giovedì, settembre 30, 2010

Il battello ebbro

Dedicato alla Gaviota de Solentiname


Mentre andavo scendendo per i fiumi impassibili
Notai che i battellieri non mi guidavan piú:
Pelle rossa chiassosi gli avevan bersagliati
Per inchiodarli nudi a pali colorati.

Io che non sopportavo di avere un equipaggio.
Carico di frumento e cotone britannico
Perduti i battellieri con il loro baccano,
I fiumi mi permisero di scendere a mio arbitrio.

Nello sciabordio furioso dei marosi,
Per un inverno intero, piú sordo dei cervelli
Dei lattanti io corsi! E salpate penisole
Non subirono mai un simile saccheggio.

Tempeste benedissero i risvegli marini.
Più leggero d'un tappo ho danzato sui flutti,
Che eternamente portano le salme delle vittime
Dieci notti lontano da ogni faro sciocco!

Piú dolce che ai bambini polpa aspra di pomi
Penetró l'acqua verde il mio guscio d'abete
Lavando macchie azzurre di vino vomitato,
Trascinando con se il timone e gli uncini.

Da allora mi bagnai nel poema del mare
il mare lattescente come infuso di astri.
Che azzuri verdi inghiotte; ove discende a volte
Un pallido annegato dall'aspetto pensoso

Ove di colpo vanno colorando gli azzurri,
Deliri e ritmi lenti nel rutilante giorno,
Piú forti che lo spirito piú vasti che le lire
I rossori d'amore in amaro fermento!

So i cieli crepati in lampi, e le trombe
E risacche e correnti: e poi la sera e l'alba,
Come se di colombe fosse un popolo in volo,
E qualche volta ho visto ció che l'uomo ha creduto!

Ho visto soli bassi, macchie d'orrori mistici,
Illuminare lunghi coaguli violetti,
Simili ad attori di drammi antichissimi
Flutti che allontanavano brividi di persiane!

Sognai la notte verde delle nevi abbaglianti,
Salir fottendo agli occhi dei mari con lentezza,
E la circolazione delle linfe inaudite,
Giallo risveglio azzurro di fosfori cantori!

Ho seguito, per mesi le transumanze isteriche
Delle onde che andavano assaltando i frangenti,
Non pensando che i piedi splendenti delle Vergini
Possan forzare il muso degli oceani ormai bolsi!

Ho urtato, credetemi! Le Floride incredibili
Che mescolano ai fiori gli occhi delle pantere
Dalla pelle di uomo! Gli arcobaleni tesi
A glauche mandrie sotto l'orizzonte marino!

Ho visto fermentare maree enormi, nasse
Ove un Leviatano marcisce tra le canne!
E franare le acque in mezzo alla bonaccia,
Le lontananze ai vortici cadendo in catarratta!

Ghiacciai, soli d'argento, onde madreperlacee
Cieli in fiamme e relitti in fondo ai golfi bruni
Ove le pulci rodono giganteschi serpenti
Che in profumi si disfano sugli alberi contorti!

O quanto avrei voluto far vedere ai bambini
Dorate in flutti azzurri, canori pesci d'oro!
In secca mi cullai tra le schiume fiorite,
Ed i venti ineffabili mi prestaron le ali.

A volte, stanco martire dei poli e delle zone
Il singhiozzo del mare m'addolciva il rullío
Fiori d'ombra innalzando dalle gialle ventose
Che in ginocchio accettavo come se fossi donna...

Penisola scotendo ai miei bordi le liti,
Escrementi d'uccelli stentorei d'occhi biondi.
Vogavo e nell'intrico del cordame allentato
Scendevan come gamberi gli affogati a dormire!

Or io battello perso nelle chiomate cale
Nell'etra senza voli gettato dal tifone,
Che i velieri anseatici e gli esploratori
Avrebbero sdegnato carcassa ebbra di acqua;

Libero, fumigante carco di brume viole
Che perforavo il cielo rossastro come un muro
Portando, confetture che adorano i poeti,
I licheni del sole e le muffe del cielo;

Che correvo, macchiato di lunule elettriche
Folla plancia, scortato dagli ippocampi neri,
Quando luglio abbatteva a secche scudisciate
I cieli ultramarini dai vortici infuocati;

Io che tremavo, udendo il gemito remoto
Della foia dei Behemot e degli spessi Maelstrom,
D'immobilitá azzurre eterno seguitore,
Io rimpiango l'Europa dai parapetti antichi!

Ho visto gli arcipelaghi siderali! Le isole
Dai cieli deliranti aperti al rematore:
In notti senza fondo forse dormi e ti esili,
O milione d'uccelli d'oro, o futuro vigore?

Davvero ho troppo pianto, mi straziano le albe
Atroce m'è ogni luna ed ogni sole amaro:
Mi gonfió l'acre amore di sonni inebrianti.
Che scoppi la mia chiglia! Voglio colare a picco!

Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
Algida, oscura, ove, nel vespro profumato
Un bimbo ,accoccolato, tristemente abbandona
Come farfalla in maggio un fragile battello.

Non posso piú bagnato dai languidi marosi,
Succhiare ancor la scia ai carghi del cotone,
Né attraversar l'orgoglio delle bandiere in fiamme,
Né nuotar sotto gli occhi orribili dei moli.

Arthur Rimbaud
Trad, genseki

lunedì, settembre 27, 2010

Quello che restava di te

Di te non restava pietra di denti
Moneta di articolazione né sale
Scalza l'avevi scesa vertebra a vertebra
La divinazione dell'esoscheletro
E la spirale piú non era che polvere
Secco marcire asiutto compatire
La cuspide di bronzo, l'intelaiatura
Scricchiola pericolosamente
La cavitá oculare delle stelle
Lontana da qualunque vegetale-

genseki

Hans Werner Henze: Prison Song

Diana e il cardinale

Scostavi dall'assalto l'ampio volo
Con l'elitra, con l'altra mano
Con quello appena che restava della sguardo
Mandorla! Calmo come il lago
Lo sciame delle speranze, la fedeltá,
Latrano - dicevi con l'arco lunare
Minacciando cecitá ai discepoli,
Il cacciatore andava marcando
I suoi tarocchi uno per uno.
L'arco - dicevi non vedrá il mio seno
Costellazione della prima caduta
O cardinale sacro al sicomoro,
L'albero dalle bianche camicie
Macchia di sangue alla radice della neve
Al gelido fusto di screpolato candore
Scostavi con la mano il fragore degli occhi
Il coagulo del volo nel fantasma del tempo
L'abito cardinalizio rende impura la luna
Per il parto dell'albero che videro i tarocchi.

genseki

La morte di Dreiser Cazzaniga

Tra gli appunti del compianto Durfai acronico o ucronico amico di Dreiser Cazzaniga è stato trovato un foglietto che, in forza di un'annotazione sul retro, pare riferirsi agli ultimi minuti di vita del nostro Dreiser. Sono poche righe nel francese lievemente arcaico del Durfai che non oso tradurre per non rovinarne la bellezza appassita:

"Il avait les yeux hâvres et enfermés, la mâchoire inférieure couverte seulement d'un peu de peau paraissait s'être retirée, la barbe hérissée, le teint jaune, les regards lents, les souffles abattus. De sa bouche il ne sortait déjà plus de paroles humaines mais des oracles".

a cura di genseki

giovedì, settembre 23, 2010

Crocifissione

Da quando lo crocifissero il mare
Sulle ali viola, sugli spalti delle nubi
Sulle splendide visioni delle diatomee
Cominciarono a gocciolare furibondi
Estremi e cauti glauchi come fuchi
Da quelle mille ferite, dalle screpolature
Dagli iati come sbadiglio gli scampoli
Di tutti quei significati Era il simbolo
Finito di quell'infinito autunno in cui aggrapparsi
Al sonno marino, alla sera all'ocra dei boschi
Allo scorrere azzurro della selvaggina
Sui sentieri di muschio
Da quando lo crocifissero: il mare era tutto un calare
Di speranze dal nord di brandelli di lupi
Di zanne e ocarine e tutti quei ciondoli
come una ripida trina di schiuma laddove
Sfrangiata si spreca ogni altra possibile spiegazione
Che cosa spiegare? La solitudine
Il margine che confonde il nulla con l'altare?
Interrogare punteggiando le frasi con il sangue del mare
Mare incoronato di spine, una per ogni goccia
Flagellato di iodio e ferroso come qualsiasi altro deserto
Mare che crocifissero altri ad altre ali
Ancora piú in la di ogni possibile me stesso.

Figlio unico (Yasujiro Ozu, 1936). Una scena / 1

Digital Music Ensemble - Helicopter String Quartet

mercoledì, settembre 22, 2010

La croce

Dopo le tante assurditá che hanno careatterizzato il già inattuale dibattito sulla presenza del crocifisso nelle aule italiane queste considerazioni sono una fresca, aurorale meraviglia, Riflessioni laiche, elegantemente epicuree, dell'epicureismo ancora possibile all'aurora del passato secolo dell'annientamento e dell'ariditá dei cuori e pure profondamente rispettose della croce di cui negano la favola e affermano la lezione.
La croce
Di George Santayana
Trad. genseki

Il piede della croce – non oso dire la croce stessa – è un buon posto da cui contemplare la vita. Nei piú grandi dolori vi è una calma tragica: si esaurisce la furia della volontá e i nostri pensieri si elevano a un altro livello; come la gioia fracassona e le oscure pene della prima infanzia che sono impossibile nella vecchiaia. Spesso la gente fa croci di fiori o di oro, a me piace vedere il crocifisso smaltato circondato riccamente di volute e incrostato di gioielli, senza questo elemento di istinto pagano la religione della croce non sarebbe né sana né giusta. Alle falde del Monte Calvario si trova il giardino della resurrezione: non mi rifersico a nessuna resurrezione melodrammatica come quelle rappresentate nella letteratura giudaica e in quella cristiana, bensí a quella che succede tutti i giorni davvero, tranquilla dolcemente, alla luce del piú chiaro giorno, nel chiostro, in casa, nella mente rigenerata. Dopo aver rinunciato al mondo l'anima puó tornare a trovarlo piú amabile, puó viverci con un sorriso, con qualche mistico dubbio e con un piede nell'eternitá. La vanitá è innocente quando si riconosce che è vana e non è piú una disgrazia per lo spirito. La feliecitá della sapienza, al principio puó sembrare autunnale, e l'ombra della croce, l'ombra della morte; si tratta tuttavia di un'ombra curativa; e, dopo poco tempo, dalll'edicola in cui abbiamo collocato la croce ci sorpende il profumo della violetta e la rosa dello zafferano si sporge tra le spine. Lo sfondo scuro che apporta la morte sottolinea i colori delicati della vita in tutta la loro purezza. Lungi da me il voler suggerire che l'esistenza sia buona in quanto preceduta e seguita dalla non esistenza; è tuttavia certo che se l'uomo fosse immortale non ci sarebbero nella sua esperienza, la tradizione, il linguaggio, l'infanzia, l'amore e neppure la vecchiaia …. posto che, di fatto. La nascita e la morte accadono effettivamente e il nostro breve cammino è circondato dal vuoto, molto meglio è vivere alla luce del tragico fatto che dimenticarlo o negarlo e costruire su di una menzogna fondamentale.




lunedì, settembre 20, 2010

George Santayana


George Santayana

Sull'impermanenza

Da: "Soliloqui in Inghilterra"

Siamo avvertiti che il Giorno del Giudizio sará pieno di sorprese: una di queste, forse, è che nel Cielo le cose saranno piú instabili che sulla terra e che le dimore che lassú sono state preparate per noi non soltanto saranno vaste ma anche insicure.

