Parmenide”.
Per Damascio, a differenza che per Proclo e Plotino pensa che al di sopra dell'Uno si trova l'ineffabile che non puó essere in nessun modo oggetto della nostra conoscenza. Questo ineffabile è analogo all'Assoluto di Ibn Arabi che anch'esso è antecedente all'Uno. L'uno proprio come uno è la singolaritá di ogno molteplicitá ma non è l'Assoluto, che si può considere come nulla. Il fatto è che noi pensiamo solo relazioni e l'Assoluto ineffabile è al di lá di qualsiasi relazione. Per Damascio tutto esiste in ogni cosa singola. L'assoluto è presente in noi come una forza o uno stimolo che spinge il pensiero a ngarsi come pensiero, situandosi nel punto in cui il pensiero sorge o dove si estingue.
Quest'ultimo punto di vista è molto prossimo alle concezioni del buddhismo mahayana sulla meditazione, concezioni che molti secoli dopo furono sviluppate da Dogen nel concetto di Hishiryo (oltre il pensiero e il non pensiero).
A proposito dell'Assoluto anche per Ibn Arabi esso è: “astrazione da tutte le possibili relazioni (cioè i nomi e gli Attributi”
“Se dall'essere divino si astraessero tute le relazioni non si avrebbe allora nessun Dio. Ma siamo noi che rendiamo reali queste possibili relazioni e finiamo per convertire l'Assoluto in Dio”.
Le radici neoplatoniche del sufismo, i possibili scambi teorici tra buddhismo e neoplatonismo il ruolo del pensiero sciita in questo quadro sono i temi che tratteró nelle prossime pagine.
genseki
lunedì, ottobre 05, 2009
Il ramo secco
Nuove traduzioni da Trilce
L'incontro con l'amata
Qualche volta soltanto è un semplice dettaglio
Quasi un programma ippico violaceo
Cosí lungo che non si riesce a piegarlo bene.
Far colazione con lei che
Ci porta il piatto che ci piacque ieri
Ed eccolo di nuovo
Ma con un po' più di senape,
La forchetta assorta, il suo corteggiamento radiante
Di pistillo in maggio, e la sua verecondia
Centesimale per togliermi infine quella paglia
E poi la birra lirica e nervosa
Quella che nasconodono i capezzoli senza luppolo,
Attento! Non berne troppa!
E gli altri incanti di quella tavola
Al confine di una nubile campagna
Con le sue proprie batterie germinali
Che hanno operato per tutta la mattina
A quanto mi consta, a me,
Il notaio amoroso della sua intimitá
Con le dieci bacchette magiche
Delle sue dita pancreatiche.
Donna che senza pensar ad altro
Apre il rubinetto e si mette a conversarci
Di parole tenere
Come lattughe lancinanti colte or ora.
Un altro bicchiere e adesso andiamo,
Per davvero! A lavorare.
Lei nel frattempo si inoltra
ra le tende! Ago dei miei giorni
Squarciati! Si siede sulla riva
Di una cucitura e mi cuce il costato al suo costato
E mi attacca bottone di camicia
Già caduto. S'è mai visto?
César Vallejo
Trad. genseki
domenica, ottobre 04, 2009
Gilles de Rais
Chi è allora Gilles de Rais? Ebbene Gilles de Rais è Florissans des Esseints trasportato nel gotico "flamboyant", nell'età della "danse macabre".
Questo testo è dunque un frammento d critica narratologica. Una metanarratologia.
Sembra che Huysmans non possa liberarsi di questa figura e giochi a metterla in scenna sugli sfondi e nelle circostanze piú differenti, ma Des eeints, e Gilles de Rais sono puri attanti di un catalogo di oggetti e di sensazioni reiteratamente e successivamente consumabili.
Sono, per dirlo brevemente, il consumatore. E quello che consumano è merce, è pura equivalenza sull'orizzonte del valore. Il mondo di des Esseints è un catalogo immenso di beni e di sesazioni che si possono acquisire e consumare e cosí pure quello di Gilles de Rais e questi personaggi, la sola cosa che fanno, è apparentemente quella di consumare questi beni.
Vivono nello spettacolo e allo stesso tempo ne sono parte. Come avrebbe detto Debord.
(cliccando sull'etichetta Huysmans si puó facilmente accedere alle altre part di questa traduzione).
genseki
Gillede Rais
a cura di genseki da Là-bas di Huysmans
Gilles è un essere diviso in tre differenti persone.
Per prima cosa il soldato valoroso e pio.
Poi l'artista raffinato e criminale.
Infine il peccatore che si pente, il mistico. È tutta un voltafaccia di eccessi questa persona, si scopre per ognuno dei suoi vizi una virtú che vi si oppone: ma nessun percorso visibile li unisce.
La sua ferocia superò i limiti di quello che è possibile all'uomo, eppure fu caritatevole, adorò i suoi amici e li curó, come un fratello quando il demonio li ferì.
Impetuoso nei desideri, eppu pazient; valoroso in battaglia, vile davanti all'aldilà, fu dispotico e violento, debole, tuttavia, quando le lusinghe dei suoi parassiti crebbero. Ora sule cime, ora nel baratro, mai in pianura, nelle pampas dell'anima. Nemmno le sue confessioni servono per chiarire questi antipodi. Egl risponde, quando gli ingiungono di spiegarae chi gli suggerì l'idea di tali crimini: “Nessuno, la mia sola immaginazione mi spinse: il pensiero mi è venuto da solo, frutto delle mie fantasticherie, dei miei piaceri giornalieri, dei miei gusti per il vizio.
