sabato, settembre 19, 2009

Nicola Cusano


Si tratta della traduzione della prima parte dell'opera "De Apice Theoriae del Cusano. Il Cardinale è ovviamente lo stesso Cusano, Pietro il suo fedele segretario Pietro di Erkelez.

Dell'apice della teoria
Parte I

Pietro

Mi sembra che tu sia stato rapito un profonda meditazione per alcuni giorni sicché temetti di esserti molesto se ti avessi domandato qualcosa su quello che ti succedeva. Ora, siccome ti vedo meno concentrato e quasi lieto come se avessi scoperto qualche cosa di importante, mi perdonerai, spero, se ti farò più domande del solito.

Il Cardinale

Ne sarò lieto. Infatti mi sono speso meravigliato del tuo silenzio, soprattutto perché mi hai udito parlare molto, in quattordici anni, sia in pubblico che in privato di quello che ho trovato con lo studio e hai raccolto in opuscoli le molte cose che scrissi.
E così ora che per dono di Dioe per il mio ministero sei giunto allo sato sacerdotale, è giunto il tempo per te di cominciare a parlare e ad interrogare.

Pietro

Mi vergogno della mia goffagine. Tuttavia chiedo alla tua pietà di essere edotto di che cosa di nuovo ti giunse in questa meditazione pasquale. Credevo che tu perfezionassi tutta tua speculazione ce hai illustrato in tanti diversi tuoi manoscritti.

Il Cardinale

Se l’apostolo Paolo nonostante sia stato rapito fino al terzo Cielo non comprese tuttavia l’incomprensibile, nessuno mai, neppure il più grande, sarà saziato di tutta la comprensione anche se sempre insista per meglio compredere.

Pietro

Che cosa cerchi?

Il Cardinale

Dici bene.

Pietro

Ti interrogo e tu mi deridi. Quando ti domando che cosa cerchi, tu dici “dici bene”, e io non dico niente, ma chiedo.

Il Cardinale

Quando hai detto “che cosa cerchi” hai detto bene, perché il che cosa io cerco. Chiunque cerca ciò che cerca. Se infatti non cercasse qualche cosa o ciò sarebbe come se non cercasse. Io dunque, come tutti gli studiosi, cerco ciò, perché ben voglio sapere che cosa sia ciò ovvero la quiddità che tanto è cercata.

Pietro

Pensi che si possa trovarla?

Il Cardinale

Senz’altro. Infatti lo sforzo che compete a tutti gli studiosi non è vano.

Pietro

Se fino ad ora nessuno ha trovato ciò, tu cercherai di superare tutti?

Il Cardinale


Ritengo che molti in qualche modo lo abbiano visto e descrtto in parole. Infatti la quiddità che sempre è cercata, è stata e sarà cercata, se fosse del tutto ignota, in che modo potrebbe essere conosciuta, se anche una volta trovata rimanesse sconosciuta? Infatti diceva un certo sapiente che essa è vista da tutti anche dai più lontani.

Quindi essendomi sembrato per molti anni che sia necessario cercarla oltre ogni potenza cognitiva, oltre ogni varietà e opposizione non considerai che la quiddità è in sé sussistente, sussistenza invariabile di tutte le sostanze; e perciò non moltiplicabile, moltilicabile e non altra e altra quiddità degli altri enti, ma la medesima ipostasi di tutti. Poi vidi che era necessario che dicessi che la stessa possa essere l’ipostasi o la sussistenza di tutte le cose. E poiché può essere senza lo stesso potere non potrebbe essere. Come potrebbe infatti senza potere? Quindi lo stesso potere, senza il quale nulla può essere qualche cosa è ciò di cui non può esservi nulla di più sussistente. Perciò è esso ciò che si cerca. Proprio a questa teoria mi sono dedicato in queste festività con grande diletto.

Pietro

Mi sembra, in verità, che tu dica che senza potere nulla possa essere, e che senza quiddità non vi è alcunché, quindi parmi che la quiddità sia il potere stesso. Ma mi meraviglio, poiché già prima hai detto molte cose del potere e le hai spiegate nel trialogo, che questo non basti.


Vedrai che al di sotto dello stesso potere, di cui nulla può essere più potente né prima né migliore, è di gran lunga meglio nominare quello, senza il quale nulla può essere, né vivere, ne comprendere piuttosto che qualche altro vocabolo. Se infatti può essere nominato in ogni modo il potere stesso, del quale nulla può essere più perfetto, esso stesso lo nominerà nel modo migliore. Infatti non credo che si possa dargli un nome più chiaro, più vero o più facile.

Pietro

Come puoi chiamarlo facile, quando credo che non vi sia nulla di più difficile di quello che sempre è cercato e mai trovato completamente?

Il Cardinale

La verità quanto più è chiara tanto più è facile. Io ritenevo che la si trovasse meglio in un poco di oscurità. Grande è la potenza della verità nella quale brilla intensamente lo stesso potere. Essa infatti grida nelle piazze, come hai letto nel libretto “De Idiota”. Certamente essa è ben facile da trovarsi.
Quale bambino o adolescente ignora lo stesso potere, quando dice che può mangiare, correre o parlare? E non vi è nessuno dotato di una mente che sia a tal punto ignaro da non sapere anche senza maestro che nulla e se non può essere e che senza potere nulla può essere, avere, fare o subire. Quale adolescente, interrogato se possa portare una pietra, avendo risposto che lo può, ulteriormente interrogato se lo potrebbe senza poterlo non risponderebbe giammai? Egli giudicherebbe assurda e superflua tale domanda, come se nessuno sano di mente potesse dubitare di aver fatto o di fare qualche cosa senza poterlo. Ogni potente presuppone il potere come necessario e nulla può essere senza che esso sia presupposto e che cosa diresti se ancora ti domandassi, essendo il potere di tutte queste origini quasi inesplicabile, da dove tale potere tragga la sua virtù? Non risponderesti forse, che le trae da quel potere assoluto e non contratto, quasi onnipotente, di cui nulla havvi che di più potente possa essere percepito o immaginato o compreso, essendo
Se infatti qualche cosa può essere nota nulla è più noto proprio del potere. Se qualche cosa può essere facile, nulla è più facile proprio del potere, se qualche cosa può essere certo nulla è più certo dello stesso potere. Così nulla è più primo, né glorioso, né forte, né solido né sostanziale e così di tutte le cose. Mancando infatti il potere stesso nulla vi può essere di buono né di qualunque altra cosa che possa essere.

Pietro

Nulla vedo di più sicuro e ritengo che nessuno possa ignorare la verità di queste.

Il Cardinale

C’è solo attenzione tra te e me. Infatti, se ti interrogassi su che cosa scorgi in tutti i posteri di Adamo che furono, che sono e che saranno, anche se fossero infiniti, non risponderesti forse subito che non vi scorgi altro che il potere paterno del primo genitore?

Pietro

E’ certamente così

Il Cardinale

E se vi aggiungessi, che cosa scorgi nei leoni, e aquile e ogni specie di animali, non risponderesti forse allo stesso modo?

Pietro

Di sicuro non in modo diverso.

Trad. genseki

giovedì, settembre 17, 2009

Mahakasyapa sorride

Non c'è nulla d trovare

Quella che segue è una nuova parte della traduzione dei "Dialoghi" di Huangpo a cura di genseki,
Le altre si possoni trovare cliccando su una delle etichette in fono al testo
genseki

A partire dal'istante in cui Buddha trasmise il metodo spirituale a Mahakasyapa, lo spirito ricevette il sigillo dello spirito senza piú nessuna differenza tra spirito e spirito. Questo sigillo si stampiglia nel vuoto, cioè non ha nulla a che vedere con i testi, perché se fosse stampigliato su qualche cosa di concreto allora non avrebbe piú niente a che fare con il metodo spirituale. Per questo quando lo spirito pone il sigillo allo spirito lo spirito che sigilla e quello che è sigillato non sono piú distinti. Sccome, peró il soggetto che sigilla e l'oggetto che è sigillato si incontrano con difficltá la loro coincidenza è estremamente rara. Tutttavia, dal momento che lo spirito equivale al non-spirito, trovarlo equivale a non trovare nulla.

Il Buddha ha tre corpi: il corpo assoluto insegna la vacuità e la libertá della nostra essenza; il corpo della fruizione insegna il metodo della purezza universale; il corpo di appaizione insegna le sei trascendenze e tutte le altre pratiche infinite.

