giovedì, marzo 17, 2011
Fede III
Virtualmente trovo nella religione cristiana tutte le tendenze verso quanto vi èe di sublime e di più nobile; quanto alle differenti forme che essa assume nella vita quotidiana esse mi paiono repellenti e di cattivo gusto solo perché non sono altro che rappresentazioni inadeguate del sublime che vi è in essa.
Trad genseki
Fede II
Fede
Fede è abbandono della propria intelligenza, abbandono che si può realizzare in modo radicale e duraturo solo se si compie per amore e per fedeltà. Fede è preferire la verità divina ad ogni verità propria, perché Dio è Dio. La fede è l'amore della conoscenza di Dio. Secondo San Tommaso l'amore è il pincipio di ogno merito e in ultima istanza anche di quello della fede, della sua oscurità, della rinuncia che in essa si manifesta e la carità è l'abbandono di ogni volere e di ogni esssere.
Trad genseki
Fede I
Di quella fede che da nulla sboccia
Dal nulla che la fede volge a spina
Illeso salto di magica bocca
Che con sangue ripaga chi cammina.
Se più rimbalza a noi soltanto tocca
Torre pietre alle sponde del destino,
L'epidermide magica che scocca
Nel corallo d'un arenil divino.
Nel mormorio dei pini siderali
Le nubi per l'inganno ben costrutto
Del corpo, fiore dell'antico spazio.
Alla città di stranezze materiali
Cristalli invia ancor prima del lutto
Non cessa di filar nubi con strazio.
Lezama Lima
**
Trad.genseki
Lezama Lima
Posso guardare le tue mani preferite
e l'acanto delle tue tempie dorate
posso guardare l'uccello sepolto
dalle fredde ghirlande dell'autunno
Voglio guardare lamine di sabbia
con i fuochi precisi che le infestano
Sto guardando la tua domanda preferita.
Volano le ghirlande e altre sabbie rotolano
Meglio che nella domanda indifferente
- carrozza di mitili e delfini -
Che correva tra consigli d'oro,
Tiepida divenuta rinata
Iride così cocciuto
Da obbligarmi a segnalare i fiumi
Sulla mappa del tuo ricordo,
Freddo scompigliato dal vento.
Se s'approssima dormendo
Estesa e prolungata,
Tra lenzuola che gloria en avvolgono
Proclamandola teneramente
Astraendosi in bianco, prolungandosi
In celeste chiamata al tuo candore
Se mi desto inciampo
Nell'alone che il tuo respiro rende opaco
In quell'umidità novella
Che l'incantato tatto corrompe
E al fervor è carezza.
Se addormentato
La conchiglia recente mezzaluna
Freccia della domanda tua dormiente
Non amplia e non diverte
Pietra semimobile e foglie congedate
Verso il centro della tua città
Arresa e percossa
Dalla tua fuga, dalla mia fuga.
Resto a guardare la tua domanda preferita.
**
Trad. genseki
Juan Larrea
Sognami sognami vestito in fretta stella di terra
Coltivata dalle mie pupille prendimi
Per i miei manici d'ombra
Inebriami d'ali di marmo in fiamme stella stella
Tra le mie ceneri
Poter potere infine ritrovare nella mia
Vertigine la statua
Di un eroer di sole con i piedi a fior d'acqua
Gli occhi a fiore d'inverno
Addio al mondo tra i miei sogni d'addio
Gli uomini
Addio agli uomini e ai paesini delle
Loro mani
Ovunque vi sono spade che mi tagliano
A pezzetti
Oh
Cascate di spade
Cascate di spade èe l'ordine in marcia
Son io che cammino su caverne
Che scrichiolano come crani
Nessuno ancora si era annegato
Nessuno allora stava nell'ombra
Oggi sono io ma io non appartengo
A me stesso più di quanto gli uccelli
Che dormono nei miei occhi
Appartengono a loro.
Trad genseki
Mandorla
Questa danza di soli
E il concerto delle vele solo
Là dove più terso soffiava l'alito dell'alloro
Dentro una mandorla ti accolse il tempo
La pioggia di latte e ricino di marzo
Le ali straziate al ritmo del biancospino
Dentro una mandorla si aprì
Questa danza di soli e stelle
Di specchi e lune umida come il bacio
Della salvia
Sul punto di lasciar esplodere
Intera la notte dei suoi fiori
L'oscurità lilla dei suoi petali
Dentro una mandorla fosti latte e gemito
Avvolto in sette sudori
Come veli di ninfe miele ombelicale voli di vespe
Stirando con evidente piacere le dieci dita dei tuoi piedi.