*

I Castelli di Nuvole sono segni cje l'eternitá non ha nulla da spartire con la durata, né la bellezza con l'esistenza sostanziale e che persino in Cielo la nostra felicitá deve essere fondata su di una sorridente rinuncia,

*

Sull'amicizia

L'amicizia è sempre l'unione di una parte di un'anima con una parte di un'altra, La gente è amica a compartimenti stagni. L'amicizia a volte si basa sulla condivisione di ricordi precoci come fanno i fratelli o i compagni di scuola, i quali, spesso, salvo per questa antica e affettuosa familiaritá si considerano mutuamente antipatici ed estremamente noiosi. Altre volte dipende da piaceri o divertimenti passeggeri o da obiettivi comuni particolati e altre ancora dalla mera convivenza e dall'assenza di virtú nel vivere insieme.

*

L'amore tra amici in gioventú, quando d'amore si tratta piuttosto che di amicizia, possiede una tendanza mistica. RIcorda pel suo carattere anche se raramante per la sua intensitá, il dardo che, in estatica visione, attraversava il cuore di Santa Teresa e faceva esplodere l'involucro ordinario in cui si preserva il flusso del sangue di generazione in generazione, nello stretto canale dell'esistenza umana dell'umana schiavitú.

trad genseki

venerdì, settembre 17, 2010

Tristan Tzara


Sul sentiero delle stelle marine

Tristan Tzara

Sul sentiero delle stelle marine

A Federico Garcia Lorca

Che vento soffia sulla solitudine del mondo
Che mi sovvengo degli esseri cari
Fragili desolazioni aspirate dalla morte
Oltre le cacce gravi del tempo
Godeva il temporale della sua prossima fine
Che sabbia non arrotondava giá la dura anca
Ma sulla montagna sacche di fuoco
Vuotavano a colpi sicuri la luce di preda
Pallida e corta come l'amico che si spegne
Di cui nessuno piú sa dire il contorno a parole
Nessuna chiamata all'orizzonte ha il tempo di soccorrere
La forma misurabile solo quando scompare

E così da un lampo all'altro
L'animale sempre tende la groppa amara
Lungo i secoli nemici
Attraverso i campi sicuri di parata d'altra avarizia
E nella sua rottura si profila il ricordo
Come la legna che scricchiola segno della presenza
Della necessitá disperata.

Ecco anchei frutti

Non dimentico i frumenti
E il sudore che li ha fatti crescere sale alla gola
Eppure conosciamo il prezzo del dolore
Le ali dell'oblio e i foraggi infiniti
A fior di vita
Le parole che non giungono ad afferrare i fatti
Nemmeno per usarle per ridere

Il cavallo della notte ha galoppato dagli alberi al mare
E riunito le redini di mille oscuritá caritatevoli
Si è trascinato lungo le siepi
Dove petti di uomini trattenevano l'assalto
Con ogni mormorio aggrappato ai fianchi
Tra immensi ruggiti che si acchiappavano
Sfuggendo la forza dell'acqua
Incommensurabili si susseguivano mentre micromormorii
Non erano deglutiti e galleggiavano
Nell'inesporimibile solitudine solcata dai tunnel
Le foreste di mandrie delle cittá i mari aggiogati
Un uomo solo al soffio di molti paesi
Riuniti a cascata scivolando su una lama liscia
Di fuoco sconosciuto che s'insinua a volte la notte
A perdere coloro che il sonno assembla
Nel ricordo profondo

No non parliamo piú di quelli che si sono avvinti
Ai fragili rami, al mal umore della natura
Gli stessi che subiscono i rudi colpi
Tendono la nuca e sul tappeto dei loro corpi
Quando gli uccelli non piangono piú i chicchi del sole
Suonano i rigidi stivali dei conquistatori
Mi sono usciti dalla memoria
Gli uccelli cercano altri impieghi di primavera
Al loro calcolo delle sinecure
Per greggi affascinanti di sgomento
Il vento sulla nuca
Che metttano loro in conto il deserto
Al diavolo i sottili avvertimanti
I divertimenti coquelicot e compagnia bella
Raschia il freddo
La paura cresce

L'albero secca
L'uomo si screpola
Sbattono le persiane
Cresce la paura
Nessuna parola è abbastanza dolce
Per ricondurre il bimbo delle strade
Sperduto nella testa
Di un uomo sull'orlo della stagione
Guarda la volta
E l'abisso
Pareti stagne
Fumo nella gola
Il tetto si sgretola
Ma l'animale famoso impennato
Nell'attenzione muscolare distorto dallo spasmo
Della fuga vertiginosa del lampo di roccia in roccia
Si scatena all'appetito della gioia
Il mattino rifá il mondo
Alla misura del suo giogo

Predone dei mari
Ti sporgi per l'attesa
E ti alzi e ogni volta che saluti il mare ai tuo piedi
Sul sentiero delle stelle marine
Deposte da colonne d'incertezza
Ti sporgi ti sollevi
Saluti smazzati a strisce
E nel mucchio devi muoverti
Anche evitando le piú belle devi muoverti
Ti sporgi
Sul sentiero delle stelle di mare
I miei fratelli gridano di dolore dall'altra parte
Bisogna prenderli intatti
Sono le mani del mare
Offerte a uomini da nulla
Sentiero glorioso sul sentiero delle stelle marine
“Alcachofas alcachofas” la mia bella Madrid
Dagli occhi di stagno dalla voce di frutta
Aperto ai quattro venti
Vapor di ferro ondate di ferro
Sono gli splendori del mare
Bisogna prenderle intatte
Quelle sui rami spezzati rovesciati
Sui sentieri delle stelle di mare
Dove porta tal sentiero al dolore porta
Gli uomini cadono quando vogliono rialzarsi
Gli uomini cantano perché hanno assaporato la morte
Eppur bisogna andare
Calpestare
Il sentiero delle stalle marine con colonne di incertezza
Ma ci si impiglia nella voce delle liane
“Alcachofas alcachofas” la mia bella Madrid dalle luci basse
Aperta ai quattro venti
Che mi chiama – lunghi anni – d'ortiche
Testa di figlia del re figlia di puttana
Ê una testa è l'onda che si spezza
Comunque è il sentiero delle stelle marine
Che si sono aperte le mani
E non parlano della bellezza dello splendore
Null'altro che riflessi di minuscoli cieli
E impecettibili strizzate d'occhio tutt'intorno
Onde spezzate
Predone marino
Ma è Madrid aperta ai quattro venti
Che calpesta le parole nella mia testa
“Alcachofas alcachofas”
Capitelli di grida irrigidite

Apriti cuor infinito
Per penetrare il sentiero delle stelle
Nella vita innumerevole come la sabbia
E la gioia dei mari
Che contenga il sole
Nel petto dove brilla l'uomo di domani
L'uomo d'oggi sul sentiero delle stelle di mare
Ha piantato il segno avanzato della vita
Come va vissuta
Il volo liberamente scelto dall'uccello fino alla morte
Fino alla fine delle pietre e delle etá
Gli occhi fissi sulla sola certezza del mondo
Da cui scorre la luce spazzola a fil di suolo

Tristan Tzara
Trad. genseki

mercoledì, settembre 15, 2010

Merli e limoni

Tutti avevano un limone nel giardino
E tutti i merli che lo perforavano
Di fitte e punture ancora piú gialle
Tutti avevano un merlo nel giardino
O nel fondo del mare o di se stessi
Frondoso lasciava cadere le sue note
Come monete nude tra i limoni
Alcuni poi avevano merli e limoni
Nel giardino in casa nel cuore
Si scambiavano nome e cognome
Limoni e merli amari e verdi
E aspettavano la morte come una mandorla
Adagiando il capo dissetato
Sul candido frescore del cuscino.

genseki

Tristan Tzara

Le porte si sono aperte senza rumore sono ali
Di gravose lande dalle braccia distese
Steppe di ferro scavalcano i canali
Ove si sparsero le ossa delle carovane perdute
I corpi tesi delle strade pensili
Bruciano il gargarozzo delle folle fredde
Selvaggia luce dorme nel letto del fiume
La vitrea prora dell'aria fende
Occhi maturano nel carcere del mare
Dormono nei numeri
Ciottoli piatti tra i raggi nutrienti
Nessun dolore tenta onde di labbra
Noia naufragata sulla spiaggia dei selvaggi tessuti
Le clessidre dei corpi del sole
Fissano l'ora e l'aratro
Fumo
Linea
Boa
Nube di fiumi impetuosi riempie la bocca arida
L'uomo ni incontra l'uomo
Non incontra la barriera di pietra e i ghiacciai di uomini nudi
Nudi non hanno visitato questi luoghi sono ali
Le porte si sono aperte senza rumore
Nessuno tremerá – un grido tormenta la lana
L'esistenza stessa
Le pessime tracce delle tormbe
Perforatrici di tempeste sono ancora ali
Sotto scaglie radicali si crogiola un sole di millenari avvoltoi
Suonano lampi nella spossatezza delle acque.

