Ad Arcónceli una foresta in orazione
Rosari in fiamme -
Ai calessi aggiogati Angeli Custodi
Mi trascinavano lassú
Fino alla fossa battesimale
Scuotevo le mie ossa
Come un impiccato le nacchere
Ero fresco come la notte
Come il fango del cimitero
Nudo e crivellato aspettavo
La sua radiazione
Il suo dono per me
Al tramonto latrati canini
Ricamavano la luna di delizia
*
Il balcone come una preghiera
Come il seno di una vestale
Si sporgeva sul mistero sacramentale del giardino
Sul boschetto degli stami
Sul prato di squame;
Respiravo col naso
Nelle mani stringevo il Rosario:
Il Terzo Mistero Doloroso?
La mia corona di spine
Erano le tue ossa
Le tue unghie i miei fagelli
Lividi
Mi ero lavato da tempo
Le mani con il vino
Col vomito della speranza
Trafitto da una squadrglia di scarabei
Mi sollevavo fino lla tua croce
*
Il mio cuore era pronto a fiorire
Ma tu tardavi ancora
Forse eri soltanto una favola infantile
Un vecchio leone addormentato
In una tenda beduina
Forse non accoglievi che guerrieri
Capaci di usare la disperazione
Come scudo, come ascia bipenne
Il mio cuore era un ramo di mele
Fiorito troppo tardi
Le tue api raccoglievano altrove il polline
Per il miele delle tue ferite
*
genseki
martedì, ottobre 28, 2014
lunedì, ottobre 27, 2014
Epitaffio
Ê morto
Crivellato dai baci dei suoi figli,
Assolto dagli occhi piú dolcemente
celesti
E il cuore piú tranquillo che in altri
giorni,
Il poeta Leopoldo Panero,
Che nacque nella cittá di Astorga
E maturó la vita nel silenzio di una
quercia.
Molto amó,
Bevve molto e ora,
Gli occhi bendati,
Attende la resurrezione della carne
Qui, sotto la pietra.
Leopoldo Panero (1909 – 1962)
Trad. genseki
Glossa per un epitaffio
Lettera al Padre
And Fish catcth
regeneration
Samuel Butler: " Pescator
di morti"
Solo tu de io, e
irrimediabilmente
Uniti dalla morte
torturati ancora da
Fantasmi che lasciamo per
pigrizia
Che ci graffino il corpo
e lottino per le spoglie
Del sudario, ma entrambi
morti, e sicuri
Della nostra morte;
lasciando che lo spettro prosegua in vano
Con il torbido affare dei
dati: muto,
Il corpo, questo
impostore nel ritratto, e tutti e due seguendo
Quest'altro gioco
dell'anima che non risponde a nulla,
Che lotta con la sua
ombra nello specchio – soli,
Caduti di fronte a lui
vedendo
Dietro al cristallo la
vita come pioggia, dietro il cristallo stupefatti
Dagli altri, da quelli
Vous êtes combien che ci sopravvivono
E dicono che ci
conoscono, e cichiamano
Con il nostro nome
grottesco, ah! Il sordido il
Viscoso tempio
dell'umano.
E tuttavia
Solo noi due, e uniti dal
freddo
Che appena sfiora cappa
brillante
Solo noi due in questa
pausa
Eterna del tempo che non
sa nulla non vuole, ma dura
Come la pietra, solo noi
due, e ci amiamo
Sul letto della pausa,
come si amano
I morti
“Amó”, dicesti,
autorizzato dalla morte
Perché sapevi di te come
terza persona
“Bevve”, dicesti,
perché Dio stava (Pound dixit)
Nel tuo bicchiere di
whisky
“Amó, bevve”
dicesti, ma adesso aspetta
Aspetta? E infatti la
resurrezione
Da un cristallo invalido
ti avvisa
Che con armi la nostra
morte fiorisce
Per te che solo
Sapevi della morte. Qui
Sotto o sopra?
Di questa pietra
Tu che dorasti la natura
soprannaturale e il
Dolore soprannaturale
degli edifici nudi
In quale prospettiva
- Dimmi – accogliere la morte?Sul tavolo di anatomia
Tu che danzasti
Impazzito
sulla piazza deserta
Incampando
Ferendoti le mani al
trapezio del silenzio
In piedi contro le foglie
morte che
Si attaccano al tuo corpo
e contro l'edera che tappava
Ossessivamente la tua
bocca gonfia di ubriaco,
Danzi, danzasti
Senza spazio, caduto, ma
Non voglio errare nella
mitologia
Di questo nome del padre
che manca a tutti noi
Perché forse siamo
soltanto fratelli di un'invasione dell'impossibile
E i tuoi passi ripetono
l'eco dei miei in un lungo
Corridoio dove
Retrocedo infaticabile, senza
Mai muovermi
Ah! i fratelli, i fratelli invisibili che fioriscono,
Nel Terrore! Ah! I
fretelli, i fratelli che si difondono
Inutilmente della luc del
mondo con le mani,
Che si proteggono dal
mondo per Paura, e coltivano nell'ombra
Del loro orto nefasto la
minaccia dell'eterno, nel
Mondo malvagio dei vivi
Ah! I frateli,
E l'uccello,
L'uccello che vola sul
mondo in fiamme, dicendo soltanto
Ai mortali che si agitano
al di sotto, dicendo
Soltanto: ABISSO, ABISSO!
Abisso, si, tiepida tana
Del nostro amore di
fratelli, padre
Ma tanto soli
Tanto soli! Fantasmi che
rendono visibile l'edera
-Come ederamerlino
come bimbatestatagliata come
Donnapipistrello la
bambina che giá è albero -
Crescono foglie
Nella foro, e un fiorire
ti strappa
Dalle labbra cannibali di
nostra madre Morte, madre
Della nostra preghiera
Fioriscono i morti
fioriscono
Uniti forse dal sudore
gelato
Morto di molte teste
affamate dei vivi
Ti aspettiamo uccello,
uccello nato
Dalla testa che esplose
al crepuscolo
Uccello disegnato nella
pietra e pieno
Di quanta dolcezza è
possibile, del suo sapore
Alieno che è piú della
vita, della sua crudeltá
Che è piú della vita
Ira
Della pietra, ira che la
realtá insulta,
Che bastona
Nella capanna pigra della
menzogna con verbi
Che non sono,
risplendono, ira
Suprema dei mondi!
(Ti aspettiamo
Sulla riva sottile di ció
che cade, sul prato
Notturno che attraversano
lenti
Gli elefanti
Percepite il freddo
La
Cospirazione delle alghe
Gelatina, squama mano
Che spunta dalla tomba
Mani che sorgono dalla
terra come steli
Solchi arati dalla morte,
Teste di impiccati che
fioriscono.
Di decapitati che diaolgano
Alla luce decrescente
delle candele
Chi ci dará la rima
La musica, il suono che
spezza la campana
Della asfissia, i
cristallo opaco
Del possibile, la musica
del bacio!
Di questo bacio, finale, padre, in cui
spariscano
In un soffio le nostre
ombre, per
Afferrati da questo metro
impossibile e feroce, restiamo
A salvo dagli uomini per
sempre,
Solo io e te, amata mia,
Qui, sotto questa pietra.
Leopoldo Maria Panero
Da: “Poemas del
Manicomio de Mondragón”
Trad. genseki
venerdì, ottobre 24, 2014
Max Jacob
Poesie scelte
trad. genseki
Malvina
Eccone una che, spero, vi spaventi
La signorina Malvina non molla il suo ventaglio
Se lo tiene ben stretto
Fin da quando ella è morta.
I guanti grigio perla sono stellati d’oro
E come un cavatappi
In un valzer gitano
Viene a morir d’amore
Accanto alla tua soglia
Proprio vicino al sasso
Dove posi le canne.
Mettiamo che sia morta, diciamo,
Di diabete
Morta di quel profumo
Che aveva appeso al collo.
Oh che onesto animale sì casto e poco folle
Golosa senza gusto
Avea sangue pesante
Di docente di lettere di ruolo
Era con il cilindro che le facean la corte.
Ella avrebbe gradito le maniere degli ussari!..
Fantasma di Malvina che Iddio ti benedica!
***
La dama cieca
La Dama cieca dagli occhi sanguinanti sceglie le sue parole
E non parla a nessuno dei suoi mali.
Ha capelli muschiosi,
Gioielli in pietra rossa
La Dama grassa e cieca cui sanguinano gli occhi
Scrive cortesi lettere con margini e interlinea.
Le pieghe della felpa le costan molta cura
Ma si sforza di fare qualche cosa di più.
Non parla del cognato che qui non è stimato,
Perché beve e fa bere anche la Dama cieca
Che ride, allora ride con un sordo muggito.
***
Riparatore invalido di vecchi autoveicoli
Ahimè l’anacoreta è tornato al suo nido.
Sangue della mia barba, son vecchio per Parigi
L’angolo delle case m’entra nelle caviglie.
Il mio gilet a quadretti, si dice, ha un’aria etrusca,
Il cappello marrone, non s’adatta ai miei stracci.
Avviso, è un volantino che ho posto alla mia porta:
Questa vecchia baracca puzza di capra morta.
***
A una Santa nel giorno della sua festa
Santa, santa, quando m’opprime
La tentazion del peccato
Mostratemi ch’è un delitto
Solo averlo pensato.
E nel giorno beato
Tutto a voi dedicato
Il Signore pregate
Che da sconce passioni
Purifichi il mio cuore.
Di guerra sulla terra
Che non sia più questione
Goda la Francia intera
Di vostra protezione.
Pregate che comprendano
Gli uomini tutti quanti
Il potere del sangue del nostro Salvatore
E che sotto il suo giogo
Tutti pieghino lieti.
Poiché siam tutti figli
Di quell’Unico padre
Con una sola fede
Fratelli obbediremo
Al Dio di questa legge.
Sono il Diavolo e la sua banda
Lascia che ti risponda
Pecca a destra, pecca a manca
Girati come vuoi
Tu abiti nella mia stanza
Esser di Dio non puoi.
***
Conchiglie d’ali! O foglie morte
Labbra dischiuse d’insetti rossi,
Non sono foglie quelle alla soglia
Ma sono insetti color del mogano
Mi parleranno? S’involeranno?
O sopra i coppi vorran salire?
Piovve ripiovve intorno al presbiterio
Attendo e intendo passi di cavalieri.
