venerdì, ottobre 19, 2012

Barbara

Barbara è ancora una delle poesie giovanili di Bolls Corrachia ritrovata e pubblicata dal caro genseki.


Barbara


La notte scorsa
era una notte di nebbia
viscida e calda come la febbre
ha sognato
Barbara
si
proprio
Barbarà
quella di Prévert
bagnata e radiosa
come lo è da 50 anni
come lo sarà
ancora
per moltissimi altri
forse
per sempre
se questa locuzione ha un senso
per i mortali
l’ho sognata
sullo sfondo nuvoloso
del cielo di Brest
tra nuvole marce
dall’odore di nafta
e di acqua di mare
e la colonna sonora
era un rombo di archi
come nelle canzoni di Ferré
nel sogno
lei mi ha parlato
con una voce calda
e roca
come quella di Billie Holliday
non ricordo bene
quello che mi ha detto
le parole dei sogni
si dissolvono
al risveglio
come un volo di piccioni
grassi e sporchi
intorno
ai campanili grigi
di qualche cattedrale
posso quindi solo cercare
di ricostruire il senso delle sue parole
con la logica della veglia

“ Da 50 anni
ormai io corro
fradicia e radiosa
incontro all’amore che perderò
da 50 lo abbraccio
nella pioggia
da 50 anni ripeto questa scena
ininterrottamente
in bianco e nero
per il pubblico distratto degli studenti di francese
che sognano
l’uccello lira
e per gli innamorati che amano le fotografie di Doisneau
si Prévert
mi ha rovinato
nessun altro poeta dopo di lui
ha più voluto
scritturami
per altri
quelli che avevo sempre sognato
per cui mi sentivo ormai matura
ruoli drammatici
o ermetici
avrei voluto percorrere le strade
dell’America
in gins
e maglione di lana
con un vecchio zaino militare
affacciarmi morta
a una finestra neogotica
di Fiesole

oppure passeggiare tra i laghi di Carinzia
scendere con Annina
le scale di Livorno
con una catenina
dorata tra i denti
nelle mattine di mare
che sanno di latte
e di azzurro
approdare bruciata dal sole
bionda
sulle spiagge di isole vespertine
tra il brusio
ininterrotto dei pappagalli
vestita come una zingara hollywoodiana
invece
da 50 anni
posso solo
correre
sotto la pioggia
di Brest
che mi unge i capelli
e mi macchia il vestito
di cotonina a fiori
sullo sfondo
di nuvole marce
di soldati
morti
macerie
e trincee
rigorosamente in bianco e nero
e per di più
senza audio
e questa pioggia
mi ha guastato la salute
mi è entrata fino nelle ossa
mi ha tolto l’appetito
e il sorriso
e non ho mai potuto ascoltare
una canzone di Neil Young
anzi mi sono persa
anche
tutta la scena psichedelica
dove
avrei potuto svolgere
un ruolo di primo piano
e il cinema a colori
e le foto di Mapplethorpe
e i riccioli di Malcom Mcclaren
per correre sotto la pioggia
davanti a un pubblico
sempre più ristretto
di studenti di francese
e di liceali innamorati
i cui padri ascoltavano De André “
questo mi ha detto
- credo -
Barbarà
in un attimo di sosta
con una smorfia stanca sul volto ingenuo
prima di ricominciare
a correre
in bianco e nero
fradicia e radiosa
sotto la pioggia grigia
sotto le nuvole marce
di Brest
e
io
non ho saputo dirle
che l’ho
amata
e che l’amo sempre
e che tutte le sere
di pioggia
cerco il suo volto
tra quello di tutte le ragazze dai capelli fradici
che corrono sotto la pioggia unta
cercando invano
di ripararsi con la borsetta
dal tempo che le fisserà
per sempre
nel lampo mortuario
di una posa perfetta.


lunedì, ottobre 15, 2012

Il mercatino dell'antiquariato

Continua la pubblicazione a cura di genseki delle poesie giovanili di Bools Corracha.