genseki
VIcente Huidobro
Sono assente ma nel fondo di questa assenza
È me stesso che attendo
Il mio ritorno
Mi trovo in altri oggetti
Viaggiando spargo un po' della mia vita
La dono a certi alberi a certi sassi
Che mi hanno atteso per molti anni
Poi stanchi dell'attesa si sedettero
Ci sono e non ci sono
Nello stato dell'attesa sono assente e presente
Essi avevano bisogno delle mie parole per esprimersi
Io avevo bisogno delle loro parole per esprimerli
Ecco l'equivoco, l'equivoco atroce
Angoscioso lamentevole
Vado penetrando queste piante
Sto perdendo i vestiti
La mia carne cade a terra
Il mio scheletro lo ricopre la corteccia
Ecco che sto diventando un albero Quante volte mi sono
Covertito in qualche altra cosa
È un processo doloroso e pregno di dolcezza
Potrei gridare ma finirei per spaventare la transustanziazione
Bisogna tacere de aspettare in silenzio.
trad. genseki
Ho parlato
Ho parlato fino a divenire danno e vento
Mano distesa
Finestra aperta sul bosco disfatto
Ho cambiato parole con perle
Ho cambiato la parola come un serpente la pelle
Ho covato la parola sotto la lingua
Come il testimone custodisce la prima pietra
Quella della condanna -
Ho parlato per levigare la parola
Fino a farla diventare così sottile
Da essere trasparente al silenzio
Ho parlato fino a che il suono delle mie parole
Fu come il fragore della sabbia
Nell'incendio
Ora ogni fiore è rintocco di campana
Ogni foglia un brivido
In silenzio ora ballo tra la cenere.
genseki
Vicente Huidobro
Incoronazione della morte
Moriva una colomba sotto i grandi alberi del mondo
Che amara è l'aria nei paesi che sfilano davanti a me
Le nuvole di congedano tra piccole lacrime in cerca
Di un appoggio celeste
Moriva la rosa tremante sul suo piedistallo. Quante leggende
Furono cantate su toni diversi alla sera
Il canto si diffondeva nelle stanze più oscure
Moriva la colomba-in-fiore e il figlio poneva il suo dolore in petto
Al mondo
Partiva nell'aria la colomba-in-fiore e un profondo silenzio cadeva
Sui sentieri
Voglio parlarvi degli occhi della morte. Dell'ultimo respiro
Dei modi di morire che differiscono come differiscono i modi di camminare
Figlio che vuoi fare del tuo dolore passeranno i mesi e gli anni verranno
Altre primavere
Il corteo dei soli e delle stelle con tanto spirito e voci ben scelte
Ho meso tutta l'anima in quest'ultimo sospiro, allora che sarà di me?
Terra senza alberi cuore senza erbe e senza colombe
Come puoi camminare tra le altrui speranze
Che voce solenne è sorta dalla mandorla che canta
Questo era mio che non conosco
Il mare si riempie di anime e le rose ascoltano e le sabbie
Non sanno che fare, che dire
Così si muore con una lieve brezza tra i denti un tremito
Nei petali un riflesso di rugiada extraumana nei
Capelli dolenti e rassegnati
Che voce solenne entra in questo albero di memoria
Fragile come il fumo, come le corde dell'arpa
Che pianto millenario di tribù nella notte e di età
Perdute avvolge i petti dei secoli
Che latrato di caciatori di fortune assassinati nei boschi oscuri
Che singhiozzo orrendo caduto di colpo sotto il letto.
Il sorriso era una cosa dell'alba
L'altra riva dell'amarezza. Il tempo dei semi
Porta scintille nelle sue spade una cappa di gloria sulle spalle
Il sorriso era cosa da magnolie, da bucato
Nel fiume tra la schiuma
Il sorriso era cosa da frutta e finestre aperte era cosa
Da colori sparati nel sole
Oh sospiro dei morti oh anima figlia di mille rose
Perché mi hai sfogliato mentre andavi sfogliandoti fior -di-colomba
Giunge eccolo il sospiro. Tutto è inutile oh vento dall'altra sponda
Ansioso di trovare il suo posto parte il sospiro
Con esso me en vo' spingendo le porte della morte.
Trad genseki
mercoledì, marzo 16, 2011
lunedì, febbraio 28, 2011
Le rose dei tuoi petali
Ritirandosi nelle loro forme geometriche
Poi la neve che con lo sguardo obliquo
Fissava la fuga del branco sull' eisberg
Pericolosamente inclinato della speranza
La lingua penzoloni, tra le nuvole di vapore degli aliti
Cercava la soglia il branco
La soglia tra parola e voce
La tua voce fu la prima a scomparire
A ritirarsi come un cucciolo nella tana della memoria
Raggomitolata nel suo tiepido pudore
Nella sua speranza rassegnata
Anche la corsa del branco era soffice
Le zampe frusciavano sul velluto del ghiaccio
Anche le rose dei tuoi petali erano gelate
E le labbra che non mi baciarono mai
Poi fu lo sguardo ad occultarsi
Tra le pieghe della notte stellata
Restò allora il tuo passo
Il tuo passo che chiedeva tenerezza
I tuoi gesti che la rifiutavano
E le tue parole che divoravano i baci
E la corsa arruffata di tutto il branco
Nell'ansia della luna
Nell'attesa del serpente
La corsa verso il limite ove tutto stinge
per primi i colori poi le dita
E le forme con tutte le loro unghie
E i sorrisi riposti nel carillon
Con la collana di perle false
Con la collana di denti di latte
Nel velluto rosso che il tempo
Va trasformando in farina.