Attendo e intendo gracidar ranocchie
Attendo intendo il sibilo dei rospi
Salimmo infine sulle foglie di zucca
Attendo e intendo gocciolare d’acque.
***
Marina a Roscof
fLa palma nana vieta lancia in resta
Al giorno chiaro di sfiorare i peri.
Chi dunque ha riso nella sera offesa?
Hanno cantato. Saranno gli ebanisti.
O vita! O morte! O terra di mistero
Che cosa celi che svelano le sere?
Di che tesori sei tu tesoriera?
O vita! O morte! Dove son le cisterne?
Hanno cantato! Intorno all’organino
Son le coriste di canto gregoriano
Che ogni sera in mezzo al campo d’orzo
Fondono l’anima col poema cristiano.
L’una col libro e l’altra col pedale.
Attendo! Intendo la pianta che mi parla.
Lo sguardo attendo dei fiori morituri.
Petalo! Attendo un occhio sulla perla
Che nessun’ombra potrà mai incupire.
***
Il cielo e il mare color della lavagna
Quando lo straccio vi cancella il gesso!
C’è un battelliere sulla riva opposta?
Verso il piccolo Hotel del promontorio.
Nera e profonda è l’acqua,
Alti e lisci gli scogli non offrono riparo,
La luce smorza l’abat-jour di nuvole
La terra ondeggia … che cosa succede
Nelle scodelle come marezzate?
Cosa s’aggira agli angoli deserti
“Comprendo ciò che dite quando siete silente”
Cupa una cappa! Una garitta verde
Presto la notte: sarà dura in mare.
***
Il Contadino
Sotto gli olmi più vecchi di mio padre
Sotto gli olmi più vecchi di mio nonno
Sotto gli olmi di Mont Frugy d’Odet.
Sotto i castagni delle rive d’Odet
Ove son nato oggi ho visto passare
Il contadinello ammalato.
No, non guardarmi come se andassi a morire
Tu sei me stesso, sempre ti ho conosciuto
Un bimbo, un bimbo del cielo o dell’inferno?
Sorridi
Ti riconoscerò dal tuo sorriso.
***
S’apre la porta! Parlano!
Non c’è nessuno! Io sento che c’è qualcuno.
Accendo la lampada e s’anima il muro;
I fiori di carta sanguinano dalle ali
Ogni animale sanguina dai petali.
Tutto s’anima e avanza fino al centro
Del tappeto dove è un cono il crepuscolo
Del caminetto: In quale stato mi troverà
Domani il mio domestico! A tentoni,
Nell’ombra trovano le mie dita l’angolo del letto,
O letto, mia salvezza se non mi porta via!
Nessuno troverà quell’uomo coricato
Al suo posto c’è una bestia
Una bestia viscosa.
***
La Guerra
I viali esterni, di notte, sono pieni di neve; i banditi sono soldati; mi attaccano con sagole e risate, mi spogliano: fuggo per ricadere in un altro isolato. E’ il cortile di una caserma, o quello di una locanda? Quante sciabole! I lancieri! Nevica! Mi pungono con una siringa: è veleno, per uccidermi. Un cranio di crespo velato mi morde un dito. Vaghi riflessi proiettano sulla neve la luce della mia morte.
***
Un cappello di paglia dall’Italia
Là dove Algeri è un presagio di Costantinopoli, le spalline d’oro non furono altro che rami d’acacia e viceversa. Vanno di moda grappoli d’uva di celluloide, le signore li appendono dappertutto a mo’ di gioielli. Un cavallo che mangiò gli orecchini d’una delle mie amanti è morto avvelenato, il carminio del suo muso e la fucsina del pampino si mescolarono in veleno mortale.
***
Il corno chiama come una campana
Come un colore nelle foreste.
Corno lontano d’albero a roccia.
Ora che parte la caccia al Liocorno
Esci con quelli che ti sono amici.
Sella e cavallo mostrano il sentiero
Sella e cavallo legati ad un albero.
Siedono a tavola fuor della magione
Mangiano gamberi con la maionese.
Vieni! All’appello dei tuoi cari amici.
Udivo grida venire dalla casa
Mi ritrovai seduto tra brillanti bottiglie
Quando mi accorsi che non conoscevo nessuno
E i lamenti di dolore provenienti dalla casa
Si mescolavano ai discorsi svagati, alle canzoni.
Lontano il gallo come scoppio di risa
L’angelo mio custode mi sussurrò all’orecchio:
- Sta in guardia! Troppo tardi che la terra tremava
Sotto di me, Signore Iddio soccorso!
***
Agonia
Mio Dio son tanto stanco di non aver speranza
Di rotolar la botte della mia decadenza
Senza giammai riuscire a rinunziare al mondo.
Porto Satana in me come un intermediario,
Il mio blasone intacco quando scuoto le briglie,
Rivolgo nella notte le mie visioni ai morti,
Con il cranio percoto le rocce dell’inferno
Le coltri del mio letto son di lana di ferro.
Sovente nel mio sonno la stessa isola elettrica
Marchia con il coltello i nomi patronimici
Sulla mia pelle. Membra, pacchi d’anguille
Che con un gaio ghigno i diavoli spidocchiano.
***
Viaggio
Strada di notte, notte della strada! Luna
Sul lago, lago nei tuoi occhi. Carrozza
Che rapisce il nostro viaggio di notte
Occhi di viaggio sono ora i tuoi occhi
Occhi di viaggio di convalescenti. Quando
Il postiglione cesserà di cantare
Soltanto allora ti dirò il mio pensiero
E’ una questione di geologia architettonica
Sull’infinito dei monti e di lor forme, C’era
Sulla coperta ad artigli una tazza di
Porcellana ove la luna formava un punto. Nel
Mezzo sole della carrozza – il postiglione
Canta – tu canta, o postiglione – credevo che la luna
Fosse la tazza, e la coperta ad artigli fosse
Le montagne, e che non fossimo più sulla
Terra. Non c’è più luna! O notte delle strade!
O strada delle notti: sono i tuoi occhi occhi di
Mare ed io non ti conosco. Così
Procedevamo con tutta la nostra indulgenza verso
Un paese che non è lontano e che non volevo
Conoscere e ove una certa angoscia
Mi mostra che mi conduce il postiglione
Cantando. Ora è il momento della paura!
***
Amore del prossimo
Qualcuno ha visto il rospo attraversar la strada?
Non è che un omettino: grande come una bambola.
Striscia sulle ginocchia: fors
forse per la vergogna.
Ma no, soffre di artrite e trascina una gamba,
Dove va zoppicando? Vien fuori dalla fogna,
Il povero pagliaccio.
Nessuno che abbia scorto il rospo per la strada.
Un tempo nessuno mi notava per strada,
Si beffano ora i fanciulli della mia stella gialla.
Com’è felice il rospo… Senza la stella gialla.
***
Non ritorneranno più
Quando ritorneranno i becchini alla fossa di Ofelia? Ofelia ancor non giace nella sua tomba immortale; sono i bechini che ci finiranno a un cenno del caval bianco. E il bianco destriero si reca tutti i giorni a brucare quei sassi. E’ il cavallo bianco della locanda del cavallo bianco, proprio davanti alla tomba. La tomba è una finestra che s’apre sul mistero.
***
trad. genseki
Malvina
Eccone una che, spero, vi spaventi
La signorina Malvina non molla il suo ventaglio
Se lo tiene ben stretto
Fin da quando ella è morta.
I guanti grigio perla sono stellati d’oro
E come un cavatappi
In un valzer gitano
Viene a morir d’amore
Accanto alla tua soglia
Proprio vicino al sasso
Dove posi le canne.
Mettiamo che sia morta, diciamo,
Di diabete
Morta di quel profumo
Che aveva appeso al collo.
Oh che onesto animale sì casto e poco folle
Golosa senza gusto
Avea sangue pesante
Di docente di lettere di ruolo
Era con il cilindro che le facean la corte.
Ella avrebbe gradito le maniere degli ussari!..
Fantasma di Malvina che Iddio ti benedica!
***
La dama cieca
La Dama cieca dagli occhi sanguinanti sceglie le sue parole
E non parla a nessuno dei suoi mali.
Ha capelli muschiosi,
Gioielli in pietra rossa
La Dama grassa e cieca cui sanguinano gli occhi
Scrive cortesi lettere con margini e interlinea.
Le pieghe della felpa le costan molta cura
Ma si sforza di fare qualche cosa di più.
Non parla del cognato che qui non è stimato,
Perché beve e fa bere anche la Dama cieca
Che ride, allora ride con un sordo muggito.
***
Riparatore invalido di vecchi autoveicoli
Ahimè l’anacoreta è tornato al suo nido.
Sangue della mia barba, son vecchio per Parigi
L’angolo delle case m’entra nelle caviglie.
Il mio gilet a quadretti, si dice, ha un’aria etrusca,
Il cappello marrone, non s’adatta ai miei stracci.
Avviso, è un volantino che ho posto alla mia porta:
Questa vecchia baracca puzza di capra morta.
***
A una Santa nel giorno della sua festa
Santa, santa, quando m’opprime
La tentazion del peccato
Mostratemi ch’è un delitto
Solo averlo pensato.
E nel giorno beato
Tutto a voi dedicato
Il Signore pregate
Che da sconce passioni
Purifichi il mio cuore.
Di guerra sulla terra
Che non sia più questione
Goda la Francia intera
Di vostra protezione.
Pregate che comprendano
Gli uomini tutti quanti
Il potere del sangue del nostro Salvatore
E che sotto il suo giogo
Tutti pieghino lieti.
Poiché siam tutti figli
Di quell’Unico padre
Con una sola fede
Fratelli obbediremo
Al Dio di questa legge.
Sono il Diavolo e la sua banda
Lascia che ti risponda
Pecca a destra, pecca a manca
Girati come vuoi
Tu abiti nella mia stanza
Esser di Dio non puoi.
***
Conchiglie d’ali! O foglie morte
Labbra dischiuse d’insetti rossi,
Non sono foglie quelle alla soglia
Ma sono insetti color del mogano
Mi parleranno? S’involeranno?
O sopra i coppi vorran salire?
Piovve ripiovve intorno al presbiterio
Attendo e intendo passi di cavalieri.
Attendo e intendo gracidar ranocchie
Attendo intendo il sibilo dei rospi
Salimmo infine sulle foglie di zucca
Attendo e intendo gocciolare d’acque.