Il mercatino dell’antiquariato


Quando viene l’autunno
spuntano dovunque
i mercatini dell’antiquariato
probabilmente ce ne sono anche in piena estate
e forse in primavera
ma il maggior numero di essi
si svolge
indubbiamente
all’inizio dell’autunno
oppure
alla fine dell’estate
cioè a settembre

l’autunno è essenziale all’antiquariato
nella sua forma di mercato all’aperto
perché
la luce calda e cristallina dell’autunno
e il riverbero delle foglie
che cominciano
a tingersi di rosso e d’oro
sono necessari per dare
alle madie
e alle specchiere
all’ottone
e alle rilegature dei libri
la patina di colore
malinconico che contraddistingue
nell’immaginario telecollettivo
ciò che è antico
come un mulino bianco
o la pasta di giovannirana
e l’autunno
è l’unico elemento
che possa legare insieme
la congerie di oggetti
estremamente incongrui
che si trovano
in un mercatino dell’antiquariato
fumetti americani della settimana scorsa
pappagalli centenari
con un’ala bruciata
e la voce arrochita
sigariavana sbocconcellati
denti d’oro cariati
divise risorgimentali
spartiti musicali
gialli e ocra
fotografie di ritapavone
bidè di stagno
bastoni da passeggio olandesi
mozziconi di sigarette
mollette di plastica
busti romani di plastica verde
specchi opacizzati
bottiglie di cocacola
telefoni verde pisello
o giallo canarino
carte stradali del Touring
con macchie di caffè ocracee e anche grigiastre intorno alle città con più di 100.000 ab.
francobolli
del belis
letti di ottone malese
forchette di cellulosa
coltelli di porcellana
volpi canore che hanno perso la coda
bicchieri irregolari macchiati
indelebilmente di vini densi
pelli di gatto scabbioso
ermellini napoleonici
proclami savoiardi
biscotti al rosolio
ghiande saturnine
cartoline in biancoenero
con saluti rispettosi svolazzanti
di giovani impiegati di belle speranze
in riviera
a timide sartine del Canavese
e
poi
madie
madie
madie
madie
e
madie
la madia
è l’epitome
del mercatino dell’antiquariato
in essa convergono
tutti gli oggetti che lo costituiscono
e che noi guardiamo
mentre i nostri occhi divengono
grigi
e le nostre camicie vietnamite o taiwanesi
si trasformano in polverose redingotes
e noi ci sentiamo come chi è appena sceso da un calesse
mentre una foglia
rossa
che si è staccata da un platano o da una vite
plana sulle nostre teste
dove
è appena spuntata una bombetta magrittiana
e si posa
leggera
ai piedi di un grosso cane di ceramica arancione
nell’aria cristallina di settembre
 
Bolls Corracha

Troppo tardi

Forse ormai troppo tardi
Abbiamo raccolto i nostri stracci
Preso congedo dalla scogliera
Dalla finestra che si apriva
Sui rami del tiglio
Dalle sedie arancioni della terrazza.
I tuoi vestiti
                       - anche quello verde -
Non avevano smesso di sanguinare
Da quel giorno,
Da quando la pioggia cominció a cadere
Proprio sulla lattuga
E non cessó nemmeno
Quando gli ultimi cervi abbandonarono
Il parcheggio tra le raffiche arancioni
Dei lampioni
E non cessa nemmeno adesso
E piove
Sul sofá di pelle
Sulla credenza abbandonata tra le felci
Sulla spuma delle sottovesti
Dei reggiseni, delle mutandine.
Forse davvero troppo tardi
Ho raccolto i miei stracci
Ho fatto l'appello delle mie ossa
Ho pianto anch'io
Sulla polvere
Sulle piante grasse
E ce siamo andati
Passando per la breccia della porta
Oltre il guado
Verso gli ultimi campi di colza.

genseki

domenica, ottobre 14, 2012

La poesia

La poesia è una visione del mondo che si ottiene con uno sforzo, a volte fino allo sfinimento, della volontá tesa come un arco. La poesia è della volontà. Non è debolezza e non entra in modo libero e gratuito attraverso  sensi; non si confonde con la sensualitá, anzi, opponendosi ad essa...

