martedì, ottobre 14, 2014

A fuoco alto

Sono passati mille anni e non era che un giorno
Sonno prendilo per i piedi buttalo nella spazzatura
nel fieno della sua tenerezza raggomitolato pugnala la vita
che il cancarone sparso nella stalla sporchi il sangue carte su tavola niente
nelle tasche niente nelle mani niente niente piú niente
sono passati mille anni e era una notte sola
un pesce spaccato per la lunghezza tiepida e il sogno ci risucchia nelle sue viscere
aperte i claxons non hanno piú forza i camion si sono parcheggiati
agli orologi nessuna finta

mezzanotte passa il mondo passa
e io passo tutto passsa ammassiamoci coprifuoco nella folla densa lenta non vi è ness'unaltra via d'uscita fa freddo fa caldo e il sogno è una carta assorbente ancora un mucchio di ferraglia tra invincibili saluti dell'aurora tra gli stracci infamanti delle infanzie squisite del ricordo caldaie da bucato in testa materassi materassi sul tetto delle auto vi ho visto in Spagna e il dolore mi fa ancora fremere con tutta la ridicola potenza che l'uomo crede aver domato ne abbiamo viste molte altre e la paglia e l'asse la quaglia e il fucile delle poltrone Luigi XV a brandeburghi sul petto e delle casse gabbie bagagli tutto forbito colocato infangato macchie di sangue sulle lenzuola gli sguardi fustigati perduti nei ritornelli adulterini delle tracce di passi nel fango che sappiamo delle case abbandonate della morbida intimitá desbordante dalle viscere del pesce sventrato dal confuso ammasso dei pensieri stonacati dei maniaci muffe delle ripetizioni e degli stracci coltivati in giardini pensili di tutte le miserabili grandezze e del latte oscuro della passione la vita multiple degli umani naufragati che siamo mucchio di imbecilli abbandonati a la noncuranza dei solstizi tenera tenera è la notte
agli scampati della paura
il sonno immobile
la pietra al collo


mille anni sono trascorsi e era una sola notte
non sono re magi che sento sotto la finestra non sono buone notizie che sento abbuffare lo spazio non è la porcellana dei gorgheggi
tra i rami gioia aperta ai bambini
che odo nella mia miseria
sono nudo di speranza
annodata all'albero vertiginosa ramificazione di fronde aspetto la folgore e il lampo
mi offro all'ascia del taglialegna dall'alto in basso e con un solo coplo che spezza la vendetta della terra e si rianima la folgore nei pressi del mio sfinimento
son passati mille anni e solo era una notte e anche questa notte notte i re magi marciano a scaldare la gioia dei camini cantando trasformare la sabbia in erba dolce la pietra in sorgenti e le ortiche in cristallo nelle conchiglie c'è sempre il riso lontano soggiorno delle caravelle di briganti mille anni di riso in una sola conchiglia e mille conchiglie chiuuse nel cuore della mia ben amata dove sei testa di spiedo
in quali onde di velluto si è perso il sogno assurdo di nuovo le strade si sono alzate con il sole lentamente lentamente gli occhi sbattuti la nebbia in testa nel ventre quanti kilometri dalla Porta della Muta un mondo intero ci separa
è giorno a Parigi non ci sono piú venditori di vestiti Parigi è cieco e le discariche sono vuote i mercati coperti di tegole di silenzio la Flora tapezzata da rose del deserto notte nera non riconosco piú le strade del mio quartiere avanza dunque testa d'impagliato
a Parigi non ci sono piú patate fritte è scuro a mezzogiorno ecco l'artiglieria sbocca a in senso contrario è spenta e grigia come la nostra avanzata andate testa di porco
è il crepitare della mia giovinezza che sibila tra le mitragliette leggere anch'essa spente
specchio senza risorse,
Parigi Parigi mia cittá aperta ritorno indietro cittá aperta agli assassini vestiti a festa cittá proibita venduta insozzata tumefatta nella luce insradicabile della tua primitiva fierezza la Tour Saint-Jacques resta ove risuona il riso di Desnos e il riso ricade in mille petali di polvere sollevano sul selciato lo spavento degli usignoli sono e battelli lavatoio che vanno a la deriva è l'Ile de la Citá dove si imbrogliano le ali i canti sono costernati in pose eterne i gesti familiari ritrovati a quest'ora si dice che non la rivedremo mai piú
Rigaud gare Montparnasse Benvenuta stazione a te cosí vanno le cose all'immortalitá se credere in una buona partenza non fa male a nessuno i nostri sono partiti portandosi via il nostro cuore pezzo per pezzo e mattone dopo mattone si spoglia la cittá dei pianti
Crevel Passy Concorde strazi dementi fummo di questo mondo ove manate di mani nascevano sullo slancio amico delle libertá tenaci la Senna tra Via du Beaune e des Saints-Pères quante sbornie colarono nelle nostre vene e se en andarono ad ingrossare i debiti dell'aurora o Closerie questa notte o visto affondare tanti lillá nelle tombe aperte che la mia vista si confonde
quanto altri lo hanno conosciuto come Unik di Via Vaugirard l'Ile Saint-Louis Montmartre Auteuil Porte Saint-Denis era la guerra di Spagna al tempo della purezza e noi correvamo al centro incandescente di braci nessun orrore al mondo ci avrebbe fermato tanto i nostri cuori martellavano alla stessa cadenza la tragedia serena che ricopriva il sangue delle strade
Madrid pietra sigillata nel mio dolore antica cittá chiusa all'amore come il mio amore tradito Parigi mia cittá aperta torno indietro i sentieri battuti delle mie giovano estati ove sono le passeggiate e scoprendo Parigi la Ferme di Belleville o il libro d'ore pagina a pagina al tornante delle risa Paul ancora ti vedo tra il manifesto LU e quello di Bovril la Porte de la Villette che amavi come un indovinello la cittá si gargarizza di claxons d'autobus i rami dei metro fanno scaturire geysers le donne sono regine vanno come chiatte ignare della loro bellezza le loro teste sono altrove
en abbiamo contato i carichi impalpabili tesori che passano a filo d'acqua passaggi o passaggi pazienti impazienti passiamo sui nostri amori ci porterebbero troppo lontano le fiamme si sono spente ai quattro angoli del mondo e i miei amici sono morti proprio nel cuore di Parigi
non sono mica nato ieri
e le rime intorno alla vita il sole a bandoliera le dolci pozioni torttando alle mie tempie l'aria di festa che attraversa il petto la gaiezza carnale che si eleva
offerta in onore di questa luce


Tristan Tzara
da “ A Haute Flamme”
trad genseki

lunedì, ottobre 13, 2014

Tan Dun: Zheng Concerto [4/4]

A fuoco alto


Avevo centomila anni
ed eccomi gregge ed eccomi foglia morta de eccomi fresco alberello che scuote la chioma davanti a colui che io sono mentre passo in mezzso agli altri
il blu filava la lana o folle o mischie e io seguivo docile la stella strana stella verso quali tardivi re magi conduceva la speranza schiantata con la dura catena ai polsi delle strade stella di sventura luce cardinale ero io o non lo ero piú non sapevo che cosa dire tanto la tristezza conquistata alle parole semplici sbarrava il cammino della ragione che sfuggiva
mai estate piú splendida
mai bellezza accecante ci trovó piú stupidi di quanto fossimo allora sulla strada senza fine dicevano è bel tempo non credevamo ai nostri occhi e nemmeno ci pensavamo ed era inutile nei fiocchi di luce sprofondava la ragione in mulinelli sfavillanti della memoria che avremmo dovuto fare dei giochi amorosi nascosti nell'abbaglio muto della coorte
l'uccello agli anelli del suo canto infilava interminabili promesse di fidanzamento e nell'añpiezza di un popolo intero al centro delle meraviglie sonore e vive ero io solo coperto di solitudine
mentre camminavamo andavamo affanti di bellezza straziata nelle nostre mani ciascuno la sua solitudine fiore solitario invisibile candore che nasconde il rimpianto e la paura senza conoscere da sola la fatica dei nostri corpi invasi tratteneva il pensiero su questa terra maledetta
al diavolo le sofferenze e che si spiaccichi il cuore lunghe crepe al cuore dei muri impliciti sottile speranza sul filo di quei giorni perché la morte unanime non ci ha compresi nel gruppo designato alle maree della dimenticanza inghiottiteci onde assurde nel letto dell'oblio dolce dolcezza dell'oblio

Tristan Tzara
trad. genseki

lunedì, ottobre 06, 2014

La gerarchia di esclusione



La gerarchia di esclusione è una tassonomia sviluppata nella serie fantascientifica di Orson Sott Card “La saga di Ender”, per classificare gli esseri viventi:

Utlannings:

Forestieri del proprio mondo, come persone di un'altra nazione o di un'altra lingua o di un'altra cittá;

Främlings

Sono persone della stessa specie ma provenienti da un altro mondo: pianeta, sistema solare o galassia;

Ramen

Sono esseri viventi di un'altra specie con cui è possibile comunicare, convivere, raggiungere accordi;

Varelse

Sono esseri viventi con cui non è possibile la comunicazione, che non hanno punti in comune con l'umanitá, di essi non possiamo cogliere gli obiettivi e le motivazioni che li inducono ad agire in un modo piuttosto che in un altro.