Da: Ove bevono i lupi
1932

trad genseki

martedì, settembre 14, 2010

Fado Menor

Stephan Hermlin

Come sorge la poesia


Stephan Hermlin

A undici, dodici anni avevo scritto qualche poesia, Per lo piú dipendevano abbastanza fedelmente da altre poesie che mi piacevano o da un pensiero che vi avevo incontrato.
Mi interessavano le fome poetiche e mi esercitavo nell'ottava e nel sonetto, Tuttavia, mentre mi sforzavo in questi esercizi, giá avevo coscienza che le mie poesie non erano buone. Sentivo che i miei pensieri non meritavano di essere comunicati, e che io non ero in condizione di dare la forma che avevo scelto alle mie idee e ai mei sentimenti. Ogni tanto distruggevo il materiale che era venuto poco a poco accumulandosi ma nella mia vanitá giovanile non volevo comunque rinunziare a mostrarne qualche frammento ai miei genitori oppure ai loro conoscenti, Le lodi che mi aspettavo e che mi venivano concesse copiose in molte occasione mi facevano vergognare appena le avevo ricevute.
Quella sera a Ferch non avevo una intenzione particolare, non avevo pensato al metro o alla strofa. La sera era sempre piú profonda. Immobile fissavo i versi che avevo appena finito di scrivere. Non sapevo se fossero buoni, ma sentivo che era la mia prima vera poesia. Avevo allora quindici anni. Per un caso fortunato posseggo ancora quella poesia. Essa fu pubblicata un anno dopo in una antologia che molto tempo dopo la guerra ho ritrovato in una librería antiquaria. All'imbarcadero di Fech appresi per la prima volta come sorge una poesia. Non avevo nessun piano, nessuna meta, non avevo preparato nessuno schema di rime, venne la sera, percepii un lievissimo movimento che doveva durare da prima che io me ne accorgessi, gradualmente ma sensibilmente come i colpi lievissimi delle onde, contro i pali dell'imbarcadero, un fluttuare in me, un ritmico martellare e una stanchezza del respiro come delle acque che andavano facendosi scure. Da questa vibrante base sorsero due o tre parole senza relazioni tra di loro. Da quel momento cominciai a prendere sul serio le mie poesie anche se non troppo sul serio, me lo impediva la convinzione che in Germania, per quanto riguarda la poesia e la musica era impossibile superare ció che giá era stato fatto. Avevo in mente la frase di un poeta secondo il quale un uomo avrebbe potuto, nel corso della vita, scrivere sei righe decenti. Questa affermazione era contraddetta da quella di un altro poeta che che vedeva ciascuna delle sue parole, e non ne era certo avaro, come scolpite nel marmo davanti a sé. Questa seconda affermazione non ebbe un effetto significativo su di me. Mi sembrava molto piú importante la frase del primo poeta il quale non mi toglieva tutta la speranza.
Scrivere poesie divenne per me un'abitudine. Sembrava che le poesie stessero in attesa e dovessi solo chiamarle quando ne avevo bisogno. Quello che producevo risentiva delle circostanze della mia vita, degli obiettivi politici che, con altri, mi prefiggevo di raggiungere, la societá che mi pareva degna di sforzo. Tutto mi era facile tra ventidue e trenta anni – quando finí la guerra; qualche mese prima a Zurigo era uscita la mia prima raccolta di poesie. Ricordo che un giorno andai di librería in librería lungo la Bahnhofstrasse per poter vedere il mio libro esposto. Ero gioiosamente eccitato, come se avessi finalmente portato a destinazione un dispaccio, che per lungo tempo avevo portato come un gravame. Questa ingenua soddisfazione non si è poi piú manifestata. Potevo leggere molte cose amichevoli su di me, presto, peró ascoltai anche alcuni critici affermare che ero un adepto inguaribile del formalismo e di metodi inutilmente difficili. Attraversavamo un periodo in cui, per caratterizzare, molti usavano la parola “complicato”. Io
cercai di cambiare la mia poesia in conformitá con alcune di quelle opinioni. Il desiderio di essere utile divenne dominante. Un'amica straniera a cui mi confidai mi contraddissi con foga: nesuna poesia poteva essere utile nel senso da me indicato almeno per i lettori più avanzati. La sola utilitá possibile della poesia se si voleva usare questo concetto assurdo, consisteva nel suo costante rinominare l'apparentemente banale, nella sua funzione di ringiovanimento, nel suo richiamare alla coscienza ciò che era andato perduto. Mentre ella ancora parlava io mi sentivo sempre meno convinto dalle sue parole. Non potevo darle completamente torto, ma io vedevo la poesia, anche la mia costretta in obblighi e relazioni, non potevo restare fuori del tempo in cui vivevo e io perseguivo la poesia impura, non quella pura. Nel corso della mia vita ho incontrato in molti paesi, molti poeti del tipo puro di cui sono anche diventato amico. Mentre le parole della mia amica andavano affievolendosi, io vedevo la linea rossa di sangue della poesia dal tempo di Ch'ü Yüan e di Ovidio fino a Andrea Chénier e Hölderlin e dalle terre aride dell'Harrar fino ai nostri giorni passare attraverso il carcere, l'esilio e la morte. Io stavo nella fossa dove era confluito questo sangue prima che io emergessi dall'ombra. Pensavo anche a quei giorni in cui la poesia mi aveva impedito di spegnermi di ridurmi alla semplice esistenza, a quei giorni in cui mi obbligavo a leggere giornalmente tre volumetti che portavo nello zaino tra le lettere, attraverso la guerra: un Hölderlin, uno Shelley, un Baudelaire, tutta la mia biblioteca.
Dopo un certo tempo a poco a poco i versi che che avevo scritto scomparivano dalla mia vita. Si perdevano come un leggero dolore al quale si è fatta l'abitudine e che una mattina con sorpresa e non senza un senso di vuoto scopriamo che non proviamo piú. Nessun ebbe la colpa, tranne me. Qualche cosa che aveva parlato tacque …
trad. genseki

giovedì, settembre 09, 2010

Dreiser Cazzaniga e la lettera di M.Beaumont



M. Beaumont fu una delle relazioni che Dreiser Cazzaniga stabilí nel fior della prima giovinezza e nelle quali perduró per voluttá di vergogna. Giovane solitario, dallo sguardo perennemente sfuggente, intento per gran parte del tempo di qualunque converasione a mordersi metodicamente quello che restava delle sue unghie, lento anche quando tale non pareva, di una lentezza indizio di timore e menzogna profondamente sepolti nell'anima sua, fu considerato da tutti nell'umido e nebbioso Barrio come l'amico del cuore di Dreiser Cazzaniga. Tale fu la convinzione popolare che quasi si fece ovvietá, e alcuni giunsero a tal segno che immemori della realtá affermavano convinti che i due fossero fratelli o quantomeno cugini. Io stesso, il vostro servitore, Genseki, ho udito tale affermazione da Papillon il maricón ufficiale del Barrio non piú di due anni fa.
In realtá M. Beaumont odiava Dreiser Cazzaniga. Lo tormentava con piccole, continue meschinitá, ripicche, brutalitá, rivalitá e menzogne. La vita vera di M. Beaumont era quasi completamente celata allo sguardo di Dreiser Cazzaniga. Questi soleva rinnegare l'amico suo con qualunque persona mostrasse disprezzo o avversione per lui.
Ora nel nebbioso Barrio di Briggio e nella luminosa Villareal quasi non v'era chi amasse Dreiser Cazzaniga. Dreiser Cazzaniga era suo malgrado un testimone della libertá e un certo indomabile amore, ancora oscuro e minacciato da altri istinti misti al peccato lo rendevano eccentrico e minaccioso, Come tale cioè era percepito. Non vi fu occulto nemico di Dreiser Cazzaniga che non ricevesse occulta solidarietá dall'oscuro Beaumont la cui culla stava nel Barrio di Briggio. Al Barrio di Briggio egli apparteneva nebbioso e torbido come la valle di Briggio come il suo antico fiume ignorato come le sue sporche, trascurate, industriali rovine. Dreiser Cazzaniga non apparteneva a Briggio, solo il caso volle ch'egli vi trascorresse la prima infanzia, per Dreiser Cazzaniga sempre Briggio restó un orizzonte geografico e architettonico, luce, autunno, nebbia, castagne, mosto, cinghiali, I suoi abitanti erano come ombre, come grigi profili sudici e opachi, Beaumont apparteneva a Briggio in corpo e anima e per questo doveva costantemente tradire Dreiser Cazzaniga. Dreiser Cazzaniga viveva nella vergogna e nell'ignominia e per questo tali tradimenti soleva perdonare.
Molti anni sono passati da allora, Dreiser Cazzaniga trovó infine la dignitá di allontanare da sé la querula ombra minacciosa di Beaumont. Questi, d'altra parte volse i suoi passi alle lontane sierre e lande patagoniche e qui si sarebbe potuto porre il punto finale alla molesta storia di un altro fallimento di Dreiser Cazzaniga sul piano delle relazioni umane. Il fato volle, peró che Dreiser Cazzaniga fosse avvertito dall'amico suo Spadaro di una lettera che Beaumont aveva intenzione di inviargli nella sua Andalusia. Lettera che aveva per scopo di riannodare una amistá che invero Beaumont non aveva mai considerato finita. Voleva continuare a infierire sul groppone del povero Dreiser Cazzaniga! Dreiser Cazzaniga aspettó a lungo la lettera con la ferma intenzione di bruciarla senza leggerla. La lettera noin giungeva, Il sogno di Dreiser si faceva ogni giorno piú fermo e ardente, arricchivasi di nuovi cavallereschi particolari. La lettera non giungeva. Dreiser giounse, invece al punto di desiderarer che la lettera non desiderata giungesse per poter provare a se stesso che si era liberato di Beaumont e di Briggio e di Villareal. Non giungendo bruciava dentro di sé di ossessiva aspettativa. A tanto giunse l'ansia dell'attesa che si accorse infine con orrore di essere ancora in potere di Beaumont e della propria miseria. Non gli passó per la mente giá indebolita il pensiero di gettarsi scalzo ai piedi della Vergine Della Fuensanta nella sua salita al Monte Sacro avvolta nelle mantiglie, d'oro ricoperta tra le carole e le odi dei gitani per impetrare il suo aiuto. Soffrí e arse tutto quell'autunno penetrato dal sentimento della sua inconsistenza. Dreiser meschino. La lettera non giunse. Egli morto dorme nella sierra dove ancora aleggia lo spirito dei puri sufi. La lettera continua il suo viaggio. Non giungerá a colui cui era destinata. Beaumont sempre vive, ora nella lieta Campania spensierato bove pascola le sue insicurezze.
Se la sua missiva giungerá saró io, genseki, l'umile servo a bruciarla nell'inecenso come Dreiser lo volle.