Genet
Trad. genseki

La dea degli stracci

Incerti miti, gli ultimi scarti
Di scisti gloriose
Rocciosi tramonti, s'innesta
L'acero alla falesia
Nella speranza della frana

Nella notte dei gelsomini
Sacri alla dea degli stracci
Inutilmente gridano le fauci
La paura dell'ultimo animale.

genseki

venerdì, ottobre 12, 2012

Santa Elisabetta di Ungheria


Genet

Dio che creó dal nulla il cielo e la terra fece anche un altro miracolo, offrí un dono a Santa Elisabetta di Ungheria, la quale a causa della sua condizione di Regina era circondata dal lusso della corte.
Le offrí un regalo fatto apposta per lei, alla sua altezza, tagliato su misura: una cella monastica, invisibile, invisibile a suo marito, ai cortigiani, ai ministri alle dame di compagnia, una cella che, in ultima istanza, era personale e segreta, che si muoveva seguendo i movimenti della Santa Regina. I suoi muri esterni erano visibili solo per quattro occhi, quelli della Regina e quelli di Dio. Tutti e quattro costituivano un solo occhio...
Genet
Trad. genseki

Invisibili

Invisibili ai nostri occhi
Gli uccelli dell'autunno
Era un esplodere lascivo
Di mandorle, sudavamo latte
Unghia dopo unghia
Merlo dopo merlo
Ua farfalla scagliata dalla frombola del sole
Ti aveva sfiorato una tempia.

genseki

giovedì, ottobre 11, 2012

Kazuki Tomokawa - Jean Genet ni Kike

Pontormo - Della Casa


Veniva prima

Veniva prima d qualunque ricordo
Irresistibilmente prima, sai?
Del gioco azzurro delle felci
Sul sangue dell'avena
Veniva prima dell'amido
Delle medaglie
Del madore delle unghie
Del tuo morire abbracciata
Al tuo sudore
Gemendo l'aperto tepore della tua pelle
Veniva prima di qualunque ricordo,
Anche del tuo -
Si! Del tuo!
Come ricordarlo allora:
Quando ancora non avevamo appreso
La febbre che brucia nel cielo
A ogni volo
A ogni stormo
Come le chiome dei frassini
Si disfano in zolfo e cobalto
Se una nube le sfiora
Come ogni ombra di felce
Fu un angelo sfiorito
E l'ansito geometrico dei bruchi
Era fraterno al nostro bisogno di simmetria
Veniva prima di tutto questo
Pure prima di quell'altro
E non era un prima che avesse un dopo
Anche tutti i dopo venivano prima
Per questo alla fine
Riuscimmo a ricordarlo:
Solo chi ama puñ morire davvero.

genseki

mercoledì, ottobre 10, 2012

Le condamné à mort


Le condamné à mort


Pontormo - Cosimo


Blues castigliano

Da ventanni

Quando avevo quattordici anni
Mi facevano lavorare fino a sera;
Quando tornavo a casa
Mi prendeva la mamma
La testa tra le mani.

Ero un ragazzino che amava il sole e la terra
E gli strilli dei miei compagni in cortile
I falò nella notte
E tutte le cose che fanno bene
E l'amicizia
Che fa crescre il cuore.

Alle cinque, d'inverno,
Mia madre si sedeva sul bordo del mio letto
Mi chiamava per nome
E mi accarezzava la faccia
Fino a svegliarmi

Scendevoin strada che era ancora notte
Mi sembrava che il freddo pietrificasse gli occhi.

Non era giuso, ma era così bello
Caminnare per le vie e ascoltare i miei passi
E sentire la notte di quelli che dormivano
E comprendere che erano una sola creatura
Che riposava di un'unica vita
Tutti quanti con un unico sonno.

Entravo al lavoro
                  La fabbrica
Puzzava e mi faceva male
                   Poi arrivavano le donne
E si mettevano a strofinare in silenzio

Per ventanni
                   Mi hanno
Sfruttato e dimenticato
Ormai non comprendo la notte
Né il canto dei ragazzini nei prati
Eppure so
Che qualche cosa di più grnde e di più reale di me
È con me scorre per le mie ossa.

                                      Terra instancabile
                                                              Firma
                                      La pace che sai
                                                              Darci
                                      La nostra esistenza
                                      la nostra.

Antonio Gamoneda
trad genseki

mercoledì, agosto 29, 2012

Antonio Gamoneda

L'autunno si esprime in uccelli invisibili.

Jean Genet

Qualcuno dei miei libri sarà mai altro che un pretesto per mostrare un soldato vestito di azzurro, un angelo e un negro che giocano fraternamente a dadi in una prigione chiara o cupa?

Antonio Gamoneda


Gamoneda

Ringrazio la povertà per non maledirmi e per concedermi gli anelli che mi distinguona da quando ero puro e legislavo nella negazione.