L'inclusione in una o nell'altra categoria non dipende dalla natura dell'oggetto della classificazione ma da chi la produce. Cosí per esempio gli africani o gli aborigeni australiani sono stati classificati Varelse poi e a volte Utlannings.

genseki


Rosa Chacel

Rimprovero

A Sara e al suo gioiello

Dimmi, la perla, il frutto della tua mano, quando maturerá
Un cuore come il tuo, puro e duro, insensibile all'arsura!
Ben fermo , al tuo dito, come un ramo bianco, non ti pesa mai il suo peso?
Come puó conservare tanto a lungo il segreto del tuo io improrogato?
...
Leprotta bianca, non ti trovó forse tua madre in una perla?
Anch'io, pensaci, dove saremmo senza l'autunno dorato e la sua vendemmia?

L'anello d'oro, peró, conserva il frutto della tua mano, la tua banbina è chiusa
Nel suo guscio bianco, puro e duro.
Diró al sole che non sprechi i suoi raggi.

Da: "Otros Poemas"

trad. genseki

*

A Teresa

Appena ti conosco, ma in cambio
Conosco bene quel laboratorio
Dove, molti anni prima che nascessi
Si condensava la tua pura idea.

Perché anima e corpo hanno soltanto
Una bocca insaziabile in comune, gli occhi,
Per questo ben conosco le materie mischiate
Nella dolce pozione frutto della tua formula

So che furono gigli e l'Angelo Caduto,
E fogli grigi, appesi a una bacheca
Ove Platon parlava seguendo il carboncino
Dal petto di un atleta o da una fonte sacra.

So che nell'aule e negli spessi tomi
Le parole spogliate ci mostrano le viscere
E anello dopo anello, la magica catena,
Con cui amore, logica e numero le uniscono.

E tutto in primavera, nell'autunno, in inverno
In estate, tra i pini ove piangon le tortore
Sui sentieri ombreggiati da pioppi e da betulle:
Tutto questo sommato genera un bene: Teresa

Da "Otros poemas"

Trad. genseki

*

La colpa

Sera allo Zoo de La Plata

La colpa sorge all'occaso
Oscuritá la rischiara
Il tramonto le è aurora...

S'ode l'ombra che avanza da lontano
Quando sugli alberi il cielo è sereno
Come una pampa verde-azzurro, intatta
E il silenzio percorre i quieti labirinti di arrayanes

Giungerá il sonno: resta allerta l'insonnia
Prima che cada la cortina oscura,
Gridate almeno, uomini,
Come il pavone meccanico che gracchia il suo lamento

Straziato tra i rami dell'araucaria,
Gridate con multiple voci
Pigolate tra i rampicanti
Tra le edere e le rose
Nel glicine cercate rifugio
Con tordi e passeri
Perché avanza l'onda della notte
La sua assenza di luce,
L'ospite suo implacabile
Dai passi felpati, il pericolo ...

da: "Otros poemas"

trad. genseki

*


Are You Safe Now ? Tokiko Kato|今どこにいますか 加藤登紀子

giovedì, ottobre 02, 2014

Tan Dun: Zheng Concerto [3/4]

Origini



Ho conosciuto la tua fonte, o fiume:
Era acqua frizzante come l'uncinetto che rapido attraversa
L'indumento rigido della roccia. Sì, per davvero,
Fiume, ho conosciuto la tua fonte.

Con il palmo della mia mano ho toccato la tua frescura,
Il tuo indimenticabile splendore
l'erba novella era in attesa del tuo bacio.
Con il palmo della mia mano ho toccato la tua frescura

Rossa e nera era la forma eterna della roocia
scolpita dal vento, da cima a fondo
In estate roventi, inverni a lungo dimenticati.
Nera e rossa era la forma eterna della roccia.

Proprio cosí, non l'avrei mai lasciata la tua fonte
Mi ci sarei bagnata, piuttosto, battezzata , e illuminata
nella sua primordiale luce santa,
No, no, non l'avrei mai lasciata la tua fonte.

Nina Cassian
Trad genseki


mercoledì, ottobre 01, 2014

Tan Dun: Zheng Concerto [2/4]

Variazioni digitali su Alcyone di G D'annunzio

Ho regolato il segno lucido

lasciando la schiuma delle sue labbra:

nomo i vecchi e la recente

So che li compongono con arte bella.

I musicisti hanno modi umani

diversi dal dorico al frigio:

Melodia divina infinita

Creo nell'esiguo vestigio.

Indurimento d'onda trascrive

l'esecuzione sulla sabbia bagnata;

attraverso il mito fuggitivo

accordi e pause avvincendo.

O mia sabbia melodiosa,

vostro non è un granello di silice

Vorrei donare la pomice Ascosa

fonte dell'ìlice d'ombra.

Brilli innumerevole e immensa

Crescendo alla mia scrittura;

e l'acqua che bevete l'addensi,

l'induri sale sterile.

Il rilievo così sottile,

dedotto con arte in modo frugale,

che gli uomini infranga puerili

d'archi davanti al

 sopracciglio .

Di tanto in tanto impronta trisulca

le caratteristiche intercide;

peste umana, se vi opprimono,

impregnati di luce e sorrisi.

Figure di neumi son Elle

in questa concordia discorde.

Curva, O cetera io suono,

o un plettro il dito ti morde.

Spendo; e il grande Concento

taciturno dentro di me è soddisfatto,

dall'unghie del mio piede d'argento

alle vene nelle mie tempie.

Scerne l'orecchio con calma

i toni dell'onda che giunge,

Indago con chiara pupilla

più di ogni segno  lene;

genseki

martedì, settembre 30, 2014

Tan Dun: Zheng Concerto [1/4]

Léonidas

Sei tu la mia donna? La mia donna, fatta per raggiungere l'incontro con il presente? L'ipnosi della fenice desidera l'incontro con la tua giovinezza. La pietra delle ore la investe della sua edera.

Sei tu la mia donna ? L'anno del vento ove guerreggia una vecchi nube partorisce la rosa, la rosa della violenza.

La mia donna fatta per raggiungere l'incontro con il presente.

Si allontana la battaglia e  lascia un cuore d'ape sulle nostre terre, l'ombra desta, il pane ingenuo.

La vigilia scivola con lentezza verso l'intimitá della festa.

La mia donna fatta per raggiungere l'intimitá del presente.

René Char

trad genseki

lunedì, settembre 22, 2014

Un esercito di santi

L'unica cosa che potrá salvarci è un esercito di santi - e non necessariamente Giovanna d'Arco o Santi guerrieri. Da dove giungeranno? Nessuno in realtá puó dirlo, tranne cploro che ritengono, riguardo a ció, di credere (come Maritain) che i Santi verranno dai piú poveri tra i laici, dalla profonditá dei bassifondi, dai campi di concentramento e dalle prigioni, dai luoghi in cui la gente muore di fame, è bombardata, è percossa a morte. Perché in tutti questi luoghi Cristo soffre maggiormente. Maritain aggiunge, credo, che i Santi si troveranno in pochi ordini religiosi, quelli contemplativi.
E gli altri, cosa dovremmo fae? Prostrarsi e pregare, pregare piú volte Dio di renderci santi.

Thomas Merton
26 Maggio 1940

René Char


Medaglione

Acque di folgore verde che suonano l'estasi del volto amato, acque intessute di vecchi delitti, acque amorfe, acque sacheggiate da una prossima consacrazione ... Anche a costo di subire  gli ammonimenti della sua memoria eliminata, il fontaniere saluta a fior di labbra l'amore assoluto dell'autunno. 
Identica saggezza, tu che componi il futuro senza cedere al peso che scoraggia, possa egli sentire nel suo corpo lo slancio elettrico del viaggio.