A cura di genseki

Fede e dubbio

Credo che Sainte-Beuve abbia scritto da qualche parte che Chateaubriand era un libertino epicureo con una immaginazione cattolica. Certo doveva essere un arrogante. Tuttavia l'accusa di incoerenza che sembra suggerire Sainte-Beuve o chi per lui è tristemente fuori luogo. Esagerando come si suole fare nello stile aforismatico si potrebbe dire che solo chi possiede un vero, profondo e coerente immaginario cattolico puó essere un vero libertino. Chateaubriand ha un compagno piú cosciente anche se altrettanto arrogante nel Marchese Di Bradomín che come tutti sanno si autodefiniva un “Don Juan feo cátolico y sentimental” dove la molteplicitá delle relazioni contradditorie possibili tra i termini costituisce un vero e proprio tessuto d'una insospettabile coerenza.
La fede non è morale. La fede è immorale. La fede non è certezza, piuttosto dubbio. La fede è inseparabile dal dubbio piú disperato.
Queste righe di Chateaubriand dalle “Mémoires d'Outre-Tombe” sono il Dostoyeskij possibile nello stile impero:

“Siccome ho parlato delle cerimonie funebri che si ripeterono con tanta frequenza, vi descriveró l'incubo che mi opprimeva, quando, la sera, alla fine della cerimonia, passeggiavo nella penombra della basilica, che io pensassi alla vanitá delle cose umane tra quelle tombe in rovina è cosa del tutto normale: morale volgare, inseparabile dallo scenario di un tale spettacolo. Il mio spirito, tuttavia, andava oltre. Penetravo nella natura umana. Tutto è vuoto e assenza nella regione dei sepolcri? Non vi è nulla in tale nulla? Non vi è esistenza nel niente dei pensieri della polvere? Queste ossa forse non hanno una vita ignota? Chi conosce le passioni, i piaceri, gli amplessi dei morti? Le cose che hanno sognato, creduto, sperato sono forse come loro pure idee, naufragate con loro? Sogni, futuro, gioie, dolori, libertá e schiavitú, potere e debolezza, crimini e virtú, onori e infamie, ricchezze e miserie, talenti, genio, intelligenze, glorie, illusioni, amori, non siete che percezioni di un momento, trascorse con i crani spezzati in cui nacquero, con il petto annientato ove un tempo pulsó un cuore? Nel vostro silenzio, o tombe, se tombe, invero, siete solo s'ode un riso sardonico de eterno? Questo riso è Dio stesso, la sola ironica realtá destinata a sopravvivere all'intero universo? Chiudiamo gli occhi; riempiamo l'anima che dispera della vita con queste grandi parole del martire: “Sono cristiano”.
Mémoire d'outre-tombe
Terza parte – Libro III
Trad. genseki

La certezza pare piuttosto cemento del dubbio che della fede

genseki

giovedì, settembre 02, 2010

Il tempo e lo spirito

Certo ora che l'orizzonte sembra tanto oscuro da non permettere la percezione della prospettiva, da far dubitare che prospettiva ci sia, che un futuro sia possibile al di fuori della menzogna, dell'odio, della meschinitá della democrazia, delle sue guerre, dei suoi stermini, dello sfruttamento della cancellazione della memoria, della natura, della negativitá e deli divenire il testo di Hegel tratto dall'Introduzione alla storia della filosofia ci ricorda come la nostra prospettiva. la prospettiva possibile dal balconcino della nostra vita individuale sia tanto ristretta da non giustificare la disperazione.
La dialettica gramsciana tra pessimismo, ragione, volontá e ottimismo è qui sciolta, semplicemente tolta nell'assunzione della pazienza.


Il punto di vista attuale è il risultato di tutto il corso e di tutto il lavoro di 2300 anni: è ciò che lo spirito dal mondo ha raggiunto nella coscienza pensante. Non dobbiamo stupirci per la sua lentezza. Lo spirito universale pensante ha tempo, nulla lo induce alla fretta, dispone di una moltitudine di popoli, di nazioni il cui sviluppo o evoluzione è appunto un mezzo per la produzione della sua coscienza. … Nella storiauniversale i progressi sono lenti. La comprensione della necessitá di questo lungo tempo è un mezzo contro la nostra propria impazienza.
Hegel
Introduzione allo storia della filosofia
Trad. genseki

venerdì, agosto 27, 2010

Memorie di Dreiser Cazzaniga


Dreiser Cazzaniga e la sembianza

Dreiser Cazzniga sempre ebbe in uggia ogni adesione a una forma codificata dell'essere persona nel mondo. Dreiser Cazzaniga detestava i ruoli e le parti che la societá sembra cosringere con dura necessitá noi tutti mortali a rivestire. Era un rifiuto il suo quasi istintivo, incosciente, potremmo dire, che precedeva qualsiasi considerazione e analisi intellettuale o filosofica.
La possibilitá che questo rifiuto potesse avere una sua dimensione filosofica, che potesse rispondere a ragioni piú profonde di quelle che sembravano mosse dai capricci dell'istinto, Dreiser Cazzaniga cominció a intuirla quando già le prime canizie gli innevarono il capo.
La prima forma riflessa che questo rifiuto prese in lui fu quella dell'umorismo:Dreiser Cazzaniga trovava immensamente ridicolo, che so, un professore che recitava la sua parte di professore con la perfezione consumata di un attore di mestiere in ogni momento della vita quotidiana o di un cattolico che recitava quella del cattolico, un cameriere quella del cameriere e così via,
In realtá gli pareva che ciascuno esagerasse la sua parte, en accentuasse en accentuasse, comicamente appunto i caratte più marcati, come per l'orrore di poter scoprire di non essere nulla, un frammento fangoso di coscienza sottratto per un momento infinitesimale al nulla.
Il terrore di essere così pateticamente comico, ridicolo, inerme di fronte al personaggio che di volta in volta gli si offriva di recitare spinse Dreiser Cazzaniga allo sforzo costante di apparire sempre altro da quello che era. Allo sforzo di controinterpretare, anche se è pur vero che per un periodo vergognosamente troppo lungo della sua breve vita accetta di dar vita alla maschera dell'estremista di sinistra.
Grazie alla sua curiosa parlata e alla foggia peregrina di vestire Dreises Cazzaniga riuscí a sembrare. Non fu piú quello che era, ma agli occhi dell'orribile borgehesia alpina e pedemontana sembró sempre qualcun'altro.
Dreiser Cazzaniga fu la sembianza dell'altro. Si rivestí dell'interinitá come di una lorica. Quando appariva in pubblico la prima frase che gli era rivolta era: “sembri un gaucho”, “un pittore del XIX secolo” , “un marinaio danese” e così via, Dreiser Cazzaniga sembrava quello che non era, l'altro che era possibile che fosse e cosí difendeva la sua libertá interiore di essere nel vuoto come il vuoto e difendendola la negava consegnandola inerme all'odio della piccola borghesia alpina e pedemontana.
Tra tutte le cose che Dreiser Cazzaniga sembrava sembrare quella che piú frequentemente sembrava era un ebreo.
Quante volte gli dissero; - sembri un ebreo! -
Dreiser Cazzaniga stava malissimo nella pelle dell'ebreo, ma l'ebreo era l'altro assoluto per la miserabile comunitá che lo circondava, l'oggetto più elementare dell'odio e del disprezzo.

A cura di genseki

giovedì, agosto 19, 2010

Joe Bousquet


JOE BOUSQUET "entretien"
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Joe Bousquet


Joe Bousquet

Bisogna che ogni nuovo giorno sia sepolto nella persona di un uomo poterb risvegliarsi nel suo volto.
*
Non si torna alla luce sena attraversare la poesia.
La poesia non è piú un attributo del poema, ma l'attributo nascosto di ciò che esiste, il suo orizzonte nell'anima degli uomini, cioè l'orizzonte, in ciò che aspira all'essere, di ció che aspira alla morte.
*
Nulla ci accade che non sia rivestito della nostra anima: solo dopo molto tempo finiamo per riconoscrevi ció che abbiamo evocato. Il presente secolo è condannato se non puó controbilanciare la sua immensa notte con la sicurezza di alcuni individui che per la loro volontá hanno il privilegio di vedere e di dichiarare, Faró quello che posso per lui, ma non credo che si sia qualche cosa da fare, non riuscirá mai a comprendere che l'uomo o è un cuore o non è nulla: Voglio dire coraggio. Amore.
*
La paura di vivere resta nascosta nell'amore. Dissimulata cosí, non si chiama piú paura di vivere, ma piuttosto amore per la vita.
*
Poeta, ció che tu ami ti porterá via il cuore, di te non resterá che polvere, ma la tua sofferenza sará allora la tua persona.
*
Il corpo è il firmamento di ogni reale immaginabile. Siamo la carta di questo firmamento rianimata nell'angole ove fu nascosta.
*
Il miracolo è la sofferenza che ti rivela che tu non sei che te stesso.
Siamo tutti così, la notte ci mette al mondo, ma non vi trasporta che la nostra immagine e i nostri occhi, dove tutte le luci vengono a fecondarla. La notte che portiamo in noi è il focolare di ció che avremmo preferito di noi stessi,
*
Trad genseki

giovedì, giugno 17, 2010

Hishiryo

Ecco uno dei testi di Dogen relativi a Hishiryo, si tratta del primo paragrafo del ZazenshiN:

"Quando il maestro Yakusan Kôdô meditava in posizione seduta, un monaco venne a porgli una domanda: "Che cosa pensa Maestro restandosene cosí seduto per terra?" Il Maestro disse: "Penso il non pensiero" Domandó allora il monaco: "Come si fa a pensare il non pensiero?" Ripose il Maestro: "Con hishiryo".

La traduttrice dell'edizione francese dello Shôbôgenzô da cui è tratto questo brano del Zazenshin scrive in nota:

"... La parola shiryô è composta di due caratteri: Shi: pensiero e Ryô: misura e designa il pensiero analitico e discriminante. Ora, nel termine fushiryô (non pensiero) la parola shiryô è preceduta dal prefisso privativo fu-, in hishiryô dal prefisso privativo hi-. L'essenziale di questo dialogo dipende, effettivamente dalla sottile differenza semantica tra i due prefissi privativi: fu- e hi-.
Il primo indica l'assenza della cosa negata mentre il secondo indica la differenza di livello, di ordine."
Yoko Orimo
Shôbôgenzô Vol I
Pag 23
Nota 2
Trad genseki

La parola shiryô sembrerebbe poter essere fatta coincidere con il concetto hegeliano di "intelletto" mentre il prefisso hi- sembra poter svolgere la funzione del verbo "Aufheben". Coincidenze linguistiche e teoriche davvero sorprendenti che meriterebbero di essere approfondite e asseverate.
genseki

mercoledì, giugno 16, 2010

Hishiryo

Hishiryo di Dogen è un concetto che puó essere letto in modo fecondo sulla base della dialettica hegeliana? Ovvero è possibile un'ermeneutica dialettica di hishiryo.
Certo hishiryo è enunciato non come una legge ma descritto come una pratica, come un modo di funzionare della coscienza.
Questo modo della coscienza hishiryo non è l'enunciazione universale della dialettica? In che misura hishiryo è la forma della coscienza che aderisce all'imperamenenza, al divenire?
Il non pensiero in questo tipo di coscienza ha una struttura a prima vista lineare, è all'origine del pensiero ed è il punto o il momento del suo estinguersi: dal non pensiero sorge il pensiero e nel non pennsiero il pensiero si dissolve. Non vi puó essere pensiero senza non pensiero perché il pensiero non avrebbe né inizio né fine e quindi non avrebbe movimento interno. Un pensiero coagulato non lo si puó proprio concepire. Hishiryo sarebbe allora proprio questa forma: l'unitá inscindibile di pensiero e non pensiero non in sé ma in quanto oggetto della coscienza. La coscienza si identifica normalmente con il pensiero, la coscienza che si identifica con l'unitá di pensiero e non pensiero è la coscienza hishiryo, la coscienza dialettica.
genseki

1000

Quella precedente era la millessima entrata del blog che mi permetto di celebrare con Saint-john Perse in una mia non molto felice traduzione.
Perse forse il piú rigoroso seguace di Rimbaud, l'autentico continuatore anche se con una sottile vena imperialista coloniale e archeologica che la freschezza dell'ira rimbaldiana non prevedeva tra i suoi registri.
Perse, un Rimbaud piegato da molti anni di Africa, reso esatto e tagliente dai tropici e dal dominio.
Non potro mai dimenticare la bellezza cui si aprí il mio cuore alla prima lettura di Anabase!
Ora i cavalli della pioggia mi portano fino in fondo al verbo, prima di addormentarmi mentre le gocce crepitano sullo zinco del "poyo" e le bacche amare del giardino avvelenano lentamente il mio vecchio pastore belga.

martedì, giugno 15, 2010

Saint-john Perse


Piogge

Piogge

Il banano della pioggia getta le sue radici sulla cittá
Un polipo frettoloso raggiunge le sue nozze di corallo nel latte d'acqua viva
L'idea nuda come un reziario pettina nei giardini del villaggio la sua chioma di bambina.
Canta, poema, nel tumulto delle acque l'imminenza del tema:
Canta, poema, nel vortice delle acque l''evasione del tema:
Alta licenza nel fianco delle Vergini profetiche,
Sbocciare di ovuli d'oro nella notte screziato del limo
E il mio letto, pronto, inganno! Alla frontiera di un tale sogno-
Proprio ove si avviva e crersce e comincia a girare la rosa oscena del poema.