***
Marina a Roscof
fLa palma nana vieta lancia in resta
Al giorno chiaro di sfiorare i peri.
Chi dunque ha riso nella sera offesa?
Hanno cantato. Saranno gli ebanisti.
O vita! O morte! O terra di mistero
Che cosa celi che svelano le sere?
Di che tesori sei tu tesoriera?
O vita! O morte! Dove son le cisterne?
Hanno cantato! Intorno all’organino
Son le coriste di canto gregoriano
Che ogni sera in mezzo al campo d’orzo
Fondono l’anima col poema cristiano.
L’una col libro e l’altra col pedale.
Attendo! Intendo la pianta che mi parla.
Lo sguardo attendo dei fiori morituri.
Petalo! Attendo un occhio sulla perla
Che nessun’ombra potrà mai incupire.
***
Il cielo e il mare color della lavagna
Quando lo straccio vi cancella il gesso!
C’è un battelliere sulla riva opposta?
Verso il piccolo Hotel del promontorio.
Nera e profonda è l’acqua,
Alti e lisci gli scogli non offrono riparo,
La luce smorza l’abat-jour di nuvole
La terra ondeggia … che cosa succede
Nelle scodelle come marezzate?
Cosa s’aggira agli angoli deserti
“Comprendo ciò che dite quando siete silente”
Cupa una cappa! Una garitta verde
Presto la notte: sarà dura in mare.
***
Il Contadino
Sotto gli olmi più vecchi di mio padre
Sotto gli olmi più vecchi di mio nonno
Sotto gli olmi di Mont Frugy d’Odet.
Sotto i castagni delle rive d’Odet
Ove son nato oggi ho visto passare
Il contadinello ammalato.
No, non guardarmi come se andassi a morire
Tu sei me stesso, sempre ti ho conosciuto
Un bimbo, un bimbo del cielo o dell’inferno?
Sorridi
Ti riconoscerò dal tuo sorriso.
***
S’apre la porta! Parlano!
Non c’è nessuno! Io sento che c’è qualcuno.
Accendo la lampada e s’anima il muro;
I fiori di carta sanguinano dalle ali
Ogni animale sanguina dai petali.
Tutto s’anima e avanza fino al centro
Del tappeto dove è un cono il crepuscolo
Del caminetto: In quale stato mi troverà
Domani il mio domestico! A tentoni,
Nell’ombra trovano le mie dita l’angolo del letto,
O letto, mia salvezza se non mi porta via!
Nessuno troverà quell’uomo coricato
Al suo posto c’è una bestia
Una bestia viscosa.
***
La Guerra
I viali esterni, di notte, sono pieni di neve; i banditi sono soldati; mi attaccano con sagole e risate, mi spogliano: fuggo per ricadere in un altro isolato. E’ il cortile di una caserma, o quello di una locanda? Quante sciabole! I lancieri! Nevica! Mi pungono con una siringa: è veleno, per uccidermi. Un cranio di crespo velato mi morde un dito. Vaghi riflessi proiettano sulla neve la luce della mia morte.
***
Un cappello di paglia dall’Italia
Là dove Algeri è un presagio di Costantinopoli, le spalline d’oro non furono altro che rami d’acacia e viceversa. Vanno di moda grappoli d’uva di celluloide, le signore li appendono dappertutto a mo’ di gioielli. Un cavallo che mangiò gli orecchini d’una delle mie amanti è morto avvelenato, il carminio del suo muso e la fucsina del pampino si mescolarono in veleno mortale.
***
Il corno chiama come una campana
Come un colore nelle foreste.
Corno lontano d’albero a roccia.
Ora che parte la caccia al Liocorno
Esci con quelli che ti sono amici.
Sella e cavallo mostrano il sentiero
Sella e cavallo legati ad un albero.
Siedono a tavola fuor della magione
Mangiano gamberi con la maionese.
Vieni! All’appello dei tuoi cari amici.
Udivo grida venire dalla casa
Mi ritrovai seduto tra brillanti bottiglie
Quando mi accorsi che non conoscevo nessuno
E i lamenti di dolore provenienti dalla casa
Si mescolavano ai discorsi svagati, alle canzoni.
Lontano il gallo come scoppio di risa
L’angelo mio custode mi sussurrò all’orecchio:
- Sta in guardia! Troppo tardi che la terra tremava
Sotto di me, Signore Iddio soccorso!
***
Agonia
Mio Dio son tanto stanco di non aver speranza
Di rotolar la botte della mia decadenza
Senza giammai riuscire a rinunziare al mondo.
Porto Satana in me come un intermediario,
Il mio blasone intacco quando scuoto le briglie,
Rivolgo nella notte le mie visioni ai morti,
Con il cranio percoto le rocce dell’inferno
Le coltri del mio letto son di lana di ferro.
Sovente nel mio sonno la stessa isola elettrica
Marchia con il coltello i nomi patronimici
Sulla mia pelle. Membra, pacchi d’anguille
Che con un gaio ghigno i diavoli spidocchiano.
***
Viaggio
Strada di notte, notte della strada! Luna
Sul lago, lago nei tuoi occhi. Carrozza
Che rapisce il nostro viaggio di notte
Occhi di viaggio sono ora i tuoi occhi
Occhi di viaggio di convalescenti. Quando
Il postiglione cesserà di cantare
Soltanto allora ti dirò il mio pensiero
E’ una questione di geologia architettonica
Sull’infinito dei monti e di lor forme, C’era
Sulla coperta ad artigli una tazza di
Porcellana ove la luna formava un punto. Nel
Mezzo sole della carrozza – il postiglione
Canta – tu canta, o postiglione – credevo che la luna
Fosse la tazza, e la coperta ad artigli fosse
Le montagne, e che non fossimo più sulla
Terra. Non c’è più luna! O notte delle strade!
O strada delle notti: sono i tuoi occhi occhi di
Mare ed io non ti conosco. Così
Procedevamo con tutta la nostra indulgenza verso
Un paese che non è lontano e che non volevo
Conoscere e ove una certa angoscia
Mi mostra che mi conduce il postiglione
Cantando. Ora è il momento della paura!
***
Amore del prossimo
Qualcuno ha visto il rospo attraversar la strada?
Non è che un omettino: grande come una bambola.
Striscia sulle ginocchia: fors
forse per la vergogna.
Ma no, soffre di artrite e trascina una gamba,
Dove va zoppicando? Vien fuori dalla fogna,
Il povero pagliaccio.
Nessuno che abbia scorto il rospo per la strada.
Un tempo nessuno mi notava per strada,
Si beffano ora i fanciulli della mia stella gialla.
Com’è felice il rospo… Senza la stella gialla.
***
Non ritorneranno più
Quando ritorneranno i becchini alla fossa di Ofelia? Ofelia ancor non giace nella sua tomba immortale; sono i bechini che ci finiranno a un cenno del caval bianco. E il bianco destriero si reca tutti i giorni a brucare quei sassi. E’ il cavallo bianco della locanda del cavallo bianco, proprio davanti alla tomba. La tomba è una finestra che s’apre sul mistero.
***
Jabès su Max Jacob
Penso che scrivere sia
anche scrivere in modo piatto. Credo che nonè necessario cercare di
allontanare la trivialitá da un testo a qualunque prezzo. La
trivialitá è un mezzo. Partendo da essa, possiamo andare piú a
fondo. Altrimenti come facciamo a sapere che stiamo apporfondendo? La
trivialitá è la superficie, una superficie che dobbiamo esplorare,
per poi frantumarla.
Max Jacob mi rese molto
sensibile a questo tipo di problemi. Quando gli lasciavo i miei testi
a volte mi diceva – troppo coinciso – altre volte – troppo
diluito -, o – troppo lirico -. - Legga i classici per il pudore -,
mi scriveva, o – troppo laconico – legga Chateaubriand per la
frase -solo molto piú tardi compresi che scrive voleva dire essere
allo stesso tempo coinciso e profuso e anche scrivere a volte in modo
piatto: la piattezza serve da supporto all'imagine, al pensiero e fa
sí che risaltino.
**
Max Jacob detestava il
caos. Soleva dire che la forma di una poesia debe essere perfetta
proprio come un uovo e che sebbene all'interno del testo debe essere
vigente una libertá totale, il testo stesso debe trovare
imperativamente la struttura che gli è propria. “Quando un
cantante ha una voce ben rodata, puó divertirsi facendo gorgheggi”
Scrisse nel 1916 nella prefazione del “Cornet à dés”.
**
Il fatto che i
surrealisti non abbiano mai riconosciuto Max Jacob come uno dei loro
predecessori si debe alla sua conversione al cattolicesimo e anche al
fatto, che a differenza di oro, egli non si sentí mai un discendente
di Rimbaud e Lautréamont.
Frammenti da: Du désert
au Livre intervista di E. Jabès con Marcel Cohen
Trad. genseki
mercoledì, ottobre 22, 2014
Poesie di Arconceli
Arconceli
Dirotta lavava la pioggia
L'albero sciupato dei ricordi
Betulla o vertiginoso ontano
Da radici di fango
Fino alla diaspora delle serpi
Mi lasciavo ascoltare
Come un sacco di pelle
Il lamento delle sue stigmate
Solo i diamanti ormai
Potevano bruciare il cielo
Ad Arconceli mi dissanguavo sul muschio
Ogni goccia di sangue partoriva un paradiso
*
Nella foresta dei suoni sfinito
Mi svuotavo degli ultima attimi
Di senso
Allora sí che brillavano le sillabe
Come brillavano!
Altre libertá si forgiavano in Arconceli
Necessarie come le fragole
Alla perfezione della quercia
Fragorosa la danza del faggio
La danzavano i fantasmi
Dei conigli dei rabbini
Degli ultimi daini lebbrosi.
*
Il sipario della nebbia si alternava
Era un sottobosco di bottiglie vuote
L'ebrezza si sfregava
Alle cortecce piú rugose
Fu quando ci congedammo dalla nostra pelle
Tutte le poesie erano morte
Come le squame iridate dell'autunno.
genseki
Dirotta lavava la pioggia
L'albero sciupato dei ricordi
Betulla o vertiginoso ontano
Da radici di fango
Fino alla diaspora delle serpi
Mi lasciavo ascoltare
Come un sacco di pelle
Il lamento delle sue stigmate
Solo i diamanti ormai
Potevano bruciare il cielo
Ad Arconceli mi dissanguavo sul muschio
Ogni goccia di sangue partoriva un paradiso
*
Nella foresta dei suoni sfinito
Mi svuotavo degli ultima attimi
Di senso
Allora sí che brillavano le sillabe
Come brillavano!