Poi spalancasti gli occhi senza voce
Non avevano più voce i tuoi occhi
La voce gli aveva abbandonati
Nello stupore di uno spasimo di luce
Come dire che amavo l'mpossibilità del tuo amore?
Più profonda di qualsiasi amore
Amavo l'impossibilità di amarti e di essere amato
E in questa negazione ho posto la mia fedeltà
e l'ho tradita teneramente di non poterla smarrire.
È una notte di luna e di ghiaccio
Questa notte di stupore di occhi spalancati
Di oceani come stelle fredde
La cerimonia della fiducia, quella del sogno
Non forniscono protezione in questi casi
Comunque non avresti potuto sopportarne lo sforzo
Dentro l'occhio sbarrato si smarrì la tua voce
Un bosco, una foresta di voli, la separava ormai
Dagli altri rintocchi
Avevi appena finito di ordinare le tue cose nell'armadio
Avevi predisposto tutto con limpida speranza
La morte non osavi sperarla
Non osavi chiedere il suo abbraccio.
*
Una tempesta di campane pesava sulle nostre tempie
Come una corona
Ma fu dei tuoi occhi l'ultimo rintocco
Smarrita la tua voce si guardava intorno
Tra il brusio di tutte quelle foglie
Mentre il dentro diventava il fuori
E tutte le fotografie si accartocciavano
Al fuoco al sangue
Ma questa volta era la parola a udire
La parola ad ascoltare le tue pupille.
Non furono le tue dita a sfiorarmi le tempie
Altrove scostandomi dalla fronte i rami del sicomoro
genseki
Juan Larrea
Nel paese del riso la cenere precede il fuoco
La neve precede gli uccelli
Le lacrime i loro troni
Quello che all'inizio è speranza camminando si fa orma
Quello che accade lascia separati i colori
Ma soggetti a un qualche oscuro inganno
Per perdere la vita non vi èe che un motivo il cielo
Le bocche hanno l'odore del desiderio di scoprire un bel delitto
Un caffé non è mai lontano
Uniti da una medesima tendenza
Quando l'alba paga le sue nubi con la vita
Uniti come monete nel prezzo di una donna nuda
Le membra di un uomo non vi lasciano niente da desiderare
Come eclissi parziali
Assoli d'arpa
Come spari nel vento
Come fiammifferi
III
Tanto progresso introdotto nella
Nostra pallida nevralgia miseria di stufa
Senza dolore senza domatore senza
Nulla di simile al ventre materno
A occulti tesori
Vecchi lupi di speranza fumando
All'origine delle lacrime lontano dalle
Montagne che sanguinano dal naso dei fiori
Amarezza rimpiazza le ulcere di ceralacca
I granchi nelle notti di pioggia
Le donne perdute in ogni
Imboscata di freddo che
Si sporge ancora dai rami mascherati di statura
Merci luminose delle sue ginocchia
Disposte a cadere al bordo del'ombra in fiamme
Come gru di impulsi sinceri
Catena degli incompresi sempre
Da “Oscuro Dominio”
trad. genseki
Per Il volo possibile
Ma non vi arrise il sorriso
No, sfuggente alla piena libertà del dolore,
Si stancava per tutti noi
Per le foglie caduche
Per i gattici novelli
Per le piume smarrite – solo per sé non aveva rimpianti -
Ora il tuo sguardo è rame e fragore
La tua voce stridula richiama
Il germano che vola sul greto tra la nebbia
All'altro capo di nessun telefono
Ti distendo le mie parole
Come tante mancanze vuoti intermittenze
Sei pioggia di campane ora
Nubifragio di rintocchi misericordiosa
A tutti i viventi alle loro lacrime grata
Tu che amarezza piegasti a tenerezza
Ora consoli
L'arida disperazione che si screpola in lamenti
Sei pioggia e mormorio e carezza – ora -
E riva di un mare dolcemente violetto
Come la luna che fu
A te non culla
Ma falce
genseki
giovedì, febbraio 24, 2011
Alla mamma
Novellamente foglie d'olivo
Altro vento si disfa anche più chiaro
Ancora appena appena più chiaro
In questo sospiro dorato, di tromba o zampogna
E tutte quelle pelli che pendono dai pali
Con macchie di sangue rappreso,
Pelli di coniglio, pelli di lepre, di fauno, di leprecauno
Pelli di lucciola e di bisonte, e pelli conciate
Con il minio, con la cenere
Con succo di felci, con calce, con caolino
Aspettando un vento che apra la porta
La porta del monte, quella dell'arcobaleno
In una pioggia fitta di aghi, in un mulinello di conifere
L'osteria dove ci eravamo fermati a bere
Sporgeva pericolosamente inclinata