René Char
Trad. genseki

venerdì, settembre 19, 2014

A. R. Ammons


A. R. Ammons

Estuario di Corsons

alla mia sinistra sulle dune e sulle canne
e gli arbusti di mirto la novitá era
l'autunno: migliaia di rondini
che si riunivano per partire:
un ordine matenuto
in costante mutazione: una moltitudine
opulenta in entropia: eppure separabile, avvertibile,
Come avvenimento singolare,
non come caos, preparativi per sfuggire all'inverno,
Ciit, ciit, chiit ali che fano a strisce gli arbusti verdi
becchi
tra i mirti
una percezione piena di vento, fuga, curve,
suono:
la possibilitá di una regola come somma di anomalie


Canzone d'amore

Come le colline al tramonto
Tu cadi lontano dalla luce:
Sprofondi; la verde
Luce si oscura
E sei quasi perduta:
Soltanto tanta luce quanta
Irradiano le stelle:
Rivela il tuo volto
La notte totale
Che è in me delira
Per la luce lungo le tue labbra

Classico

Sedetti in riva al ruscello in un
un vuoto
perfetto - salvo che per i salici -
e la montagna che
era da quelle parti

arruffata di arbusti e
rocce
disse
vedo che stai scarabocchiando di nuovo:

abituato alle montagne
e alle loro scoscese intrusioni,
dissi

si, ma alla
maniera di quest'acqua
evanescente e sgusciante:

questo peró
disse la montagna non
è scusa per dizione e portamento

se non stai attento
presto
raggiungerai modi nei quali
l'acqua permane ai suoi movimenti.

A.R. Ammons

Trad. genseki

mercoledì, settembre 17, 2014

Festa delle simmate di S. Francesco

Francesco, mediante le sacre Stimmate,
prese l’immagine del Crocifisso


Dalla «Legenda minor» di san Bonaventura  (Quaracchi, 1941, 202-204).
Francesco, servo fedele e ministro di Cristo, due anni prima di rendere a Dio il suo spirito, si ritirò in un luogo alto e solitario, chiamato monte della Verna, per farvi una quaresima in onore di san Michele Arcangelo. Fin dal principio, sentì con molta più abbondanza del solito la dolcezza della contemplazione delle cose divine e, infiammato maggiormente di desideri celesti, si sentì favorito sempre più di ispirazioni dall’alto.
Un mattino, verso la festa dell’Esaltazione della santa Croce; raccolto in preghiera sulla sommità del monte, mentre era trasportato in Dio da ardori serafici, vide la figura di un Serafino discendente dal cielo. Aveva sei ali risplendenti e fiammanti. Con volo velocissimo giunse e si fermò, sollevato da terra, vicino all’uomo di Dio. Apparve allora non solo alato ma anche crocifisso.
A questa vista Francesco fu ripieno di stupore e nel suo animo c’erano, al tempo stesso, dolore e gaudio. Provava una letizia sovrabbondante vedendo Cristo in aspetto benigno, apparirgli in modo tanto ammirabile quanto affettuoso ma al mirarlo così confitto alla croce, la sua anima era ferita da una spada di compaziente dolore.
Dopo un arcano e intimo colloquio, quando la visione disparve, lasciò nella sua anima un ardore serafico e, nello stesso tempo, lasciò nella sua carne i segni esterni della passione, come se fossero stati impressi dei sigilli sul corpo, reso tenero dalla forza fondente del fuoco.
Subito incominciarono ad apparire nelle sue mani e nei suoi piedi i segni dei chiodi; nell’incàvo delle mani e nella parte superiore dei piedi apparivano le capocchie, e dall’altra parte le punte. Il lato destro del corpo, come se fosse stato trafitto da un colpo di lancia, era solcato da una cicatrice rossa, che spesso emetteva sangue.

Dopo che l’uomo nuovo Francesco apparve insignito, mediante insolito e stupendo miracolo, delle sacre stimmate, discese dal monte. Privilegio mai concesso nei secoli passati, egli portava con sé l’immagine del Crocifisso, non scolpita da artista umano in tavole di pietra o di legno, ma tracciata nella sua carne dal dito del Dio vivente.

venerdì, settembre 12, 2014


René Char

Congedo al vento

Sui fianchi della collina del villaggio bivaccano i campi coltivati a mimosa. Accade che, lungi dal loro sito, capiti l'incontro profumatissimo con una giovinetta le cui braccia sono state occupate per tutto il giorno nella cura di fragili rami.
Come una lampada che diffndesse un'aureola pofumata elle si alontana, volgendo le spalle al tramonto.
Rivolgerele la parola sarebbe sacrilego.
Sfiorando appena l'erba con i calzari, cedetele il passo.
Con un po' di fortuna scorgerete sulle sue labbra la chimera dell'umiditá della notte.

Frequenza

Tutto il giorno, coadiuvando l'uomo, il ferro ha applicato il suo torso, al fango ardente della fucina.. Con il tempo i loro garretti gemelli hanno fatto scoppiare la sottile notte del metallo ben custodita nella profonditá della terra.
Senza fretta l'uomo lascia il lavoro. Immerge per l'ultima volta le braccia nel fianco oscuro del rio. Saprá finalmente afferrare ol solido bastone delle alghe.

Gioventú

Lungi dall'imboscata delle tegole e dall'elemosina dei calvari, vi partorivate, ostaggi degli uccelli, fontane. Il declivio dell'uomo sorto dalla nausea delle sue ceneri, dell'uomo in lotta con la propria provvidenza vendicativa, non basta a sciogliere il vostro incantesimo.

Elogio, ci siamo accettati.

"Se fossi  stata muta come lo scalino di pietra fedele  al sole e che ignora la propria ferita, rimarginatea con la terra, se fossi stata bambina come l'albero bianco che accoglie i timori delle api, se le colline fossero sopravissute fino all'estate, se il lampo mi avesse spalancato la sua grata, se le tue notti mi avessero perdonato ..."

Guarda, verziere di stelle, l'erica, la solitudine sono diverse da voi! Il canto termina l'esilio. La brezza degli agnelli porta con sé vita nuova.

Trad genseki


giovedì, settembre 11, 2014

Tzara

Tzara ne délirait que sur Villon. Il se méfiait tout de même de ce délire.

Lacan
Dissolution 

Tristan Tzara

Il tempo fa cadere frammenti dietro di sé
Miete molecole finissime in praterie d'acqua
Domina le borse d'aria, attraversa la giungla
Taglia il bruco dell'onda e da ogni metá nasce piena
Di luce una farfalla
Nel vulcano si imbastisce seguendo il filo della nota di un violino
Arriccia il tagrlio errante del vetro nelle ore sottili della
Trasparenza
Proprio dove i nostri sogni rovesciano
I manicaretti canterini
Della luce


Il fiume que la montagna infila verso l'articolato oriente
Di perché e di pericoli
Carica di medagli e di olocausti
Lungo le gardenie
Si è corrugato intorno al tuo pugno sentiero abbottonato
Di termini al sole prossimo ai campi
Oltre i ruscelli l'arco aumenta il sorriso dello spazio
Fino al rictus del ghiacciaio
E la scialuppa del tessitore punteggiato di rami nella
Sbronza del millepiedi
Attraversa gli ostacoli calvi  e gli occhi pelati delle
Frecce che vedevano
Tuttavia la saldatura al bordo del lago si disfa
Quando bocconi di nubi si stabiliscono sull'acqua i
Sentimenti decorati di canestri ricamati
Con penne stilografiche
O il tremito del fuoco che si muove nello spazio che
L'eco ha svuotato
Il vento fugge dalla porta girevole il vento esamina
Paesaggio e passeggeri
E la volontá di essere uno misura nel vuoto
Dello spruzzare la sua continua collocazio

I papaveri elettrici sotto il guscio della tartaruga
Proteggono grani di sabbia e di bellezza
Il crepuscolo innalza gli addi all'orizzonte
Bagnato dalla fredda chiaretá dello stetoscopio
Frustato dagli splendori navali del ritorno
In prigione
E la loro caduta di sito in sito prepara l'elettrificazione
Degli occhi
Adamo ed Eva si nascondono nei bei paraggi del frutto spaccato
Due giri fanno sbarcare sottilmente dal cielo
Gemelli d'altri tempi
Con il sapore dei metalli pesanti i cristalli delle
Stelle offrono il grmembo all'ingresso della
Grotta
Nella rocciosa pietrificazio in alto per Lei
Cadendo nel lasciar amdare dell'inverno che centellina
Le sue sabbia ....

Da: L'homme approximatif
Trad. genseki

Nina Cassian pentru Revista Tango

Nina Cassian

Allegria

Godo quando confondo i mei capelli con voi, foglie autunnali,
Quando corro nel folle bosco, ridendo, scivolando, graffiandomi
Le  guance contro le cortecce rugose,
Gioisco quando lancio il mio grido solitario e profondo
Nell'autunno che rosseggia,
Sotto le volte d'oro secco, tra i sussurri del vento,
Mi piace fuggire, cadere, ridere sulla terra decorata
Dal tuo sorriso giallo
Autunno!

*

Volavano

A partire da quel momento, comicia a fare tutto
Due volte.
Al posto del braccio 
Gli spunta  un'ala.