Altre libertá si forgiavano in Arconceli
Necessarie come le fragole
Alla perfezione della quercia
Fragorosa la danza del faggio
La danzavano i fantasmi
Dei conigli dei rabbini
Degli ultimi daini lebbrosi.
*
Il sipario della nebbia si alternava
Era un sottobosco di bottiglie vuote
L'ebrezza si sfregava
Alle cortecce piú rugose
Fu quando ci congedammo dalla nostra pelle
Tutte le poesie erano morte
Come le squame iridate dell'autunno.
genseki
Palinsesto
"Er resplan la flor enversa"
Lo disse Raimbaut d'Aurenga
Convertendo stracci in fischi
E fischiando al diavolo: "Tiger burning in the night"
Qual mano immortale, quale occhio
Poté creare la tua spaventosa simmetria
Lo disse Blake mentre i suoi piedi ardevano
Nel fuoco segreto del nulla dove abitano
Pulci e insetti piú viscosi della vita,
O tigre, tigre che ardendo con forza
Ci riscatti dalla vita.
*
Palinsesto II
O donna che s'oblía
Amor de loing
Lanquan li jorn son lonc en mai
O corpo senza vita del poema
Quando son lunghi i giorno di maggio
Perché non vi é altro coraggio
Che quello di scrivere di fronte al nulla
*
Oh! concerto di tenebre
Quando gli azels cantano sulla tomba
Del poema
Cuore del silenzio
Cuore del nulla
E scrivere il poema
È come sorridere su una vergine morta
Laddove non piango
E il poema è come una vergine morta
Come il silenzio della schiuma,
Come la bava del poema
Davanti a una vergine morta.
Leopoldo Maria Panero
Trad genseki
Lo disse Raimbaut d'Aurenga
Convertendo stracci in fischi
E fischiando al diavolo: "Tiger burning in the night"
Qual mano immortale, quale occhio
Poté creare la tua spaventosa simmetria
Lo disse Blake mentre i suoi piedi ardevano
Nel fuoco segreto del nulla dove abitano
Pulci e insetti piú viscosi della vita,
O tigre, tigre che ardendo con forza
Ci riscatti dalla vita.
*
Palinsesto II
O donna che s'oblía
Amor de loing
Lanquan li jorn son lonc en mai
O corpo senza vita del poema
Quando son lunghi i giorno di maggio
Perché non vi é altro coraggio
Che quello di scrivere di fronte al nulla
*
Oh! concerto di tenebre
Quando gli azels cantano sulla tomba
Del poema
Cuore del silenzio
Cuore del nulla
E scrivere il poema
È come sorridere su una vergine morta
Laddove non piango
E il poema è come una vergine morta
Come il silenzio della schiuma,
Come la bava del poema
Davanti a una vergine morta.
Leopoldo Maria Panero
Trad genseki
lunedì, ottobre 20, 2014
Prisionero de si mismo
"Voy a intentar narrar cómo pensaba que me
podría relacionar en la cárcel. Empezaré por cómo me imaginaba yo que era una
población de delincuentes. No había tenido nunca ni a ningún nivel, ni tan sólo
una hora o un minuto, ningún contacto con la cárcel.
Como bien se sabe, desde que la Policía
Judicial le da a uno la bienvenida, el trato es a base de golpes. Además, son
tales las técnicas de opresión en los países tercermundistas y subdesarrollados
que uno acaba por firmar cualquier acto que no cometió.
A partir de ahí, uno se va volviendo o no
paranoico porque no se trata de paranoia sino de realidad. ¿Quién no tiene
núcleos internos de contenido paranoico sin tocar?. Yo creo que todo el mundo, y
aquella realidad los potencia aún más. Entonces, cuando uno cae en manos de
ellos, empieza el caos. Un caos en el cual la amenaza constante y presente es la
de la muerte.
Por lo que uno oye, ve, por lo que te hacen,
por tus compañeros y la gente que está ahí no se trata de muerte psicológica
sino de muerte real, de la muerte en vida. Después de pasar por las dependencias
judiciales la llegada al Penal es fácil. Cuando supe que me tocaba una cárcel de
1.300 personas, me figuraba, deducía, (no por necesidad de investigar sino de
saber) que la estructura de un delincuente es la de una persona rebelde, fóbica
al miedo y por lo tanto enmascarada de violencia y agresión como mero mecanismo
de subsistencía.
En un ambiente como aquel no ser violento
propiciaría que me sometieran no porque me falte capacidad para ser agresivo y
violento sino porque no me convencía aquello de pagar con la misma moneda. Era
gente de un nivel cultural muy bajo, sin ningún conocimiento personal, con esa
costumbre tan propia de los penales de querer dirigir a los demás, de vivir a
través del otro dándole seguridad, protegiéndole.
Dentro de la cárcel, dentro de los dormitorios,
existe un inframundo independiente de los vigilantes y de la dirección. Aquellas
normas y valores de los delincuentes estriban en el reconocimiento del que más
robó, asesinó o violó. Al peor de todos se le considera el jefe mayor.
Yo, al no tener ninguna de esas conductas
delictivas de la cual presumir delante de ellos, sino todo al contrario,
fantaseaba que el orden, el silencio y el hablar bien podía ser una
provocación.
Me angustiaba el cómo dar el primer paso, no
esperar a que se acercaran sino ir yo hacia ellos. No sabía quiénes eran mis
compañeros de celda. El robo es algo corriente en la cárcel. Por mi propia
patología, soy exagerado en todo. La austeridad no es mi fuerte, y me imaginaba
que esto podría representar una mayor provocación. Lo que sí tenía claro era que
no respondería a ninguna agresión. Así podría dar pie a que no siguieran
manteniendo el mismo tipo de diálogo. Mi edificio agraciada o desgraciadamente
era el peor, el más ruinoso, violento y con mayor nivel de drogadicción. Tuve la
suerte o la desgracia de caer allí.
Había otra alternativa que nunca quise coger:
consistía en acercarme a la dirección para que me dieran la oportunidad de
trabajar en algo. En estosmomentos, me sentía muy mal internamente por la
pérdida de la libertad.
El medio ambiente era muy agresivo, muy
hostil.
Los compañeros de edificio son invasivos,
intentan tomarle el pelo a uno. No se quieren sentir menos que uno, y
entoncestodo nuevo tiene que pasar por la novatada, y la novatada es explotarlo
a uno. Lo primero que hice no conscientemente, por lo menos no creo que lo haya
tenido calculado fue no perder el centro de atención sobre mí, mantenerme lo más
posible alerta; no como vigía paranoide sino atento a mis respuestas, a mis
palabras,al contenido de mis palabras, atento a mi respiración, atento, atento a
mí.
Al estar tan ocupado en aquello, no me daba
tiempo de ver el exterior, ponerme a analizar, a cuestionar a los demás. Me era
más productivo estar conmigo, más sano que buscar disculpas fuera: las había y
en abundancia si las quería encontrar, porque en un ambiente como éste existen
todos los factores de provocación. Opté por no perder mi centro de gravedad, y
cuando digo gravedad me refiero al presente, al estar consciente. Un estar
consciente de la cárcel, de no ponerme la etiqueta de superioridad económica,
intelectual o psicológica, sino de ser sencillamente uno más.
Era posible e imposible serlo porque no
teníamos nada en común. Lo único que compartíamos era la pérdida de la libertad.
Yo asumía el por qué estaba aquí y veía que en el fondo ninguno de ellos
aceptaba
la cárcel en el sentido en que no se
responsabilizaban de los actos que provocaron el ingreso en ella. Veía en las
manifestaciones de destrucción de la institución, la misma rebeldía, y en el
reclamo y en la demanda la
no-aceptación de haber delinquido.
Mi situación era ir limpiándome lenta y
claramente porque directa o indirectamente yo había optado por estar aquí.
Podría disculpar la forma y la situación en que ocurrió pero era muy consciente
de haber decidido estar aquí.
Eso me tranquilizaba, me daba la posibilidad de
no estar en el exterior, de no perder el tiempo en el reclamo. Por tantas cosas
qué digo, por la agresión a través de la violencia, me era difícil relacionarme
con mis compañeros y también con el área de vigilancia.
Me parece evidente que cualquier trabajador se
identifique consciente o inconscientemente con el lugar en el que trabaja. Lo
que intento decir,es que los custodios (las personas que trabajan en un penal)
tienen una
maldad reactiva convertida en bondad, y que
tienen los mismos pensamientos y la misma reacción puesta del lado de la
pseudo-bondad.
Me costó aceptar que la autoridad nada tenía
que ver con losconocimientos intelectuales, económicos o de crecimiento
personal. El aceptar la autoridad por la autoridad no era congruente con mi
situación pseudo- evolucionada, y que un patán, un ignorante, alguien
grosero,violento e inhumano pudiera ejercerla fue todo un trabajo para mí, me
confronté con que yo no podía hacer otra cosa que integrar lo que sentía y lo
que pensaba. Me descubría constantemente escabulléndome en interpretaciones y
justificaciones de lo que me rodeaba. De no haber proseguido con la
auto-observación constante, hubiera caído en las tentaciones que se me
presentaban y esto es una jungla de tentaciones. Se trataba ante todo de no
ponerme en la actitud de desvalorizar a los demás,descalificarles por
ignorantes.
Lo primero que hice en este edificio (que ya
comenté que era el peor, por rebeldes, por antisociales, por agresivos, por
fármaco dependientes, por reincidentes, con una población nada uniforme sino
muy diferente en delitos y personalidades), lo primero que hice fue localizar a
los líderes, saber quiénes eran los que gritaban más fuerte, los que de una
manera u otra llevaban la batuta. No era premeditado, sino que iba percibiendo
mis intenciones sobre la marcha. No me costó localizarles ni comunicarme con
ellos. Ya sabían porqué yo estaba aquí, ya tenían la información de mi caso por
periódicos de mucho escándalo y me creían un pez muy gordo.
Fui acusado de narcosatánico. Me parece que
ellos no me la creyeron y pensaron que era parte de una estrategia montada por
mí.