Sul burrone accanto al cedro, sul lago
E non vi era maniera di fermare il tempo
Lanciato giù per i foschi tornanti
Anche se era evidente che ogni gesto
Era infinito immobile nel sempre;
Ora sei tu nella libertà cava della foresta
Nello spazio incalcolabile del nulla
Noi qui i prigionieri delle posate,
Della teiera, delle briciole sul capodimonte
Noi qui strettamente contenuti nei limiti opachi
Dell'essere
Della vita
Non possiamo più conoscerti
Non possiamo udire il graffiare delle tue unghi sottili
Sulla pellicola sferica dell'esistenza come cinque lune d'argento
Affilate
Come dieci lune pallide sottili svelate alla fine in un sibilo solo
Avresti voluto tu abbandonarti nel grembo fresco di Kannon
Udire con le sue mille e mille orecchie
La solitudine e il dolore del mondo
E mutarti, rivelata a te stessa compassione universale che non godesti
Il vento risveglia lo splendore dell'erba
mescola rosmarino e mimosa in un solo abbaglio
A una svolta si sciolgono i capelli
Come grandine battono sull'eternit le perle di Proserpina
Da un angolo hai visto il mondo
Dal tuo angolo senza pretendere più di uno sguardo
Dal mondo e sul mondo
Scontrosamente certa di non poter pretendere altro che quella insicurezza
Di bambina amara per sempre
In un bosco di mandorli su prati di prezzemolo, sfogliando la fredda
acidità
Del croco
Grano a grano, magra, tu ferita dalla nebbia
Lui averbbe dovuto essere li lei con il suo cappotto blu
Lui biondo e con la febbre, lei con le bende virginali
Ritta sulla luna, sul serpente con la tua valigia nella mano
Piena di foto, adesso, di cioccolato e di speranza.
Dove si erano smarriti?
Le dita delicate delle fave escono dalla terra
A liberare le anime dei morti recenti
de è tutta una festa di nebbia che tintinna, che trilla
Sbronza d'api come fibbie sul broccato delle crucifere
Avresti dovuto essere per un momento la mia bambina
Cercare la mia mano con gli occhi spalancati
Avrei asciugato le tue lacrime se cadendo ti ferivi le ginocchia.
Avrei asciugato le tue lacrime, sai?
Morendo mi sveli alla morte mi spalanchi la sua porta
C'è vento
I tuoi occhi non li riconosco
Sono di rame i tuoi occhi adesso
Il vecchio barbuto getta i remi sul fondo del suo palustre barcone
I fiori qui sono acidi come il gelo della primavera
La tua moneta la stringi contro il petto
Nelle manine la serri per non dargliela
Cerchi le tue lacrime che fuggono su su per le funi di pioggia come insetti opachi
Gli occhi del vento hanno pupille come ali di bronzo
Che si aprono e si serrano con fragore.
Adesso posso percorrere tutti i sentieri
Nella febbre incipiente del disgelo
Sono un seme, lo sai? piantato dalla tua morte.
Trilce XVIII
César Vallejo
Da Trilce
XXVIII
Ho fatto colazione da solo, senza
Madre, senza supplica, senza serviti, senz'acqua,
Senza padre che, nel facondo offertorio
Delle pannocchie chieda del suo ritardo
Di immagine, per le maggiori fibbie del suono.
Ma come avrei potuto far colazione. Come servirmi
Da piatti tanto lontani tali cose,
Ora che si è spezzato il focolare stesso
Quando madre neppur s'affaccia alle labbra
Come avrei mai potuto mangiare nonniente.
A casa di un buon amico ho fatto colazione,
Con suo padre appena tornanto dal mondo,
Con le sue zie canute che parlano
Con piccoli rintocchi di porcellana,
Bisbigliando da tutti i loro vedovi alveoli;
E con franche posate d'allegro tirritero
Che sono a casa loro. E allora grazie!
Che male mi dolsero i coltelli
Di questa mensa fin su nel palato.
Abbuffarsi è così a queste mense ove si gusta
Amor alieno e non il prorip amore
Ecco che si fa di nuovo terra la brocca che MADRE non porge
Colpo sferra la dura deglutizione; il dolce,
Fiele; olio o funebre caffé.
Quando spezzato giace il focolare
E dalla tomba non esce l'invito materno
Scura, scura la cucina, la miseria d'ampre.
Trad. genseki
Trilce XVIII
César Vallejo
Da Trilce
XXVIII
Ho fatto colazione da solo, senza
Madre, senza supplica, senza serviti, senz'acqua,
Senza padre che, nel facondo offertorio
Delle pannocchie chieda del suo ritardo
Di immagine, per le maggiori fibbie del suono.