Trad genseki

Ecco finiva qui

Ecco, finiva qui,
Il tempo dei viaggi
Ora il tepo era quello delle alghe
Dei vascelli di campane
Sparsi per i prati
Era il tempo di dormire
Sotto i baldacchini di ossa
Di esercitare gli occhi al volo
All'ascesa,
Alla fiamma
Era il tempo immoto della nebbia
Delle greggi sudice
Sulle autostrade
Il tempo delle capanne
Del fuoco
Dell'asse di frassino
Dove pascere le parole
Pascere il senso,
Pascere le sillabe,
Ecco! Finiva qui.

 genseki

lunedì, luglio 30, 2012

Merleau-Ponty

"Le corps propre (existentiel) est dans le monde comme le cœur dans l'organisme: il maintient continuellement en vie le spectacle visible, il l'anime et le nourrit intérieurement, il forme avec lui un système."

Dietro la notte

Dietro la notte, qualcuno,
Fiutava il paesaggio,
Fiutava il mare, il carillon delle sue ossa,
Il petulante pigolío dei papaveri costieri,
Fiutava le ali che dispiegavano le tenebre
Sulla terrazza dei fiumi.
Qualcuno fiutava, dietro la notte
Con froge favolose, metalliche
Con corrosivi scoppi di tosse;
Colte di sorpresa
Le ortiche si coloravano di viola
E tu scendevi di scoglio in scoglio
Verso il battesimo delle mie mani
Verso quell'altro canto,
Verso la pergola, il chiostro
Le code di milioni di volpi
Erano incendi nella brughiera
Il suo respiro affannoso
Scuoteva la notte come un lenzuolo teso
E io pensavo che la paura
L'avevo deposta sul prato,
L'avevo dimenticata tra gli anemoni,
Dietro il bosso
Tra le ortensie
E che quella che fiutava era lei,
La paura
Dall'altra sponda della notte
I nudi limiti di me stesso.

genseki

Anche le nostre parole

Anche le nostre parole
Finalmente
Erano liquide
Come liquido mondo
Ci scorreva
Tra la vita
Verso i rami dei venti
La fioritura delle nuvole.
Poi furono i laghi
Che esplosero
Tra versanti di muschio
Fino all'orizzonte:
Come nere pupille
La processione dei rospi
Scuoteva l'abetaia
Produceva frane
Fratture
Smottamenti
Fino alla scuola
Al fondo della campagna, al patio,
Nulla piú sarebbe stato colto
Fermato, descritto
Nulla piú detto
Sotto questa luce densa
Come l'olio
Questo splendore viscoso
La pellicola di verde
Dell'istante.

*

Trapassare
Passammo
Con la sola forza dell'estate
Giá svaniti
I polpastrelli
Nell'abbraccio degli occhi
Nella carezza degli sguardi.

*

I nuclei sferici del vino
Come proiettili
Crivellavano le fronde del sicomoro
Per un attimo fummo Abramo
Poi il fumo verde
Raschió via la vista
Ceneri seccche
Tannino sugli zigomi
Agli angoli degli occhi.

*

Era un grande coniglio cornuto
Quello che stringeva la luna
Tra le ciglia
E noi eravamo questo e quello
Prima e dopo
Spenti, noi,
Nell'accensione del divenire

genseki

Entra

Entra nella sventura
D'una foglia
Fin che la notte sia solo disfatta
Sintesi
Di silenzio e clorofilla
E nel centro
Del dentro
Il tuo morire