Si accusa di pigrizia, assicura costantemente che i pasti delicati, le forti bevute hanno sciolto la belva che era in lui. Lontano dalle passioni mediocri, egli si esalta, di volta in volta, nel bene come nel male e si getta, la testa bassa, nei gorghi opposti dell'anima. Muore all'etá di trentasei anni ma gia si era esaurito il flusso dei godimenti disordinati, il riflusso dei dolori che nulla puó calmare. Aveva adorato la morte, amato come un vampiro, copulat con inimitabili espressioni di soffernza e di terrore, e, tuttavia era stato oppresso da rimori infrangibili e paure insaziabili. Quaggiú,per lui non restava piú niente da imparare, niente che valesse la pena.
sabato, ottobre 03, 2009
Huangpo
Lo studio teorico preserva le passioni e finisce sempre per produrre smarrimento.
La Via non è nulla, non c'è proprio nessuna Via che vada da nessuna parte e per questo prende il nome di "Spirito del Grande Veicolo". "Questo spirito non è dentro, non è fuori e nemmeno tra il dentro e il fuori". Davvero non esiste e non va da nessuna parte.
Questa Via è cosí naturale che non ha nome. Sopratutto non bisogna affrontarla teoricamente cioè come se fosse l'oggetto di una passione. Solo quando non ci sono piú passioni non c'è nemmeno piú lo spirito e non va da nessuna parte.
La gente nel mondo non la conosce per niente, si perde nelle passioni e i Buddha appaiono proprio per porre rimedio a quesa situazione con il loro insegnamento. Siccome pensano che la gente non possa comprendere usano in modo provvisorio il termine "Via" ma in modo tale che non si possano fabbricare teorie su di esso.
Vale per questo il detto: "Buttare la rete una volta che si è preso il pesce".
Chi, nello stato naturale del suo corpo e del suo spirito percorre la Via cosciente del proprio spirito raggiunge la fonte originaria e si può chiamare monaco.
trad a cura di genseki
venerdì, ottobre 02, 2009
Su alcuni versi di Virgilio - parte II
Anche qui, come nella Comedia di Dante, quindi Virgilio è la guida, la guida di una Nekuia, di una discesa agli inferi di un tema, quello genitale che è infimo "par excellence". E, sempre come nella Comedia, la funzione di guida di Virgilio è quella di rappresentare la ragione, la moderazione. Questo saggio può quindi essere letto come un dialogo tra Montaigne e Virgilio.
*
Ma ritorniamo alla nostra domanda:perché sembra che Montaigne sia convinto che il piacere sesuale debba essere rigorosamente escluso dall sfera della riproduzione?
Effettivamente, dichiarando, che il godimento del piacere nel matrimonio è una forma di incesto Montaigne amplia la sfera del concetto di incesto.
La amplia nel senso che include in esso l'atto, il soggetto e l'oggetto della riproduzione e ne esclude, appunto il piacere.
In questo modo egli sembra considerare la sfera della riproduzione come una sfera sacra ove deve essere mantenuta una rigida purezza rituale.
*
Non bisogna dimenticare che i saggi di Montaigne sono stati scritti durante le guerre di religione francesi, ovvero durante uno dei periodi di maggiore ferocia e follia sanguinaria della storia d'Europa. Non bisogna nemmeno dimenticare che Montaigne è di origine aragonese e quasi certamente israelitica.
Tenendo conto di questi elementi si puó supporre che la sacralizzazione della sfera della riproduzione rappresenti per Montaigne l'affermazione di uno spazio religioso al di fuori della sfera della morte, del lutto e della vendetta, in cui si erano venute a trasformare le forme religiose stabilite, e di uno spazio intimo sempre sacro al sicuro dallo sguardo temibile degli inquisitori di "moriscos" e giudaizzanti.
Si tratta solo di un'ipotesi che meriterebbe maggiore approfondimento.
*
In senso piú classico si puó argomentare che la sfera della riproduzione è troppo legata alla "polis" e alla ontinuitá della razza e della specie per permettere che un fattore soggettivo come il piacere possa diventarene la guida e la ragione.
*
Il saggio continua con la disanima della relazione che intercorre tra l'amore e il matrimonio.
Per Montaigne tra di loro vi è uuna relazione di "cousinage" ma molte differenze.
In ogni caso un matrimonio sano è considerato una necessitá per l'uomo e per la donna a condizione che l'uomo, soprattutto sappia "prudemment mesnager sa liberté", ovvero condurre una vita sessuale e sentimentale variata e soddisfacente al di fuori di esso.
Sembra che questa "liberté" sia essenziale perché il matrimonio possa mantenersi:
"Si on ne fait toujours son debvoir, au moins le faut il toujours aymer et recognoistre: c'est trahison, se marier san s'épouser".
genseki
giovedì, ottobre 01, 2009
Su alcuni versi di Virgilio
In effetti la prima parte del saggio è una interrogazione sull'economia del piacere nell'etá avanzata, amara e dolente interrogazione cui risponde una consapevolezza di disperata luciditá:
"Je m'en vays au trai de tressailir, comme d'une nouvelle faveur, quand aucune chose ne me deult"
*
Il piacere sessuale non pare adeguato alla vecchiaia. la sola forma di voluttá degna di questa etá e l'ostinazione a conservare il ricordo dei piaceri passati, ariviverli nella memoria e attraverso la poesia.
Nella poesia la voluttá si presenta come ancora piú vivace e piú animata di quanto non sia la sua propria essenza essa si presenta al vecchio con un aspetto ancor piú amoroso dell'amore medesimo. Venere tutta nuda con il respiro mozzo non è cosí bella nella realtá come lo è nei versi di Virgilio (quelli che danno il titolo al saggio)
Vulcano stringe Venere in un appassionato amplesso coniugale.
*
Montaigne trova peró che la descrizione di Virgilio non si addice troppo a una relazione sesuale matrimoniale.