Ma come avrei potuto far colazione. Come servirmi
Da piatti tanto lontani tali cose,
Ora che si è spezzato il focolare stesso
Quando madre neppur s'affaccia alle labbra
Come avrei mai potuto mangiare nonniente.
A casa di un buon amico ho fatto colazione,
Con suo padre appena tornanto dal mondo,
Con le sue zie canute che parlano
Con piccoli rintocchi di porcellana,
Bisbigliando da tutti i loro vedovi alveoli;
E con franche posate d'allegro tirritero
Che sono a casa loro. E allora grazie!
Che male mi dolsero i coltelli
Di questa mensa fin su nel palato.
Abbuffarsi è così a queste mense ove si gusta
Amor alieno e non il prorip amore
Ecco che si fa di nuovo terra la brocca che MADRE non porge
Colpo sferra la dura deglutizione; il dolce,
Fiele; olio o funebre caffé.
Quando spezzato giace il focolare
E dalla tomba non esce l'invito materno
Scura, scura la cucina, la miseria d'ampre.
Trad. genseki
Gerardo Diego
Vorrer esser convesso
Per la tua mano concava.
E come un tronco vuoto
Per accoglerti in grembo
E darti ombra e sogno.
Soave orizzontale interminabile
Per l'orma alterna e ansiosa
Del tuo piede sinistro
E del destro.
Essere d'ogni forma
Come acqua adeguata ad ogni coppa
E poterti abbracciar sempre da dentro.
E poi essere coppa
Per abbracciar da fuori al tempo stesso.
Acqua fattasi coppa
Il tuo confine – dentro e fuori – sempre esatto
Da: “Versos humanos
Trad genseki
Juan José Saer
Da: "La pesquisa"
Trad genseki
martedì, febbraio 22, 2011
José Emilio Pacheco
Pensare che nei suoi oggetti quadrangolari
Giace un istante del 1959
Volti che non sono piú,
Aria inesistente
Perché il tempo si vendica
Di quanti rompono l'ordine naturale congelandolo,
Le foto si screpolano, ingialliscono,
Non sono la musica del passato;
Sono il boato
Del crollo d'interne rovine
Non sono il verso, son lo scricchiolio
Della nostra irrimediabile cacofonia.
José Emilio Pacheco
Trad. genseki
José Emilio Pacheco
(Vallejo e Cernuda si incontrano a Lima)
E come in un poema di Cisneros,
Albatri, pellicani e cormorani
Muoiono di fama a Lima, in pieno centro;
Sono torturati baudelariamente.
In questi vicoli miserabili
(Tanto simili a Messico)
César Vallejo passeggió, fece l'amore, deliró
Scrisse versi.
Giá! Ora lo imitano, lo venerano
"È un orgoglio per il continente",
In vita lo presero a calci, a sputi,
Lo ammazzarono di fame e di tristezza.
Disse Cernuda che nessun paese
Ha mai tollerato vivi i suoi poeti.
Va bene cosí.
Sarebbe forse meglio
Essere il Poeta Nazionale
lunedì, febbraio 14, 2011
A sua madre
Che l'autunno frullava nel fondo delle mie pupille
E le foglie più pesanti ancora del loro lutto
Non cessavano di balenare come monete
Senza una faccia senza una luna
Perduto il tuo volto nel suo occaso incessante
Anche il mio nome era un altro
La mia vicenda entrava nel porto
Le mie ultime lettere le scrivevo sulla carta da imballaggio
Dove potevo ormai appendere il cappello?
Sedermi al tavolo da gioco?
Accoccolarmi nell'orto sapendo che non mi amavi?
Che non mi amavi?
E le ali le scolpiva lo scalpello del volo
Nel marmo di quel pezzetto di cielo
Non fosti il mio battello
I tuoi occhi non mi furono lago
Sulla tua altra sponda aspettavo
Il mio traghetto, ora ora soltanto
So che avrai una mano per accarrezzare
I capelli stessi della luce
genseki
L'anima e la memoria
da: “Il cavallo greco”
Dopo la morte l'anima non si sente nuda. L'anima si veste della sua memoria, si limita con essa, illuminandola da dentro con la propria intelligenza e la propria volontà in modo che nulla di quanto visse resti occulto. L'anima resta avvolta dal paesaggio del suo comportamento, dei suoi pensieri, delle sue emozioni. La memoria, che in vita ci abbandona con tanta frequenza, nella morte ci presta il suo mantello, ci conforta e ci salva.
**
Se non in me, dove sta la mia vita? L'idea che possa essere registrata in un'intelligenza superiore mi riempie di speranza.
**
Rientriamo in noi solo con la morte. In tal modo ci incorporiamo con la forma totale della nostra storia, che, siccome il nostro corpo non è sufficiente per tante e tali attitudini, muore nell'attesa del giorno in cui sarà ancora convocato dallo spirito.
Morire è essere pianura, un grande volto impassibile, uno specchio di tutta l'anima nel quale si può leggere tutta una vita. Dove restò il tempo? Nell'oblio o nella disperazione. Nulla di tutto questo si trova in quel volto la cui presenza è un riflesso della divina sapienza che lo sta giudicando.