Non si puó cercare il metodo insegnato dal corpo assoluto in linguaggio, suono, forma o testo: nulla è attestato.
La nostra essenza è aperta come lo spazio. Questo è tutto. In questo senso è stato detto: "Nel fatto che il vero metodo non puó essere insegnato si trova il vero metodo".
Il corpo di fruizione e quello di apparzione si fanno sentire e si manifestano secondo le circostanze.
I metodi che insegnano dipendono dalle circostanze e dalle situazioni. Per attirare e convertire impiegano un metodo che non è quello reale, si puó dire quindi che: "il corpo di fruizione e quello di apparizione non sono il Buddha reale
e non insegnano il metodo corretto".
Tutto ció si puó riassumere in una sola luminosa chiarezza sottile che si articola in sei tipi di relazioni armoniose.
I sei tipi di relazioni corispondono alle sei facoltá sensoriali. Ognuna di queste facoltá si unisce al suo oggetto: l'occhio alla forma, l'orecchio al suono, il naso agli odori, la lingua ai sapori, il tatto ai tangibili, l'intelletto agli intellegibili.
Nel mezo emergono le sei coscienze così che in tutto si hanno diciotto sfere. Comprendendo che queste diciotto sfere non hanno esistenza indipendente le sei relazioni sono concentrate in una sola chiara luminositá sottile che altro non è che lo spirito, I discepoli sanno tutto questo ma si sforzano di spiegare concettualmente l'unica chiara luminositá sottile e le sei relazioni, cosí che si ritovano legati dal metodo senza coincidere piú con il proprio spirito.

Huangpo
Dialoghi
Trad a cura di genseki

mercoledì, settembre 16, 2009

Aforismi

Quelle che seguono sono brevi citazione tratte da lunghi anni di escursioni, di viaggi forse, nel continente immenso, inevitabile dell'Hugo narratore. Viaggi che cominciai sistematicamente quando il primo attacco di artrite quasi mi parelizzzó e che continuai in febbrile quiete nei momenti piú lieti degli anni successivi.
Parmi che possano illustrare come la potenza immaginativa della parola hugoliana scavi nel pensiero cunicoli e camminamenti aforismatici che partendo da un punto di vista razionale sboccano in una allucinazione mitica. Mitologia bagnata dalla luce molle di una mattina marina della ragione. La sola mitologia consentita ai moderni,
Questo primo assaggio contiene brani dei miserabili. Il primo di essi non corrisponde che molto vagamente alle parole che ho scrito qui sopra, in parte ne è una fragrante negazione esemplare posa umilmente in limine.

genseki
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I MISERABILI

Si può considerare con indifferenza la pena di morte, si può non pronunciarsi, dire di sì e di no, finché non si è vista con i propri occhi una ghigliottina; ma quando se ne vede una, la scossa è violenta e bisogna decidersi a prender partito pro o contro. Alcuni ammirano, come il De Maistre, altri esecrano come il Beccaria. La ghigliottina è il concretizzarsi della legge; essa si chiama punizione, non è neutra e non vi permette di rimaner neutrali. Chi la scorge freme del più misterioso dei fremiti. Tutte le questioni sociali drizzano attorno alla mannaia i loro punti interrogativi. Il patibolo non è visione. Il patibolo non è un'impalcatura, non è una macchina, non è un meccanismo inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra che sia, in qualche modo, un essere dotato di chissà quali cupe iniziative. Si direbbe che quella impalcatura veda, che quella macchina intenda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria in cui getta l'anima con la sua presenza, il patibolo appare terribile e partecipe di quello che fa. Il patibolo è complice del carnefice: divora, mangia della carne, beve del sangue. Il patibolo è una specie di mostro, fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere d'una vita spaventosa, fatta di tutta la morte che ha procurato.

La morte appartiene solo a Dio. Con quale diritto gli uomini si servono di una cosa sconosciuta?».

«L'infinito esiste. È là. Se l'infinito non avesse un io, l'io sarebbe il suo limite; non sarebbe infinito; in altri termini, non esisterebbe. E invece esiste. Dunque ha un io. L'io dell'infinito è Dio».

Ma ciò che apprezziamo nei confronti di coloro che salgono, ci piace assai meno di fronte a coloro che cadono. Amiamo il combattimento fintanto che c'è pericolo; e, in ogni caso, sono soltanto gli oppositori della prima ora che hanno il diritto di essere gli sterminatori dell'ultima. Chi non è stato nei giorni della prosperità accusatore ostinato, al momento del crollo deve tacere. Solo il denunciatore del successo sarà il legittimo giustiziere della caduta.

Ogni zucchetto può sognare la tiara. Il prete, ai giorni nostri, è il solo uomo che possa di diritto diventare re; e che re! Il re supremo! Per questo il seminario è un semenzaio d'aspirazioni.

I geni, nelle inaudite profondità dell'astrazione e della speculazione pura, posti per così dire al di sopra dei dogmi, propongono a Dio le loro idee. La loro preghiera offre audacemente la discussione. La loro adorazione interroga. Questa è la religione diretta, piena d'ansietà e di responsabilità per chi ne tenta la scalata.

La meditazione umana non ha limiti. Ha i suoi pericoli, i suoi rischi, analizza e scava il proprio abbaglio. Si potrebbe quasi dire che, con una specie di splendida reazione, ella ne abbagli la natura; il mondo misterioso che ci circonda rende ciò che riceve; è probabile che i contemplatori siano a loro volta contemplati. Comunque, ci sono sulla terra uomini - ma sono uomini, poi? - che scorgono in fondo all'orizzonte del sogno le altezze dell'assoluto e che hanno la terribile visione della montagna infinita.


***

martedì, settembre 15, 2009

Tre mendichi

I Pitocchi

Ci fu un'epoca nella letteratura francese in cui fu possibile la poesia, prima del romanticismo e prima del poeticidio di Malherbe. Ua poesia lontana dal petrarchismo che profuma di muschio e osteria, di vecchie pietre e umida foresta. Una poesia da moschettieri, insomma all'avventura sulle scivolose strade di Francia. Saint Amant, Théophile e Viau, Tristan l'Hermite ne sono i maggiori rappresentanti prima che vincessero definitivamente i moschettieri del cardinale.
La traduzione è cosí cosí ma è quello che mi è riuscito di fare.
genseki

di Saint-Amant

Con un lenzuolo in tre senza luce né fuoco,
Nel piú profondo inverno, dormir nella legnaia
Ove i gatti borbottano in oscuro ostrogoto
Rischiarando la notte con le pupile d'oro;

Usar come cuscino un pezzo di sgabello,
Digiunare due anni al modo di lumache,
Sognar con mille smorfie come macachi al sole
Che con grandi sbadigli si grattano le ascelle;

Con un vecchio cappello a guisa di berretto,
Con le trine di un manto poteggersi dal freddo
E fasciarsi la pancia con un frusta fodera;

Soffrire mille ingiurie da un vecchio oste irato
Che appena puó fornire una minima spesa
È questo il risultato d'una vita sbandata.


trad. genseki

lunedì, settembre 14, 2009

Filosofia e sapienza

Scrive il giovane Hegel:

"Tutti i moscerini della soggettivitá bruciano in questo fuoco distruggitore, ed è annientata anche la coscienza di questo sacrificio e annientamento".

Il fuoco è qui la filosofia, o la scienza. Il linguaggio è quello della mistica. La metafora degli insetti e del fuoco, siano essi farfalle, mosche o moscerini è una dele piú antiche del linguaggio mistico da Attar di Nishapur in avanti, si trova in Leonardo (Il parpaglion che fere la lumiera...) e in Goethe. La coscienza scompare in uno sfrigolante bagliore e si fa istantaneamente una sola cosa con il tutto, Si tratta, naturalmente di uno istantaneamente eterno e in cui anche lo sfrigolio ha un proprio valore teoretico.
Comunque proprio in una delle ultime stazioni sul cammino del grande santuario fenomenologico incontriamo una formula apparentemente mistica.
La fine della filososfia è anche fine della soggettivitá e della coscienza.
Se le cose stanno cosí peró, il supremo compimento della filosofia non ha piú nulla a che fare con la vita. È puro oltre, oltre ogni orizzonte, cioé, giacché non vi è orizzonte alcuno ove non vi sia soggettivitá.
La filosofia si compie, si attualizza, finisce con la distruzione del soggetto.
Tra il soggetto e la sua distruzione resta peró "lo sfrigolío" della fiamma. Il compimento non è mai compiuto completamente. Tra il compimento e il suo compiersi resta uno iato.
Questo iato è la spazio della sapienza. Tra coscienza e spirito sta la sapienza, seduta in profonda concentrazione, attenzione, samadhi.
Le parole fiammeggianti di Hegel lasciano lo spazio alla fresca brezza di una poesia di Dogen:

La persona autentica non è
Un individuo particolare
Come l'azzurro profondo del cielo illimitato
Essa è ogni persona
Ovunque nel mondo.

Dogen

domenica, settembre 13, 2009

L'individuo

Le righe che seguono sono dello Hegel francofortese, tratte dal "Systemfragment" del 1800 contengono un approccio alla dialettica nel punto in cui essa non appartiene ancora soltanto all'universo della teoria, nel momento in cui il sole non è ancora del tutto calato e la nottola esita ad alzarsi in volo. Altri uccelli incrociano le loro rotte crepuscolari, aprono le ali come evocando la crocifissione.
La possibilitá stessa del pensiero dialettico si gioca interamente sulla scommessa dell'individualitá. Si tratta di dare ragione dell'individuo, di costruirlo e di decostruirlo come centro di rifrazione della realtá.
Qui Hegel con timore e tremore imbocca la strada che forse potrá liberarlo dalla malattia mortale.