Terribile Signore del mio riso, ecco la terra fumante del tanfo della selvaggina.
Vedova argilla sotto l'acqua vergine, terra lavata al passo d'uomini insonni,
E, fiutata, piú da vicino come un vino davvero rende smemorati?
Signore, terribile Signore del mio riso! Ecco il rovescio del sogno sulla terra.
Come la risposta delle alte dune alla progressione marina, ecco, ecco
La terra usata, l'ora nueva nei suoi scialli e il mio cuore visitato da una strana vocale.

II

Nutrici piene di sospetto, corteggiatori dagli occhi velati di maturitá. O piogge! Per le quali
L'uomo insolito mantiene il suo contegno che diremo questa notte a chi renda altezzosa la nostra candela?
Su quale nuovo letto, a che testa tetragona rapiremo mai la scintilla che ci vale?

Mute Ande sul mio trettp, ho una acclamazione scrosciante
Dentro di me, per voi o Piogge!
Porteró la mia causa davanti a voi: sulla punta delle vostre lance il mio bene piú certo!
La spuma delle labbra del poema come latte corallino!

E colei che danza come un incantatore di serpenti alla soglia delle mie frasi.
L'Idea, piú nuda che un coltello nel gioco dei volti.
Mi insegnerá il rito e la misura contro l'impazienza del poema.

Terribile Signore del mio riso, liberami dalla confessione, dall'accoglienza e da canto
Terribile Signore del mio riso, che offesa nelle labbra dello scroscio!
Quante frodi sotto le nostre piú alte migrazioni!
Nella notte chiara del mezzogiorna, anticipiamo piú di una proposizione
Nuova sull'essenza dell'essere.... o fumi presenti sull'altare del lare!
Tiepida allora la pioggia sui nostri tetti finí ugualmente per spengere
Le lampade nelle nostre mani.

III

Sorelle dei guerrieri di Assur furono le alte piogge in marcia sulla terra;
Con caschi piumati ben dritte, con speroni d'argento e cristallo
Come Didone premendo l'avorio alle porte di Cartagine.

Come la sposa di Cortés, ebbra d'argilla, tatuata tra le sue alte piante apocrife...
Ravvivavano di notte l'azzurro nelle culatte delle nostre armi.
Popoleranno Aprile nel fondo degli specchi dei nostri alloggi!
Non mi curo di obliare il loro scalpiccio alla soglia delle aule d'abluzione;
Guerriere, o gueriere per lancia e freccia fino a noi appuntite!
Moltiplicate ballareni di danza e d'attrazione terrestre!
Son armi a bracciate, ragazze a carrettate, ditribuzioni di aquile alle legioni
Un levarsi di picche nei suburbi per i popoli piú giovani della terra fasci rotti
Di vergini dissolute
O grandi manipoli scatenati! Ampi, vivi raccolti in braccia virili investiti!
… E la cittá è di vetro sul piedistallo di ebano, la scienza allo sbocco delle fonti,
Legge lo straniero, sui nostri muri i grandi manifesti annonari,
Nei nostri muri la freschezza, dove l'indiana questa notte riparerá a casa del nativo.

Saint-John Perse
Piogge 1946
trad. genseki

lunedì, giugno 14, 2010

La giustizia

... penso alla frase di Samuel Beckett, una frase un po' strana "veniamo al mondo nella giustizia ma non ho mai sentito dire il contrario", è una frase strana, la possiamo comprendere a partire dal momento in cui comprendiamo che la giustizia è un presente, il presente di una trasformazione e conseguentemente stiamo nella giustizia quando condividiamo un tale presente, quando mi trovo in una riunione con i miei amici africani, sto nella giustizia e nessuno puó dire il contrario, non stiamo soltanto a favore della giustizia o a causa della giustizia, stiamo dentro la giustizia, e questa dimensione è, credo fondamentake, la giustizia sta sempre nel presente e io la definirei come un presente attivo,
Alain Badiou
L'Idea di giustizia
Rosario Argentina
2 Giugno 2004
trad genseki

venerdì, giugno 11, 2010




Stupidaggine

Ecco un esempio di stupidaggine zen che indurrebbe a pensare che il pensiero di Dogen è condannato dai suoi seguaci a restare confinato nell'ambito di una subcultura:


"René Descartes comincia la sua riflessione filosofica con il detto: "Cogito ergo sum" - penso dunque sono. Anche i filosofi tedeschi Kant e Hegel mettono l'esistenza di uno spirito alla base della loro riflessione filosofica. Nel buddismo invece, quando parliamo di spirito, ci riferiamo a qualche cosa che supera la dimensione del pensare e della coscienza, perché lo spirito comprende l'universo intero."

Michel Bovay
trad. genseki

Hishiryo

Il pensiero hishiryo è l'attivitá mentale che contiene il pensiero e il non pensiero. Che cosa significa queto contenere? Lo si puó comparare utilmente con un "Auhebung"? Cioè hishiryo è il superamento dialettico che toglie il pensiero e il non pensiero elevandoli a uno stadio di attivitá mentale superiore?
Sembrerebbe che il momento del non pensiero sia il momento della negazione del pensiero e che quello di hishiryo rappresenti la negazione di questa negazione, Il risultato del processo è hishiryo cioé la negazione della negazione del pensiero esperita nella "pratica". In hishiryo il pensiero è presente attraverso la sua negazione a sua volta negata,
Il pensiero di Dogen è cioé integrabile nella nostra tradizione filosofica? Questa è una integrazione possibile? Il pensiero di Dogen certo non merita di finire "yogizzato" o "oshizzato", puro prodotto da eboristeria biodinamica e serenitá a un certo prezzo, Il pensiero di Dogen merita di essere sottratto all'orientalismo e confrontato con Hegel e Spinoza fino a perdere la patina fastidiosa di orientalismo nipponizzzante che lo rende opaco . Il non pensiero è la forma che il pensiero ha nei corpi?
Il pensiero di Dogen puó essere liberato dai maestri zen? Da coloro che pensano che la cultura occidentale sia Sgarbi? È posssibile leggerlo senza assumere il bavoso atteggniamento intellettuale che si esprime nella frase oscena: "L'occidente non sa piú ma gli orientali hanno sempre saputo" e altri simili automatismi mentali? È poossibile un Dogen tradotto nella forma del sonetto e non nella spuria barzelletta degli pseudo haiku da medidatore da palestra?

giovedì, giugno 10, 2010

Blog chiuso

Il fatto che questo blog si definisca chiuso non vuol dire che non vi saranno piú nuovi testi, vuol dire che i criteri di apparizione dei testi risponderanno esclusivamente a una logica di sviluppo interno.
Al principio di questa attivitá avevo pensato che questo strumento di comunicazione permettesse di svuiluppare una comunicazione creativa e collaborazioni feconde tra molte esperienze individuali.
In realtá non c'é niente di piú autoreferenziale di un blog, e lo spazio dei commenti, dei blog molto frequentati è una seria di dichiarazioni che non giungono mai veramente a costituire una relazione dialettica con le altre.
Il fatto che questo blog si definisca chiuso vuol dire che intende scegliersi i lettori, anche tra i pochissimi che passano di qua, secondo i suoi propri criteri interni, Non vuole essere letto dal primo venuto e crede che se il primo venuto se lo merita debba sentirsi scomodo tra questi testi.
genseki

Hishiryo

Il pensiero hishiryo puó essere interpretato come la forma pura del pensiero dialettico? Tanto per essere un po' rozzi si potrebbe schematizzare in questo modo:

Pensare con il pensiero
Non pensare con il pensiero

Sintesi: Hishiryo, pensare senza pensiero

Ovvero pensare con un pensiero che contenga in sé il pensiero e il non pensiero. Questo sembrerebbe poterlo riassumere nella forma di un pensiero semplicemente assolutamente cosciente di sé ma molto dipende dal contenuto che si da all'espressione di Dogen "non.pensiero".
"Non pensiero" puó essere inteso come lo sfondo di coscienza necessario perché il pensiero possa delinearsi, lo spazio del pensiero e anche il suo tempo, lo spazio tempo del pensiero che costituisce il campo in cui il pensiero stesso si espande e che è difficile distinguere dal pensiero perché ha la sua stessa estensione. Il pensiero crea il suo spazio e il suo tempo, quindi il suo non pensiero e pensiero e non pensiero sono inseparabilmente legati come le due famose facce del foglio bianco, hishiryo sarebbe dunque la coscienza chiara di questa struttura del pensiero.
Per "non pensiero" si puó intendere tutto ció che non è direttamente pensante, ciòé la materia stessa che costituisce l'universo e il nostro corpo immobile, non direttamente pensante per la coscienza che in quanto pensante si percepisce come appunto separata dal corpo. "Non-pensiero" sarebbe quindi lo sperimentare il pensiero nella sua relazione con la sua materia, il processo del pensiero come immanente al corpo, la forma che la coscienza diretamente non sa cogliere che il corpo ha di pensare.
Si puó anche avanzare che il non pensiero sia entrambe le cose e quindi hishiryo la sintesi di entrambe: il non pensiero dei corpi sarebbe il campo dello spazio e del tempo del pensare della coscienza.
genseki