Le nostre vite sono come fiumi che sboccano in uno specchio. Quando tale specchio rifletta in un sol colpo e per sempre tutto quello che fummo, è perché finalmente siamo arrivati al momento della morte.
**
Nessun campo tanto vasto come la nostra memoria, percorrerlo è cercare se stessi. Ma questa ombra che cerca di conoscersi a forza di camminare su e giù per la propria vita non sono interamente io. Nemmeno questi che riceve a poco a poco strane impressioni e si mostra insensibile alla maggior parte di esse sono io, anche se nel mio sogno gli conferisco consistenza. Solo mi riconosco negli altri. Essi sono la mia riva e io l'ombra, è la loro luce che confondendosi con i miei primi grigi, forma le aurore, e se io sono d'acqua e loro di roccia, al nostro urto si formeranno piagge e litorali; se sono calore e loro neve, nel nostro incontro la primavera darà i suoi fiori e l'autunno maturarà i suoi frutti.
trad. genseki
Regola grammaticale
La grammatica, come norma colettiva in poesia, non ha ragion d'essere. Ogni poeta forgia la propria grammatica personale e che non puo' essere trasferita, la propria sintassi, ortografia, analogia, prosodia, semantica. Basta che non esca dalle consuetudini di base dell'idioma. Il poeta può persino cambiare, in certo modo la struttura letterale e fonetica di una stessa parola, secondo i casi. E questo, lungi dal restringere la portata socialista e uniersale della poesia, come si potrebbe credere, la dilata all'infinito. Si sa che quanto più personale (ripeto, non dico individuale) è la sensibilità dell'artista, tanto la sua opera è più universale e collettiva.
César Vallejo
Il nome
Elsa. Il mio nome.
All'Osteria del Gozzo tra una toma
E un gotto di Carcairone
Ti avvicinavi al mio ginocchio
Come la volpe alle uova del pavone
Ma nemmeno il mio ginocchio
Sapeva il mio nome,
Poi passeggiando ti indicavo
I gattici fioriti, gli arbusti della fusaria
E i fori delle mine fluviali
Profumavi di alga il mio nome
Lo chiedevi sulle unghie
Nel sorriso, nella curva del collo
Nella profondità del tuo tepore
Il mio nome pero' non lo conoscevo
Lo avevo perduto forse una volta in stazione
Mi era caduto di tasca mente cercavo
Di obliterare il biglietto nella fessura
Di quella macchina troppo gialla
La geografia delle tue mani non era
Mappa sufficiente per indovinare nemmeno la mia origine
Ritornammo passando per il lago
In Nissan
Come un grande cigno bianco
genseki
Il crepitare altissimo d'incendi
lassù sull'altipiano dove le nuvole di marmo
Ci oscuravano il respiro
Il vento delle lacrime ti scuoteva
Come i rami dell'abete
Il fumo si faceva più solido
Tu dipingevi quel melo dalla finestra del bagno
Ti osservavo dalla siepe
Tra gli altri alberi da frutto
Al congedarti odore di verderame
Poi fu sera, tramonto, oltre la curva fiamme
Come sfrigolavano cervi e miniature
Un istante di cenere il nostro
Con un occhio ai tuoi collant
Fissavo il rogo della cordigliera
Come un'immenso coniglio rosso
Scuotere sfrenato le orecchie
Davanti al parabrezza.
genseki
Juan Larrea
Sognami sognami in fretta stella di terra
Coltivata dalle mie palpebre afferrami per i miei manici d'ombra
Inebriami di ali di marmo ardendo, ardendo stella stella tra le mie ceneri
Potere potere alla fine trovare sotto il mio sorriso la statua
Di una sera di sole i gesti a fior d'acqua
Gli occhi a fior di inverno
Tu che nell'alcova del vento stai vegliando
L'innocenza di dipendere dalla bellezza “volandera”
Che si tradisce nell'ardore con cui le foglie si voltano verso il petto più debole
Tu che assumi luce e abisso al borco di questa carne
Che cade fino ai miei piedi come vivezza ferita
Tu che in selva d'orrori avanzi smarrita
Supponi che nel mio silenzio vive una oscura rosa senza uscita e senza lotta
**
Il mare in persona
Eccolo il mare innalzato in un battito di ciglia
Il mare senza sogno come una grande paura di trifogli fioriti
Nella postura della terra sottomessa come sembra
Se ne vanno digià con le loro lane di evidenza sulla nube e sulla sua fatica
All'ombra di un olmo non c'è mai tempo da perdere
Credula squisita l'oscurità mi viene incontro
Nella mia fronte abita lo scorza di pane che mi porto dentro
Tagliato a picco su un uccello insicuro
Così mi allontano per azione del piano
Che mi cuce alle piante che precorrono il mare
Un cervo d'autunno scende a leccare la luna della tua mano
E ora sulla mia sponda il mondo comincia a spogliarsi
Per morire d'alberi in fondo ai miei occhi
I miei capelli si riempiono di pesci di penombra
Di scheletri di navi forzate
Senza andare più lontano
Sei fredda come l'ascia che abbatte il silenzio
Nella lotta tra il paesaggio e il suo colpo d'occhio
Poi quando il cielo esporta i suoi pianisti celebri
E la pioggia l'odore della mia persona
Come il tuo bel cuore si tradisce
Trad. genseki
Isola ti chiamavo
Tu mi chiamavi. Come mi chiamavo?