"Il concetto di individualiá implica contrapposizioneall'infinitá, molteplicitá e collegamento con la meesima; un uomo è una vita individuale in quanto è qualche cosa di diverso da tutti gli elementi e dall'infinitá delle vite individuali al di fuori di lui; egli è solo in quanto il tutto della vita è diverso; egli è una parte e tutto il resto un'altra; egli è solo in quanto non è una parte e nulla è separato da lui. La vita. quindi, non puó mai essere concepita solo come unione e rapporto ma deve esserlo in pari misura e immediatamente come abolizione dell'una e dell'altra. Essa è un infinitamente finito, un illimitatamente limitato, è connessione di connessione e di non connessione".

sabato, settembre 12, 2009

Un Edipo Cristano

San Giuliano l'Ospitalario abitó la mente di Flaubert che minió in una prosa preraffaelita la sua nobile leggenda che raccolse nell'ingenuo latino del vescovo genovese.

La figura di San Giuliano è di quelle che afferrano la fantasia: questo Edipo Cristiano deve qualche cosa a quello greco? È possibile ricostruire attraverso quale cammino?

Certamente il destino di questi due “eroi” diverge molto presto.

Ci afferra lo sgomento di fronte al miracolo finale, all'inaspettata salvezza che pretende, per farsi attuale, la rinuncia alla piú segreta intimitá, al nucleo piú protetto del proprio io: Giuliano ammette il Viandante, il Lebbroso nel proprio letto ed è allora ch'egli si trasfigura nell'Angelo del perdono.


Di questa rinuncia, del carattere carnale, quasi animale della fede di Giuliano resta traccia in tutto il medioevo. Per ospitalitá di San Giuliano si intendeva in quei secoli, infatti un'ospitalitá che giungesse fino all'unione sesssuale.


Oggi quello dell'ospitalitá è un universo morale scomparso, il cui linguaggio si è fatto osceno, inarticolabile.


Nessun Ospitalario si preoccupa di benedire i cadaveri dei tanti disperati che come Flebas il Fenicio fluttuano tra le onde del mediterrane.


genseki

venerdì, settembre 11, 2009

San Giuliano

San Giuliano

Storia di San Giuliano l'Ospitalario

Gregorio di Tours ci narra di un certo contadino che aveva deciso di mettersi ad arare di Domenica, afferrato con dita sicure un attrezzo con il quale voleva pulire il vomere questo restò attaccato alla sua mano destra. Ma due anni dopo, per le sue preghiere, fu guarito nella chiesa di San Giuliano.


Ci fu anche un altro Giuliano, che uccise, non sapendolo, entrambi i genitori.

Questo Giuliano era giovane e nobile, un giorno a caccia, inseguiva un cervo che aveva stanato lui stesso. Di colpo, obbedendo a un ordine divino, il cervo si voltò verso di lui e gli disse: “Tu che ora mi insegui sarai l’assassino di tuo padre e di tua madre!” Udendo quelle parole Giuliano si spaventò moltissimo, e temendo non gli capitasse davvero, ciò che aveva udito dire dal cervo, abbandonati di nascosto tutti i suoi compagni se ne partì da solo fuggendo dal suo destino.

Giunse in una regione remota e qui entrò al servizio di un Principe; si comportò in modo così leale in tutte le circostanze, in pace come in guerra che il Principe lo fece cavaliere e gli diede in moglie una castellana rimasta vedova che gli portò in dote il suo castello.


Nel frattempo i genitori di Giuliano addoloratissimi per la scomparsa del proprio figliolo andavano vagando qua e la e lo cercavano con somma diligenza . Finalmente giunsero al castello in cui viveva Giuliano. Giuliano, però, quel giorno, si era allontanato dal castello per qualche sua commissione. Quando la moglie di Giuliano li vide, domandò loro chi fossero e quando essi le ebbero raccontato per esteso la storia del loro figliolo, comprese che si trattava dei genitori del marito, avendone, come credo, sentito parlare da lui di frequente. Pertanto gli accolse benevolmente e per amore del marito cedette loro il prorpio letto e si ridusse in un letticiuolo collocato in un’altra stanza. Venuto il mattino, la castellana se ne andò alla chiesa. Ed ecco che Giuliano giungendo entrò in camera da letto come se dovesse svegliare sua moglie e trovando due persone che dormivano, pensò che dovesse trattarsi di sua moglie con il suo drudo, allora, estratta la spada in silenzio, li uccise entrambi. Uscendo poi di casa vide sua moglie che tornava dala chiesa e, meravigliandosi, le domandò chi fossero allora quelli che dormivano nel suo letto. Ella gli rispose: “sono i Vostri genitori, che Vi hanno cercato per moltissimo tempo e io li ho fatti mettere nel Vostro letto”. Udendo queste parole egli quasi senza conoscenza cominciò a piangere amarissimamente e a dire: “oh misero, che cosa farò! Io che ho ucciso i miei dolcissimi genitori. Ecco si è adempiuta la parola del cervo, e io ho compiuto ciò che volli evitare. Addio dolcissima sorella, perché non troverò pace in nulla, finché non saprò quale penitenza Dio vorrà impormi”. Ed ella rispose: “Non pensare, dolcissimo fratello, di potermi abbandonare e di andartene senza di me, ché se condivisi con te la gioia con te condividerò anche il dolore”.

Allora si ritirarono insieme presso un grande fiume, che molti cercavano di attraversare. Quivi, per fare penitenza fondarono un grande ospedale nel quale ospitavano tutti i poveri che giungevano e traghettavano senza sosta tutti quelli che lo desideravano. Dopo molto tempo, nel cuore della notte, mentre Giuliano, sfinito, dormiva e il gelo era fortissimo, egli udì la voce di un infelice che si lamentava in modo penosissimo chiedendo a Giuliano, con lugubre tono, di poter essere traghettato. Egli udendolo si alzò in tutta fretta e trovando colui che gridava proprio quando era sul punto di venir meno per il gelo lo portò nella sua capanna e accese un fuoco cercando di riscaldarlo. Ma ogni sforzo sembrava inutile, allora, per non lasciarlo morire, lo pose nel suo letto e lo coprì con molta cura. Ed ecco che subito colui che sembrava malato, forse lebbroso, ascese in splendore verso il cielo dicendo: “Il Signore mi manda a te per dirti che la tua penitenza è accetta e tutti e due fra breve riposerete in lui”. Così disparve e Giuliano poco tempo dopo per le buone opere sue e per le elemosine trovò anch’egli riposo nel Signore.


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trad genseki

giovedì, settembre 10, 2009

Antonio Labriola

Antonio Labriola

Quello che segue è un breve malinconico frammento di una lettera di Labriola a Spaventa, che riletto oggi, sembra permeato di un ottimsmo radicale e disincarnato.
Queste poche parole, confrontate con l'esperienza dell'oggi ci danno la misura della rapiditá e della profonditá della degradazione di una classe dirigente e di una intellettuale.
Che distanza tra questa concezione della politica e quello che oggi si conviene chiamare politica.

"Io mi domando sempre se in Italia c'è o non c'è una decina di persone che senta la responsabilitá dello Stato per farla finita con le vuote forme della libertá e per ristabilire la seietá della vita. Lo stato deve essere il domini dell'ottimo, e l'ottimo non nasce dal caso con buon pace del Darwin e de furfanti che si chiamano liberali".

A Labriola
Lettera a Spaventa.

mercoledì, settembre 09, 2009

De Luce

Sulla luce
Ovvero
L’origine delle forme
Di
Roberto Grossatesta
Vescovo di Lincoln