“En ce sage marché les appetits ne se trouvent pas si follastres: ils sont sombres et plus mousses. L’amour hait qu0on se tient par ailleurs que par luy, et se mesle laschement aux accointance qui sont dressées et entretenues soubs autre titre, comme est le mariage. L’alliance, les moyens, y poisent par raison, quatnt ou plus que les graces et la beauté. On ne se marue pas pour soy, quoy qu’on en dise, on se marie autant pou plus pour sa posterité et pour sa famille: l’usage et l’interest du mariage touche nostre race, bien loing par dela nous. Pour tant me plaist cette faÇon qu’on le conduise plutost par main tierce que par les poropre et par lesens d’atruy que par le sien: Tout cecy, combien à l’opposite des conventions amoureuses? Aussi est-ce une espece d’inceste d’aller amployer a ce parentage venerable et sacré l’effort et les extravagances de la licence amoureuse.
L'amore nel matrimonio è considerato come adulterio.
Il martrimonio non ha e non deve avere perció, niente a che vedere con l'amore, con la passione e con il piacere sessuale.
La sua legittimitá e utilitá si situa in un altro ambito. Tuttavia l'assimilazione della ricerca del piacere sessuale all'incesto richiama l'attenzione per una sua rara forma di violenza argomenativa e merita di esssere trattata con maggior attenzione.
L'incesto sembrerebbe essere per Montaigne l'irruzione del piacere nella sfera della riproduzione.
Ma perché il piacere deve essere escluso da questa sfera?
Le argomentazioni di Montaigne si muovono in un ambito di assoluta laicitá. Vedrò di esaminarle domani in un "post" successivo.
genseki
mercoledì, settembre 30, 2009
Enneade V
L'Uno è tutte le cose e non una sola. Ció significa che è il pincipio di tutte le realtá e non una di esse.
*
Come possono tutte le cose sorgere dall'uno se questo è semplice e non rivela in sé molteplicità, nè duplicità di nessun tipo?
*
Proprio perché nulla era in Lui tutto puó derivare da Lui affinché l'essere possa esistere. Lui stesso non è solo essere, semmai è il padre dell'essere, in quanto è, per coì diree, la prima emanazione. L'uno, infatti è perfetto perché non è in cerca di nulla, Non ha nulla e non ha nemmeno bisogno di qualche cosa. È la sua straripante abbondanza a produrre qualche cosa d'altro.
Plotino
Topa nuda
Coí ho deciso di fare qualche cosa. Se devo soffrile questa profanazione almeno la soffra a ragio veduta.
Quello che segue è un bellissimo teso erotico del grande Marot che non traduco perché la lingua italiana di cui oggi si puó disporre trasformerbbe questo lieve, grazioso erotismo in qualche cosa di degno dei cercatori di "Topa nuda".
Tetin refaict, plus blanc qu'un oeuf,
Tetin de satin blanc tout neuf,
Tetin qui fait honte à la rose,
Tetin plus beau que nulle chose ;
Tetin dur, non pas Tetin, voyre,
Mais petite boule d'Ivoire,
Au milieu duquel est assise
Une fraize ou une cerise,
Que nul ne voit, ne touche aussi,
Mais je gaige qu'il est ainsi.
Tetin donc au petit bout rouge
Tetin quijamais ne se bouge,
Soit pour venir, soit pour aller,
Soit pour courir, soit pour baller.
Tetin gauche, tetin mignon,
Tousjours loing de son compaignon,
Tetin qui porte temoignaige
Du demourant du personnage.
Quand on te voit il vient à mainctz
Une envie dedans les mains
De te taster, de te tenir ;
Mais il se faut bien contenir
D'en approcher, bon gré ma vie,
Car il viendroit une aultre envie.
O tetin ni grand ni petit,
Tetin meur, tetin d'appetit,
Tetin qui nuict et jour criez
Mariez moy tost, mariez !
Tetin qui t'enfles, et repoulses
Ton gorgerin de deux bons poulses,
A bon droict heureux on dira
Celluy qui de laict t'emplira,
Faisant d'un tetin de pucelle
Tetin de femme entiere et belle.
Blason di Clément Marot
martedì, settembre 29, 2009
Gaspard de la Nuit
Che di romano solo il nome serbate,
Voi monumenti, che ancora sostenete
L'onor tarlato d'anime divine;
O voi archi, voi guglie al ciel vicine,
Che il cielo che vi mira anco stupite,
A poco a poco cenere divenite,
Favola al volgo e pubbliche rapine!
E, benché al tempo gran tempo faccian guerra
I monumenti, è pur vero che il tempo
Opere e nome finalmente atterra.
Triste disio, orsú vivi contento:
Perché se il nulla infine tutto serra
Troverá presto fine il mio tormento.
trad. genseki
giovedì, settembre 24, 2009
Du Bellay
Che di vecchi trofei le spoglie porta
E leva ancora al ciel la testa morta
Mentre giá il pié fuor del terreno spicca.
Coi rami spogli ormai le zolle tocca
Drizzando al ciel la radice contorta
Ombra non da e il suo peso sopporta
Tronco nodoso sbrecciato come brocca
Al suolo crollerá col primo vento
Loco lasciando agli arboscelli attorno
Eppur culto le presta il volgo attento.
Chi tale quercia vide, sappia allora
Como tra le cittá prospere ora
Il piú lodato è l'onore ormai spento.
trad genseki
mercoledì, settembre 23, 2009
Ancora su Hugo
Una fanciulla che lascia pendere in disordine il suo nastro sullo schienale di una poltrona, disegna, senza volerlo, quasi tutti i sentieri di scogliera e di montagna.
Sembra una definizione della scrittura: il nastro come filo di inchiostro, l'incoscienza dell'atto creativo, il suo essere frutto di una forma del caso, come piú tardi canterá Mallarmé ma anche un cammino, un proceso una vicenda.
O forse l'emozione rara e confusa che ci afferra leggendo queste righe e la stessa che proviamo guardando una roccia vertiginosa e le sue venature profonde o un panneggio di Rubens. La bellezza come segno. Come segno senza significante ne significato.
genseki
martedì, settembre 22, 2009
Antonio Moresco e Plotino
Lo scrittore Antonio Moresco ha recentemente pubblicato sulla rivista “Il Primo Amore” tre articoli su Plotino.