Durante mucho tiempo, insistieron en que les
contara qué hacía yo con los cadáveres y las magias negras. Cuando les dije la
verdad hubo encuentro. Hablé por separado con cada uno de ellos. Siempre he
creído que la palabra va a la mente, y que la gente pregunta desde la cabeza y
ese preguntar es pura satisfacción narcisista, egocéntrica. Yo intentaba
llegarles al corazón, que mis respuestas tuvieran la capacidad suficiente
como para llegar a la esencia de ellos: al
corazón.
Contestar con la verdad y que ellos tuvieran el
derecho de creerme o no, pues es difícil en el imperio de la mentira que me la
creyeran a mí a la primera; Yo sabía que esto lleva tiempo, pero sucede que
merecer la confianza es toda una labor: se gana con la actitud, no a través del
convencimiento intelectual, que confíen en mí me llevaría mucho tiempo.
Por mi propia seguridad tenía que actuar de
inmediato. Estaba atento a no intentar dar un doble mensaje y no despertar
fantasías. Era muy consciente de que lo que sembrara se me iba a rebotar. Al
saber ellos que
yo era terapeuta me vieron como alguien en
quien confiar. Empezaron a hacerme preguntas, a preguntarme sobre su familia,
ellos creían que yo era abogado), a consultarme como médico hasta que (y eso me
costó mucho trabajo) les logré aclarar que mi trabajo era ser terapeuta: es
decirestar en el lugar más adecuado, en el imperio del sufrimiento. Les decía
que yo estaba en el lugar idóneo, en el campo más fértil para trabajar. Les
solía leer y contar historias a menudo. Les acostumbraba a que se escucharan
hablar, a que se dieran cuenta de cómo se traicionaban y se delataban a sí
mismos, cómo eran ellos mismos cómplices o traidores en la relación con la
policía tanto como con sus compañeros de banda o de cárcel. Les invitaba a que
despertaran a que abrieran los ojos, a que vieran qué mal se engañaban a sí
mismos.
Me gané su confianza siendo uno de ellos pero
sin victimizarme. No quitarme el saco sino dejármelo bien puesto, cosa que les
desconcertaba porque veían que yo no negaba mi posición de delincuente.
Ese desconcierto en lugar de provocar en ellos
inseguridad e incertidumbre hizo que yo fuera bien recibido. No tenían porqué
desconfiar de mí. No tenía ni la conducta ni las características de un
delincuente y eso les hacía confiar. Poco a poco, al relacionarme con ellos,
iban reflexionando sobre el por qué de su estancia en la cárcel, ¿por qué
repetían tanto? ¿por qué provocaban tanto a los custodios y a las áreas? ¿por
qué buscaban inconscientemente todas las disculpas posibles para poder seguir
siendo retenidos o para seguir siendo castigados?
Hicieron un buen trabajo. Muchos lograban
captar cómo se trampeaban a sí mismos en esta aparente lucha intelectual de que
lo único que les importaba era su libertad, cuando eso era mentira, porque
terminaban haciendo lo imposible un día antes de salir para quedarse.
Era como el síndrome del niño golpeado que
termina identificándose con el objeto opresor. Lo cual era ya una perversión. Yo
les explicaba que al identificarse con el opresor terminaban negándose a sí
mismos.
Tenía que hacerlo con mucha sutileza y claridad
para no ser malinterpretado, ya que esto iba aparentemente en contra de su
manera de pensar. Les hacía notar que el trabajo es sano y saludable y que el
lugar donde vivimos es donde estamos, no donde queremos estar; que es nuestra
casa y nosotros la hacemos casa o cárcel. No se podía negar que esto fuera
cárcel pero yo no creo que la pérdida de la libertad física sea el valor más
grande sino que la cárcel estriba en el impedimento de la libertad de expresión.
La invasión de tanta violencia del exterior, la
violencia tan gratuita de mis compañeros, tanta agresión, tanto descontento,
tanto resentimiento, para mí eso sí que era cárcel y lo sigue siendo.
Transformar a 1.300 era toda una odisea. Lo
único que quería era vivir un poquito más en paz, que pudieran escuchar un poco
de música clásica(la que ellos escuchaban no hacía más que reforzar la misma
angustia, ansiedad y violencia). Intentaba que a través de la música se pudiera
descansar y estar en silencio. El silencio aquí es casi imposible por los mismos
niveles de angustia en que se vive, pero se logró bastante.
Hay que cuidarse de esos 1.300. Si te golpean y
subes a dirección, te consideran un traidor, entonces no sólo te castigan sino
que te rechazan dentro de la población y pierdes su confianza. Hay una ley
general abajo: que si eres robado tú tienes que recuperar esa prenda (incluso a
golpes) pero no puedes apoyarte ni en los vigilantes ni en la dirección, porque
has traicionado a la población, a las normas delincuenciales por decirlo de
alguna manera. Es necesario andar con mucho cuidado, lograr establecer buena
relación con los líderes, con los compañeros.
Otra cosa que yo necesitaba era mantenerme, no
perder la libertad, no disolverme entre todos, no perder mi centro, mi yo, mis
ideales, mis pensamientos. La regla de oro para mí era rogarle a Dios que no me
volviese duro, que no perdiera la capacidad de sentir, de amar, aunque eran
grandes las tentaciones. Yo no quería ser violento, duro, insensible,
demandante.
Otra preocupación mía era que mis ojos no
perdieran la capacidad de llorar y así lavar mi alma. El precio a pagar por
negar el sufrimiento y el dolor era la muerte en vida, por eso no quería
endurecerme, convertirme en una piedra, volverme insensible. Sentir que en la
mente tenía un mantra (OM NAMA CHIBA YA) fue una gran ayuda, un gran apoyo.
Prefería decir Om Nama Chibaya que sentir latigazos, devolver las agresiones o
querer aplastar a alguien. Luego, por las tardes, reflexionaba sobre las muchas
posibilidades que tiene uno de no hacerse responsable de su situación. Hay cosas
que dependen de uno y otras que no, pero sí tenía conciencia de que yo tenía
que responsabilizarme porque era el único que podía hacer algo ahí. Este era el
lugar más adecuado para hacerme la cárcel más cárcel o hacerme un proceso de
crecimiento. El lugar también más difícil para ver de qué tamaño soy, de qué
tamaño era yo y cuáles eran mis límites y mis capacidades. Era una revisión
general y tenía disculpas de sobra para justificarme pero no se volvería a
repetir esa oportunidad para aprender. Darme cuenta de eso fue importante. De
otra parte, querer ser uno más era pura pretensión. No tenía nada que ver con mi
realidad interna.
Era algo falso, soberbio, pues al no sentirme
uno más por mis conocimientos era precisamente como yo podía servir a los
demás.Me hubiera podido quedar empachado de lo poco que sabía pero era más útil
ayudar a los compañeros y así ayudarme también a mi mismo.
¿A qué conclusión quiero llegar con todo eso?
¿Tenía esta visión de las cosas cuando me internaron? Hay una sola respuesta:
que ha sido la cantidad de años de tratamiento terapéutico personal. Vi la
inversión, la generosidad de ese proceso, el regalo que ha sido para mí, aunque
puede parecer un poco loco decir que los frutos de la terapia fueron la
capacidad de estar en la cárcel.
Pero es cierto: gracias a mi proceso, a mis
maestros, a mi maestro Claudio Naranjo era capaz de asimilar, de aceptar, de
comprender que tenía que pasar por ahí, y hacerlo del modo más limpio y
auténtico posible.
Gracias al proceso terapéutico, se generaba el
encuentro entre el dolor y la aceptación. Por un lado, estaba inmune a tantas
provocaciones que en ese momento no me tocaban, y por otro lado me sentía
vulnerable ante tanto sufrimiento. La enfermedad es la incapacidad de aceptar
el dolor, el dolor entre humanos. Aunque suena loco decirlo, es bello el
trabajo que se puede hacer aquí, el trabajo que se tiene que hacer aquí, por eso
cada día siento menos deseos de salir.
La vida es donde uno está y es cierto que para
vivir cualquier lugar es bueno. Los obsesivos del movimiento solemos creer que
la libertad física es la que nos otorga la capacidad de satisfacemos y de
placer. Cuando uno se da cuenta de que eso es así sólo en apariencia, encuentra
la paz, la tranquilidad consigo mismo. Con ese eterno ir, escapar de uno, cuesta
trabajo dar con el lugar donde uno tiene que anclar. Por lo menos a mí me
sucedió que era un descanso muy merecido abdicar, huir de mí, no oponerme.
El segundo paso fue también importante. Me
impuse participar en las actividades del centro. Ir a la escuela me daba mucho
gusto. Quería hacer todo el recorrido de la escuela. El grado mayor que hay es
bachilleres.
Yo no tenía ganas de ir a bachilleres. Tenía
ganas de ayudar a hacer un trabajo muy especial. Sentía que aún no era el
momento de dar la cara. No me sentía todavía limpio y me apunté a primero de
enseñanza primaria. Recordaba que la primera y única oportunidad que tuve de
cursar primaria fue cuando era pequeño. En aquel entonces me sentía torpe,
tonto, feo, bobo y aterrado por haber sido separado de mi madre. Ahora quería ir
a la escuela seguro de mí mismo, sin terror, sin ser forzado. Quería aprender
por
voluntad y deseo propio.
Tuve la gran suerte de conocer a esas maestras
pedagogas que son a la vez sanas y naturales. Para mí fue un verdadero encuentro
con los conocimientos. Me pareció de una gran permisividad el no ponerme trabas
para el aprendizaje. Quería aprender. Tenía
ganas de saber. Veía las dificultades que tenía antes con las tablas de
multiplicar y recuerdo también los tablazos de mi padre. Las tablas no eran
responsables de la fobia que les tenía. Todas las reglas gramaticales iban
entrando y colocándose con la facilidad y memorización extraordinarias. También
los planetas y la biología. Era tal el hambre de aprender que parecía que se
despertara después de cuarenta años. Ahora la libertad de aprender la veo como
algo natural en el ser humano, y esa mujer fue el paso siguiente y necesario.
Fue cuando empecé a escribir, a leer, a comprender muchísimas cosas. El orden,
la autoridad no eran un orden infra-humano sino un orden cósmico, el orden de un
sistema necesario para un buen vivir en este planeta, en este país, en la
tierra.