Penso che la luce sia la prima forma corporea che alcuni chiamano anche corporeità. La luce, infatti, si espande da sola in ogni direzione in modo tale che a partire da un punto di luce subito si genera una sfera luminosa di grandezza variabile. La corporeità deriva necessariamente dall’estensione della materia in tre dimensioni, tuttavia entrambe, la corporeità come la materia sono sostanze in sé semplici che mancano di ogni dimensione. E’ impossibile invero che la forma in sé semplice e mancando di ogni dimensione possa produrre le dimensioni in ogni parte di una materia anch’essa similmente semplice e priva di dimensioni, se non moltiplicando se stessa e diffondendosi in ogni parte immediatamente ed estendendo la materia nell’atto stesso di questo suo diffondersi, dal momento che la forma non può lasciare la materia da cui è inseparabile e la materia non può fare a meno della forma.
Ho supposto che sia la luce ciò cui solo è possibile di compiere questa operazione di moltiplicare se stessa e di diffondersi immediatamente in ogni parte. Qualunque cosa faccia ciò o è la luce medesima oppure della luce partecipa quando questa agisce per virtù sua propria.
La corporeità dunque o è la luce stessa o è, come detto qualche cosa che produce le dimensioni nella materia in quanto partecipa della luce e agisce per virtù di questa. Ma, invero, non è possibile che la forma prima produca le dimensioni nella materia per virtù della forma conseguente. La luce non è quindi forma conseguente la corporeità ma è essa stessa la corporeità.
Più dettagliatamente i sapienti pensano che la prima forma corporale sia più degna di tutte le forme conseguenti e di essenza più eccellente e più nobile e più simile alle forme che sussistono separatamente. La luce, invero, è di essenza più nobile e più degna e più eccellente di tutte quante le cose corporee e più simile alle forme che sussistono autonomamente, che sono le Intelligenze. La luce è dunque la prima forma corporea.
Ecco allora che la luce che è la prima forma creata nella prima materia moltiplicandosi da sé infinitamente, ovunque egualmente estendendosi, al principio del tempo dilatava la materia che si diffondeva così in tanta per una misura pari a quella dell’intera macchina del mondo senza tuttavia poterla oltrepassare.
L’estensione della materia non poté avvenire per una moltiplicazione finita della luce, perché il semplice moltiplicato per un numero finito non genera la quantità come dimostra Aristotele nel “De Caelo et Mundo”.
E’, invece, necessario che infinitamente moltiplicato generi una quantità finita perché il prodotto di una moltiplicazione infinita di qualche cosa supera infinitamente ciò della cui moltiplicazione è prodotto. E il semplice non è superato infinitamente dal semplice ma basta soltanto una quantità finita per superarlo infinitamente. Infatti, la quantità infinita supera il semplice infinitamente infinite volte. La luce, dunque, che in sé è semplice, infinitamente moltiplicata, estende in dimensioni di grandezza finita la semplice materia.

E’ poi possibile che un insieme infinito di numeri sia proporzionale ad un insieme infinito secondo un relazione numerica o anche non numerica. Vi sono infiniti maggiori e altri minori di altri infiniti.
L’insieme di tutti i numeri pari e di tutti i numeri dispari è infinito e, tuttavia, è maggiore dell’insieme di tutti i numeri pari che è comunque lo stesso infinito perché lo eccede per la quantità di tutti i numeri dispari. Anche l’insieme di tutti i numeri moltiplicati per due a partire dall’unità in avanti è infinito, e similmente l’insieme di tutte le metà corrispondenti ai loro doppi è infinito. L’insieme delle metà dovrebbe essere la metà dell’insieme dei suoi doppi. Allo stesso modo l’insieme di tutti i numeri triplicati a partire dall’unità e andando sempre avanti è triplo rispetto all’insieme dei terzi corrispondenti a questi tripli. E’ così chiaro che ogni tipo di proporzione numerica può essere una relazione tra finito e infinito.

Prendiamo allora un insieme infinito di tutti i doppi a partire dall’unità e un’insieme infinito di tutte le metà corrispondenti a questi doppi, se sottraiamo un’unità o un altro numero finito dall’insieme dei doppi, una volta compiuta la sottrazione non vi è più una relazione proporzionale tra il primo insieme e quanto resta del secondo. Non vi è qui una proporzione numerica perché se restasse una proporzione numerica fra il primo insieme e quanto resta del secondo dopo la sottrazione, quello che è sottratto sarebbe una quota parte di una quota parte, ovvero una quota di parti di una parte di ciò da cui è sottratto. Ma un numero finito non può essere una quota parte o una quota di parti di una quota parte di un numero infinito. Perciò se noi sottraiamo un numero da un insieme infinito di metà non resta nessuna proporzione numerica tra l’insieme infinito dei doppi e quanto rimane dell’insieme infinito delle metà.

Ecco allora che diviene chiaro come la luce attraverso la propria moltiplicazione infinita estenda la materia in dimensioni finite più o meno ampie secondo le diverse proporzioni che si stabiliscono tra l’una e l’altra e che possono essere numeriche oppure non numeriche. Per questo la luce per mezzo della sua moltiplicazione infinita. Se quindi la luce per mezzo della sua moltiplicazione infinita estende la materia per uno spazio di due cubiti raddoppiando la medesima moltiplicazione infinita ecco che la diffonde per uno spazio di quattro cubiti e dividendola per due la amplia di un cubito e così via secondo le altre proporzioni numeriche e non numeriche.

Questa penso fu l’idea di quei filosofi che supposero che ogni cosa sia composta di atomi o di quelli che affermano che i corpi sono composti da superfici, le superfici da linee e le linee da punti. E non si oppone a questa affermazione chi dice che la grandezza si compone soltanto di grandezze. Infatti, quando si definisce la parte si definisce anche il tutto. Detto altrimenti si dice metà quella parte del tutto che presa due volte ci ridà il tutto. Analogamente il raggio è una parte del diametro ma moltiplicato per tante volte quante si vuole non ci ridà mai i diametro e rimane sempre minore di quello. Ancora, l’angolo di contingenza è una parte dell’angolo retto in cui è contenuto infinite volte e tuttavia, se ve lo sottraiamo un numero finito di volte lo rende più piccolo, mentre se sottraiamo un punto dalla linea di cui esso è una parte questa non ne resta in alcun modo diminuita.

Ritornando al mio assunto dico che la luce per mezzo della sua infinita moltiplicazione estende in ogni parte egualmente la materia in forma sferica. Ne consegue per necessità di questa estensione che le parti estreme della materia siano più rarefatte e più diffuse delle parti più interne più prossime al centro. Quando le parti estreme siano sommamente rarefatte ecco che anche quelle interne divengono suscettibili di rarefazione.

In questo modo, dunque, la luce estendendo la prima materia in forma sferica e rarefacendola nelle sue parti estreme, attualizzò perfettamente le possibilità della materia nell’ultima sfera non lasciando in essa nulla che fosse suscettibile di ulteriore impressione. Il primo corpo all’estremità della sfera è tanto perfetto da essere detto firmamento perché nella sua composizione non entra nient’altro che la prima forma e la prima materia. Per questo è un corpo semplicissimo quanto alle parti che ne costituiscono l’essenza e quanto alla grandezza che è massima e non differisce dal genere corporeo che per il fatto che in esso la materia è perfetta soltanto grazie alla forma. Ma il genere corporeo che si trova in questo e in altri corpi, avendo nella sua essenza la prima materia e la prima forma prescinde dalla completa attualizzazione della materia attraverso la prima forma e dalla diminuzione della materia per mezzo della prima forma.

Raggiunta così la perfezione, il primo corpo, cioè il firmamento, diffonde da solo la sua luce da ogni sua parte verso il centro del tutto. Infatti, siccome la luce è a perfetta attualizzazione del primo corpo essa si diffonde necessariamente verso il centro del tutto. Ma poiché la forma nella sua interezza non è separabile dalla materia mentre si diffonde dal primo corpo diffonde con sé la spiritualità della materia del primo corpo. Così dal primo corpo procede la luce che è un corpo spirituale o se si preferisce uno spirito corporale. Dal momento che la luce nel suo passaggio non separa il corpo che attraversa essa immediatamente penetrò dal primo corpo celeste verso il centro. Il suo passaggio non deve essere inteso come un passaggio di qualche cosa che sia misurabile benché istantaneo dal cielo verso il centro del tutto, questo, infatti, non sarebbe possibile, ma il suo passaggio avviene per mezzo della sua moltiplicazione e generazione infinita di luce. Questa luce diffusa dal primo corpo verso il centro raccolse la massa esistente al di sotto del primo corpo; e poiché non poteva diminuire il primo corpo che è completo e invariabile non trovando nessun vuoto dovette necessariamente, per raccogliere questa massa, disgregarne ed estenderne le parti estreme. Così le parti interne della massa divenivano più dense e quelle esterne più rarefatte; e fu tanto grande la potenza della luce che raccoglieva e contemporaneamente disperdeva ciò che aveva raccolto che le parti estreme della massa che si trovava al di sotto del primo corpo furono massimamente rarefatte e assottigliate.
Veniva così formandosi ai margini di questa massa una seconda sfera perfetta e non suscettibile di ulteriore impressione. La completezza dell’attualizzazione la perfezione della seconda sfera dipende dal fatto che la sua luce è generata dalla prima sfera ma mentre in questa è semplice in essa è doppia.