Lui aveva l'ala sinistra
Lei quella destra
Come un solo corpo tra due ali
Volavano
Volavano
Respiravano tra le due ali
Lei - con il polmone destro,
Lui - con quello sinistro
Attraverso un cielo saturo d'oro
Come una lunga navicella d'oro,
Come una chiave d'oro,
Volavano ...
Nell'oro ...
Volavano ...
Nell'oro ...

Trad. genseki

mercoledì, settembre 10, 2014

Nichita Stanescu


Nichita Stanescu

La proclamazione del nome

Dapprima ti stringi nelle spalle
Poi ti sollevi sulla punta dei piedi
Chiudi gli occhi
Ti tappi le orecchie
Dici a te stesso:
Ecco, adesso mi alzo in volo
Poi dici:
Ecco, sto volando, e questo effettivamente è il volo
Ti stringi nella spalle
Come gli affluenti di un grande fiume
Chiudi gli occchi, come le nuvole
Che accerchiano il campo
Ti sollevi sulla punta dei piedi
Come la piramide si eleva sulla sabbia
Rinunci completamente all'udito
All'udito di tutto un secolo
Poii dici a te stesso:
Ecco, adesso mi alzo in volo
È proprio questo il momento giusto,
Raccogli i tuoi fiumi
Proprio come raccogli le spalle
Ti sollevi sui belati caprini
Dici: "Nevermore"
E subito dopo: - "frufru" - "accipicchia" -
Sbatti le ali di un altro
Che resterá per sempre
Un altro.

Trad genseki

Leopoldo Maria Panero

EL LAMENTO DE JOSÉ DE ARIMATEA

No soporto la voz humana,
mujer, tapa los gritos del
mercado y que no vuelva
a nosotros la memoria del
hijo que nació de tu vientre.

No hay más corona de
espinas que los recuerdos
que se clavan en la carne
y hacen aullar como
aullaban
en el Gólgota los dos ladrones.
Mujer,
no te arrodilles más ante
tu hijo muerto.
                                Bésame en los labios
como nunca hiciste
y olvida el nombre
maldito de
Jesucristo.

      Así arderá tu cuerpo
y del Sabbath quedará
tan sólo una lágrima
y tu aullido.