Había que estar simplemente atento a no
molestar. Era ese orden mismo el que proporcionaba ponerse a su disposición con
una buena actitud hacia él para que las cosas sucedieran y sucedieran las buenas
cosas.
Ese encuentro fue muy significativo en mi vida
aquí, pues donde he sentido mi libertad ha sido en la cárcel. Después de que
terminé el año saqué un diez.
Nunca había acudido con tanto gusto a una
entrega de diplomas. Con alegría, dispuesto, iba a recibir lo que me había
costado lograr por esfuerzo propio y ese esfuerzo era muy gratificante. Tiene su
gloria el esfuerzo. El ir a la escuela era para mí ir con alegría. Después, iba
a seguir el segundo año de primaria.
Debo decir que en esa clase éramos un grupo de
cuarenta personas, un grupo brillantísimo, un verdadero grupo que hablaba mucho
del ser humano.
Yo intervenía mucho ahí. Fue un grupo modelo,
un grupo de mucha cosecha como individuos que éramos. Teníamos una disciplina,
un orden, una limpieza, un buen nivel académico. La gran mayoría de los que
asistían a primero de primaria iban con la misma carga con la cual uno va de
pequeño.
La cárcel se volvía a repetir como la primera
cárcel que tuvimos, que fue la escuela al principio. Era meternos en un lugar
que no queríamos (y aquí cárcel en la cárcel). Resultaba duro que lo
entendieran.
Con mis compañeros nos juntábamos para hacer
las tareas y los dibujos. Era bonito por la actitud de ellos y también porque yo
aprovechaba aquellos momentos de las tareas para el desarrollo de la
convivencia, para estar juntos, para platicar, para convivir (¡tan difícil
aquí!)
Algo se transformó dentro de mí y no fue
intencionado. Como consecuencia casual fui invitado a trabajar al pabellón de
los psicóticos, a dar un curso de verano. Éramos sólo dos personas para un grupo
de 64 enfermos mal atendidos a nivel psiquiátrico, con irregularidad total en la
toma de medicinas, pero en trato, cero en tratamiento psicológico, cero en
movilidad. Se les trataba mal y mal era la organización. Era la vergüenza de
las vergüenzas, con todo los daños que acarrean las enfermedades crónicas o
mejor dicho que se hicieron crónicas por no haber sido bien atendidas.
Cabe mencionar que se trata de patologías y
contenidos patológicos algo diferentes de los pacientes tradicionales del
exterior.
Normalmente los terapeutas trabajamos con
sueños, pensamientos y fantasías, mientras aquí, con psicóticos delincuentes, el
tabú ha sido realmente trasgredido. Es presente. Se ha encarnado. Aquí la
patología abarca como mínimo parricidas, matricidas y no es lo mismo soñar con
asesinar a la madre, al hijo, al padre o al hermano que haberles matado de
verdad.
¿Qué alternativas les podía ofrecer yo para que
se volvieran cuerdos?¿Qué otro modo más grato tenía yo para brindarles después
de sacarles de donde estaban? Lo que únicamente les proponía a cambio era la
conciencia de lo que hicieron y un muro alrededor.
A mí me costaba trabajo comprender eso y
aceptar que les iba a sacar de un mundo muy personal (bueno o malo) a tener
conciencia de sus 30 ó 40 años de cárcel, lo cual no es muy agradable. Tampoco
es compensatorio vivir en la conciencia de 40 años de prisión o muy posiblemente
de una cadena perpetua, ya que a esas personas sólo les puede sacar la misma
familia que ellos dañaron, y por eso muchos de ellos están en una situación no
explícita pero sí implícita, de cadena perpetua, de morir aquí por el abandono
de sus familiares. Entonces se ponía peor todavía el negocio de la terapia y el
negocio de la salud; y la negociación era precisamente ofrecerles a ellos algo
muy fuerte: que esto es la verdadera prisión, no ya la interna, sino que no
había más que ofrecer. Yo estaba más o menos en las mismas que ellos, en el
sentido de que no hay un lugar adecuado para ser persona, sino que uno es el que
hace el lugar, el que lo convierte
en algo agradable o en el infierno.
Empecé a trabajar con ellos, unos 42 que iban
desde psicóticos, lesionados cerebrales por inhalantes, personas con daños
congénitos, esquizofrenias de todo tipo, lesiones neurológicas, toxicómanos
crónicos ...Era mucho material humano y había mucho que hacer pero yo me sentía
en pañales y con total ignorancia sobre la realidad tan pesada y fuerte que
tenía enfrente.
Aquí se requería de alguien que no negara el
miedo y tuviera experiencia en haber caminado por los pasillos del infierno
personal, conocer la locura del otro por empatía con la propia. Haberla vivido y
reconocerla sería la única posibilidad de contactar con ellos, de relacionarse
con ellos, gente tan mal tratada. Tenían desconfianza de la desconfianza y yo
miedo del miedo.
Recuerdo que duré más de quince días en la
puerta, era lo único que hacía:me sentaba en la puerta e iba revisando todos mis
prejuicios, mis cobardías y mis soberbias.
Cuando me aclaré de mis prejuicios, de mi miedo
principalmente, fue cuando di el primer paso, intentando no invadir su casa, el
terreno de ellos, por una pretensión personal de conocimientos. Era muy
consciente de que el primer paso para tocar su tierra era verles como personas.
El momento que les vi como tales fue cuando ví, di el paso y me metí en ellos.
Después de un añoy ocho meses, hoy es reconocida como la primera comunidad
terapeútica delincuencial y propuesta en todo México. Les será evidente a todos
ustedes que no sé aplicar la terminología gestáltica adecuada, pero he preferido
"estar atento" en el vivir cotidiano antes que en el buen uso de lo
aca-endémico.
La Locura lo cura
Manifestazione terapeutico
Dall'era del fuoco
Al principio dell'umanitá
La razza umana
Ebbe una sola preoccupazione:
La consapevolezza.
Nel corso della sua esistenza
Ognuno di noi
È Gilgamesh-Enkiddu,
Abbiamo bisogno di entrambe queste
forze
Per il processo di trasformazione.
Il malessere nasce dalla confusione,
La confusione dall'inganno,
L'inganno dal risentimento,
El risentimento del disamore.
Lungi dall'accettare che la solitudine
sia una pausa
Per un'anima prigioniera
Dimentichiamo che la non
identificazione
É la liberazione del nostro essere;
Negando la nostra necessitá originale
Ci concentriamo nella mancanza
cosí perpetuamo la nostra dipendenza
nella distrazione quotidiana;
Dimentichiamo il principio
dell'eternitá;
Vivere il presente.
Ossessionati dal produrre la nostra
insicurezza
Ci condanniamo alla speranza;
La fantasia ci mette davanti la nostra
mediocritá
Nessuno appartiene a nessuno
Niente è di nessuno,
Nemmeno se stesso.
Vivere non ha bisogno di
giustificazioni;;
Essere lungi da giudizi e pregiudizi,
Si trasforma in veritá.
Attraverso la trasparenza
Focalizziamo l'attenzione.
Bisogna morire con i cinque sensi ben
desti,
Con una mente senza giudizi e una calda
emozione
In cui l'azione è una cadenza
Che invita alla contemplazione,
E ci riconosciamo intensamente piccoli
Il potere sovrano non permette
comparazione,
Il vuoto nutre l'io
Accompagnandolo sulle strade del
processo.
La difficoltá non consiste nel
risvegliarsi
Bensí nel permanere ben desti,
Ogni caduta è un ricordo della
distrazione
Ogni errore è un oblío di se stessi.
La tolleranza è l'unico bálsamo per
la caduta.
Siamo soltanto testimoni, vedette di un
oceano che
Si perpetua nel suo ondeggiare,
La sicurezza consiste solo nel navigare
Dimenticando l'approdo a un porto
sicuro,
Assumendo l'imprevedibile della vita.
Il marinaio si rafforza mantenendo la
sua nave al riparo
Ben lungi dal pretender di restare
nella bonaccia
Si fa piú forte al centro
dell'uragano,
L'uragano ci approssima all'essenza.
Tutto è al suo posto,
Ognuno ha quello che gli tocca,
A nessuno manca nulla.
Il mistero della vita
È lasciare un punto aberrante
Che sempre ci ha disorientato.
Il tramonto di un sole
Inviterá la pienezza di una notte
Perché, a sua volta,
Il circolo si completi con l'alba,
Tutto è circolare,
Dove si comincia si finisce,
Dove si finisce si continua.
La ruota della fortuna è la vita,
L'intensitá sottovaluta la
sottigliezza
La tenerezza riposa nella pace;
Solo nel silenzio ci manifestiamo
E permettiamo la presenza degli altri
La comunicazione è la egittimitá
Di due monologhi ininterrotti
Non dobbiamo afferrarci a nulla
Perché tutto è nostro;
La metamorfosi la si ottiene senza
minimizzare
Nessuno stato anteriore;
Ogni parte è necessaria per completare
il tutto.