genseki

lunedì, giugno 11, 2012

Ray Bradbury

Io muoio cosí muore il mondo


Povero mondo, che non conosce la sua rovina, il giorno in cui io muoio.
Duecento milioni di ore dura la mia ultima ora,
Porto con me nella tomba tutto il continente.
Sono i piú coraggiosi, tutti innocenti e non sanno
Che se io affondo, loro saranno i prossimi.
Cosí nell'ora della morte festeggiano i Bei Tempi
Mentre io, matto egoista, gli preparo un pessimo Anno Nuovo.
I paesi oltre il mio paese sono ampi e brillanti,
Ma io, con mano sicura, spengo la loro luce
Spengo l'Alaska, nego la Francia del Re Sole, taglio la gola alla Britannia,
Con un battito di ciglia faccio sparire la vecchia Madre Russia,
Spingo la Cina giú dalla scogliera,
Faccio cadere giú l'Australia e metto la lapide,
Do un calcio al Giappone mentre cammino. E la Grecia? Vola via alla svelta.
La faró cadere e volare come il verde Eire,
Torta nel mio sogno sudato, la Spagna si dispera,
Sparo ai figli morti di Goya, torturo i figli della Svezia,
Spacco fiori, fattorie e paesi coi fucili del tramonto.
Quando il mio cuore si ferma sprofonda nel sonno il grande Ra,
Seppelisco tutte le stelle nel Profondo Cosmo.
Allora, ascolta mondo, sii avvisato, conosci il puro terrore.
Quando io mi ammalo, quel giorno il tuo sangue è morto.
Comportati bene, rimarró e ti lascio vivere.
Comportati male, riprenderó quel che ti dono adesso.
Questa è la fine e tutto. Le tue bandiere sono ripiegate.
Se io sono colpito e cado? Allora finisce il tuo mondo.

Ray Bradbury
Trad Paolo Nori e Salim Catrina

Addio Ray, tutti quei meli, tutti sono fioriti

Omaggio alla Grecia

martedì, maggio 15, 2012


Bools Corracha

La poesia che segue è uno dei pochi testi che ci ha lasciato Bools Corracha proprio nei primi mesi autunnali successivi al suo arrivo a Jeve. In quel periodo il giovane ma provato Bools Corracha era fortemente influenzato dalla posia di Ferlingheti adepto di un tardo, patetico e anche un po ridicolo "hyppismo" (Spero che questa parola esista ed abbia un senso). I testi che pubblicherò in questo blog, quando ne avrò il tempo, li devo alla cortese liberalità di Tristan Lermita che di Bools  Corracha fu sodale e che fu testimone della tragica scomparsa del nostro Dreiser Cazzaniga,

La terra

Da qualche parte Debord
afferma che lo sviluppo della tecnologia
introdurrà inevitabilmente,
dopo l’automobile come mezzo di trasporto
per le masse,
l’elicottero
o qualche analogo veivolo,

questa previsione,
puntualmente,
non si è verificata,
ed è un grande scorno per l’inventore della psicostoriografia
il non aver capito che proprio sulla base degli assiomi di questa scienza
era evidente che essa non avrebbe potuto realizzarsi.

Se potessimo vedere il mondo dall’alto
tutte le mattine
quando andiamo al lavoro
tra la nebbia leggera
come il respiro delle
foglie
dorate dall’autunno incipiente
dall’autunno che annuncia
il trionfo
della sua trasparenza funerea
se l’angolo della vostra visuale potesse restringersi
dirigendosi in precipite
picchiata
verso il serpente grigio e argento del fiume
che striscia tra le foglie leggere
bianche
nitide dei
pioppi
variando di diversi gradi il piano
sui cui
scorre parallelo
come
in un quadro
cubo futurista
per poi innalzarsi
di colpo
verso il cielo
viola e argento
come la nota cristallina
di un violoncello di betulla
in modo tale che la nostra bocca
socchiusa potesse bere
i primi raggi candidi dell’alba
che sono frizzanti
e lattei
come le piume di un angelo
addormentato dopo l’amore
con una tenera angela pallida
incontrata a una curva del tramonto

allora

il nostro IO
IO
che è un meschino aggregato di dolorose abitudini
di costrizioni
e cogenze appuntite come aculei
rivolti verso il dentro
si dissolverebbe
in polvere di luce
e noi saremmo
piume
schiuma di luce
lievi balzi di azzurro
e vapore
appena percepibili
nell’abbraccio verde
e ocra della terra
nel suo caldo respiro bianco.

Per questo
è necessario
per la produttività
e il profitto
e forse anche per la professionalità che il nostro sguardo
abbia una sola prospettive
lineare
che la nostra vita sia un percorso
rettilineo su un unico piano
che il nostro corpo si
muova esclusivamente
sul nastro grigio viscido e sporco
delle strade
e non possa percepire null’altro che la superficie
dei centri commerciali
e delle zone industriali
e le cancellate delle villette
con il loro giardinetti
dove spunta un’araucaria
perfettamente stupida
nella sua minacciosa ottusità
e i cani dal pelo lucido
che latrano
l’aggressiva ignoranza dei loro padroni
pieni di odio
e di paura inespressa.