Antonio Moresco ci informa del suo interesse e passione per le Enneadi di Plotino sorti nel corso di una recente lettura estiva.
Da questa sua escursione nel continente delle Enneadi egli pare aver tratto le seguenti convinzioni:
l'opera di Plotino è anticipatrice;
La sua forza anticipatorie è stata occultata dalla “scolastica storicistica” dei manuali di filosofia;
L'occhio e la mente aperti e liberi da preconcetti di Antonio Moresco hanno permesso di rivelare la forza anticipatrice di questo antico testo.
Ora io mi domando che senso possa avere applicare una categoria giornalistica come quella di anticipazione a un'opera come quella di Plotino che si muove in un universo di assoluti, Le Enneadi hanno per oggetto l'investigazine di leggi eterne, anzi la loro contemplazione in un'estasi che non puó essere che atemporale.
In che senso si puó dire che Plotino avrebbe avuto l'intenzione di anticipare qualche cosa?
Plotino non aveva nemmeno idea del fatto che la contemplazione del Bene potesse servire ad anticpare qualche cosa. Dubito che possa aver nutrito alcun interesse per un concetto tanto fuori dalllo spirito e dall'ambiente culturale in cui si svolse la sua riflessione filosofica.
C'è qualche cosa di osceno nel voler piegare Plotino, molti secoli dopo l'elaborazione della sua opera ad anticipare qualche cosa.
Non vale dire che Plotino avrebbe anticipato “malgré soi”, inconsciamente. Bisognerebbe dimostrare che cosa posa significare anticipare qualche cosa che non si è voluto anticipare. La qual cosa è naturalmente impossibile.
Anticipare vuol dire mettersi a pensare il futuro o almeno mettersi a pensare nel tempo. L'orizzonte della filosofia plotiniana è invece l'eterno.
Cosí Moresco dovrebbe dimostrare in qualche modo che Plotino pensa il tempo nei termini in cui lo pensa Moresco.
Il concetto di anticipazione è un tipico concetto da quarta di copertina o da fascicoletto dell'Euroclub.
E poi, che cosa avrebbe anticpato Plotino? Sembrerebbe che, per Moresco avrebbe anticipato qualche cosa che avrebbe a che fare con la genetica e con la teoria fisica delle stringhe.ni
Questa intuizione moreschiana o moresca sembrerebbe basarsi sull'identificazione tra il concetto di forma presente nelle Enneadi e il concetto di forma delle scienze sperimentali.
Il fatto è che questi due concetti non sono sovrapponibili. la materia di Plotino non è quella della fisica che ha un peso e una massa. La materia di Plotino è qualche cosa che si oppone alla forma. È l'assenza di forma, e conteporaneamente ció che accogli la forma nella sua attivitá formante.
Quindi, come ognuno vede, la materia di Plotino non si oppone allo spirito ma alla forma. tanto è vero che per Plotino e per Porfirio esiste una materia spirituale ovvero uno spirito suscettibile di forma.
Moresco poi non spiega in che modo l'emanazionismo Plotiniano che serve per spiegare la dialettica tra uno e molteplice abbia qualche cosa a che fare con la genetica.
Moresco sembra non rendersi conto della struttura dialettica delle Enneadi in cui le singole parti hanno un valore solo nella totalitá e in cui proprio per questo molte frasi sono affermate per essere poi negate ad un altro livello.
Insomma non si capisce che cosa abbia anticipato Plotino né perché debba aver per forza anticipato qualche cosa.
Sorge il sospetto che Moresco pensi che Plotino abbia anticipato proprio Moresco. Ovvero che le Enneadi siano rimaste pura materia fino a quando Moresco le abbia dato attualitá, cioè forma. Cioè che il senso del pensiero di Plotino sia quello di Moresco.
genseki
lunedì, settembre 21, 2009
La torre e le vele
Nel luce dorata del tramonto si stagliano i profili di alcune navi dalle vele ripiegate al lato di una torre massiccia una torre di avvistamento posta a guardia del porto, probabilmente, ma che sembra vagamente fuori posto per la sua forma architettonica piú consona, a mio parere a una pingue pianura di verdi praterie e di pacifiche vacche. Chissá dove puó averla copiata Lorrain!
Le navi nere sembrano stanche di molti viaggi, consumate da molti altri tramonti dall'aver assorbito nel fasciame e nelle carene il sale unto di molti altri porti, non parlano di partenze ma di arrivi.
Quello che unisce navi e torre è l'essere presenti insieme nello spazio dorato del tramonto.
Neppure questa cortina di luce ci parla di orizzonti aperti, è appunto cortina destinata a proteggere lo sguardo e non ad aprire lo spazio.
È un porto questo da cui non si parte, e un porto cui solo si giunge. È una meta. In realtá ogni porto è anche una meta. Questo è un porto rappresentato solo come meta.
La fagilitá della nave sta accanto alla mole massiccia della torre, la cui materialitá in parte sfuma sull'agonica luce dell'occaso. Gli alberi inclinati dai rollii, le bandiere rosse appena scosse dal vento si giustappongono all'immobilitá della torre tanto antica che sulla sua sommitá pare intravedersi come un bosco, o un giardino pensile. Sembra di udire i cigolii delle tavole usurate dei battelli delle corde e delle pulegge e il fremere di ali che sfiorano le pietra possenti della torre.
Dalla sommitá della torre antica si gode certamente di una vista amplia sul mare e sulla costa abitata che si intravede sulla destra; salire vuol dire ampiare il raggio dello sguardo, conoscere, proprio come viaggiare sui fragili gusci dei velieri. Viaggio e ascesa sono due forme di liberazione della mente, due modi di andare oltre il limite che noi stessi diventiamo per noi. Una forma orizzontale e una verticale. Una croce, insomma.