Non mi chiamavo, non avevo nome.
Tu sempre domandavi finché quasi
Volevo dirti di chiamarmi cigno
Nube, Callisto, Melibeo, Elosabad,
Islamey, Lohengrin, Ulisse. Zero.
Come mi chiamo? Ancora me lo chiedi?
Mi chiamero', mi chiamero' Tiamo.
Tu non smettevi pero' di domandare
Fino a rientrare nel tuo secondo sogno.
Gerardo Diego
Trad.genseki
San Sebastiano
Legato a un tronco un corpo, torso bianco bersaglio.
Sibilo, volo, un bosco di saette.
Candore che oramai si scorge appena
Di bellissima pelle. Ombre
Di penne e di steli ecco oscurano
La lividezza così prepotente. Fiumi
Di sangue macchiano sul petto
Le bande della nobiltà nel Cristo.
Danzando fu la sua danza rapita.
Tronco non fu d'olivo in fiamma e nodo
Né fusto di betulla argentea lebbra.
Né torsione veementissima del sandalo
Che immobilizzi così sul proprio asse
L'alata varietà solo in un grido.
È Sebastiano il martire che vendica
La superbia oceanica, lo scoglio
Ove un titano incatenato canta
Nel fuoco e nella danza si scatena.
La fiamma non rubo' ma l'alimenta
Col suo sangue la esalta e la ridona
Al cielo che l'assorbe in nuovo incendio.
O bandiera di rossi e di violetti
E azzurri rapidissimi, o incolume
Sebastiano nell'asta, nel candore
Zebrato. Gia s'estraggono quei dardi
E nel sollievo tu canti in trionfo,
Danzi la fe di Cristo insanguinata.
Gerardo Diego
Trad. genseki
L'azzurro
In dolcezza e celebrata promessa,
Poi qualcuni guardo' attraverso lo sguardo
Come affaciandosi da una finestra aperta
E un altro risuono' inclemente
Nel vuoto della voce:
L'anima esplose come reticolo
Come carosello di spore
Le mani le avevamo legate in mille nodi
Un nodo per ogni nome
Uno per lo sguardo, uno per chi origliava
Dalla stretta fessura delle orecchie
Il mondo si fece allora giardino
La speranza condannata a germogliare
Ognuno ha diritto ad almeno due vite
Una contiene se stessa e un'altra
La morte resta il seme piú fecondo.
genseki
Per ricordarmi dei tuoi capelli
Mi bastava fissare le mie dita
Le lune delle tue unghie, pure
Erano sciabole delle mie iridi.
Il segreto come decifrarlo?
O il tormento dei tuoi gesti,
Quando toglievi la mollica del pane
Scartavi il cuore delle mele
Ti chinavi ad accarezzare la caviglia
Con la tempia all'altezza della tavola preparata?
Il fiume dei tuoi capelli
Era come un firmamento
Un oceano di rame
Salato come il ghigno delle fiamme
Nell'inesanatura del caminetto.
genseki
L'azzurro
Che aggredisse i miei occhi
Fino a farli leggeri come macchie
Fino a rendere l'ozono sonoro come la moneta
Che cade sullo zinco dell'acquisto
Perchè se di questo si trattava
Allora solo l'azzuro era la nostra lingua
Garanzia della vita ossigeno dell'essere
E i nostri corpi più liberi dei loro vestiti
Si sarebbero lasciati spogliare dall'anima
Dal vento
Per questo invocai l'azzuro sulle colline di cenere
Nei boschetti di ossa lo invocai
Con il flauto di sambuco accennando
melodie di miele
Perchè finalmente la mia voce perdesse
la sua pelle di polvere
E il solo senso fosse vuoto sguardo.
genseki
Bolañismi
Chapultepec, México DF, agosto de 1976.
verme para hacerme una entrevista. Sólo lo vi una vez. Lo acompañaban dos
muchachos y una muchacha, no sé sus nombres, casi no abrieron la boca, la
muchacha era norteamericana.