Il percorso lineare
educa la mente alla monodimensionalità
l’anima all’obbedienza,
il corpo al dolore

Il percorso lineare
educa l’uomo al lavoro

la strada è l’ipnosi dello sfruttamento.

Per queste ragioni
eminentemente
psicogeografiche
Debord
sbagliava
e non ci sarà mai
l’elicottero
utilitario
e le strade feriranno sempre
i boschi
e lungo le strade
sorgeranno sempre i capannoni vuoti
con gli spiazzi pieni di lamiere e laterizi e spazzatura e mucchi di terra
su quali spuntano rovi stenti
e ortiche pallide.
I capannoni sono vuoti perché la loro funzione non è produttiva ma educativa
o socioipnotica
essi iterano sul nostro percorso lineare
la rappresentazione dell’inevitabile cogenza del lavoro salariato
in tutta la sua
disperata bruttezza.

Bools Corracha

sabato, maggio 12, 2012

Peire de Lautel


Aube


Quella che segue è la aduzione della sola Aube di Peire de Lautel giunta fino a noi nella liberissima traduzione (liberissma dal punto di vista  metrico di Dreiser Cazzaniga).




Peire de Lautel

La luce di un canto
Di luna dal pianto
del bosco rifranto
Saluta la notte che muore
Partirti daccanto
Con strazio e rimpianto
E’ dolce dolore

Dell’alba l’incanto
Si scioglie nel pianto
Raccoglie il suo manto
La notte che muore
Avvolti nel canto
Un ultimo bacio soltanto
Ci nutre d’amore


Di tremule piume
S’illumina il fiume
In candido lume
Il bacio ci serra
Di veli, di brume
Di stille, di spume
Si copre la terra


Già l’alba del fiume
Solleva le brume
Nel dolce barlume
Partire m’atterra
Mio passero implume
Del sole nel lume
S’accende la terra.

Fuensanta


venerdì, maggio 11, 2012

Tristan Corbière


Il Poeta contumace 
Parte II

Non sapendo morire scriveva:

“È un essere di cento lune fa, tesoro,
Nel tuo cuore poetico in stato leggendario.
Rimo e dunque vivo … ma non temere a salve.
- Una conchiglia d'ostrica in un banco spaccato!
Mi tocco, non vi è dubbio: son io! Ultimo sbaglio -
In marcia verso il cielo – la mia nicchia è ben alta ! -
Mi sono domandato mentre prendevo slancio:
Testa o croce … e ancora non ho smesso di farlo...

“ È a te che voglio fare il mio addio a la vita,
A te che piangerai fino a darmi la voglia
Di mettermi anch'io a piangere con te,
I giochi sono fatti, sono uno spettro sfatto
In ossa e … (non posso dire in carne). È sicuro
Son proprio io, eccomi qua, come un errore.”

“Eravamo collezionisti di cianfrusaglie;
Vieni a vedere il Bibelot – a me fa schifo -
Proprio nei miei disgusti, ho dei gusti eleganti;
Lo sai avevo mollato la vita coi guanti:
L'Altro non è da prendere nemmeno con le pinze...
Cerco sul manichino qualche nuova toilette.”

“Vienimi ad aiutare: i tuoi occhi negli occhi!


Trad genseki

giovedì, maggio 10, 2012

Il poeta contumace


Tristan Corbière
Il poeta contumace (parte I)


Sulla costa d'ARMOR, in un vecchio convento
Che i venti avevan preso per un mulino a vento,
Gli asini si recavano a esercitare il dente
Sull'edera brucata abbarbicata a un muro
Con tante brecce che si era persa l'entrata.

- Solo – ma sempre dritto con un aplomb ben raro,
Coi merli diradati come denti di vecchia
Ficcato a pugni il tetto sull'orlo di un'orecchia
Ai corvi sbadigliando si elevava il torrione,
Fiero d'avere avuto un tempo una leggenda
Non era ormai nient'altro che un nido di briganti
Vagabondi notturni, amanti clandestini,
Sbirri, cani randagi, ratti e contrabbandieri

Oggi però era ospite della torretta cieca
Un poeta selvaggio con piombo nelle ali
Laggiù precipitato nel bel mezzo dei gufi
Che alteri l'osservavano, ne rispettava i buchi,
Solo gufo inquilino a venti scudi l'anno
E una vecchia porta sostituita a sue spese.