Nello spazio metaforico della luce vespertina la torre e i velieri appaiono ancora una volta come il simbolo della Croce che è il punto di arrivo il porto della pace.
genseki
domenica, settembre 20, 2009
Hugo, Io, Dio
Con una applicazione accurata delle funzioni di copia e incolla si puó creare un nuovo Hugo. Trasformare cioé il fluviale romanziere in un acuto, formidabile aforismatico visionario. Naturalmente quello che si otterrá cosí non è un Hugo verosimile, certamente, invece è un Hugo possibile. Uno dei tanti Hugo che avrebbero essere e che non furono nella oceanica molteplicità hugoliana.
La caratteristica principale dell'Hugo aforismatico e virtuale è la forza immaginativa che rompe la forma della razionalitá e dell'argomentazione.
Gli aforismi di Hugo non convincono, terrorizzano, trascinano al bordo di un abisso e spingono a guardarvi dentro.
Creano le condizioni all'apertra di un senso che va oltre il linguaggio, oltre il significato e la pura suggestone dei significanti.
«L'infinito esiste. È là. Se l'infinito non avesse un io, l'io sarebbe il suo limite; non sarebbe infinito; in altri termini, non esisterebbe. E invece esiste. Dunque ha un io. L'io dell'infinito è Dio”
La forza di queste righe, per esempio, consiste nella sorpresa continua che induce la forma della relazione introdotta successivamente tra i termini Infinio, Io e Dio. L'Io è qui il termine la cui esistenza permette all'infinito di essere tale. Un abisso si apre dentro dell'Io nel momento in cui scopre di essere la condizione di esistenza dell'Infinito, niente di meno! E dentro questo abisso ecco spalancarsene un altro, quando il medesimo Io si accorge di essere codizione dell'Infinito in quanto Dio. L'equazione Dio = Io è introdotta a bruciapelo! E ecccci precipitati nella spirale: Dio e l'infinito sono due cose diverse; Dio è una parte dell'Infinit ma en è una parte essenziale, necessaria per la sua esistenza, ma è tale in proprio in quanto Io.
L'aforismo di Hugo si regge perché trascina in questa vertiginosa prospettiva “en abîme” appunto. Una cosa alla Esher, insomma. E la porta che si spalanca di colpo su questo universo di angustia è proprio la parola Io.
Io sono io, si ha un bel metterci l'apostrofo, il mio io di lettore si sente ugualemte quell'Io che è condizione di esistenza dell'Infinito e che come tale si converte in Dio e per questo si afferra all'aforisma con tutte le forze di un naufrago disperato e da pedate alla logica perché affoghi una buona volta e gli permetta di deificarsi.
Il lettore molto malevolo, invece, puó divertirsi a considerare questo aforisma come la descrizione dell'autodeificazione di Hugo, che non puó fare a meno di considerarsi Dio.
Nelle foto Hugo ha sempre qualcosa che ricorda l'iconografia del Padre Sommo barbuto ma senza triangoli sulla testa.
Quello che resta è lo splendore di questa frase nascosta nell'oceano di parole di un romanzo immenso come una perla perduta.
sabato, settembre 19, 2009
Nicola Cusano
Parte I
Mi sembra che tu sia stato rapito un profonda meditazione per alcuni giorni sicché temetti di esserti molesto se ti avessi domandato qualcosa su quello che ti succedeva. Ora, siccome ti vedo meno concentrato e quasi lieto come se avessi scoperto qualche cosa di importante, mi perdonerai, spero, se ti farò più domande del solito.
Il Cardinale
Ne sarò lieto. Infatti mi sono speso meravigliato del tuo silenzio, soprattutto perché mi hai udito parlare molto, in quattordici anni, sia in pubblico che in privato di quello che ho trovato con lo studio e hai raccolto in opuscoli le molte cose che scrissi.
E così ora che per dono di Dioe per il mio ministero sei giunto allo sato sacerdotale, è giunto il tempo per te di cominciare a parlare e ad interrogare.
Pietro
Mi vergogno della mia goffagine. Tuttavia chiedo alla tua pietà di essere edotto di che cosa di nuovo ti giunse in questa meditazione pasquale. Credevo che tu perfezionassi tutta tua speculazione ce hai illustrato in tanti diversi tuoi manoscritti.
Il Cardinale
Se l’apostolo Paolo nonostante sia stato rapito fino al terzo Cielo non comprese tuttavia l’incomprensibile, nessuno mai, neppure il più grande, sarà saziato di tutta la comprensione anche se sempre insista per meglio compredere.
Pietro
Che cosa cerchi?
Il Cardinale
Dici bene.
Pietro
Ti interrogo e tu mi deridi. Quando ti domando che cosa cerchi, tu dici “dici bene”, e io non dico niente, ma chiedo.
Il Cardinale
Quando hai detto “che cosa cerchi” hai detto bene, perché il che cosa io cerco. Chiunque cerca ciò che cerca. Se infatti non cercasse qualche cosa o ciò sarebbe come se non cercasse. Io dunque, come tutti gli studiosi, cerco ciò, perché ben voglio sapere che cosa sia ciò ovvero la quiddità che tanto è cercata.
Pietro
Pensi che si possa trovarla?
Il Cardinale
Senz’altro. Infatti lo sforzo che compete a tutti gli studiosi non è vano.
Pietro
Se fino ad ora nessuno ha trovato ciò, tu cercherai di superare tutti?
Il Cardinale
Ritengo che molti in qualche modo lo abbiano visto e descrtto in parole. Infatti la quiddità che sempre è cercata, è stata e sarà cercata, se fosse del tutto ignota, in che modo potrebbe essere conosciuta, se anche una volta trovata rimanesse sconosciuta? Infatti diceva un certo sapiente che essa è vista da tutti anche dai più lontani.