Leopoldo María Panero · Dios De La Vida, Dios De Los Suicidas

martedì, settembre 09, 2014


Il Padre di Famiglia

C’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moder­no: è il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventu­rieri non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto. Non corrono assolutamente alcun perico­lo, al suo confronto. Tutto nel mondo moderno, e so­prattutto il disprezzo, è organizzato contro lo stolto, contro l’imprudente, contro il temerario,
Chi sarà tanto prode, o tanto temerario?
Contro lo sregolato, contro l’audace, contro l’uomo che ha tale audacia, avere moglie e bambini, contro l’uomo che osa fondare una famiglia. Tutto è contro di lui. Tutto è sapientemente organizzato contro di lui. Tutto si rivolta e congiura contro di lui. Gli uomini, i fatti; l’accadere, la società; tutto il congegno automatico delle leggi economiche. E infine il resto. Tutto è contro il capo famiglia, contro il padre di famiglia; e di conse­guenza contro la famiglia stessa, contro la vita di fami­glia. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura. Perché gli altri, al maximum, vi sono coinvolti solo con la testa, che non è niente. Lui invece ci è coinvolto con tutte le sue membra. Gli altri, al maximum, si giocano solo la loro testa, il che non è niente. Lui invece mette in gioco tutte le membra. Gli altri soffrono solo per se stessi. Ipsi. Al primo grado. Lui solo soffre per altri. Alii patitur. Al secondo, al ven­tesimo grado. Fa soffrire altri, ne è responsabile. Lui solo ha degli ostaggi, la moglie, il bambino, e la malattia e la morte possono colpirlo in tutte le sue membra. Gli altri navigano a secco di vele. Lui solo, qualunque sia la forza del vento, è obbligato a navigare a piene vele. Tutti hanno vantaggio su di lui e lui non ha vantaggio su nes­suno. Si muove continuamente con i suoi ostaggi, in lungo e in largo tra quei terribili fortunali. Le cose che accadono, i guai, la malattia, la morte, tutto ciò che accade, tutti i guai hanno vantaggio su di lui, sempre; è sempre esposto a tutto, in pieno, di fronte, perché navi­ga su una larghezza immensa. Gli altri scantonano. So­no corsari. Sono a secco di vele.
Ma lui, che naviga, che è obbligato a governare la nave su questa rotta immen­samente larga, lui solo non può assolutamente passare senza che la fatalità si accorga di lui. E allora è lui che è coin­volto nel mondo, e lui solo. Tutti gli altri possono infi­schiarsene. Lui solo paga per tutti. Capo e padre di ostaggi, anche lui stesso è sempre ostaggio. Che impor­ta agli altri di guerre e rivoluzioni, guerre civili e guer­re straniere, l’avvenire di una società, ciò che accade alla città, la decadenza di tutto un popolo. Non rischia­no mai altro che la testa. Niente, meno di niente. Lui invece non solo è coinvolto dappertutto nella città pre­sente. Dalla famiglia, dalla sua razza, dalla sua discen­denza da quei bambini è coinvolto dappertutto nella citta futura, nello sviluppo ulteriore, in tutto il tempo­rale accadere della città. Si gioca la razza, si gioca il popolo, si gioca la società, mette come posta la società. Si gioca (tutta) la città, presente, passata, a venire. Tale è la sua posta in gioco. Gli altri scantonano sempre. Sono carene leggere, sotti­li come lame di coltello. Lui è la nave grossa, pesante bastimento da carico. È il luogo d’appuntamento di tutte le tempeste. Tutti i venti del cielo congiurano e si mettono d’accordo, si abbattono da tutti gli angoli del cielo, accorrono e si intersecano da tutti i punti del­l’orizzonte per assalirlo. Lui scopre alla sorte, alla for­tuna, alla sfortuna che vigila, alla fatalità una larghezza (di spalle) (su cui abbattersi), una superficie, un vo­lume incredibile. Non è coinvolto solo nella cit­tà presente.
È coinvolto dappertutto nell’avvenire del mondo. E anche in tutto il passato, nella memoria, in tutta la storia. È assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi, a priori, (di sapere) in che città di domani, in quale ulteriore società, in quale dissoluzione di tutta una società, in quale miserabile città, in quale deca­denza, in quale decadenza di tutto un popolo lasceran­no, consegneranno, domani, stanno per lasciare, entro qualche anno, il giorno della morte, quei bambini di cui i padri  si sentono così pienamente, così assoluta­mente responsabili, di cui sono temporalmente i pieni autori. Quindi per loro nulla è indifferente. Niente di quello che succede, niente di storico è per loro indiffe­rente. Soffrono di tutto. Soffrono dappertutto. Solo loro hanno esaurito la sofferenza temporale, tutto il dolore di chi vive nel tempo. Chi non ha mai avuto un bam­bino malato non sa cosa sia la malattia. Chi non ha perso un bambino, chi non ha visto morto il suo bambino non sa cosa sia il dolore. E non sa cosa sia la morte. E, coinvolti da ogni parte nelle sof­ferenze, nelle miserie, in tutte le responsabilità, sono tutti  ingolfati nell’esistenza, sono pesanti e impacciati, sono goffi, impediti nelle manovre; sembrano deboli e vili; non solo lo sembrano; sono deboli, sono vili, sono codardi. Nella manovra. Capi responsabili e appesanti­ti, carichi e responsabili di una banda di prigionieri, prigionieri essi stessi, carichi, responsabili di una banda di ostaggi, ostaggi essi stessi, non fanno un passo che non sia vigliacco, sembrano, sono circospetti, sono prudenti, non fanno una mossa che non sia sconcertante. E tutti li disprez­zano e, quel che è peggio, hanno ragione a disprezzarli. Gli altri scantonano sempre. Non hanno bagagli. Vili, scantonano con districamenti politici. Coraggiosi scan­tonano con districamenti eroici, con districamenti d’au­dacia. Temporali, scantonano verso la carriera e le domi­nazioni temporali. Spirituali, scantonano, si defilano verso le osservanze della regola. Storici, scantonano verso le carriere della gloria. Riescono sempre, sia nella regola, sia nel secolo.
II padre di famiglia è solo, e condannato a non riuscire affatto. Non può mai scanto­nare. Deve sempre passare in tutta la sua larghezza. Ed è molto semplice, non ci passa. Non ci passa mai. Non passa da nessuna parte. Non riesce né nella regola né nel secolo. Non riesce nella regola, la regola si oppone. Prima di cominciare. Non riesce nel secolo. Il secolo si oppone prima, durante, dopo. Non riesce nella poli­tica e non riesce nell’audacia… È troppo grosso. Ha tutta la famiglia attorno al corpo. È come la donnola di La Fontaine, ma dopo che è ingrassata. Ha socialmente un grasso, un tessuto adiposo sociale, che lo rende inadatto alla corsa. Ora, temporalmente tutto non è altro che corsa, non è altro che concorso e con­correnza. Gli altri corrono, intanto, gli altri arrivano, quelli magri, fini, sottili, socialmente scarichi, sgombri di bagagli. Così tutti lo disprezzano; in sua presenza, tra di loro, lo schermi­scono; sordamente, involontariamente congiurano con­tro di lui. Più di tutti gli altri, lo disprezzano i preti. Perché hanno questo (di bello), quando si accaniscono su qualcuno, ci si riaccaniscono di preferenza. Prefe­renzialmente. E quello che chiamano la carità.
Bisogna sottolineare attentamente che la vita di famiglia è la vita più impegnata nel secolo, la vita meno conforme, la meno simpatica, la meno affine alla regola. Vuol dire lasciarsi prendere, lasciarsi ab­bindolare dalle apparenze più grossolane, commettere l’errore più smaccato, e anche naturalmente il più co­mune, l’errore più frequente, quello di dire che la vita pubblica è vivace, e la vita di famiglia è silen­ziosa, e la regola, la vita regolare è anche lei silenziosa; e quindi la vita pubblica è non ritirata, e la vita di fa­miglia è ritirata, e la regola, la vita regolare è anche lei ritirata; e concluderne, credere, che sia la vita di famiglia che è vicina alla vita di regola, apparentata alla vita di regola, e che sia la vita pubblica che se ne è allontanata. Questo è lasciarsi prendere dalle più grossolane apparenze. È diame­tralmente il contrario.
La vita di famiglia è agli antipodi della vita della regola. Nessun uomo al mondo è coin­volto nel mondo, nella storia e nel destino del mon­do quanto l’uomo di famiglia, tanto quanto il padre di famiglia, così pienamente, così carnalmente. L’uomo pubblico invece, il vir politicus, non è affatto coinvolto nel mondo, non è affatto coinvolto nella storia e nel destino del mondo. Cosa importa all’uomo politico, al demagogo, al tribuno, all’oratore, al legislatore, all’eloquente, anche all’uomo politico serio, all’uomo pubblico, all’uomo di Stato, all’uomo di governo, (e a maggior ragione) al capo di partito (come tali), cosa importa al militare e al giudice, al generale e al presidente di corte e al presidente di camera, (come tali, come tali), che importa come tali al funzionario e al magistrato, al generale, al deputato, al senatore, al giornalista, al pubblici­sta, all’esattore, e all’usciere del ministero, cosa importa al signor sindaco; cosa importa come tale a ogni uomo pubbli­co delle sorti della città presente, le sorti ulteriori, la destinazione e il destino; cosa gli importa di cosa sarà di questo popolo, cosa faremo di questo popolo; vi sono coinvolti solo con la testa e qualcuno con la gloria; al massimo con l’onore, quando ne hanno: niente, meno di niente. Non ci rischiano che la testa, al più, al maximum; al meno, di solito l’avanzamento, la carriera, al più del meno l’apice; miserie. Gloria tem­porale, onore temporale; niente, meno di niente. Avan­zamento temporale, carriera temporale, apice temporale, testa temporale; miserie. E le gioie e le miserie del dominio. E le gioie e le miserie del denaro. Ecco tutto quello che si giocano. Come tali. Se intanto, se insieme sono padri di famiglia, cosa estremamente rara, l’ope­razione è tutta diversa, il comportamento e l’azione pubblica è tutta diversa, tutta diversa la situazione anche per così dire topografica, geografica, demogra­fica. Cosa importa loro, come tali, una rivoluzione, una guerra civile o straniera, un sabotaggio di tutto un po­polo. Una diminuzione, una decrescita; una perdita, forse irrimediabile; una decadenza, forse irreparabile, irrevocabile. Tutt’al più si giocano, nel temporale, una gloria del loro nome, la gloria, ulteriore, l’onore o il discredito sul loro nome. Di solito questo tipo di con­siderazione li lascia abbastanza freddi. Sono abba­stanza poco sensibili a considerazioni di questo tipo. Di solito.
Solo il padre di famiglia mette in gioco, rischia, impegna infinitamente di più nella destinazione del mondo, nel secolo, nella destinazione di tutto un popolo; nel futuro di una razza. Nel destino di tutto questo popolo, nell’avvenire di questa razza impegna tutto, mette tutto, la sua carne e di più; si gioca la razza, si gioca davvero il popolo, si gioca la sua discendenza. II solo padre di famiglia, il padre di famiglia da solo. Ed è un pover’uomo. Tormentato da scrupoli, assalito, invaso, tormentato da rimorsi, per crimini che non ha affatto commesso, che non commetterà mai, che altri mille, che tutti gli altri commetteranno, sente oscura­mente, molto profondamente, che è lui, in effetti, che è lui davvero il responsabile. Perché è padre di famiglia. È uno dei casi più significativi che ci siano di responsa­bilità senza colpa, di colpevolezza senza colpa. Eppure di responsabilità reale, di colpevolezza reale; comune; misteriosa; di fatalità, anche; infinitamente più profonda; segreta; in comunità, in comunione; con la crea­zione con (tutto) il mondo; infinitamente più grave delle nostre proprie responsabilità, personali, particola­ri, limitate, note, individuali e collettive; infinitamente più profonda; infinitamente più vicina alla creazione stessa; e quasi (oscuramente ce ne accorgiamo), quasi infinitamente più giusta, attinente alla creazio­ne stessa, al mistero, al segreto della creazione; una col­pevolezza, allora, infinitamente più seria delle nostre colpevolezze propriamente criminali.
Per il padre di famiglia (questo è lo stato, costante, uno stato situazionale; è la sua stessa patente, la sua condizione ab urbe condita, una volta fondata la famiglia. È la sua stessa definizione, il pane di tutti i (suoi) giorni, il cruccio delle sue notti. È il midol­lo, stesso, della sua vita, il segreto della sua esistenza, la sua regola interiore, la sua regola esteriore, la regola del suo secolo, la sua regola di secolo. Ed è un pover’uomo; innocente criminale; innocente responsabile; innocente colpevole; innocente assalito da scrupoli; innocente tormentato dai rimorsi; legato, incatenato da ogni parte, mani, piedi, da tutti i lacci, da tutte le catene, è lui, amico mio, è lui, e lui solo, che ha le relazioni peri­colose; confuso, prigioniero, ostaggio, manette alle ma­ni, ganasce ai piedi, capo, responsabile dei prigionieri, capo, responsabile degli ostaggi, fa pena, è esposto a tutto, ai quodlibet, alle ingiurie, al peggio di tutto: a una sorta di riprovazione, di malevolenza universale, di presa in giro, di tacita ingiuria, (peggiore, infinitamen­te più grave di quella formale), perché se è così tacita, se può essere così sottintesa, come se andasse da sé, per così dire; non vale la pena di parlarne, perché tutti lo sanno bene; è una cosa intesa, senza che ci si pensi, una cosa alla quale tutti consentono, a cui tutti danno la mano. È infinitamente peggio di una cosa infinitamen­te concertata, che una cosa universalmente concertata. È una cosa universalmente non concertata. Così è infi­nitamente meno demolibile. Una cosa che va da sé. Che si sappia. Allora tutti ci calpestano sopra.
Allora, rin­galluzzito, anche il prete ci calpesta sopra. Clericus. Il sacerdote se ne accorge bene, un istinto di casta lo av­verte, uno degli avvertimenti, uno degli istinti più si­curi, uno degli istinti più infallibili, un segreto orgo­glio infallibile lo avverte che è lui il nemico, il più lontano, il più straniero, che l’uomo di famiglia, che il padre di famiglia è l’uomo più lontano dalla regola e dalla clericatura, l’uomo del mondo più coinvolto nel mondo, un istinto segreto lo avverte che lui è infinita­mente più vicino al pubblico peccatore; e reciproca­mente; che il tribuno, l’oratore, l’eloquente, l’uomo della tribuna è infinitamente più vicino all’uomo del pulpito, infinitamente più imparentato all’uomo del pulpito, che l’uomo del meeting, della pubblica riunio­ne è infinitamente più vicino all’uomo della predica e all’uomo del sermone; più pronto, per l’uno e per l’al­tro, sia per diventarlo, sia per subirne l’effetto, sia insie­me l’uno e l’altro, che sono dello stesso genere, che si passa comodamente e quasi continuamente dall’uno all’altro, che c’è tra loro un’intesa, interna, un accordo segreto, una somiglianza, almeno di modo, e in più che appartengono allo stesso mondo; e per la regola che il celibe, l’uomo libero, il non prigioniero, il non ostag­gio, lo slegato, il non legato, l’inlegato, il mai legato, lo scantonatore, il pié leggero, il corridore, il bombarolo, il festaiolo, l’uomo all’erta è infinitamente più vicino; e più pronto, più disponibile; che lui piace di più; che con lui ci si capirà meglio, ci si intenderà sempre. E poi è lui che è un personaggio gradevole. Il padre di fami­glia è un povero essere. Tirar su solo tre bambini, pensa un po’. Che grottesco, che ridicolo. Tutte le forze della società sono congiurate, si congiurano contro una cosa del genere. Ora, il sacerdote è una forza della società, fa parte delle forze della società. Allora tutti calpestano il padre di famiglia. Allora il sacerdote, ardi­to, lo calpesta. Non ha che indulgenza, e che indulgenze, per tutti gli altri. Si crede di solito che il celibe, l’uomo senza famiglia è un uomo di fortuna(e), un avven­turiero, che vive di avventure.
Invece è l’uomo di fami­glia che è un avventuriero, che vive non solo alcune avventure, ma una sola, una grande, un’immensa, una totale avventura; l’avventura più terribile, la più costan­temente tragica; la cui vita stessa è un’avventura, il tes­suto stesso della vita, la trama e l’ordito, il pane quoti­diano. Ecco l’avventuriero, il vero, il reale avventuriero.