Così la luce generata dal primo corpo completò l’attualizzazione della seconda sfera e al suo interno lasciò una massa più densa, poi la luce generata dalla seconda sfera completò l’attualizzazione della terza e attraverso un processo di aggregazione lasciò al di sotto di questa una massa di densità maggiore. Questo processo di aggregazione e di disgregazione continuò finché furono generate nove sfere celesti e fu raccolta all’interno della nona ed infima sfera una massa più densa che fu la materia dei quattro elementi. L’infima sfera, poi, che è la sfera della luna, generando anch’essa da sé sola la luce adunò la massa contenuta al suo proprio interno e nell’adunarla ne rese sottili e ne disgregò le parti estreme. Ma la potenza di questa sua luce non era bastevole a far si che nell’aggregare le parti estreme potesse disgregarle completamente. Rimase così in ogni parte di questa sfera la possibilità di ulteriori aggregazioni e disgregazioni cioè l’imperfezione dell’attualità. La parte più alta di questa massa non completamente disgregata divenne di fuoco e rimase in essa la materia degli elementi. Questo elemento generando da sé la sua propria luce e adunando la massa contenuta sotto di sé ne disgregò le parti estreme in grado minore però di quello raggiunto dalla disgregazione del suo proprio fuoco, producendo così proprio il fuoco. Il fuoco a sua volta generando da sé la sua propria luce e adunando la massa contenuta sotto di sé ne disgregò le parti estreme in grado minore di quello della sua propria disgregazione dando così luogo all’aere. Anche l’aere generando da sé un corpo spirituale o spirito corporale e adunando la massa contenuta al suo interno per disgregarne nell’atto le parti estreme produsse l’acqua e la terra. Ma poiché nell’acqua rimase più virtù aggregante che non disgregante, la stessa acqua e la terra risultarono dotate di peso.

In questo modo, dunque furono prodotte le 13 sfere di questo mondo sensibile: cioè le nove sfere celesti inalterabili, inaccrescibili, ingenerabili e incorruttibili in quanto completamante attualizzate, e le quattro esistenti secondo modalità opposte, ovvero alterabili, accrescibili, generabili e corruttibili in quanto incomplete. E’ chiaro, inoltre che ogni corpo superiore secondo la luce che d sé trae è forma e perfezione del corpo successivo; così come la potenza dell’unità è contenuta in ogni numero successivo all’uno allo stesso modo il primo corpo, in virtù della moltiplicazione della sua luce è contenuto in ogni corpo successivo.

La terra poi contiene la potenzialità di tutti i corpi superiori in quanto in essa è contenuta l’aggregazione di tutte le loro luci. Per questo i poeti è stata chiamata Pan, cioè il tutto; e anche Cibele, che deriva da cubo, per la sua solidità, perché essa è più compatta di ogni altro corpo, Cibele madre di tutti gli dei, giacché in essa sono adunate tutte le luci superne, che non sono sorte da lei per opera sua sebbene sia possibile trarre da lei con atti e operazioni appropriate la luce di qualsivoglia sfera. Così sarà da lei procreato, quasi come da una madre qualunque Dio. I corpi intermedi poi hanno due tipi di correlazioni. Per quanto riguarda i corpi inferiori essi hanno con loro le stesse relazioni che il primo cielo ha con gli altri corpi, per quanto riguarda quelli superiori hanno con essi lo stesso tipo di relazione che la terra ha con tutti i corpi.

Forma e perfezione di ogni corpo è la luce ch’è spirituale e pura nei superiori, più corporea e complessa negli inferiori. Tuttavia tutti i corpi non hanno la medesima forma pur procedendo tutti dalla stessa luce semplice o complessa, così come non l’hanno i numeri benché derivati dalla somma di più o meno unità.

Con questa frase è chiarita l’idea di quelli che dicono “tutte le cose sono uno in virtù della perfezione di una luce” e di coloro che dicono “le cose molteplici sono tali in virtù della differente moltiplicazione della sola luce”.

Poiché, poi, i corpi inferiori partecipano della forma di quelli superiori, un corpo inferiore a causa della partecipazione alla forma del corpo superiore è in grado di ricevere il moto dalla stessa virtù motoria incorporea da cui è questo è mosso. Per questo la virtù motoria dell’intelligenza o dell’anima che muove la prima suprema sfera con moto continuo muove anche tutte le altre sfere celesti inferiori con il medesimo moto. Ma quanto più in basso si trovano tanto più debolmente ne ricevono il movimento, perché quanto più una sfera è bassa tanto meno pura e più debole è in essa la prima luce corporea.

Sebbene, poi, gli elementi partecipano della forma del primo cielo, non sono tuttavia mossi dal motore del primo cielo con moto continuo. Sebbene partecipino di quella prima luce, purtuttavia non obbediscono alla prima virtù motoria perché la loro luce è debole, impura e lontana da quella del primo corpo e perché la loro materia ha densità che è principio di resistenza e di disobbedienza. Alcuni ritengono tuttavia che la sfera del fuoco ruoti di moto continuo e portano come prova la rotazione delle comete e dicono che questo moto influisce persino sull’acqua del mare generandovi le correnti. I veri filosofi, tuttavia, affermano che la terra è immune da un tale influsso.

Allo stesso modo le sfere che si trovano dopo la seconda sfera, che contando a partire dalla terra è detta ottava, dal momento che partecipano della sua forma hanno tutte in comune con essa il moto, e ne hanno anche, oltre questo, uno loro proprio.

Dal momento che le sfere celesti, in quanto perfette, non sono suscettibili di rarefazione e di condensazione in esse la luce non spinge parti di materia lontano dal centro in modo che si rarefacciano né verso il centro in modo da farle addensare, per questo tali sfere celesti non ricevono, dalla virtù motoria intellettiva, un moto verso l’alto e neppure uno verso il basso ma solo un moto circolare. Questa riverberando su di loro nel suo aspetto corporeo le spinge ad una rivoluzione corporea.
La luce che è in loro, invece spinge gli elementi incompleti e suscettibili di rarefazione e di condensazione verso il centro per condensarli o lontano da esso per rarefarli. Per questo essi sono mobili verso l’alto oppure verso il basso.

Nel corpo supremo, che è il più semplice di tutti i corpi vi sono quattro costituenti, cioè la forma, la materia, la composizione e il composto. La forma in quanto semplicissima vale come unità, la materia per la sua duplice possibilità, quella di essere impressionabile e ricettiva e quella di essere densa, proprietà quest’ultima fondamentale della materia si manifesta per prima cosa e principalmente in modo binario e perciò le è assegnata una natura binaria. La composizione ha in sé la trinità. Perché in essa appare la materia formata, la forma materiata e la proprietà stessa della composizione che distinta sia dalla materia sia dalla forma si trova in ogni composte ciò che è composto oltre questi tre è compreso come quaternità. Lo si trova nel primo corpo nel quale esistono virtualmente tutti gli altri corpi, come appunto quaternità, perciò, fondamentalmente il numero di tutti gli altri corpi non può superare la decina. Infatti, l’unità della forma, la binarietà della materia, la trinità della composizione e la quaternità del composto prese insieme costituiscono la decina. Per questo la decina è il numero dei corpi delle sfere del mondo, poiché, sebbene la sfera degli elementi sia quadripartita, resta tuttavia una per la sua partecipazione alla corruttibile natura terrestre.

Ne deriva che la decina è il numero dell’universo perché è un tutto perfetto ciò che in sé contiene forma e unità, materia e binarietà, composizione e trinità e composto e quaternità. Non vi è bisogno di aggiungere un quinto costituente perché ogni perfetta totalità è nella decina.

Da ciò si vede chiaramente come che le sole cinque proporzioni presenti nei quattro numeri uno, due, tre e quattro bastano a costituire la composizione e la concordia di ogni composto.

Per questo queste cinque sole proporzioni bastano a produrre l’armonia della musica dei gesti e delle danze.

Qui termina il trattato della luce del Vescovo di Lincoln.

trad. genseki



mercoledì, luglio 29, 2009

Genesi

Le parole che cadono
Nell'oceano indistinto
Sorgono, grandi isole
Dalla schiuma salmastra
Di stridenti richiami
Vivono di voli radenti
Il guano le copre nasconde
Il loro segreto silenzio.


Fonti da esse sorgendo
D'acque faconde
Nell'intreccio di metallici
Splendori di libellule
Frenetiche elitre
Ali e becchi variopinti
Cantano il senso
Ancora oscuro nel morbido
Maturare soterraneo


A radici micorrize
Dando alimento
Fronde distendono
Nel prurito della luce
Nella pelle luminosa
Che il sole allunga
Da clorofilla a clorofilla
Evocano, non parlano,
Al dormiente tra steli di sparto.


Finalmente la pelle tesa
Dei tamburi scoppia
Sorda, bisognosa di occhi
Rispecchia lo smarrimento
Della separazione
Lontana dal centro
La coscienza articola
La leggenda del proprio terrore
La morte è levatrice del senso.


Parole, di nuovo, rinnovate
Separate, gravato il suono
Di senso e significante
Staccionate, limite,
Fallo, faglia confine
Tracciano del sacro
Sul limite della palude
Timide come ninfee
Como fiori di loto
Schiacciati dallo zoccolo del Centauro.

genseki


Hector Murena

Hector Murena

Que se entienda
Esta dicha terrible
Que es cualquier barco
Hacia odo naufragio.

Che sia compresa
La terribile sorte
D'essere qualche battello
Verso ogni naufragio

trad. genseki.