Quindi essendomi sembrato per molti anni che sia necessario cercarla oltre ogni potenza cognitiva, oltre ogni varietà e opposizione non considerai che la quiddità è in sé sussistente, sussistenza invariabile di tutte le sostanze; e perciò non moltiplicabile, moltilicabile e non altra e altra quiddità degli altri enti, ma la medesima ipostasi di tutti. Poi vidi che era necessario che dicessi che la stessa possa essere l’ipostasi o la sussistenza di tutte le cose. E poiché può essere senza lo stesso potere non potrebbe essere. Come potrebbe infatti senza potere? Quindi lo stesso potere, senza il quale nulla può essere qualche cosa è ciò di cui non può esservi nulla di più sussistente. Perciò è esso ciò che si cerca. Proprio a questa teoria mi sono dedicato in queste festività con grande diletto.
Pietro
Mi sembra, in verità, che tu dica che senza potere nulla possa essere, e che senza quiddità non vi è alcunché, quindi parmi che la quiddità sia il potere stesso. Ma mi meraviglio, poiché già prima hai detto molte cose del potere e le hai spiegate nel trialogo, che questo non basti.
Vedrai che al di sotto dello stesso potere, di cui nulla può essere più potente né prima né migliore, è di gran lunga meglio nominare quello, senza il quale nulla può essere, né vivere, ne comprendere piuttosto che qualche altro vocabolo. Se infatti può essere nominato in ogni modo il potere stesso, del quale nulla può essere più perfetto, esso stesso lo nominerà nel modo migliore. Infatti non credo che si possa dargli un nome più chiaro, più vero o più facile.
Pietro
Come puoi chiamarlo facile, quando credo che non vi sia nulla di più difficile di quello che sempre è cercato e mai trovato completamente?
Il Cardinale
La verità quanto più è chiara tanto più è facile. Io ritenevo che la si trovasse meglio in un poco di oscurità. Grande è la potenza della verità nella quale brilla intensamente lo stesso potere. Essa infatti grida nelle piazze, come hai letto nel libretto “De Idiota”. Certamente essa è ben facile da trovarsi.
Quale bambino o adolescente ignora lo stesso potere, quando dice che può mangiare, correre o parlare? E non vi è nessuno dotato di una mente che sia a tal punto ignaro da non sapere anche senza maestro che nulla e se non può essere e che senza potere nulla può essere, avere, fare o subire. Quale adolescente, interrogato se possa portare una pietra, avendo risposto che lo può, ulteriormente interrogato se lo potrebbe senza poterlo non risponderebbe giammai? Egli giudicherebbe assurda e superflua tale domanda, come se nessuno sano di mente potesse dubitare di aver fatto o di fare qualche cosa senza poterlo. Ogni potente presuppone il potere come necessario e nulla può essere senza che esso sia presupposto e che cosa diresti se ancora ti domandassi, essendo il potere di tutte queste origini quasi inesplicabile, da dove tale potere tragga la sua virtù? Non risponderesti forse, che le trae da quel potere assoluto e non contratto, quasi onnipotente, di cui nulla havvi che di più potente possa essere percepito o immaginato o compreso, essendo
Se infatti qualche cosa può essere nota nulla è più noto proprio del potere. Se qualche cosa può essere facile, nulla è più facile proprio del potere, se qualche cosa può essere certo nulla è più certo dello stesso potere. Così nulla è più primo, né glorioso, né forte, né solido né sostanziale e così di tutte le cose. Mancando infatti il potere stesso nulla vi può essere di buono né di qualunque altra cosa che possa essere.
Pietro
Nulla vedo di più sicuro e ritengo che nessuno possa ignorare la verità di queste.
Il Cardinale
C’è solo attenzione tra te e me. Infatti, se ti interrogassi su che cosa scorgi in tutti i posteri di Adamo che furono, che sono e che saranno, anche se fossero infiniti, non risponderesti forse subito che non vi scorgi altro che il potere paterno del primo genitore?
Pietro
E’ certamente così
Il Cardinale
E se vi aggiungessi, che cosa scorgi nei leoni, e aquile e ogni specie di animali, non risponderesti forse allo stesso modo?
Pietro
Di sicuro non in modo diverso.
Trad. genseki
giovedì, settembre 17, 2009
Non c'è nulla d trovare
A partire dal'istante in cui Buddha trasmise il metodo spirituale a Mahakasyapa, lo spirito ricevette il sigillo dello spirito senza piú nessuna differenza tra spirito e spirito. Questo sigillo si stampiglia nel vuoto, cioè non ha nulla a che vedere con i testi, perché se fosse stampigliato su qualche cosa di concreto allora non avrebbe piú niente a che fare con il metodo spirituale. Per questo quando lo spirito pone il sigillo allo spirito lo spirito che sigilla e quello che è sigillato non sono piú distinti. Sccome, peró il soggetto che sigilla e l'oggetto che è sigillato si incontrano con difficltá la loro coincidenza è estremamente rara. Tutttavia, dal momento che lo spirito equivale al non-spirito, trovarlo equivale a non trovare nulla.
Il Buddha ha tre corpi: il corpo assoluto insegna la vacuità e la libertá della nostra essenza; il corpo della fruizione insegna il metodo della purezza universale; il corpo di appaizione insegna le sei trascendenze e tutte le altre pratiche infinite.
Non si puó cercare il metodo insegnato dal corpo assoluto in linguaggio, suono, forma o testo: nulla è attestato.
La nostra essenza è aperta come lo spazio. Questo è tutto. In questo senso è stato detto: "Nel fatto che il vero metodo non puó essere insegnato si trova il vero metodo".
Il corpo di fruizione e quello di apparzione si fanno sentire e si manifestano secondo le circostanze.
I metodi che insegnano dipendono dalle circostanze e dalle situazioni. Per attirare e convertire impiegano un metodo che non è quello reale, si puó dire quindi che: "il corpo di fruizione e quello di apparizione non sono il Buddha reale
e non insegnano il metodo corretto".
Tutto ció si puó riassumere in una sola luminosa chiarezza sottile che si articola in sei tipi di relazioni armoniose.