Charles Péguy
da Dialogo della storia e dell'anima carnale
Da Tempi.it

Frammento di Bools Corracha

Finimmo per vivere qui,
Molto lontano dal ricordo degli eucalipti
Dove il bosco si diradava fino a svanire
In una lontananza di macchie verdi
E di pietrame. Fiori irriconoscibli,
Come antiche minacce, bruciavano
In silenzio, Il silenzio dell'acqua
Generava altri fiori. Fiori alti
Pallidi e disfatti. Non ci restava altra scelta
La fatica della guerra, il saldo demografico negativo,
Ci obbligvano a limitare il nomadismo
A farci, almeno temporaneamente stanziali
A dimenticare canne e palmizi
Il sollevarsi frenetico e teso
Di stormi alati, limpidi fischi,
Frulli, timidi schiocchi.
Finimmo per vivere qui:
All'inizio fu molto duro, le crisi
Di vomito bianco stremavano le donne
I nostri sogni erano piantagioni di forbici,,
Batterie de chiodi, l'ombra del grande crocifisso
Ci preservava a stento dalla febbre.
Spesso ci dimenticavamo di avere denti,
Le dita delle mani si mettevano a cresecere
Asimettricamente e a produrre pseudofoglie,
Gli aruspici erano sfiniti da tanto amputare,
Poi furono le nostre madri a venirci a visitare
Le antiche, perdute nel grande viaggio
Sgorgavano dalla nebbia gialla
Dapprima come mucchietti di stracci grigi, lisi
Con cui il vento giocava, faceva mulinelli
Scoteva conferendogli le movenze di spaventapasseri epilettici
Poi si definivano sari e toghe dai bordi porporini ...

Bools Corracha
A cura di genseki

La poesia si disfó di me

La poesia si disfó di me
Prima che il tempo scoperchiasse il torrente
Rimasero correnti di lame vive,
Brividi di metallo,
Il fumo dell'incenso si solidificava
Ma non avrebbe potuto ferirmi
Come un feto mi diluivo
Nella placenta delle parole
Fino all'inganno,
Fino a neve e neve e neve e neve di menzogne;
Espulso dalla poesia
Dalle lacrime dei segni
Nel deserto di pece e vento.

genseki

Il Verbo

In principio era la Parola (Verbum), questo non si puó capire senza le parole, non si intende con parole umane. La parola è qualche cosa che non ha forma e, tuttavia, è la forma di tutte le cose che hanno una forma...

Agostino


*

È strano che nessuna delle tre cose: lo Spirito, il Sangue e l'Acqua, che testimoniano la Veritá sulla terra sia Parola (Verbo), e, tuttavia, tutte diano testimonianza della Parola che è Cristo: lo Spirito come Dio ispiratore, l'Acqua come il risultato efficiente della Parola, la Chiesa, e il Sangue, finalmente, nel momento in cui nel silenzio e nel grido inintellegibile si realizza ció che nella Parola è decisivo.

Hans Urs Von Balthasar

*

Trad genseki

Anton Reiser

L'aria era fredda e umida, cadeva un nevischio fradicio che inzuppava i vestiti, di colpo lo invase la sensazione di non poter sfuggire a se stesso. Bastó che questa idea si manifestasse e fu come se una montagnag li fosse franata addosso. Si sforzava di trovare una via di uscita verso l'alto, ma era come se il peso dell'esistenza lo schiacciasse. Doversi alzare al mattino e andare a letto alla sera in compagnia di se stesso, giorno dopo giorno!  Doversi trascinare dietro quel suo io odioso passo dopo passo!
La sua coscienza di sé con la sensazione di essere rifiutato e disprezzato, gli risultava tanto sgradevole e opprimente come il suo corpo fradicio e infreddolito.

Moritz

Anton Reiser
Trad. genseki

lunedì, settembre 08, 2014

Léo Ferré - Génération Ferré (Documentaire Arte - 2013)

L'olivo di Tiro





Due grandi rocce chiamate Ambrosie galleggiano sulle acque, su di esse:

Fiorisce
Il germoglio di un un olivo altrettanto antico, da nessuno piantato e ad esse unito,
Ombelico della roccia che attraversa le acque, Tra i suoi rami
Riposa un'aquila
E una coppa finemente cesellata. L'albero arde
Sprigionando scintille meravigliose di un fuoco spontaneo
E la fiamma circonda i germogli senza consumarli.
Un serpente è il guardiano dell'albero frondoso
Sí che ne stupiscono lo sguardo e l'udito.
Il serpente, infatti, striscia silenzioso verso l'aquila che si libra in alto,
Ma non la avvolge sinuoso nelle spire minacciose,
Non inietta veleno mortale coi denti, e neppure
L'aquila ghermisce il rettile avvolto in molli spire,
Levandosi a volo e fendendo l'aria,
Né potrebbe lacerarlo con il becco adunco.
Il fuoco non si propaga ai rami, al fusto,
Non consuma il germoglio che permane intatto,
Anzi la fiamma amichevole genera vapore tra le fronde,
Senza consumare le spire scagliose del serpente
Avvolte al fusto, la vampa del fuoco non si trasmette
Alle ali intrecciate ai rami del rapace,
Né la coppa immobile, sospesa in alto precipita per il soffio dei venti

Nonno di Panopoli
Dionisiache

Canto 40 – 468, 491

Trad. genseki




lunedì, giugno 30, 2014

Luce





 
https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh4DQRhd3fH8E-DgV-6VcHYSPYbET_-xiuZSS9jnBIt4_9sZGCndmufFsDM5umhsWRy7NXkMXAfuqSlvDpyGCSuiIT2UcbQDnTu7rjeMg15aPlrYwe-M_I0p3dCLfvwD6IhJg/s1600/metamorfosis.jpgChi partecipa dell'enjergia divina, si converte in luce; è unito alla luce, con la luce vede in piena coscienza tutto quello che resta celato a coloro che non possiedono tale grazia...; perché i puri di cuore vedono Dio che, in quanto luce, abita in loro, e si rivela a coloro che lo amano, ai prediletti.

Palamas

giovedì, giugno 05, 2014


Alasdair MacIntyre

“A crucial turning point…occurred when men and women of good will turned aside from shoring up the Roman imperium….  what they set themselves to achieve instead—often not recognizing fully what they were doing—was the construction of new forms of community within which the moral life could be sustained…..we ought also to conclude that for some time now we have reached that turning point. What matters at this stage is the construction of local forms of community within which civility and the intellectual and moral life can be sustained through the new dark ages which are already upon us. …This time however the barbarians are not waiting beyond the frontiers; they have already been governing us for quite some time. And it is our lack of consciousness that constitutes our predicament. We are not waiting for a Godot, but for another—doubtless very different—St. Benedict.”

A.C.
 

sabato, aprile 19, 2014

Sonetos de la Pasión



1.
Pastor que con tus silbos amorosos
me despertaste del profundo sueño,
Tú que hiciste cayado de ese leño,
en que tiendes los brazos poderosos,

vuelve los ojos a mi fe piadosos,
pues te confieso por mi amor y dueño,
y la palabra de seguirte empeño,
tus dulces silbos y tus pies hermosos.

Oye, pastor, pues por amores mueres,
no te espante el rigor de mis pecados,
pues tan amigo de rendidos eres.