Le dije que abominaba del magnetófono por la misma razón que mi amigo
Borges abominaba de los espejos. ¿Usted fue amigo de Borges?, me preguntó
Arturo Belano con un tono asombrado un poco ofensivo para mí. Fuimos bastante
amigos, le respondí, íntimos, podría decirse, en los días lejanos de nuestra
juventud. La norteamericana quiso saber por qué Borges abominaba de los
magnetófonos. Supongo que porque es ciego, le dije en inglés. ¿Qué tiene que ver
la ceguera con los magnetófon dijo ella. Le recuerda los peligros del oído, le
respondí. Escuchar su propia voz, los pasos de uno mismo, los pasos del
enemigo. La norteamericana me miró a los ojos y asintió. No creo que conociera a
Borges demasiado bien. No creo que conociera mi obra en absoluto, aunque a mí
me tradujo John Dos Passos. Tampoco creo que conociera mucho a John Dos
Passos.
En fin, me pierdo. ¿En dónde estaba? Le dije a Arturo Belano que prefería
que no usara el magnetófono y que sería mejor que me dejara un cuestionario con
preguntas. Él accedió. Sacó una hoja y redactó las preguntas mientras yo le
enseñaba algunas habitaciones de la casa a sus acompañantes. Luego, cuando
tuvo terminado el cuestionario, hice que trajeran unas bebidas y estuvimos
hablando. Ya habían entrevistado a Arqueles Vela y a Germán List Arzubide.
¿Cree usted que alguien se puede interesar actualmente por el estridentismo?, le
pregunté. Por supuesto, maestro, dijo él, o algo parecido. Yo creo que el
estridentismo ya es historia y como tal sólo puede interesar a los historiadores de
la literatura, le dije. A mí me interesa y no soy un historiador, dijo él. Ah, bueno.
Esa noche, antes de acostarme, leí el cuestionario. Las preguntas típicas
de un joven entusiasta e ignorante. Hice, esa misma noche, un borrador con mis
respuestas. Al día siguiente lo pasé todo en limpio. Tres días más tarde, tal como
habíamos convenido, vino él a buscar el cuestionario. La criada lo hizo pasar pero
le dijo, por expresa instrucción mía, que yo no estaba. Luego le entregó el paquete
que yo tenía preparado para él: el cuestionario con mis respuestas y dos libros
míos que no me atreví a dedicarle (creo que hoy los jóvenes desdeñan estos
sentimentalismos). Los libros eran Andamios interiores y Urbe. Yo estaba al otro
lado de la puerta, escuchando. La criada dijo: esto le ha dejado el señor Maples.
Silencio. Arturo Belano debió de coger el paquete y mirarlo. Debió de hojear los
libros. Dos libros publicados hace tanto tiempo y con las páginas (excelente papel)
sin cortar. Silencio. Debió de mirar por encima el cuestionario. Después oí que
daba las gracias a la criada y se marchaba. Si vuelve a visitarme, pensé, estaré
justificado, si un día aparece por mi casa, sin anunciarse, para conversar conmigo,
para oírme contar mis viejas historias, para poner sus poemas a mi consideración,
estaré justificado. Todos los poetas, incluso los más vanguardistas, necesitan un
padre. Pero éstos eran huérfanos de vocación. Nunca volvió.
Manuel Maples Arce
Io sono un punto morto nel centro del momento
Equidistante al grido naufrago di una stella
Un parco
La luna senza corda
Mi opprime alle vetrate.
Margherite dorate
Che si sfogliano al vento.
Insorta la città di annunci luminosi
Galleggia in calendari,
E poi di sera in sera.
Per la strada stirata si dissangua il tranvai.
L'insonnia come fosse un rampicante,
Si avviluppa ai traliccci del telegrafo
Mentre vanno i rumori scardinando le porte
La notte si fa magra leccando il suo ricordo.
Il silenzio giallino mi risuona sugli occhi,
Prisma, diafana mia, come sentire tutto!
Le separai le mani,
Ma proprio in quel momento
Grigio delle stazioni
Le sue parole fradice mi si strinsero al collo,
E una locomotiva
Assetata di chilometri la strappo' dalle mie braccia.
Il suono delle sue parole oggi è più gelido che mai
E la locura di Edison a mani di pioggia!
Il cielo è un ostacolo al condominio inverso
Rifratto nelle lunule ombrose degli specchi;
I violini non crescono al modo del moscato,
E mentre van le orecchie esplorando il mattino
Rabbrividisce ossuto l'inverno in guardaroba.
Mi debordano i nervi
La stella del ricordo
Naufragava nell'acqua
Del silenzio
Tu de io
Ci incontrammo
Nella notte terribile,
Meditazione tematica
Che appassisce in giardini.
Locomotori, grida,
Arsenali, telegrafi,
E l'amor della vita
Son già sindacalisti,
E tutto si dilata in circoli concentrici.
Trad. genseki
Frammento
Ma il mio sonno era verde come quello dei cinghiali
Sognavo un sogno di lupo prigioniero
Nella magia di una miniera di carbone
E i tuoi piedi come due colombe
Frullavano sgraditi alle mie tempie
Le unghie delle tue mani erano firmamento
Nella notte dei bambù e dei denti ...
genseki