Ancora sull futuro

Visto da qui, il futuro assume una forma nuova, Quanto piú vasta si stende la regione del passato, tanto più si restringe quella del futuro, Non del Futuro, del futuro, di quello individuale, di quello del soggetto, dell'io, Ormai posso dire di non avere piú nessun futuro possibile come individuo e che sono finalmente in grado di considerare il Futuro in sé, non reso opaco dalla possibilitá di una mia ingombrante presenza che mi obbliga a vederlo attraverso di essa come attraverso un vetro molto opaco, Senza di me in mezzo il Futuro si fa cristallino, fresco, sonoro, libero come un gioco a cui tutti possono giocare dalla molecola al professore, dalla foglia alla stella, La sparizione della proiezione di me nel futuro, del futuro come mio futuro lascia finalmente libero il Futuro di essere semplicemente come è. Sulla soglia tra l'intimitá del passato e l'illimitata libertá del futuro resto seduto, incerto, speranzoso di una recente bellezza, con una mano dentro l'altra come un piccolo nido per il germe del divenire
genseki

lunedì, giugno 07, 2010

Questo blog chiude

Questo blog chiude oggi, Il cammino verso la liberazione delle parole da quanto le rende utensili, stupidi mattoni di un significato insignificante, il chiudersi progressivo o il dischiudersi del futuro a ogni prospettiva che permetta di pensarlo, il ritorno del futuro come puro elemento del ricordo e quindi come forza che sola puó redimere il passato, gettare luce nella sentina del trascorso. Tutto questo è un viaggio che genseki debe compiere da solo.
Gli amici, i pochi: la gaBiota di Solentiname, Lu Spataro di Quittengo la luminosa Maresa di bellezza dolente fibra a fibra e i pochi altri che qui non menziono per insicurezza potranno continuare a leggere i messaggi che continueranno ad apparire, le poesie e le traduzioni e il gentile Florestan con loro. Chi cerca senza facili illusioni oltre la barriera del dolore e del senso, la nostalgia del soggetto nel suo indicibile dirsi, ebbene anche lui forse potrá decidere di perdere qui il suo tempo. Per tutti gli altri questo blog è chiuso non potranno piú leggervi niente di nuovo anche se, forse avranno l'illusione di poterlo fare.
Addio
genseki

Il non ancora conscio

Il non-ancora-conscio, è certo, tanto preconscio come l'inconscio della repressione e quello del'oblío, e nel suo genere, è perfino un tipo di inconscio che presenta tante difficoltá e offre altrettanta resistenza che l'imconscio dell repressione. Tuttavia il non-ancora-conscio non è subordinato in assoluto a una coscienza manifesta, bensí solo a una futura, a una che deve ancora sorgere.
Il non-ancora-conscio è pertanto solo il preconscio di ció che deve venire, la sede psichica ove nasce il nuovo.
Si mantiene soprattutto preconscio perché in esso ci viene dato un contenuto di coscienza che ancora non si è manifestato, che sorgerá solo nel futuro; in ogni caso deve ancora sorgere obiettivamente nel mondo.
Ernst Bloch
Da Principio Speranza
Trad. genseki

Il compito del ricordo

La politica da ora verrá primo della storia. I fatti diventano qualche cosa che semplicemente è appena accaduta, definirli è il compito del ricordo. Davvero, il risveglio è il paradigma del ricordo: il momento in cui riusciamo a ricordarci del passato piú prossimo, piú banale, piú manifesto.

Walter Benjamin
trad. genseki

lunedì, maggio 31, 2010

Sul ricordo

Sul ricordo

Il testo precedente di Hamann, il mago del Nord, mi ha richiamato alla memoria quello celebre di Bordiga: la societá futura influisce giá su quella presente. Sorprendente concordanza tra l'antirazionalista Hamann e il rigoroso dialettico. O forse sorprendente neppure tanto, forse un'ulteriore conferma nell'involontaria e segreta vena gnostica dell'ingegnere napoletano.
Per quanto riguarda la fenomenologia del ricordo, ebbene il ricordo è in relazione con il futuro nella forma piú semplice de inmediatamente evidente: chi non ha futuro non ha nemmeno ricordi. Sospetto, pur non avendo mai potuto sperimentare uno stato simile che anche chi non abbia assolutamente piú speranza non abbia nemmeno piú ricordi. Il ricordo, poi, come oggetto del ricordare si dispiega da un passato a un futuro: quello che non ricordo oggi, forse lo ricorderó domani. Ricordare è qualche cosa che ha uno svolgimento temporale lineare. Vi è una modalitá del ricordare che seleziona i ricordi in funzione del futuro, sperato, desiderato o anche piú spesso temuto. Se il ricordo ha bisogno del futuro e se ove non vi è futuro nemmeno vi è ricordo è altresí vero che l'universo del ricordo si ampia nella misura in cui il futuro si assottiglia. Nella nostra vecchiaia regnamo su un vasto impero di ricordi, in esso ci rifugiamo, troviamo protezione e di esso godiamo riposandoci in esso delle fatiche dell'aver vissuto. Il limite del minimo futuro è quello della maggior estensione del ricordo, ma quando non vi è piú futuro nemmeno vi è piú ricordo.
genseki

Hamann

Il futuro determina il passato

Come si puó pretendere di avere un concetto adeguado del presente senza sapere del futuro? Il futuro determina il presente e questo determina il passato, cosí come l'intenzione determina la natura e l'uso dei mezzi.

Hamann
Trad genseki

Jean Paul


Jean Paul

Il ricordo

Precisamente per questa ragione, tutta la vita ricordata brilla come un pianeta nel cielo, cioé la fantasia integra le sue parti in un tutto sereno e concluso, Allo stesso modo avrebbe potuto costruire una totalitá torbida, ma i castelli in aria pieni di camere di tortura la fantasia pereferisce situarli nel futuro soltamto, come i Belvedere soltanto nel passato. A differenza di Orfeo, otteniamo la nostra Euridice volgendo lo sguardo indietro e la perdiamo se guardiamo davanti.

Jean Paul
Introduzione all'estetica
trad, genseki

domenica, maggio 30, 2010

La lontananza

Vi sono due tipi almeno di lontananza: una è la lontananza che è tale in assoluto e può essere definita, per esempio dalla distanza geografica, oppure dalla separazione emotiva o dalle due insieme. Questa è la forma falsa della lontananza, una lontanza astratta, paralitica, infeconda, incompleta, aliena alla sua propria pienezza, incapace di compiersi come tale. Vi è poi una lontananza che è tale solo in quanto contiene in se la vicinanza, la prossimità, che l'avvolge quasi a proteggerla, che la custodisce nella sua intimità. È la vera lontananza, quella che costituisce come madre della prossimitá, che permette alla prossimitá di riconoscersi come tale. Che la porta alla luce, insomma. Nessuno puó essere davvero lontano da qualche cosa di cui non sia assolutamente prossimo. Prossimo nel ricordo, nel desiderio, nell'odio, nella nostalgia, ma prossimo, Proprio attraverso la lontananza ciscuno so riconosce prossimo di qualche cosa nelle diverse modalitá possibili di prossimitá. È il movimento di allontanmarsi che apre lo spazio ovattato della prossimitá in cui accovaciarsi ascoltando i propri cuori, i propri duplici fiati,

genseki

L'evocazione di Dreiser Cazzaniga

Le note e le pagine che Dreiser Cazzaniga ci ha lasciato raccolte nella rubrica delle sue memorie sono destinate a un lettore, un lettore particolare cioé un tipo particolare di lettore ma anche un lettore concreto che viene poco a poco evocato nel testo fino a prendere la forma del Curatore. In questo senso Genseki è una evocazione, se non una creazione di Dreiser Cazzaniga, L'attaccamento all'insuccesso, quando non direttamente alla disfatta che caratterizza la vita e l'opera di Dreiser Cazzaniga non gli consentiva di sperare di poter trovare un lettore empirico delle sue memorie, se non vi è lettore empirico, se manca il destinatario concreto è l'autore stesso che puó evocare un tipo di lettore che giunga ad essere il lettore, il Destinatario. Cercando di realizzare questa idea Dreiser Cazzaniga la sviluppó fino a evocare la figura di Genseki, il Curatore. Genseki è quindi un personaggio delle memorie di Dreiser Cazzaniga, forse è un po' pretenzioso definirlo un personaggio, ma insomma qualche cosa di molto simile a un personaggio anche senza i contorni ben definiti di un vero personaggio e come quasi-personaggio svolge il ruolo di Curatore. Proprio come Curatore delle memorie di Dreiser Cazzaniga Genseki è in una certa misura l'autore di Dreiser Cazzaniga. È lui che sceglie e assembla i materiali lasciati da Dreiser Cazzaniga e li propone in forma narrativa. Dreiser Cazzaniga in cerca di un lettore finisce cosí per creare egli stesso il proprio autore.
Qual è, tuttavia, la natura del materiale che Genseki assembla per costruire l'immagine che Dreiser Cazzaniga desidera prenda forma di se stesso? Da un punto di vista strettamente materiale, abbiamo visto, si tratta di una variegata congerie di testi su differenti supporti cartacei piú o meno ortodossi, tutti coloro che lo conobbero sanno come Dreiser Cazzaniga, ossessionato dall'esigenza di una vita austera e in qulache caso francamente avaro fossr solito raccogliere volantini pubblicitari per utilizzarne la parte posteriore. Con tali volantini assemblava veri e propri quaderni su cui copiava poi le su note. Dal punto di vista del contenuto si tratta invece di ricordi,
le Memorie di Dreiser Cazzaniga non sono quindi un testo narrativo, i ricordi non si possono raccontare, pensva Dreiser Cazzaniga, solo si possono costruire, combinare, organizzare e in qualche caso anche percorrere ma non raccontare. Il racconto dei ricordi ha solo in apparenza una forma narrativa.

mercoledì, maggio 26, 2010

Il grande animale

a Edoardo Sanguineti

Su questo nastro di Moebius a cui è stato laminato
Il nostro orizzonte percettivo
Nessun foglio possiamo nemmeno piú voltare
Tutti i fogli hanno una faccia sola
E anche quella sola infinita
Che comincia e sempre termina in un supermercato cinese
Dove gl impiegati sudano soia
Che macchia le camicie di terital proprio sotto l'ascella
E tanti cristi ballano con il cuore fosforescente
Strettamente serrato nella mano
Invano cerchiamo di sollevare qualche cosa per guardarci sotto
Nemmeno lo zerbino ha un sotto dove nascondere la polvere
Pascoliamo in questo prato di moplen
Con un fiore finto nella mano.

genseki

Da Purgatorio dell'Inferno

questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro: e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente

Edoardo Sanguineti

Di quante altre vite

Di quante altre vite crepitando a capofitto
Con il casco da motociclista e l'olio d'oliva restato troppo a lumgo al sole
Di quante altre vite cone le dita dei piedi divaricate
La crema solare le spiagge di ceramica l'azzurro delle camicie
Le nuvole pareveano camicie di altra biancheria gocciolando
Sul selciato e la pescheria con i suoi riflessi di rose sul ghiaccio
Di quante altre vite questo infrangersi di ricordi,
Chicchi di ricordi, grandine di ricordi, ghiaia di ricordi
Su cui distratta passeggia la mente come su un tappeto regale
Un re smemorato nudo come solo un re
Come un bambino che getta manciate di ricordi contro il sole cieco
Contro il sole che come una lucertola percorre il muro del cielo
E perde la coda sfibrata in raggi e raggi
Su questo spolverio di ricorsi triturando fino a quell'insegna
Fino al feltro al faggio al prato marcio d'acqua
Al come strisciava i piedi sulla corriera numero trentaqauttro
Ricordi sempre minuziosi le amiche che stendono ilari
Camicie ai fili che vanno da collina a collina le loro dita bianche
O ti sfiorassero appena, ricordo pulviscolo la bambina
Sporge dal pozzo con tutta la testa
Era caduta nel mondo nero mentre correva nel campo di segale
La terra cosí grassa fuma
Di quante altre vite come lucertole tra le rose come la serpe
Al bordo dello stagno quando la stagno è occhio
Come la serpe e la lucertola in una danza geometrica
Attorno a quello che resta del sole senza

genseki

martedì, maggio 25, 2010

L'ombrello di Dreiser Cazzaniga


Il matrimonio di Lydia Rosino II


Il primo appuntamento di Dreiser Cazzaniga con Lydia Rosino ebbe luogo in un autunno agonizzante sulle sporche colline di Cairuan, Dreiser Cazzaniga, in un momento di disperata solitudine, dopo aver sfogliato malinconicamente la piccola agenda del telefono, la chiamó per comunicarle come, grazie al suo successo in una prova di concorso, aveva conseguito uscire dall'interinitá e divenire titolare di una piccola prebenda, cosa alla quale la bella Lydia Rosino aspirava con tutte le sue povere forze: la titolaritá di una prebenda vitalizia; da parte di Dreiser Cazzaniga si trattava, invero, di un meschina soddisfazione alla sua vanitá, egli non era in grado di calcolare le conseguenze del suo gesto, sull'anima infreddolita della povera Lydia Rosino. Con una certa sorpresa registró come la bella Lydia Rosino gli proponeva un appuntamento nel borgo sporco di Cairuan, dove ella viveva, per una passeggiata sulle colline sporche dei dintorni tra le rovine dell'estremo autunno. Dreiser Cazzaniga si recó all'appuntamento con un basco di renna di origine lappone a quattro spicchi che aveva comprato a un mercato dell'usato di Berlino per un marco; una casacca da taglialegna dell'Oregon, pantaloni di fustagno da carrettiere della Langa e anfibi militari. I lunghi capelli uniti in una coda sulla nuca con un vezzoso nastro elastico. Lydia Rosino lo condusse in una lunga passeggiata durante la quale evitó con somma attenzione qualsiasi possibilitá di attraversare luoghi in cui si corresse anche solo il minimo rischio di incrociare esseri umani. Ella andava raccontandogli la sua vita di umiliazioni, di levatacce e di duro lavoro, di come il boia avesse finito per costringerla ad interrompere una relazione che ella giudicava insopportabile, di come il medesimo carnefice, stupefatto della sua decisione continuasse a perseguitarla bombardandola di telefonata e seguendola con la macchina. A una svolta del sentiero, in una radura che digradava verso un ceduo grigio tra l'erba marcia di pioggia si apriva un prato pieno di mazze di tamburo, cioè del fungo scientificamente noto come macrolepiota procera. Dreiser Cazzaniga non ne aveva mai viste di tanto grandi tutte insieme radunate. Pervano una flotta stellare di alieni benigni. Lydia Rosino diffidava dei funghi, cominció a raccontare storie di avvelenamenti e crudeli agonie che i buoni borghigiani cairuanesi si tramandavano di padre in figlio da generazioni. Dreiser Cazzaniga si mise a raccogliere quelle meravigliose fragili medadaglie bianche dal profumo di fumo e di cedro, signore dell'autunno al ballo di gala della putrefazione. Una era tanto bella che, per gioco, Dreiser Cazzaniga la portó via come fosse un ombrello: appoggiata alla spalla, Quando giunsero al borgo Lydia Rosino era terrorizzata. Gettava cautamente intorno sgurdi smarriti, Dreiser Cazzaniga insistette per finire l'incontro davanti a una cervogia tiepida e burrosa, Entrando nella caupona ella pareva scusarsi con tutti con uno sguardo ora umile ora sprezzante. Dreiser Cazzaniga non ci capiva niente.
a cura di genseki

giovedì, maggio 20, 2010

Amor topografico

A Lu Spadaro

Quando finalmente decise di spogliarsi – lei -
Cinquant'anni erano ormai trascorsi, anno più anno meno,
Con tutto il loro corteo di affanni e di biancheria sul ballatoio
Ne aveva portato mastelli interi e tutti quei marmocchi
Che davano la caccia alle lumache dei gerani per calmare la fame!
Comunque fu nuda, alla fine, davanti a lui perdiana!
Ora aveva chiara finalmente la geografia che aveva ossessionato
La sua calligrafia
Tutti i caratteri vena per vena, fino al boschetto dello zio Damiano
Dove mormorava la fonte e solevano andara a bere quel vinello verde
Di sambuco
I singhiozzi delle varici, le praterie e gli altipiani della nuca,
E tutti gli altri canyon con i loro poveri idioletti
La percorreva adesso, con il vecchio sestante era in grado
Di ritrovare la latitudine di ognuno dei suoi pori
Ma il profumo di pelle della pelle il profumo
Della terra dopo la pioggia, insomma,
Sorgeva tra di loro come un altro corpo ancora
Non avrebbe potuto abbracciarla, no, non così, non cosí
E poi lei aveva i piedi
Laggiú infondo alle gambe, in fondo, che viaggio
Per Ande e tendini fino ai piedi
Così lontani dall'anima: i piedi
Così insostenibilmente mortali.

genseki

martedì, maggio 18, 2010

Edoardo Sanguineti

Ballata delle donne

Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.

Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.

Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.

Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.

Femmina penso, se penso l'umano
la mia compagna, ti prendo per mano.

Ricordo

Non cedettero nemmeno quando fu piú prossimo l'evento,
Il sogno, lo schianto, insomma il tormento del vecchio
Che non ci si raccapezzava più tra tutto quell'alloro sparso
Il parco soffritto la terracotta che sapeva di pomodoro
Del pomodoro della sua gioventú, succulento, denso, mestruale
Ogni mese finiva per scuoterlo un nuovo ricordo, un nuovo frutto
Un'erba che ricordava di aver salutato al margine di una cunetta
Erano tutte sue le escursioni di una volta
Novembre a capofitto cadendo sul mare dalle colline putride di nebbia
Il mosto, l'affitto di quelle quattro stanze che puzzavano d'umido
Di castagne stantie
E ancora piú indietro il cerchio rosso del gotto di vino
Sul tavolo di legno dell'osteria dove tutti cantavano l'internazionale
Cercando di non pensare alle biciclette che avevan lasciato nel cortile
All'odore del lubrificante al profumo del sapone potassico.
I rubinetti avevano sempre macchie di verderame
Le pareti dei cessi mappe magiche di continenti di muffa e crepe
Il quotidiano fragrante adempiva tutte quelle su povere funzioni
No non cedettero no fino allo schianto
Allo schiaffo
E tutte quelle uova rotte sul pavimento tra i trucioli di segatura rossa
Che perna
Per il vecchio
Nessuno avrebbe piú potuto toglierglielo: il ricordo.

Gaetano Mezzasomá

Gaetano Mezzasomá

Le ricerche di Gaetano Mezzasomá si svolsero per decenni nella porzione di territorio montuoso compreso tra i borghi di Cavendole, Groggia, Grottasparata e Siriale. Potremmo definire la disciplina da lui fondata e che non ebbe praticamente continuatori di un qualche rilievo come una sorta di archeologia del significante o di psicanalisi della fonetica del territorio. I frutti della sua decennale attivitá di investigazione furono riuniti nell'opera monumentale “Sciré”, Si tratta di forme linguistiche che precedono il corpo che esprimono la pura costatazione dell'esserci del linguaggio. Non si deve dimenticare che una delle grandi passioni di Mezzasomá fu la micologia e che la sua altra debolezza scientifica fu la toponomastica, Il linguaggio dissemina le sue spore sonore molto prima che queste si nutrano di un senso, fatte tessuto e organismo. Il suono è il suono della terra, della vita biologica, delle forme metereologiche e geologiche del mondo. Il significante sibila sull'erba, molto prima che il senso pulsi al suo interno, molto prima che un corpo secerna un senso,
L'ascolto di Gaetano Mezzasomá capta la meraviglia del significante che fermenta nel mondo e ce lo porge con garbo e freschezza, in massime, metafore e canti.

gensek

Sulla vecchiaia

C'è un detto che suona cosí, quando si spengono le luci, allora si vede se la candela era di sego o di cera, in tal senso, neppure la vecchiaia è colpevole del fatto che sia deforme colui che invecchia, Ci furono societá che, a differenza dell'attuale societá borghese in decadenza non avevano paura di fissare in faccia la fine, possedevano e consideravano la vecchiaia come un frutto ricco di polpa, qualche cosa che vale la pena desiderare, qualche cosa di sano. Questo accadeva per esempio nel consiglio deglia anziani di Sparta, nel Senato della Roma repubblicana e in modo speciale nella nuova esperienza socialista. Ció che qui spesso si ode è qualche cosa di diverso da un destino al tramonto, qualche cosa di piú significativo de: “L'onore e questo volto invecchiato”; il fatto è che una spocietá fiorente a differenza di una societá condannata non vede con timore nel suo proprio riflesso la vecchiaia, al contrario vede negli anziani le proprie vette. Come ogni tappa vitale anteriore, la vecchiaia mostra un guadagno possibile e specifico, un guadagno che compensa il congedo dalle etá lasciate alle spalle. Invecchiare, quindi, non significa soltanto una tappa desiderabile della vita, in cui si è vissuto molto e in cui, alla fine si puó sperimentare ancora tutto il possibile. Invecchiare puó anche significare come situazione una immagine gradevole.: lo sguardo che abbraccia e, nel caso, il raccolto. In questo senso Voltaire diceva che per lo stolto la vecchiaia è come l'inverno, mentre per il saggio è la vendemmia o il tino. Essa non esclude la vecchiaia, piuttosto la comprende nella maturitá; l'anelo del ritorno alla gioventú perde il suo carattere doloroso proprio per aver maturato questo contatto con le generazioni che vengono dopo de è compensato, anzi, colmato con la sicurezza ora raggiunta, con la semplicitá e il significato. Gli ultimi anni di una persona conterranno, allora, tanto piú gioventú, e non nel senso mimetico, quanto piú riflessiva, la sua propria gioventú abbia sviluppato; le fasi della vita, allora, e con esse la gioventú, perdono allora i propri limiti rigidi, Il sano ideale del vecchio è quellp di una maturitá compiuta; una maturitá in cui è piú facile dare che ricevere.