Columbares II

Altre ronde, altre ore

Altre ronde, altre ore
Ad aprirsi piú leste
E l'eco delle strade
Nelle foglie di gelso
Con una mela in tasca
Con il fuoco negli occhi
Abbandonar la patria
Riempire le bisacce
Nutrire pulci e pulci
Lavarsi con la nebbia
Scaldarsi con il fumo
Rubare le castagne
Lottare con un angelo
Tra i rami di un immenso
Faggio dell'appennino
Nel mezzo dell'autunno
Come puzzano i piedi
Il sudore, il fustagno
la cenere di frasca
La diarrea da muscaria
Altre ronde, altre ore
Or piú lente or più spente
E l'eco del cammino
Che quell'altro ha percorso.

*

Columbares

La giga delle quattro e venti

Alla giga delle quattro e venti
Parteciparono tutti i corni
I cani gialli a gruppi sotto i meli
Sporgevano le lingue come stami
I cedroni ed i cervi profumavano
Con incensi di sangue
La posa delle roveri
Con i rami protesi verso la tempesta
Come le mani di un soprano drammatico

Il Duca ululava a Despina
Che piangeva nuda di rose
Nel mezzo del temporale verde e viola
Ed il carro dei comici traballava
Avanzando penosamente nel fango
Nel rumore assordante delle casseruole di rame
Che rappresentavano la commedia
Del concerto delle sfere.
Un filosofo straccione, dalla barba di stoppa
Seduto su un frammento di colonna corinzia
Tramandó questa scena fino ad oggi
Per deliziare una dama fiamminga.

genseki

sabato, luglio 25, 2009

Ashkenazy plays Ravel: Gaspard de la Nuit - Scarbo

La Tour de Nesle

La Torre di Nesle

Nella Torre di Nesle c'era un corpo di guardia dove si rifugiava la ronda per la notte
Brantôme

- Fante di fiori! -
- Donna di picche! - E il soldataccio che perdeva, con un pgno sulla tavola faceva saltare la sua posta fin contro la volta.

Allora Messer Hugo, il prevosto, sputó in un braciere di ferro con una smorfia egna di uno straccione che si sia inghiotito un ragno con la zuppa.

- Puah! I macellai spellano i porci a mezzanotte? Per Dio! È una barcaccia della fienagione che brucia sulla Senna! -

L'incendio, che d'apprima non era che un folletto innocente perduto nella bruma del fiume, si mise a fare di colpo il diavolo a quattro sparando cannonate e archibugiate a filo d'acqua.

Una folla innumerevole di illuminati, storpi, straccioni notturni, accorse sulla riva, danzavano gighe di fronte alla spirale di fiamma e di fumo.

Arrossavano una di fronte all'altra la Torre di Nesle da cui uscí la ronda con gli schioppi sulle spalle, e la Torre dl Louvre da dove, da una finestra, il Re e la Regina osservavano tutto senza essere visti.

Aloysius Bertrand
Trad. genseki

venerdì, luglio 24, 2009

La figlia dell'ambasciatore

La figlia del vecchio ambasciatore
Vive nuda per le strade
Mangia l'immondizia
È coperta di croste
Vaga coperta di croste
Per il quartiere alto della cittá
Quello delle palme
Quello delle profonde terre rosse
Si libera dei vestiti
Che le fanno indossare
Le suorine azzurre
Le suorine leggere come petali
Che sembrano volare attraverso le siepi
La figlia dell'ambasciatore,
Del vecchio ambasciatore
Vaga nuda per le strade
Coperta di croste, soprattutto sulle ginocchia
E le labbra gonfie di piaghe
- È la figlia del vecchio ambasciatore -
Mormorano le venditrici di pomodori
Avvolte nei loro pagne sgargianti
E quelle di kaolino
O del burro di Karite
Che sembra sangue sul punto di coagularsi
- Che se ne va per le strade tutta nuda -
Ha grandi occhi acquosi, sporgenti e rossi
E il collo sempre piegato a destra
Ti guarda con la testa bassa
E canticchia litanie bantù
I vestiti li getta via
Come le bande che con mano delicata
Le stringono sulle piaghe
Le infermiere dell'ospedale cinese
Con le loro divise grige e la pelle del viso tostata
- Guardate, è la figlia dell'ambasciatore, -
Dicono i sarti in fila con le loro singer
Sotto il jacarandá o il braquiquito sbandierando
Le maniche di camicie innocenti
- Che se va nuda per le strade, con quel pancione di sei mesi!-
La figlia dell'ambasciatore si sente libera
Come un uccello cui abbiano strappato gli occhi
E che vola in una notte piovosa
Sbattendo le ali contro i rami spinosi,

genseki


mercoledì, luglio 15, 2009

Madirias

Alessandra tra i lillá - parte II

Alessandra
Oggi vedo un parco
Una signora celeste
I lillá dei muri,
La macchia di arbusti che cresce
Oggi ascolto
Una canzone lontana
Una storia di principesse
E di castelli
E addii estivi.
La cicala
Mi sveglió per dirle
Che dalla finestra
Entra l'odore dei pini.

Cristina Peri Rossi
1976

trad. genseki

La cosa in sé

Per coloro che affermano la realtá e la certezza della cosa in sé non conosciamo un rimedio piú efficace che quello di rimandarli all'infimo livello della scuola della sapienza, cioè: ai vecchi misteri eleusini di Cerere e di Bacco perché comincino a capire in che cosa consiste il mistero di mangiare il pane e di bere il vino, dato che l'iniziato in questi misteri non soltanto giungeva a dubitare dell'essere della cos insé, ma arrivava fino alla disperazione relativamente q questo steso essere, e nella cosa sensibile esercitava in parte la sua stesa nullitá e la nientificazione di esse, e contemporaeamente si rendeva conto di come le cose esercitassero il processo analogo su di lui.
Nemmeno gli animali sono privi di questa sapienza, anzi dimostrano di essere profondamente iniziati ad esa,infatti non si arrestano davanti alle cose sensibili, come se queste fossero cose in sé, ma disperando della loro realtá; le afferrano e le divorano in un baleno; e la natura celebra come loro questi misteri in cui ci insegna in che cosnsiste la veritá delle cose sensibili.

Hegel
Fenomenologia dello spirito
trad. genseki

*

Certamente nessuno oggi, che entri in qualunque supermercato o centro commerciale puó nutrire qualche dubbio relativamente al fatto che gli oggetti che gli si presentano davanti in uno spettacolo multicolore abbiano qualche caratteristica di relatá e di certezza.Il mistero del mercato si manifesta nella pura cirolazione della merce che è una forma di ingestione e di assimilazione simbolica, non molto distante da quello che fu il mistero di Cerere e Bacco, ma con molta meno sapienza.
La certezza della nulla delle cose sensibili è sapienza comune di qualsiasi consumatore. Nessuna parola è piú adeguata di consumatore per indicare questa prosimitá al nulla. Consumatore o nullificatore è colui che entra nella sfera variopinta del mercato.
Il consumatore, infatti, non i ferma davanti alla cosa come se fosse davvero una cosa in sé, ma disperando della sua reaktá al di fuori della sfera ella circolazione, si getta su di essa la compra e appunto la consuma e consuma anche quest'ultimo residuo soggettivo del suo cosnumare.
Il Mercato, col la M maiuscola di Macdonald, celebra cosí con lui il mistero postistorico della merce.

genseki


Günther Eich

Günther Eich

Miniatura invernale

Sul verde dicembrino dell'altura
Si apre un pioppo come un monumento
Con lente ali tracciano cornacchie
Caratteri esoterici nel cielo

L'umida aria contiene suoni e segni
L'alta tensione vibra con i grilli
Gelano i funghi sul margine del bosco
Ed un nido di tordi sta marcendo

Il campo sta nelle linee ondulate
Il gelo delle pozze brilla per le crepe
Nubi pregne di neve van passando
Sull'alfabeto di questa amarezza.

Traducendo questi versi di Günther Eiche en scopro le affinitá con Trakl che alla lettura mi erano sfuggite

Secchi dietro il prato
Gli steli del luppolo
I fianchi del bosco
Mi donano l'autunno.

Verdi gli abeti
Vuoto il focolare
Non so piú da quando
Non en esce fumo

Il filo spinato
La terra bruciata
qualcuno è partito
io l'ho conosciuto?

Verdi gli abeti
La luce vivace,
I boschi silenti
Non hanno ricordi.

Come in Georg Trakl questa poesia è solo apparentemente una poesia della natura. La natura, anzi è assente anche come sfondo, essa fornisce soltanto la materia sonora e le forme per una cerimonia della disperazione. Cerimonia che si svolge interamente all'interno del linguaggio poetico nel blocco totale di qualunque deissi, nell'ossessione che lascia un particolare gusto di cenere nella memoria del lettore.

genseki

lunedì, luglio 06, 2009

Nuove traduzioni di Alejandra Pizarnik

Compleanno

Ricevi volto mio, muto, mendico
Ricevi questo amore che ti chiedo
Ricevi ció ch'è in me, quello tu sei

***

Distruzioni

In baci, non in argomenti.
Quevedo

Dalla lotta con le parole occultami
Spegni il furore del mio corpo elementale.