I sei tipi di relazioni corispondono alle sei facoltá sensoriali. Ognuna di queste facoltá si unisce al suo oggetto: l'occhio alla forma, l'orecchio al suono, il naso agli odori, la lingua ai sapori, il tatto ai tangibili, l'intelletto agli intellegibili.
Nel mezo emergono le sei coscienze così che in tutto si hanno diciotto sfere. Comprendendo che queste diciotto sfere non hanno esistenza indipendente le sei relazioni sono concentrate in una sola chiara luminositá sottile che altro non è che lo spirito, I discepoli sanno tutto questo ma si sforzano di spiegare concettualmente l'unica chiara luminositá sottile e le sei relazioni, cosí che si ritovano legati dal metodo senza coincidere piú con il proprio spirito.
Huangpo
Dialoghi
Trad a cura di genseki
mercoledì, settembre 16, 2009
Aforismi
Questo primo assaggio contiene brani dei miserabili. Il primo di essi non corrisponde che molto vagamente alle parole che ho scrito qui sopra, in parte ne è una fragrante negazione esemplare posa umilmente in limine.
genseki
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I MISERABILI
Si può considerare con indifferenza la pena di morte, si può non pronunciarsi, dire di sì e di no, finché non si è vista con i propri occhi una ghigliottina; ma quando se ne vede una, la scossa è violenta e bisogna decidersi a prender partito pro o contro. Alcuni ammirano, come il De Maistre, altri esecrano come il Beccaria. La ghigliottina è il concretizzarsi della legge; essa si chiama punizione, non è neutra e non vi permette di rimaner neutrali. Chi la scorge freme del più misterioso dei fremiti. Tutte le questioni sociali drizzano attorno alla mannaia i loro punti interrogativi. Il patibolo non è visione. Il patibolo non è un'impalcatura, non è una macchina, non è un meccanismo inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra che sia, in qualche modo, un essere dotato di chissà quali cupe iniziative. Si direbbe che quella impalcatura veda, che quella macchina intenda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria in cui getta l'anima con la sua presenza, il patibolo appare terribile e partecipe di quello che fa. Il patibolo è complice del carnefice: divora, mangia della carne, beve del sangue. Il patibolo è una specie di mostro, fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere d'una vita spaventosa, fatta di tutta la morte che ha procurato.
La morte appartiene solo a Dio. Con quale diritto gli uomini si servono di una cosa sconosciuta?».
«L'infinito esiste. È là. Se l'infinito non avesse un io, l'io sarebbe il suo limite; non sarebbe infinito; in altri termini, non esisterebbe. E invece esiste. Dunque ha un io. L'io dell'infinito è Dio».
Ma ciò che apprezziamo nei confronti di coloro che salgono, ci piace assai meno di fronte a coloro che cadono. Amiamo il combattimento fintanto che c'è pericolo; e, in ogni caso, sono soltanto gli oppositori della prima ora che hanno il diritto di essere gli sterminatori dell'ultima. Chi non è stato nei giorni della prosperità accusatore ostinato, al momento del crollo deve tacere. Solo il denunciatore del successo sarà il legittimo giustiziere della caduta.
Ogni zucchetto può sognare la tiara. Il prete, ai giorni nostri, è il solo uomo che possa di diritto diventare re; e che re! Il re supremo! Per questo il seminario è un semenzaio d'aspirazioni.
I geni, nelle inaudite profondità dell'astrazione e della speculazione pura, posti per così dire al di sopra dei dogmi, propongono a Dio le loro idee. La loro preghiera offre audacemente la discussione. La loro adorazione interroga. Questa è la religione diretta, piena d'ansietà e di responsabilità per chi ne tenta la scalata.
La meditazione umana non ha limiti. Ha i suoi pericoli, i suoi rischi, analizza e scava il proprio abbaglio. Si potrebbe quasi dire che, con una specie di splendida reazione, ella ne abbagli la natura; il mondo misterioso che ci circonda rende ciò che riceve; è probabile che i contemplatori siano a loro volta contemplati. Comunque, ci sono sulla terra uomini - ma sono uomini, poi? - che scorgono in fondo all'orizzonte del sogno le altezze dell'assoluto e che hanno la terribile visione della montagna infinita.
***
martedì, settembre 15, 2009
I Pitocchi
La traduzione è cosí cosí ma è quello che mi è riuscito di fare.
genseki
di Saint-Amant
Con un lenzuolo in tre senza luce né fuoco,
Nel piú profondo inverno, dormir nella legnaia
Ove i gatti borbottano in oscuro ostrogoto
Rischiarando la notte con le pupile d'oro;
Usar come cuscino un pezzo di sgabello,
Digiunare due anni al modo di lumache,
Sognar con mille smorfie come macachi al sole
Che con grandi sbadigli si grattano le ascelle;
Con un vecchio cappello a guisa di berretto,
Con le trine di un manto poteggersi dal freddo
E fasciarsi la pancia con un frusta fodera;
Soffrire mille ingiurie da un vecchio oste irato
Che appena puó fornire una minima spesa
È questo il risultato d'una vita sbandata.
trad. genseki
lunedì, settembre 14, 2009
Filosofia e sapienza
Comunque proprio in una delle ultime stazioni sul cammino del grande santuario fenomenologico incontriamo una formula apparentemente mistica.
La fine della filososfia è anche fine della soggettivitá e della coscienza.
Se le cose stanno cosí peró, il supremo compimento della filosofia non ha piú nulla a che fare con la vita. È puro oltre, oltre ogni orizzonte, cioé, giacché non vi è orizzonte alcuno ove non vi sia soggettivitá.
La filosofia si compie, si attualizza, finisce con la distruzione del soggetto.
Tra il soggetto e la sua distruzione resta peró "lo sfrigolío" della fiamma. Il compimento non è mai compiuto completamente. Tra il compimento e il suo compiersi resta uno iato.