Espera, pues, y escucha mis cuidados,
pero ¿cómo te digo que me esperes,
si estás para esperar los pies clavados?
Lope de Vega

2. En la muerte de Cristo, contra la dureza del corazón del hombre

Pues hoy derrama noche el sentimiento
por todo el cerco de la lumbre pura,
y amortecido el sol en sombra oscura,
da lágrimas al fuego, y voz al viento;

pues de la muerte el negro encerramiento
descubre con temblor la sepultura,
y el monte, que embaraza la llanura
del mar cercano, se divide atento,

de piedra es hombre duro, de diamante
tu corazón, pues muerte tan severa
no anega con tus ojos tu semblante.

Mas no es de piedra, no; que si lo fuera,
de lástima de ver a Dios amante,
entre las otras piedras se rompiera.
Francisco de Quevedo



El Cristo crucificado de Velázquez

3. Soneto a Cristo crucificado

No me mueve, mi Dios, para quererte
el cielo que me tienes prometido,
ni me mueve el infierno tan temido
para dejar por eso de ofenderte.

Tú me mueves, Señor, muéveme el verte
clavado en una cruz y escarnecido,
muéveme ver tu cuerpo tan herido,
muévenme tus afrentas y tu muerte.

Muéveme, en fin, tu amor, y en tal manera,
que aunque no hubiera cielo, yo te amara,
y aunque no hubiera infierno, te temiera.

No me tienes que dar porque te quiera,
pues aunque lo que espero no esperara,
lo mismo que te quiero te quisiera.
Anónimo

4. Sobre estas palabras que dijo Jesucristo en la Cruz: “Mulier, ecce filius tuus: ecce Mater tua” (Ioan, 19)

Mujer llama a su Madre cuando expira,
porque el nombre de madre regalado
no la añada un puñal, viendo clavado
a su Hijo, y de Dios, por quien suspira.

Crucificado en sus tormentos, mira
su Primo, a quien llamó siempre «el Amado»,
y el nombre de su Madre, que ha guardado,
se le dice con voz que el Cielo admira.

Eva, siendo mujer que no había sido
madre, su muerte ocasionó en pecado,
y en el árbol el leño a que está asido.

Y porque la mujer ha restaurado
lo que sólo mujer había perdido,
mujer la llama, y Madre la ha prestado.
Francisco de Quevedo

5. Fuerza de lágrimas
Con ánimo de hablarle en confianza
de su piedad entré en el templo un día,
donde Cristo en la cruz resplandecía
con el perdón que quien le mira alcanza.

Y aunque la fe, el amor y la esperanza
a la lengua pusieron osadía,
acordéme que fue por culpa mía,
y quisiera de mí tomar venganza.

Ya me volvía sin decirle nada,
y como vi la llaga del costado,
paróse el alma en lágrimas bañada:

Hablé, lloré y entré por aquel lado,
porque no tiene Dios puerta cerrada
al corazón contrito y humillado.
Lope de Vega



Detalle de los pies en el Cristo crucificado de Velázquez

6. A Cristo en la Cruz
Pender de un leño, traspasado el pecho
y de espinas clavadas ambas sienes;
dar tus mortales penas en rehenes
de nuestra gloria, bien fue heroico hecho.

Pero más fue nacer en tanto estrecho
donde, para mostrar en nuestros bienes
a dónde bajas y de dónde vienes,
no quiere un portadillo tener techo.

No fue esta más hazaña, ¡oh gran Dios mío!,
del tiempo, por haber la helada ofensa
vencido en flaca edad, con pecho fuerte

—que más fue sudar sangre que haber frío—,
sino porque hay distancia más inmensa
de Dios a hombre que de hombre a muerte.
Luis de Góngora

7.
¡Cuántas veces, Señor, me habéis llamado,
y cuántas con vergüenza he respondido,
desnudo como Adán, aunque vestido
de las hojas del árbol del pecado!

Seguí mil veces vuestro pie sagrado,
fácil de asir, en una cruz asido,
y atrás volví otras tantas, atrevido,
al mismo precio en que me habéis comprado.

Besos de paz os di para ofenderos,
pero si fugitivos de su dueño
hierran cuando los hallan los esclavos,

hoy que vuelvo con lágrimas a veros,
clavadme vos a vos en vuestro leño,
y tendréisme seguro con tres clavos.
Lope de Vega



Cristo después de la flagelación, de Murillo

8. Al buen ladrón, sobre las palabras: “Memento mei” et “Hodie mecum eris in Paradiso”, acordando lo que dice: “Non rapinam arbitratus”

¡Oh vista de ladrón bien desvelado,
pues estando en castigo tan severo
vio reino en el suplicio y el madero,
y rey en cuerpo herido y justiciado!

Pide que dél se acuerde el coronado
de espinas, luego que Pastor Cordero
entre en su reino, y deja el compañero
por seguir al que robo no ha pensado.

A su memoria se llegó, que infiere
con Dios su valimiento, porque vía
que por ella perdona a quien le hiere.

Sólo que dél se acuerde le pedía
cuando en su reino celestial se viere,
y ofreciósele Cristo el mismo día.
Francisco de Quevedo

9.
Muere la vida, y vivo yo sin vida,
ofendiendo la vida de mi muerte,
sangre divina de las venas vierte,
y mi diamante su dureza olvida.

Está la majestad de Dios tendida
en una dura cruz, y yo de suerte
que soy de sus dolores el más fuerte,
y de su cuerpo la mayor herida.

¡Oh duro corazón de mármol frío!,
¿tiene tu Dios abierto el lado izquierdo,
y no te vuelves un copioso río?

Morir por él será divino acuerdo,
mas eres tú mi vida, Cristo mío,
y como no la tengo, no la pierdo.
Lope de Vega



Agnus Dei de Zurbarán

10. Refiere cuán diferentes fueron las acciones de Cristo Nuestro Señor y de Adán

Adán en Paraíso, Vos en huerto;
él puesto en honra, Vos en agonía;
él duerme, y vela mal su compañía;
la vuestra duerme, Vos oráis despierto.

Él cometió el primero desconcierto,
Vos concertastes nuestro primer día;
cáliz bebéis, que vuestro Padre envía;
él come inobediencia, y vive muerto.

El sudor de su rostro le sustenta;
el del vuestro mantiene nuestra gloria:
suya la culpa fue, vuestra la afrenta.

Él dejó horror, y Vos dejáis memoria;
aquél fue engaño ciego, y ésta venta.
¡Cuán diferente nos dejáis la historia!
Francisco de Quevedo

mercoledì, aprile 16, 2014

Simondon

L'homme qui veut dominer ses semblables suscite la machine androïde. Il abdique alors devant elle et lui délègue son humanité. Il cherche à construire la machine à penser, rêvant de pouvoir construire la machine à vouloir, la machine à vivre ...

Gilbert Simondon
Du mode d'existence des objets techniques (1958)

mercoledì, aprile 09, 2014

Ossa

Può darsi Spirito se c’è un osso, e cioè un dato materiale in cui incarnarsi, in cui possa farsi mondo”. 
 
Isabella Guanzini

giovedì, aprile 03, 2014

Persona e organismo


The crucial concept for any philosophical attempt to provide the basis for human understanding is the concept of the person. It is a well-known thesis of philosophy — expressed in countless idioms and in countless' tones of voice — that human beings may be described in two contrasting (and, for some, conflicting) ways: as organisms obedient to the laws of nature, and as persons, sometimes obedient, sometimes disobedient, to the moral law. Persons are moral agents; their actions have not only causes, but also reasons.
 R. Scruton


Arsura

L'arsura della terra
Leviga crepe, ferite
Il suono delle parole
Non si sconta
Bolle di cielo gorgogliano tra i pini
Un tempo cupi caprai
Salmodiavano qui
Inni sagaci:
Queste parole non sono in vendita

genseki

Naufrage

Ferai-je ailleur jamais naufrage?








Forza clemente

Io so a che mi vincolano le mie insufficienze, vetrata se il fiore si separa dal sangue della giovine estate. Il cuore d'acqua nera del sole ha preso il posto del sole, ha preso il posto del mio cuore. Questa sera la grande ruota errante del desío, cosí pesante, forse è visibile solo per me. Finiró per naufragare altrove?

René Char

Trad.genseki

Rigogolo

Il rigogolo entró nella capitale dell'alba
La spada del suo canto chiuse il letto triste
Tutto finí per sempre.