***

Amanti

Un fiore
non lontani dalla notte
si apre
alla delicata urgenza della rugiada.

***

Riconoscimento

Sei tu che porti il silenzio del volo di lillá
Nell tragedia del vento nel mio cuore
Hai fatto della mia vita un racconto per i bambini
Dove naufragi e morti
Sono pretesto di cerimonie adorabili.

***

Incontro

Qualcuno entra nel silenzio e mi abbandona
Ora la solititudine non è piú sola
Parli come la notte.
Ti annunci come la sete.

***

L'oblio

all'altra riva della notte
possibile è l'amore

--portamici--

portami tra le dolci sostanze
Che alla memoria ti muoiono ogni giorno


Prima fu luce
nel mio linguaggio nato
a pochi passi dall'amore.

Notte aperta. Notte presenza


trad. genseki

mercoledì, luglio 01, 2009

Carassone

Carassone e la cicuta

Debito

Stamattina
Ho bevuto la mia cicuta
Prima di uscire, ascoltando il GR3
Ho conrollato che il freddo
Mi avvolgessse correttamente i piedi
Come uno scarpone
Poi sono sceso in strada
Giù giù fino dal Piemontese,
Quello dei polli e delle uova
Per pagare finalmente quel gallo
Quello che avevo offerto al mio oncologo
In segno di omaggio, con stupore
Qualche ora prima di morire.


***


Sul Sentiero di Carassone

Sul sentiero di Carassone
Entravo in un altro tempo
Un tempo di spazzacamini provenzali
Di farandole e di Beatniks
Un tempo di autunno e di pannocchie
E intorno avevo solo occhi malevoli
Occhi pieni di odio, di punti esclamativi
di asterischi taglienti
Occhi di loden bleu in naftalina
Ma non me ne accorgevo allora
camminavo felice come uno scemo
Tra il nuovo messico e le alpi marittime
nel ritmo folklorico di un verso di Mistral
Impregnandomi di autunno.

+

genseki

Ibn Arabi Tarjuman

martedì, giugno 30, 2009

Alejandra Pizarnik








Alessandra tra i lillà

Queste poesie furono dedicate dalla poetssa uruguayana Cristina Peri Rossi nel 1976

Di cose cosí finirè per morire
A.P. (suicida il 27 settembre 1972)

Alessandra tra i lillà


I

Forse fu il nome dolce di Alessandra
O quei lillà dui muri
Il loro alito nella note densa
O, forse,
La caccia nottuna
Di parole che scivolano
Sui vetri
Che le lascerá precipitare verso la morte
Nella solitaria
Durata di un grido
A mezzanotte
Complice di nomi oscuri
Imronunciabili.

*

II

Parola per parola
Facevi la notte
Agli angoli delle strade
Che il silenzio abbandonava
Restando in agguato
Come se fossero
Le dame rosse delle rivelaioni.

*

III

Si parola
Per parola
Facevi la note
Sussurrandola
- i piú bei suoni -
Perché quella notte
Non giunsero le parole alla riscossa?
Come ti fermarono
Sprovvista?
Dove stavano i ibri cinerini
Dei parchi
Dei rampicanti e delle pareti
Dove le dam porpora, le misterise
Dove tuo padre e tua madre?
- Forse fu il dolce nome: Alessandra -
Forse le cerimonie dei parchi.
Forse una dama rossa che non venne
Alla notturna
Festa di parole
Una che non mantenne la promessa
Qualcuno che non venne all'appuntamento
O la noia delle parole - a volte accade -
Te precipitó oltre i suoni
Quando finamene tutto fu detto
- Tutto fu detto -
E si alza ancora tenebrosa
La solitudine di Alice nello specchio d'altroqui.

*

IV

E il silenzio nascosto dentro la casa
E nel silenzio che resta
Quando gli amici se ne vanno
Nel silenio dei portacenere
Dei bicchieri senza acqua
Volesti stabilire la parola giusta,
Senza sapere
Che il silenzio e le parole
Sono solo agonie.

*

V

Il nome dolce di Alessandra
La simmetria nei parchi
Una bambina spaventata
- Oggi ce nebbia a Barcellona -
Parigi fu una festa
Che non hai voluto compartire
Lettere agli amici
Ove mancava una i o una iota
Il miserere notturno intonato
Da vecchie lescbiche
Un foglio bianco
Toujours
Un foglio bianco
La lettera che non arriva
La parola che manca
Ce la fanno
A spaventare una bambina.

*

Alessandra
Oggi vedo un parco
Una dama azzurra
Lillá sui muri
Cespugli che crescono
Oggi ascolto
Una canzone lontana
Una storia di principesse
E castelli
E congedi estivi
La cicala
Mi svglió per dirti
Che dalla finestra
Entra odore di pino.

Victor Ségalen

lunedì, giugno 29, 2009

Victor Ségalen

Steli

Ecco l'impero che sta al centro del mondo. La terra aperta alle opere dei vivi. Il continente in mezzo ai Quattro-mari. La vita protetta, Propizia allla giustizia, alla felicità, all'accordo.

Ove gli uomini si alzano, si inchinano, si salutano i conformitá con il loro rango, i fratelli conoscono la loro posizione e tutto si ordina sotto l'influsso chiarificatore del cielo.

Laggiú il miracoloso Occidente, pieno di montagne che perforano le nubi; con i suoi palazzi volanti, i suoi templi leggeri, le sue torri mosse dal vento.

Ogni cosa è prodigio, ogni cosa è inattesa: la confusione si agita: la Regina dai desideri cangianti vi tiene la sua corte. Nessun essere ragionevole mai vi si avventura.

Ê laggiù che per magia Mu Wang ha proiettato la sua anima in sogno colà vuol dirigere i suoi passi.

Prima di abbandonare l'Impero per riunirsi con la sua anima egli en ha fissato, Qui, il punto di partenza.


trad. genseki

domenica, giugno 28, 2009

Se incontri una poesia


Se tra te e il silenzio
Si trova una poesia
Lasciala dove sta
Tu salta
Salta all'altro lato del senso
Sul versante dove c'è
Ancora tanta neve
Bianca comela pagina non scritta
E una luna sottile sottile
Come una parentesi aperta.


Se sul cammino del silenzio
Incontri una poesia
Non la salutare
Semplicemente
Passale accanto
E svolta dietro l'angolo
Dietro la siepe. dietro la staccionata
Cerca l'altro lato dietro qualsiasi cosa ne abbia uno
Va bene anche un vecchio tronco
O una pila di cassette vuote di acqua minerale
Ma cerca l'atro lato
Quello dove cade la neve ancora
E anche giá da prima
E la neve cade senza far rumore.


Se sul cammino del silenzio
Un poesia ti intralcia
Non ribellarti
Taci come il muro
Tace alla lucertola nel sole
Taci e corri cerca l'altro lato
Del paesaggio quello bianco
Quello gelato, quello dove gli alberi
Sono di brina
E dalle bocche esala
Il vapore del fiato
Senza suono

Se sul cammino del silenzio
Già intravedi la meta
Giá assapori la quiete
Della realizzazione
Siediti sulla soglia
Del giardino muto
E cerca una poesia
Nel muschio, o tra le fragole
Cerca una poesia
Tra le pietre della fonte
Che non sa mormorare
Tra le rughe di quel vccchio mendicante
Che ha perso la voce
Di tanto ringraziare
Cercala con dedizione assoluta, e
Abbi fiducia, ti troverá lei,
Tu allora non fare niente, non alzarti,
Semplicemente
Assaporala
Come un'immensa anguria
Nell'agosto marino
Della tua infanzia.


genseki

venerdì, giugno 26, 2009

La grande rinuncia

La grande rinuncia consiste nel rifiutare completamente le nozioni di interno e di esterno, di corpo e di spirito fino ad essere come lo spazio vuoto ove non vi è nulla cui attaccarsi per appropriarsene. Quando solo sussistono risposte a oggetti precisi in ambiente determinato, ecco la grande rinuncia, l'oblio totale del soggetto e dell'oggeto.
la rinuncia intermedia consiste da una parte nel seguire il Dao e diffondere i suoi insegnamenti, dall'altra a rinunziare ai benefici che da questo derivano mano a mano che essi si manifestano.
La piccola rinuncia consiste nel compiere ogni sorta di bene, nell'avere speranza e nel riconoscere la vacuitá attraverso lo studio dei testi fino a non avere piu nessun attaccamento ai propri meriti.
La grande rinuncia è avere davanti a sé una grande torcia. Non ci si puó perdere.
Con la piccola rinuncia la torcia sta al lato e volte si è nella luce a volte nelle tenebre.
Con la piccola rinuncia la luce sta alle spalle e non si possono vedere fossi e crepacci.
Lo spirito del Bodhisattva è simile allo spazio vuoto da cui tutto è escluso.
Il fatto che i pensieri passati siano introvabili è la rinuncia al passato.
Il fatto che i pensieri del presente siano introvabili è la rinuncia al presente
Il fatto che i pensieri del futuro siano introvabili è la rinuncia al futuro.
Tale è la rinuncia ai tre tempi

Huangpo
Dialoghi
trad. a cura di genseki

mercoledì, giugno 24, 2009

Nichita Stanescu

Le nonparole


Mi ha teso una foglia come una mano a dita

Gli ho teso una mano come una foglia a denti

Egli mi ha teso un ramo come braccio

E come un ramo io ho disteso un braccio

Su di me si é chinato con il tronco

Come melo pesante per i frutti

Anch'io ho piegato il mio novello tronco

Udivo la sua linfa che saliva

Come sangue,

Egli udiva il mio sangue salire

Lentamente come linfa.