L'incongrueza e l'ingiustizia
Allattano la accettazione
Ognuno di noi è un'epopea,
Il guerriero si investe
Manifestando la sua nuditá,
Ê giunto il momento di partire per la
guerra santa,
Guillermo Borja (1995)
Trad genseki
mercoledì, ottobre 15, 2014
martedì, ottobre 14, 2014
Il castello di carte
ê piú bello che il
colore di questo guanto abbandonato nel mare
e nei solchi deserti non
trovo piú nulla
ma piú lontano gli
strumenti musicali si riuniscono
in un'alcova
in un carro quadrato
e l'amore comincia
con festoni ai quattro
angoli
e battaglie senza fine
addio meraviglia addio
non hai cuore
ma un pioppo mansueto
nella coperta della borsa
e non è senza dare
l'allarme che la mia voce giunge alla tua cittá
la barca in cui si
suicidano i fantasmi dopo una prolungata immersione nel cadmio delle
consacrazioni
La barca nuda si presenta
alla mia porta
e chiama con tutto il suo
cielo nero
“pallida, dice lei, piú
pallida della tua sposa”
e quei denti nel suono
dello sguardo mi triturano
quei denti di catena e di
incendio
incendio in cui le donne
formano la catena
per impedire che nasca il
nove di spade
e le donne in cittá sono
piú povere di quanto sperassi
piú povere della della
mia vendetta
e della mia furia
piú povere di un postino
che solo possiede l'abbandono
su di una casa di otto
piani
di un biglietto di andata
e ritorno per la forca
è allìncrocio del
cammino e della morta
dove si alza il pilone
segnaletico degli innamorati
dove giungono tutti i
mesi a raccogliere i rumori
dove si incontrano ma non
si vedono mai
lo spaventapasseri del
castello di carte
il manichino del silenzio
con armatura di stoppie
con la sua fiamma e la
sua bandoliera
lo spaventapasseri dei
secoli
all'uscita del soterraneo
non vi è labirinto che
importi
tutte le ali e tutte le
chiavi aprono le porte del castello di carte
Pierre Unik
trad. genseki
A fuoco alto
Sono passati mille anni e
non era che un giorno
Sonno prendilo per i
piedi buttalo nella spazzatura
nel fieno della sua
tenerezza raggomitolato pugnala la vita
che il cancarone sparso
nella stalla sporchi il sangue carte su tavola niente
nelle tasche niente nelle
mani niente niente piú niente
sono passati mille anni e
era una notte sola
un pesce spaccato per la
lunghezza tiepida e il sogno ci risucchia nelle sue viscere
aperte i claxons non
hanno piú forza i camion si sono parcheggiati
agli orologi nessuna
finta
mezzanotte passa il mondo
passa
e io passo tutto passsa
ammassiamoci coprifuoco nella folla densa lenta non vi è
ness'unaltra via d'uscita fa freddo fa caldo e il sogno è una carta
assorbente ancora un mucchio di ferraglia tra invincibili saluti
dell'aurora tra gli stracci infamanti delle infanzie squisite del
ricordo caldaie da bucato in testa materassi materassi sul tetto
delle auto vi ho visto in Spagna e il dolore mi fa ancora fremere con
tutta la ridicola potenza che l'uomo crede aver domato ne abbiamo
viste molte altre e la paglia e l'asse la quaglia e il fucile delle
poltrone Luigi XV a brandeburghi sul petto e delle casse gabbie
bagagli tutto forbito colocato infangato macchie di sangue sulle
lenzuola gli sguardi fustigati perduti nei ritornelli adulterini
delle tracce di passi nel fango che sappiamo delle case abbandonate
della morbida intimitá desbordante dalle viscere del pesce sventrato
dal confuso ammasso dei pensieri stonacati dei maniaci muffe delle
ripetizioni e degli stracci coltivati in giardini pensili di tutte le
miserabili grandezze e del latte oscuro della passione la vita
multiple degli umani naufragati che siamo mucchio di imbecilli
abbandonati a la noncuranza dei solstizi tenera tenera è la notte
agli scampati della paura
il sonno immobile
la pietra al collo
mille anni sono trascorsi
e era una sola notte
non sono re magi che
sento sotto la finestra non sono buone notizie che sento abbuffare lo
spazio non è la porcellana dei gorgheggi
tra i rami gioia aperta
ai bambini
che odo nella mia miseria
sono nudo di speranza
annodata all'albero
vertiginosa ramificazione di fronde aspetto la folgore e il lampo
mi offro all'ascia del
taglialegna dall'alto in basso e con un solo coplo che spezza la
vendetta della terra e si rianima la folgore nei pressi del mio
sfinimento
son passati mille anni e
solo era una notte e anche questa notte notte i re magi marciano a
scaldare la gioia dei camini cantando trasformare la sabbia in erba
dolce la pietra in sorgenti e le ortiche in cristallo nelle
conchiglie c'è sempre il riso lontano soggiorno delle caravelle di
briganti mille anni di riso in una sola conchiglia e mille conchiglie
chiuuse nel cuore della mia ben amata dove sei testa di spiedo
in quali onde di velluto
si è perso il sogno assurdo di nuovo le strade si sono alzate con il
sole lentamente lentamente gli occhi sbattuti la nebbia in testa nel
ventre quanti kilometri dalla Porta della Muta un mondo intero ci
separa
è giorno a Parigi non ci
sono piú venditori di vestiti Parigi è cieco e le discariche sono
vuote i mercati coperti di tegole di silenzio la Flora tapezzata da
rose del deserto notte nera non riconosco piú le strade del mio
quartiere avanza dunque testa d'impagliato
a Parigi non ci sono piú
patate fritte è scuro a mezzogiorno ecco l'artiglieria sbocca a in
senso contrario è spenta e grigia come la nostra avanzata andate
testa di porco
è il crepitare della mia
giovinezza che sibila tra le mitragliette leggere anch'essa spente
specchio senza risorse,
Parigi Parigi mia cittá
aperta ritorno indietro cittá aperta agli assassini vestiti a festa
cittá proibita venduta insozzata tumefatta nella luce insradicabile
della tua primitiva fierezza la Tour Saint-Jacques resta ove risuona
il riso di Desnos e il riso ricade in mille petali di polvere
sollevano sul selciato lo spavento degli usignoli sono e battelli
lavatoio che vanno a la deriva è l'Ile de la Citá dove si
imbrogliano le ali i canti sono costernati in pose eterne i gesti
familiari ritrovati a quest'ora si dice che non la rivedremo mai piú
Rigaud gare Montparnasse
Benvenuta stazione a te cosí vanno le cose all'immortalitá se
credere in una buona partenza non fa male a nessuno i nostri sono
partiti portandosi via il nostro cuore pezzo per pezzo e mattone dopo
mattone si spoglia la cittá dei pianti
Crevel Passy Concorde
strazi dementi fummo di questo mondo ove manate di mani nascevano
sullo slancio amico delle libertá tenaci la Senna tra Via du Beaune
e des Saints-Pères quante sbornie colarono nelle nostre vene e se en
andarono ad ingrossare i debiti dell'aurora o Closerie questa notte o
visto affondare tanti lillá nelle tombe aperte che la mia vista si
confonde
quanto altri lo hanno
conosciuto come Unik di Via Vaugirard l'Ile Saint-Louis Montmartre
Auteuil Porte Saint-Denis era la guerra di Spagna al tempo della
purezza e noi correvamo al centro incandescente di braci nessun
orrore al mondo ci avrebbe fermato tanto i nostri cuori martellavano
alla stessa cadenza la tragedia serena che ricopriva il sangue delle
strade
Madrid pietra sigillata
nel mio dolore antica cittá chiusa all'amore come il mio amore
tradito Parigi mia cittá aperta torno indietro i sentieri battuti
delle mie giovano estati ove sono le passeggiate e scoprendo Parigi
la Ferme di Belleville o il libro d'ore pagina a pagina al tornante
delle risa Paul ancora ti vedo tra il manifesto LU e quello di Bovril
la Porte de la Villette che amavi come un indovinello la cittá si
gargarizza di claxons d'autobus i rami dei metro fanno scaturire
geysers le donne sono regine vanno come chiatte ignare della loro
bellezza le loro teste sono altrove
en abbiamo contato i
carichi impalpabili tesori che passano a filo d'acqua passaggi o
passaggi pazienti impazienti passiamo sui nostri amori ci
porterebbero troppo lontano le fiamme si sono spente ai quattro
angoli del mondo e i miei amici sono morti proprio nel cuore di
Parigi
non sono mica nato ieri
e le rime intorno alla
vita il sole a bandoliera le dolci pozioni torttando alle mie tempie
l'aria di festa che attraversa il petto la gaiezza carnale che si
eleva
offerta in onore di
questa luce
…
Tristan Tzara
da “ A Haute Flamme”
trad genseki
lunedì, ottobre 13, 2014
A fuoco alto
Avevo centomila anni
ed eccomi gregge ed eccomi foglia
morta de eccomi fresco alberello che scuote la chioma davanti a colui
che io sono mentre passo in mezzso agli altri
il blu filava la lana o folle o mischie
e io seguivo docile la stella strana stella verso quali tardivi re
magi conduceva la speranza schiantata con la dura catena ai polsi
delle strade stella di sventura luce cardinale ero io o non lo ero
piú non sapevo che cosa dire tanto la tristezza conquistata alle
parole semplici sbarrava il cammino della ragione che sfuggiva
mai estate piú splendida
mai bellezza accecante ci trovó piú
stupidi di quanto fossimo allora sulla strada senza fine dicevano è
bel tempo non credevamo ai nostri occhi e nemmeno ci pensavamo ed era
inutile nei fiocchi di luce sprofondava la ragione in mulinelli
sfavillanti della memoria che avremmo dovuto fare dei giochi amorosi
nascosti nell'abbaglio muto della coorte
l'uccello agli anelli del suo canto
infilava interminabili promesse di fidanzamento e nell'añpiezza di
un popolo intero al centro delle meraviglie sonore e vive ero io
solo coperto di solitudine
mentre camminavamo andavamo affanti di
bellezza straziata nelle nostre mani ciascuno la sua solitudine fiore
solitario invisibile candore che nasconde il rimpianto e la paura
senza conoscere da sola la fatica dei nostri corpi invasi tratteneva
il pensiero su questa terra maledetta
al diavolo le sofferenze e che si
spiaccichi il cuore lunghe crepe al cuore dei muri impliciti sottile
speranza sul filo di quei giorni perché la morte unanime non ci ha
compresi nel gruppo designato alle maree della dimenticanza
inghiottiteci onde assurde nel letto dell'oblio dolce dolcezza
dell'oblio
Tristan Tzara
trad. genseki
martedì, ottobre 07, 2014
lunedì, ottobre 06, 2014
La gerarchia di esclusione
La gerarchia di esclusione è una
tassonomia sviluppata nella serie fantascientifica di Orson Sott Card
“La saga di Ender”, per classificare gli esseri viventi:
Utlannings:
Forestieri del proprio mondo, come
persone di un'altra nazione o di un'altra lingua o di un'altra cittá;
Främlings
Sono persone della stessa specie ma
provenienti da un altro mondo: pianeta, sistema solare o galassia;
Ramen
Sono esseri viventi di un'altra specie
con cui è possibile comunicare, convivere, raggiungere accordi;
Varelse
Sono esseri viventi con cui non è
possibile la comunicazione, che non hanno punti in comune con
l'umanitá, di essi non possiamo cogliere gli obiettivi e le
motivazioni che li inducono ad agire in un modo piuttosto che in un
altro.