René Char

Trad. genseki

giovedì, marzo 27, 2014


La poesia si liberava di me

La poesia si liberava di me
Prima che il tempo scoperchiasse il torrente
Rimasero correnti di spade vive
Fremiti di metalli
Il fumo dell'incenso si solidificava
Ma non avrebbe potuto ferirmi
Come un feto mi diluivo
Nella placenta delle parole
Fino all'inganno
Fino a neve e neve e neve di menzogna
Espulso dalla poesia
Dalle lacrime dei segni
Nel deserto di pece e vento

gensei

I baci




Non dimenticarti, primizia, il bel giorno dei baci
Dei baci alati che giunti alla tua bocca
Posero in un istante le loro piume ardenti
Sul tuo disegno puro che si arrende dischiuso.

Ti sfiorarone i denti. Ne percepisti il peso
Sulla tua bocca i palpiti delle piume celesti
Felici palpitavano le tue labbra rotonde
Chi non bacia gli alati che giunti si dileguano?

Dischiusa la tua bocca vidi denti bianchissimi,
Ecco i becchi sottili nella tua bocca affondano,
Ah! Beccate celesti, quando dolce sentisti
Che il tuo corpo lieve, leggero si levava.

Che sottile, che svelta, che graziosa, regnavi!
Uccelli e luce giungono, piume di baci puri
Oscurano il tuo volto cone le loro ali calde,
Ti sfiorano, svolazzano, mentre accecata splendi.

Non dimenticarlo: Felici, vedi vanno, ora, fuggendo,
Guarda. volano, ascendono ed il cielo li accoglie.
Alti, dorati ascendono, cosí caldi che ardono,
Brillano, cantano, gemono. Delirano nel cielo

Vicente Aleixandre
Trad genseki

martedì, marzo 25, 2014

Calendario

Ho collegato tra di loro le mie convinzioni e ingrandito la tua presenza. Hoconcesso una energia rinnovata a ai miei giorni appoggiandoli a questa forza spaziosa. Ho congedato la violenza che limitava il mio ascendente. Ho misurato umilmente il polso dell'equinozio. L'oracolo non mi rende piú suo vassallo.
Entro: sperimentando o no la grazia.
La minaccia si è levigata. La spiaggia che ogni inverno accumulava leggende regressive, sibille dalle braccia cariche di ortiche, si prepara per gli esseri da soccorrere. So bene che la coscienza che osa non ha da temere nulla dalla pialla.

René Char
da: "Fureur et mystère"
trad. genseki

Lacrime di ardesia

A queste pietre grige sostano
Le lacrime di primavera
Non ci sono altri fiori
Altri corpi volanti tra rami spezzati
Solo silenzi
In agguato
Come improvvise pozze d'acque verdi
Questo cielo non lo possiamo sentire
È il nostro corpo di lacrime d'ardesia.

genseki
Cantad por mi pájaros centellantes
Que en el ardiente bosque convocáis alegría.

Aleixandre


I dormienti

Qual voce tra gli uccelli di questa notte di sogno
Modula dolcemente nomi in aria?
Destatevi! Una luna tonda geme o canta
Tra i veli, senz'ombra, senza meta invocandovi
Un cielo ferito a colpi di luce, a colpi di ascia, piove oro
Privo di stelle con il sangue che cola lungo il dorso;
Rivelatore invito di un destino che chiama
Sempre i dormienti sotto i cieli vissuti.

Destatevi! È il mondo, è la sua musica. Ascoltatela!
La terra, desta, vola ubriaca di volti,
Di desideri, nuda, senza tunica, radiante
Baccante degli spazi che mostra il bel seno,
Azzurrato di vene, turgido, fulgente.

Gurdate! Non vedete una coscia abbagliante che avanza?
Un pacco vittorioso, un vestito stellato,
Che con ritardo sconvolge, frusta e spezza
I venti siderali azzurri e fragili?

Non udite un clamore nella notte? o dormienti!
Sordi siete ai cantici! S'alzano dolci coppe,
O stelle mie, vino celeste, datemi tutta
La vostra follia, datemi i vostri bordi luminosi!
Le mie labbra sanno ancor suggervi, la mia gola
S'accende di sapienza, dolci brillano i miei occhi.

La notte intera scintillando in me illumina
I vostri sogni, o dormienti, o morti, o finiti,

Oppure no. Mortalmente silenti, come lune
Di pietra, in terra sordi restate, senza tomba.
Una notte di veli, di piume, di sguardi
Vola per gli spazi, sollevandovi, insepolti.

V. Aleixandre

Trad.. genseki


Foglia

Disnaturato son come la foglia
Quand'è caduta de la sua verzura

Guinizzelli

Anne Sexton


A quel tempo

A sei anni
Vivevo in un cimitero di bambole
Evitando me stessa,
Il mio corpo,sospettato
Nella sua casa grottesca
Me ne restavo chino nella mia stanza dietro una porta
In cella,
Ero l'esiliata
Seduta tutto il giorno su di un nodo.

Parleró delle meschine crudeltá dell'infanzia;
Ero la terza figlia
L'ultimo regalo
L'ultima accolta
- Delle umiliazioni di ogni sera quando la Madre mi spogliava,
Della vita durante il giorno chiusa nella mia stanza -
Perché ero l'indesiderata, l'errore
Che la Madre usó per evitare che il Padre
Divorziasse.
Divorzio!
L'amico romantico,
Romantici che volano sulle mappe
Di altri paesi
Fianchi e nasi e monti
In Asia o nella Foresta Nera
O acchiappata dal 1928
L'anno dell'Io,
Per un errore,
Non a causa del divorzio
Piuttosto l'Io che rifiutava di succhiare il seno
Che non poteva compiacere
Quell'io di cui il corpo crebbe insicuro,
L'Io che schiacciava il naso delle bambole
Che non poteva rompere,
Penso alle bambole,
Cosí ben fatte
Così perfettamente asemblate
Mentre le stringevo a me
Baciando le loro bocche irreali
Ricordo la loro pelle soave,
Quelle appena comprate,
La pelle rosa e gli occhi gravi di porcellana azzurra.
Venivano da un terra misteriosa
Senza il dolore della nascita,
Nate bene, in silenzio.
Quando volevo fare visita,
L'arrmadio era dove facevo le prove della vita,
Tutto il giorno tra le scarpe,
Lontana dalla luna della lampadina del soffitto,
Lontana dal letto, dal tavolo massiccio
E quell'orribile rosa ripetuta sulle pareti.
Non cervavo di metterlo in discussione
Mi nascondevo nell'armadio come chi si nasconde in un albero,
Crescevo nell'armadio come fossi una radice,
Tuttvia pianificando voli,
Convinta che avrei innalzato il mio corpo fino al cielo,
Trascinandomelo appresso come fosse un gran letto,
E sebbene non fossi qualificata,
Ero sicura che ci sarei riuscita,
Almeno a andar su come un'ascensore.
Con sogni di questo tipo,
Con tali sogni,
Accumulando energia come un toro,
Pianificai la mia crescita e la mia femminilitá
Come chi crea la coreografia di un balletto.

Sapevo che se aspettavo tra le scarpe
Avrebbero immancabilmente finito per andarmi strette,
I mocassini solidi, quelle spesse e rosse,
Le scarepe sedute insieme come soci,
Le ciabatte piene di collirio Griffin
E i vestiti che ondeggiavano su di me,
Sempre sopra di me
Con nastri e pieghettati,
Colletti e orli e rigide cuciture
E il malocchio nelle martingale.

Restavo seduta tutto il giorno
Mettendo il mio cuore in una scatola da scarpe,
Evitando la finestra preziosa
Come se fosse un brutto occhio
Attraverso il quale tossivano gli uccelli
Incatenati agli albero frondosi;
Evitando la tapezzeria della stanza
Dove fiorivano lingue senza posa
Sbocciando come fiori marini.
E cosí cercavo di ammazzare il tempo
Fino a che la Madre,
La grande,
Veniva e mi obbligava a togliermi i vestiti
Io mi infilavo in silenzio nel letto
Proteggendo la mia piccola dignitá
Non facevo domande sulla porta o sull'armadio
Non questionavo il rito
Quando sulle fredde piastrelle del bagno,
Lei ogni giorno mi apriva le gambe
Per esaminare i miei difetti.

Ignorava che le mie ossa,
Solide sculture
Non si sarebbero frantumate.

Ignorava la donna che sarei divenuta,
Che il mio sangue sarebbe fiorito
Che il mio sangue sarebbe fiorito.
Ogni mese come un fiore esotico,
E neppure che le bambine,
Dueopere d'arte,
Sarebbero sbucate tra le mie gambe,
Femminucce raccolte che respiravano seza preoccupazioni
Ognuna addormentata nella sua bellezza.

Non sapevo che alla fine la mia vita
Avrebbe travolto mia Madre come un camion
E tutto quello che sarebbe restato
Di quando avevo sei anni,
Sarebbe stato un forellino nel cuore, un angolo morto nell'orecchio
Perché potessi ascoltare
Con maggiore chiarezza il non detto.

A. Sexton

Trad. genseki