Ho trapassato il suo corpo

Lui ha percorso il mio

Io – sono rimasto un albero solitario

Lui – un uomo solo


Nichita Stanescu

Trad genseki

martedì, giugno 23, 2009


Ed é per questo che moriamo tanto?
È solo per morire
Che ci tocca morire ad ogni istante?

Sermone sulla morte

César Vallejo


Veniamo, infine a trattar della morte
Che agisce per squadroni, previa parentesi quadra,
Graffa, paragrafo, mano grande, dieresi,
A che serve la cattedra assira, il pulpito cristiano?
La rapida avanzata del mobile vandalo?
E ancora meno questo rifugio sdrucciolo?


È per finir
Domani in gloria fallica
Diabetico e con sputacchiera
Volto geometrico, defunto,
Che ci servono le prediche e le mandorle,
Di patate ne abbiamo fin troppe,
E lo spettro fluviale d'oro ardente
Ove brucia il prezzo della neve?


Solo per questo dobbiam morire tanto?
Soltanto per morire,
Quel che ci tocca è morire ad ogni istante?


E questo paragrafo?
E la graffa deista che sollevo?
E lo squadrone cui mancó il mio casco?
La chiave che puó aprire ogni porta?
E a graffa forense, la mano,
La patata, la carne, le mie contradizioni da camera?


O matto, gatto, topolino,
O sensato cavallissimo che sono!
Cattedra, sì, tutta la vita, púlpito
E per tutta la morte!
Sermone di barbaria; queste carte
Questo rifugio sdrucciolo, le pelli.


Pensoso, in questo modo, aurifero, bracciuto,
La preda la difendo in due momenti,
Uno la voce, l'altro la laringe,
E con l'olfatto fisico con cui prego
L'istinto di immobilitá con cui avanzo,
Finché vivró potró sempre vantarmi
Ne saranno orgogliosi i calabroni
Perché io sto nel mezzo ed alla destra,
Ed egualmente mi trovo alla sinistra.

trad genseki

lunedì, giugno 22, 2009

Leo Ferre La Memoire et la mer.

La marea la porto nel cuore
Mi va crescendo come un segno
Muoio di mia sorella, di me mambino e del mio cigno
Una barca diepende come
Attracca in porto per un pelo
Piovono nel mio universo
Gli anni luce che abbandono
Sono il fantasma col girocollo
Che esce per la mascherata
Ti lancia nebbia di baci
Ti da rifugio nei suoi versi
Come la rete in giugno
Vi brillava il lupo altero
Quello che vidi splendere
Alle dita dell'arena.

Ricordi il can marino
Che liberammo su parola
Che abbaia nel gran deserto
Della necropoli di alghe
Io so che la vita è qua
Coi suoi polmoni di flanella
Quando certi giorni piove
ll freddo grigio col suo appello
Ricordo quelle serate
Le corse vinte sulla schiuma
Sbavavano i cavalloni
A filo degli scogli erosi
Angelo dei piaceri persi
Rumori d'altra abitudine
Le mie brame son divenute
Angoscia dell'abitudine

Diavolo di sere vinte
Col pallor delle riscosse
Lo squalo dei paradisi
Nel muschio madido del mezzo
Torna con i violini
Fanciulla verde dei fiordi
Nel porto russano i corni
Le fanfare dei ritorni
Profumo raro raro di salino
nel pepe fuoco dei geloni
Quando andavo geometrizzando
Il cuore al cavo della tua piaga
Nel disordine del tuo culo
Unto tra garze d'alba fina
vedevo un'altra vetrata
Faciulla verde del mio spleen

Le conchiglie dipinte
Sotto i sunlights spezzati e liquidi
Scuotono tante nacchere
Che sembran la Spagna livida
Dio di granito accogli
Il loro voto da parada
Quando il coltello penetra
Nelle nacchere del volto
Vedevo i presentimenti
E presentivo l'intravisto
Tra le persiane sanguinose
E i globuli che tracciavano
Matematiche azzurre
Su questo mare mai etale
Da dove poco a poco sale
la mia memoria delle stelle

Questo rumore che mi giunge
Dal caro arco ove m'accieco
le mani che van tremando
E ruminando muggiscono
Il rumore mi segue a lungo
Qual mendicante maedetto
Come l'ombra che perde tempo
A disegnare il mio teorema
E sotto il mio trucco da rosso
Sbatte come una porta
Questo rumore che sta in piedi
Per calli di musiche morte
Addio al mare, è finita
Sulla spiaggia la sabbia bela
Sono greggi di infinito
Quando il mare pastore chiama.

trad genseki

Nichita Stanescu

Il poeta all'etá di trent'anni


Nichita Stanescu

Nona Elegia
Quella dell'uovo

In uovo nero mi lascio scaldare
Nell'attesa del volo che mi infesta
Congiunte stanno una all'altra
Identitá con identitá.
Sentimento di ali sulle spalle,
La sensazione di un occhio
Va alla ricerca di un'orbita.
Oh, Tu! Immensa oscuritá
Nascita interrotta nel disgusto.
Su di me è discesa un'idea
Che materna mi cova.
Adesso, tutto ció che è
È calor rotondo e odo:
Esce da me una specie di becco
Simultaneamente e ovunque
Si rifiuta di essere obelisco
Intima colonna vertebrale ricurva
Rompo il mio guscio di pelle calcinata,
Che aderisce direttamente all'anima
Perché non faccia marcia indietro
Imparando a camminare.
Salta il guscio nero, olé!
Mi ritrovo piú grand e senza aver volato
Aderente a quel verso dove
Come l'abbraccio di una volta.
Indosso occhi dallo sguardo irreale
A destra, a sinistra, sopra e sotto,
Prtorendo stirpi di figli animali
Che sanno morire di una bella morte
Mi crescono iridate piume d'osso
Fino al negro cóncavo.
Saltano i gusci neri, tuti insieme,
Eccomi qua, ancora una volta, dolce,
Rinchiuso in un uovo piú grande
Covato da u'idea maggiore di molto
Mezo tuorlo, mezz'uccello
Nel gioco dei passi rubati
Grande uovo, sillaba stentorea
In crescita perpetua colta
Senza tetto
Stalattite
Sedotta.
Uova concentriche, nere, rotte
Una per una e in parte.
Pulcino rifiutato dal volo
Che penetra un uovo dopo l'altro
Fino ad Alcor dal cuore della terra
In un ritmico eco che si espande.
L'identitá vuole sfuggire all'identitá,
L'occhio dall'occhio, e sempre
In se stesso ricade pesante
Come neve nera.
Da un dentro a un altro maggior dentro
Nasci all'infinito, ala senza voli,
Solo dal sonno
Ci si puó risvegliare
Nessuno si sveglia dal guscio dell'esistenza, nessuno,
mai.

Trad. genseki

domenica, giugno 21, 2009

Montaignismi

Non sono capace di tradurre Montaigne. Come riprodurre questa lingua tanto flessibile da aderire alle piú sottili sfumature del pensiero? Lingua volgare che sembra scritta da qualcuno che pensi in latino e che voglia presentarsi con una semplicitá bonaria a volte quasi popolare.

La lingua di Montaigne ha una patina arcaica che sospetto fosse giá arcaica nel momento in cui egli scriveva ma che acquisisce una bellezza ancora piú rara oggi che si sviluppa sullo sfondo di quella perfetta struttura cristallina che è il francese classico.

Tradurre quesa meraviglia nel povero, stentato italiano che mi appartiene sarebbe uno stupro.

Se fossi capace di mimare la scrittura di un classico, e non lo sono, nemmeno saprei che pesci pigliare tra le eleganze della prosa umanistica e i riboboli toscani della coeva lettaratura italiana.

Così non lo traduco, lo contemplo in tutta la sua bellezza:


Montaigne e lo Zen


Quand je dance, je dance, quand je dors, je dors. Voire, et quand je me promène solitarement en un beau verger, si mes pensées se sont entretenues des occurences étrangères quelque partie de temps, quelque autre partie je les rameine à la promenade, au verger, à la douceur de cette solitude....

Essais

Livre III XIII De l'Expérience