Questo iato è la spazio della sapienza. Tra coscienza e spirito sta la sapienza, seduta in profonda concentrazione, attenzione, samadhi.
Le parole fiammeggianti di Hegel lasciano lo spazio alla fresca brezza di una poesia di Dogen:
La persona autentica non è
Un individuo particolare
Come l'azzurro profondo del cielo illimitato
Essa è ogni persona
Ovunque nel mondo.
Dogen
domenica, settembre 13, 2009
L'individuo
sabato, settembre 12, 2009
Un Edipo Cristano
La figura di San Giuliano è di quelle che afferrano la fantasia: questo Edipo Cristiano deve qualche cosa a quello greco? È possibile ricostruire attraverso quale cammino?
Certamente il destino di questi due “eroi” diverge molto presto.
Ci afferra lo sgomento di fronte al miracolo finale, all'inaspettata salvezza che pretende, per farsi attuale, la rinuncia alla piú segreta intimitá, al nucleo piú protetto del proprio io: Giuliano ammette il Viandante, il Lebbroso nel proprio letto ed è allora ch'egli si trasfigura nell'Angelo del perdono.
Di questa rinuncia, del carattere carnale, quasi animale della fede di Giuliano resta traccia in tutto il medioevo. Per ospitalitá di San Giuliano si intendeva in quei secoli, infatti un'ospitalitá che giungesse fino all'unione sesssuale.
Oggi quello dell'ospitalitá è un universo morale scomparso, il cui linguaggio si è fatto osceno, inarticolabile.
Nessun Ospitalario si preoccupa di benedire i cadaveri dei tanti disperati che come Flebas il Fenicio fluttuano tra le onde del mediterrane.
genseki
venerdì, settembre 11, 2009
Storia di San Giuliano l'Ospitalario
Ci fu anche un altro Giuliano, che uccise, non sapendolo, entrambi i genitori.
Questo Giuliano era giovane e nobile, un giorno a caccia, inseguiva un cervo che aveva stanato lui stesso. Di colpo, obbedendo a un ordine divino, il cervo si voltò verso di lui e gli disse: “Tu che ora mi insegui sarai l’assassino di tuo padre e di tua madre!” Udendo quelle parole Giuliano si spaventò moltissimo, e temendo non gli capitasse davvero, ciò che aveva udito dire dal cervo, abbandonati di nascosto tutti i suoi compagni se ne partì da solo fuggendo dal suo destino.
Giunse in una regione remota e qui entrò al servizio di un Principe; si comportò in modo così leale in tutte le circostanze, in pace come in guerra che il Principe lo fece cavaliere e gli diede in moglie una castellana rimasta vedova che gli portò in dote il suo castello.
Nel frattempo i genitori di Giuliano addoloratissimi per la scomparsa del proprio figliolo andavano vagando qua e la e lo cercavano con somma diligenza . Finalmente giunsero al castello in cui viveva Giuliano. Giuliano, però, quel giorno, si era allontanato dal castello per qualche sua commissione. Quando la moglie di Giuliano li vide, domandò loro chi fossero e quando essi le ebbero raccontato per esteso la storia del loro figliolo, comprese che si trattava dei genitori del marito, avendone, come credo, sentito parlare da lui di frequente. Pertanto gli accolse benevolmente e per amore del marito cedette loro il prorpio letto e si ridusse in un letticiuolo collocato in un’altra stanza. Venuto il mattino, la castellana se ne andò alla chiesa. Ed ecco che Giuliano giungendo entrò in camera da letto come se dovesse svegliare sua moglie e trovando due persone che dormivano, pensò che dovesse trattarsi di sua moglie con il suo drudo, allora, estratta la spada in silenzio, li uccise entrambi. Uscendo poi di casa vide sua moglie che tornava dala chiesa e, meravigliandosi, le domandò chi fossero allora quelli che dormivano nel suo letto. Ella gli rispose: “sono i Vostri genitori, che Vi hanno cercato per moltissimo tempo e io li ho fatti mettere nel Vostro letto”. Udendo queste parole egli quasi senza conoscenza cominciò a piangere amarissimamente e a dire: “oh misero, che cosa farò! Io che ho ucciso i miei dolcissimi genitori. Ecco si è adempiuta la parola del cervo, e io ho compiuto ciò che volli evitare. Addio dolcissima sorella, perché non troverò pace in nulla, finché non saprò quale penitenza Dio vorrà impormi”. Ed ella rispose: “Non pensare, dolcissimo fratello, di potermi abbandonare e di andartene senza di me, ché se condivisi con te la gioia con te condividerò anche il dolore”.
Allora si ritirarono insieme presso un grande fiume, che molti cercavano di attraversare. Quivi, per fare penitenza fondarono un grande ospedale nel quale ospitavano tutti i poveri che giungevano e traghettavano senza sosta tutti quelli che lo desideravano. Dopo molto tempo, nel cuore della notte, mentre Giuliano, sfinito, dormiva e il gelo era fortissimo, egli udì la voce di un infelice che si lamentava in modo penosissimo chiedendo a Giuliano, con lugubre tono, di poter essere traghettato. Egli udendolo si alzò in tutta fretta e trovando colui che gridava proprio quando era sul punto di venir meno per il gelo lo portò nella sua capanna e accese un fuoco cercando di riscaldarlo. Ma ogni sforzo sembrava inutile, allora, per non lasciarlo morire, lo pose nel suo letto e lo coprì con molta cura. Ed ecco che subito colui che sembrava malato, forse lebbroso, ascese in splendore verso il cielo dicendo: “Il Signore mi manda a te per dirti che la tua penitenza è accetta e tutti e due fra breve riposerete in lui”. Così disparve e Giuliano poco tempo dopo per le buone opere sue e per le elemosine trovò anch’egli riposo nel Signore.
***
trad genseki
giovedì, settembre 10, 2009
Antonio Labriola
A Labriola
Lettera a Spaventa.