Ernst Bloch
Il principio speranza
Trad. genseki

lunedì, maggio 17, 2010

Dreiser Cazzaniga e Cristo

Le relazioni di Dreiser Cazzaniga con Cristo sono di difficile definizione, Basandoci sulle sue memorie possiamo con sicurezza affermare che il suo primo incontro con Cristo fu una delle cose piú terribili che egli ricorda delle sua infanzia. L'altra cosa terribile, forse anche piú terribile che emerge dal magma primordiale dei suoi ricordi di Urkind è il grembiulino bianco impregnato del sangue del piccolo Bino, quando nell'asilo umido e sporco delle monache gli rovinò in testa lo scaffale delle pignatte. Dreiser Cazzaniga ricordó per tutta la vita il sangue rosso sul grembiule bianco, e la cosa peggiore, quella che proprio non poteva cancellare era che il grembiule non era propriamente bianco. Avrebbe dovuto essere bianco, in realtá era sporco, un poco giallastro e non era di vera stoffa ma di una specie di tela cerata che coperta di muffa giallastra e di sangue stinto assumeva un aspetto mucoso. Cristo invece lo minacciava dalla cappella oscura che si trovava alla sua destra, dall'altro lato della navata, un pò più indietro del punto ove era solito sedersi con suo padre per assistere alla messa delle sei. Nascosto tra i gigli, nell'oscuritá, il grande corpo grigiastro e sanguinoso pendeva con lo sguardo spento appena dietro la sua spalla, Il piccolo Dreiser Cazzaniga non osava voltarsi per guardarlo, ma non poteva dimenticare che lui, invece lo fissava, con quel suo sguardo freddo, grondante dello stesso sangue di Bino, ma grigio, il suo, adesivo, minaccioso, doloroso, La minaccia obliqua che pendeva alle sue spalle era per il povero Dreiser Cazzaniga la minaccia alla sua stessa consistenza come soggetto, Quell'indicibile obliquo minacciava di disgregarlo per sempre se solo si fosse voltato, Allora non si voltava ma la tentazione era irresistibile, cercava rifugio nelle calde grotte primordiali del suo immaginario ancora biologico, respirava l'odore dell'incenso, della muffa, dell'olio stantio con cui il sacrestano, soleva lucidare il legno delle panche dell'aristocrazia in cui aveva l'abitudine di sedere il padre di Dreiser Cazzaniga da quando, l'aristocrazia del barrio non frequentava piú la messa che si era fatta un rito minacciosamente e imprevedibilmente rivoluzionario, con tutte quelle chitarre, l'incenso californiano, i papaveri al posto delle rose i gins che sottolineavo i culi delicati delle coriste che andavano sbocciando nel mese mariano. Il mese in cui sbocciavano anche i giovani seni. E questo era troppo per l'aristocrazia che apprezzava culi e seni nell'alcova ma pretedeva castigati veli alla soglia del sacro. Qualche aristocratico finiva per presentarsi, infine, alla messa e allora litigava con il padre di Dreiser Cazzaniga che considerava l'occupazione della sua panca come una personale presa della Bastiglia.
Per tutto il cammino verso casa, il Cristo grigio continuava a penzolare minaccioso sulla spalla di Dreiser Cazzaniga e accettava di scomparire soltanto dopo che egli, inginocchiato sul letto aveva recitato la sua preghiera all'angelo custode che era un personaggio molto piú rassicurante anche se assai poco corposo, non abbastanza denso per occupare un posto significativo nel foro immaginario della sua mente infantile. Cristo veniva di notte a mordergli gli alluci sotto forma di un gallo dorato. Credo che lo incontró anche come mal di denti. In ogni caso ogni contatto con Cristo era da lui vissuto come un pericolo, come una minaccia alla propria soliditá, anche il più insignificante pensiero poteva delatarlo e frantumarlo di fronte a questa sanguinosa presenza
Diventava di colpo così fragile, si occultava a sé stesso, si mentiva, si negava e si riaffermava dissimulatamente, Un vero incubo. Piú tardi i suoi contatti con questa penosa figura cominciarono a provvocargli vere e proprie erezioni, che lui non sapeva bene che cosa fossero ma che sperimentava come qualche cosa di profondamente disdicevole, di riprovevole. Un'altra minaccia per la sua trepida integritá.
Poi nell'adolescenza gli fu presentato questo altro Cristo biondo in gins e con i sandali. Dreiser Cazzaniga odiava i sandali, soprattutto quelli che lasciavano libero il ditone, Il Cristo biondo in gins e con i capelli lunghi poi rischiava di provvocare ancora erezioni, giacché per le coincidenze della moda Dreiser Cazzaniga era stato precocemente a reagire ormonalmente di fronte a corpi serrati in gins con scarpe di tela Suprema e calzettine di cotone bianche. Ricominció ad odiare la volgaritá puzzolente e polverosa, impudicamente ostentata in quei sandali osceni e questo compromise per sempre le sue possibilitá di essere seriamente cristiano. Le cose migliorarono un po' quando verso la fine dell'adolescenza, in una cittá siderurgica renana, dai cieli cromati e dalle vie astrattamente commerciali, poté leggere il Vangelo di Giovanni nella traduzione di Lutero, sì con il Verbo era tutta un'altra cosa, se lo sentiva in bocca come la saliva. Cristo lo aveva separato dal suo corpo, si era malignamente insinuato tra lui e il suo corpo e aveva rotto l'intimitá e il tepore, Il Verbo era il prezzo di quella separazione, la ricompensa a tutto il freddo patito là fuori. Il Verbo non aveva ditoni, non portava i sandali, fluiva nel corpo e lo nominava tutto intero. Poi conobbe Paolo di Tarso e la sua cecitá, Quella si che la comprendeva, la cecitá luminosa che annientava il Cristo grigio e minaccioso acquattato tra i gigli, la fede che non aveva bisogno di quel maledetto capellone slavato in gins. La fede senza le maledette chitarre di maggio. Molti anni tardó a incontrare sul suo cammino la Beata Vergine. La incontró poi come il balsamo delle sue articolazioni dolorose, come la dolcezza avvolta nel manto stesso del rosario. La incontrò come rugiada e conforto d'abbandono, e subito la tradí e la rinnegó e poi le chiese perdono e tornó a rinnegarla e la incontrerá forse solo poi alla sogli luminosa della sua estinzione come Prajna Paramita. Che i suoi peccati gli siano perdonati.
A cura di genseki

Onesimo Gianferrari

Disegno di tempi e modi verbali

Il disegno di tempi e di modi verbali inediti e inseribili in una lingua quasi inservibile ebbe un impulso decisivo dall'opera quarantennale di Onesimo Gianferrari, Il testo principale, che contiene le basi teoriche del disegno verbale di Gianferrari è l'ormai introvabile: “Ebberotti, ipotesi per la produzione e l'inserimento nell'uso del futuro nostalgico e di altri futuri modali”.
Come dichiarato fin dal titolo il disegno verbale che interessa l'autore è soprattutto quello delle modalitá del futuro, Per Gianferrari, ridisegnare l'espressione e la percezione del futuro significa, in qualche misura, collaborare al compito rivoluzionario di cambiare i rapporti sociali.
Tra le creazioni verbali piú interessanti di Gianferrari nel campo delle possibili espressioni e percezioni modali del futuro meritano un approfondimento il futuro esaudito e il futuro insperato.
Il futuro esaudito esprime un'azione futura che avviene come conseguenza di un forte desiderio che essa si compia. Una volta definito il campo semantico di un tempo e di un modo verbale Gianferrara fornisce gli elementari strumenti tecnici che permettano di generarlo nelle diverse lingue. Il processo di generazione è normalmente lungo e costoso per quanto riguarda le lingue naturali, piú semplice e piú efficace per quanto riguarda le lingue artificiali o conlang.
Il futuro insperato esprime un'azione futura che si compie nonostante le bassissime probablitá che il parlante è disposto a concedere all'effettivo verificarsi del suo compimento.
Questo futuro appartiene alla piú vasta famiglia dei “Futuri statistici” cui il Gianferrara progettava dedicare un trattato specifico che la morte inaspettata gli impedí di portare a termine.
Beninteso anche il “Futuro inaspettato” fu oggetto della fantasia e della caparbia capacitá tecnica di generazione di elementi coniugabile di cui disponeva il Gianferrari.
In un altro capitolo introdurró uno dei gioielli della creativitá gianferrariana: “il Futuro retroattivo”. Anticipo qui che per il Gianferrari il successo nell'introdurre questa modalitá del futuro nel linguaggio parlato avrebbe finito per riscattare tutto l'orrore e tutti gli orrori del passato, dalla tratta degli schiavi allo sterminio dei palestinesi di Gaza.
Visione grandiosa che testimonia della passione di Gienferrari per la giustizia e del suo animo compassionevole verso le vittime della brutalitá della storia.

A cura di genseki


giovedì, maggio 13, 2010

La biglia

"Come vorrei che fosse tutto cosí!" disse una volta un bambino e si riferiva a una biglia, che se ne era andata via rotolando ma che ora lo stava aspettando.

Ernst Bloch
Da: "Prinzip Hoffnung"
trad. genseki

Il capitano Garbace

Il melanconico capitano Garbace sempre in ritardo
Con il suo pastrano in esilio, con la sciagura delle bretelle
Sacro capitano Garbace come un vecchio ragazzo
Dritto come una pendola dritto con una bottiglia per ombelico
Da quanti mari era potuto sgusciare con le tasche piene di arazzi
Con i galeoni nelle sinapsi e i gamberi per orecchini
Il rum non lo ingannava mai, il capitano Garbace
E poi le serate con il pastore Thorvaldsen
Serate a strapiombo come scogli la lingerie delle prefiche
Come schiuma d'onda dritta sotto la linea di galleggiamento
Tutta la legna della soffitta si accoppiava allora con i suoi chiodi
E le bare appena tagliate sbadigliavano per la fame nel solaio
Dio volava come un pipistrello impazzito in quel solaio, lo giuro
Lo giuro su questo boccale con cui ruppi i denti alla nonna
Che testate contro le travi! Dio fuggiva con un grido radiologico
Che lasciava intravedere le parti dello scheletro delle demoiselles
Che era fatto di denti solo di denti, avevano lpo scheletro di denti
Perlavaccaputtana non di ossa, Che paura cagava dio pipistrello
E Garbace, Garbace sempre dritto che bottiglia il maledetto
Una lacrima tatuata sulla palpebra.

genseki

Gaetano Mezzasomá

"e lodola aita volava aita frigolete din cial zul zul frisio como laire"

Gaetano Mezzasomá
Da: Sciré