L'inclusione in una o nell'altra categoria non dipende dalla natura dell'oggetto della classificazione ma da chi la produce. Cosí per esempio gli africani o gli aborigeni australiani sono stati classificati Varelse poi e a volte Utlannings.
genseki
Rosa Chacel
Rimprovero
Dimmi, la perla, il frutto della tua mano, quando maturerá
Un cuore come il tuo, puro e duro, insensibile all'arsura!
Ben fermo , al tuo dito, come un ramo bianco, non ti pesa mai il suo peso?
Come puó conservare tanto a lungo il segreto del tuo io improrogato?
...
Leprotta bianca, non ti trovó forse tua madre in una perla?
Anch'io, pensaci, dove saremmo senza l'autunno dorato e la sua vendemmia?
L'anello d'oro, peró, conserva il frutto della tua mano, la tua banbina è chiusa
Nel suo guscio bianco, puro e duro.
Diró al sole che non sprechi i suoi raggi.
Da: "Otros Poemas"
trad. genseki
*
A Teresa
Appena ti conosco, ma in cambio
Conosco bene quel laboratorio
Dove, molti anni prima che nascessi
Si condensava la tua pura idea.
Perché anima e corpo hanno soltanto
Una bocca insaziabile in comune, gli occhi,
Per questo ben conosco le materie mischiate
Nella dolce pozione frutto della tua formula
So che furono gigli e l'Angelo Caduto,
E fogli grigi, appesi a una bacheca
Ove Platon parlava seguendo il carboncino
Dal petto di un atleta o da una fonte sacra.
So che nell'aule e negli spessi tomi
Le parole spogliate ci mostrano le viscere
E anello dopo anello, la magica catena,
Con cui amore, logica e numero le uniscono.
E tutto in primavera, nell'autunno, in inverno
In estate, tra i pini ove piangon le tortore
Sui sentieri ombreggiati da pioppi e da betulle:
Tutto questo sommato genera un bene: Teresa
Da "Otros poemas"
Trad. genseki
*
La colpa
La colpa sorge all'occaso
Oscuritá la rischiara
Il tramonto le è aurora...
S'ode l'ombra che avanza da lontano
Quando sugli alberi il cielo è sereno
Come una pampa verde-azzurro, intatta
E il silenzio percorre i quieti labirinti di arrayanes
Giungerá il sonno: resta allerta l'insonnia
Prima che cada la cortina oscura,
Gridate almeno, uomini,
Come il pavone meccanico che gracchia il suo lamento
Straziato tra i rami dell'araucaria,
Gridate con multiple voci
Pigolate tra i rampicanti
Tra le edere e le rose
Nel glicine cercate rifugio
Con tordi e passeri
Perché avanza l'onda della notte
La sua assenza di luce,
L'ospite suo implacabile
Dai passi felpati, il pericolo ...
da: "Otros poemas"
trad. genseki
*
A Sara e al suo gioiello
Dimmi, la perla, il frutto della tua mano, quando maturerá
Un cuore come il tuo, puro e duro, insensibile all'arsura!
Ben fermo , al tuo dito, come un ramo bianco, non ti pesa mai il suo peso?
Come puó conservare tanto a lungo il segreto del tuo io improrogato?
...
Leprotta bianca, non ti trovó forse tua madre in una perla?
Anch'io, pensaci, dove saremmo senza l'autunno dorato e la sua vendemmia?
L'anello d'oro, peró, conserva il frutto della tua mano, la tua banbina è chiusa
Nel suo guscio bianco, puro e duro.
Diró al sole che non sprechi i suoi raggi.
Da: "Otros Poemas"
trad. genseki
*
A Teresa
Appena ti conosco, ma in cambio
Conosco bene quel laboratorio
Dove, molti anni prima che nascessi
Si condensava la tua pura idea.
Perché anima e corpo hanno soltanto
Una bocca insaziabile in comune, gli occhi,
Per questo ben conosco le materie mischiate
Nella dolce pozione frutto della tua formula
So che furono gigli e l'Angelo Caduto,
E fogli grigi, appesi a una bacheca
Ove Platon parlava seguendo il carboncino
Dal petto di un atleta o da una fonte sacra.
So che nell'aule e negli spessi tomi
Le parole spogliate ci mostrano le viscere
E anello dopo anello, la magica catena,
Con cui amore, logica e numero le uniscono.
E tutto in primavera, nell'autunno, in inverno
In estate, tra i pini ove piangon le tortore
Sui sentieri ombreggiati da pioppi e da betulle:
Tutto questo sommato genera un bene: Teresa
Da "Otros poemas"
Trad. genseki
*
La colpa
Sera allo Zoo de La Plata
La colpa sorge all'occaso
Oscuritá la rischiara
Il tramonto le è aurora...
S'ode l'ombra che avanza da lontano
Quando sugli alberi il cielo è sereno
Come una pampa verde-azzurro, intatta
E il silenzio percorre i quieti labirinti di arrayanes
Giungerá il sonno: resta allerta l'insonnia
Prima che cada la cortina oscura,
Gridate almeno, uomini,
Come il pavone meccanico che gracchia il suo lamento
Straziato tra i rami dell'araucaria,
Gridate con multiple voci
Pigolate tra i rampicanti
Tra le edere e le rose
Nel glicine cercate rifugio
Con tordi e passeri
Perché avanza l'onda della notte
La sua assenza di luce,
L'ospite suo implacabile
Dai passi felpati, il pericolo ...
da: "Otros poemas"
trad. genseki
*
giovedì, ottobre 02, 2014
Origini
Ho conosciuto la tua fonte, o fiume:
Era acqua frizzante come l'uncinetto
che rapido attraversa
L'indumento rigido della roccia. Sì,
per davvero,
Fiume, ho conosciuto la tua fonte.
Con il palmo della mia mano ho toccato
la tua frescura,
Il tuo indimenticabile splendore
l'erba novella era in attesa del tuo
bacio.
Con il palmo della mia mano ho toccato
la tua frescura
Rossa e nera era la forma eterna della
roocia
scolpita dal vento, da cima a fondo
In estate roventi, inverni a lungo
dimenticati.
Nera e rossa era la forma eterna della
roccia.
Proprio cosí, non l'avrei mai lasciata
la tua fonte
Mi ci sarei bagnata, piuttosto,
battezzata , e illuminata
nella sua primordiale luce santa,
No, no, non l'avrei mai lasciata la tua
fonte.
Nina Cassian
Trad genseki
mercoledì, ottobre 01, 2014
Variazioni digitali su Alcyone di G D'annunzio
Ho regolato il segno lucido
lasciando la schiuma delle sue labbra:
nomo i vecchi e la recente
So che li compongono con arte bella.
I musicisti hanno modi umani
diversi dal dorico al frigio:
Melodia divina infinita
Creo nell'esiguo vestigio.
Indurimento d'onda trascrive
l'esecuzione sulla sabbia bagnata;
attraverso il mito fuggitivo
accordi e pause avvincendo.
O mia sabbia melodiosa,
vostro non è un granello di silice
Vorrei donare la pomice Ascosa
fonte dell'ìlice d'ombra.
Brilli innumerevole e immensa
Crescendo alla mia scrittura;
e l'acqua che bevete l'addensi,
l'induri sale sterile.
Il rilievo così sottile,
dedotto con arte in modo frugale,
che gli uomini infranga puerili
d'archi davanti al
sopracciglio .
Di tanto in tanto impronta trisulca
le caratteristiche intercide;
peste umana, se vi opprimono,
impregnati di luce e sorrisi.
Figure di neumi son Elle
in questa concordia discorde.
Curva, O cetera io suono,
o un plettro il dito ti morde.
Spendo; e il grande Concento
taciturno dentro di me è soddisfatto,
dall'unghie del mio piede d'argento
alle vene nelle mie tempie.
Scerne l'orecchio con calma
i toni dell'onda che giunge,
Indago con chiara pupilla
più di ogni segno lene;
genseki
martedì, settembre 30, 2014
Léonidas
Sei tu la mia donna? La mia donna, fatta per raggiungere l'incontro con il presente? L'ipnosi della fenice desidera l'incontro con la tua giovinezza. La pietra delle ore la investe della sua edera.
Sei tu la mia donna ? L'anno del vento ove guerreggia una vecchi nube partorisce la rosa, la rosa della violenza.
La mia donna fatta per raggiungere l'incontro con il presente.
Si allontana la battaglia e lascia un cuore d'ape sulle nostre terre, l'ombra desta, il pane ingenuo.
La vigilia scivola con lentezza verso l'intimitá della festa.
La mia donna fatta per raggiungere l'intimitá del presente.
René Char
trad genseki
Sei tu la mia donna ? L'anno del vento ove guerreggia una vecchi nube partorisce la rosa, la rosa della violenza.
La mia donna fatta per raggiungere l'incontro con il presente.
Si allontana la battaglia e lascia un cuore d'ape sulle nostre terre, l'ombra desta, il pane ingenuo.
La vigilia scivola con lentezza verso l'intimitá della festa.
La mia donna fatta per raggiungere l'intimitá del presente.
René Char
trad genseki
lunedì, settembre 22, 2014
Un esercito di santi
L'unica cosa che potrá salvarci è un esercito di santi - e non necessariamente Giovanna d'Arco o Santi guerrieri. Da dove giungeranno? Nessuno in realtá puó dirlo, tranne cploro che ritengono, riguardo a ció, di credere (come Maritain) che i Santi verranno dai piú poveri tra i laici, dalla profonditá dei bassifondi, dai campi di concentramento e dalle prigioni, dai luoghi in cui la gente muore di fame, è bombardata, è percossa a morte. Perché in tutti questi luoghi Cristo soffre maggiormente. Maritain aggiunge, credo, che i Santi si troveranno in pochi ordini religiosi, quelli contemplativi.
E gli altri, cosa dovremmo fae? Prostrarsi e pregare, pregare piú volte Dio di renderci santi.Thomas Merton
26 Maggio 1940
Medaglione
Acque di folgore verde che suonano l'estasi del volto amato, acque intessute di vecchi delitti, acque amorfe, acque sacheggiate da una prossima consacrazione ... Anche a costo di subire gli ammonimenti della sua memoria eliminata, il fontaniere saluta a fior di labbra l'amore assoluto dell'autunno.
Identica saggezza, tu che componi il futuro senza cedere al peso che scoraggia, possa egli sentire nel suo corpo lo slancio elettrico del viaggio.
René Char
Trad. genseki
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