La gente del paese, nemmeno la vedeva,
Qualche raro passante mostrava con un cenno
Del naso a qualcun altro la sua alta finestra
Il parroco temeva che non fosse un lebbroso.
Il Sindaco diceva; - Che volete che dica
A me pare un inglese … un'essere - sapete?

Le donne già sapevano, vatti a sapere come .
Che in peccato viveva insieme a certe Muse
Un eretico insomma … o forse un parigino
Di Parigi o d'altrove vatti a sapere dove
Era un invisibile, come le sue donzelle
Non soleva mostrarsi, non si sparlò di quelle.

Lui era un perdigiorno, alto, pallido e secco
Eremita per hobby spazzato da ogni raffica...
Troppo egli aveva amato i paesi malsani
I medici e gli uscieri lo davan per spacciato;
S'era posato qua, sazio e in cerca del posto
Per morire da solo o viver contumace...

Facendo d'un quasi artista,
Un filoso d'accatto
Rantolava al sole e al ghiaccio
Traviato ormai del tutto dall'umano sentiero.

Ancora gli restava un'amaca sfibrata,
Un cane dormiglione che chiamava Fedele
Ed era dolce e triste come lo era lui
Eppur non più fedele della compagna noia.

Come morto di sonno solo viveva in sogno,
Il suo sogno era l'onda che saliva la rena
E poi la discendeva.
A volte vagamente ... restava li ad attendere …
Che cosa … solo l'onda … che viene e rifluisce,
Forse … chissà? L'assente.

Ma lui ne sa qualcosa. Chiuso nella garrita
Forse ha dimenticato che i morti vanno in fretta,
Lui viveur stagionato, spettro che si è smarrito.
Cerca il suo fuoco fatuo salma sepolta male?

O Lei non è lontana, quella per cui bramisci
Cervo di sant'Uberto! Ma senza fiamme in fronte...
Tal forse non sembravi vecchio mio, esule triste e falso
Fai il morto se ora puoi,,, Ella ha pianto per te!

  • Forse lui non poteva! … Ma non era poeta
Come un altro immortale? Sentiva nella testa
Spaesata che tutti i versi esametri
Facevan cento passi con andamento sghembo
Privo di saper vivere – sopravviveva .
Non sapendo morire scriveva.



trad genseki

venerdì, maggio 04, 2012

La sestina del cane e della lingua

Oro Senhal: Arcana Signora della Sfera
Cane
Vespro
Sfera
Erba
Gioco

Quando la sera si colora d’oro
Vago sperduto e solo come un cane
Nel suono grigio che diffonde il vespro
Sui boschi e le colline come sfera
Che di rintocchi fa tremare l’erba
Dove la morte sembra solo un gioco

Dolce è il ricordo del tempo del gioco
Di labbra di capelli e d’occhi d’oro
Di corpi che si stringono nell’erba
- Sotto lo sguardo mite del mio cane -
D’amore dolce e teso fino al vespro
Del Vostro corpo liscio come sfera

Oh se avessi guardato nella sfera
Forse avrei visto la trama del gioco
Senza aspettare che giungesse il vespro
E la nebbia coprisse i boschi d’oro
Come la lingua umida d’un cane
Adagiandosi morbida sull’erba

Verde fu la speranza come l’erba
Dell’amore perfetto come sfera
Ma troppo presto abbandonaste il gioco
Lasciandomi ansimante come un cane
Nel buio che discende con il vespro
Sui boschi che l’autunno copre d’oro

Ora non mi consolerebbe tutto l’oro
Che la terra nasconde sotto l’erba
Che il tramonto diffonde dopo il vespro
Dall’orizzonte immenso della sfera
Del primo cielo che ruota nel gioco
Dell’universo fedele come un cane

Si che vorrei latrare come un cane
Latra all’alone della luna d’oro
Ora che non ho più carte nel gioco
E incombe grigio nella nebbia il vespro
Vorrei - scacciato lungi dalla sfera
Del vostro amore - giacere sotto l’erba

Vola canzone prima che giunga il vespro
Dall’Arcana Signora della sfera
Che seppellisce i cuori sotto l’erba.


Peire de Lautel

mercoledì, maggio 02, 2012

Jeve II


 Questa che segue è la seconda parte del vasto poema "Jeve ovvero la radura" di Dreiser Cazzaniga che narra la vita e le gesta di Bools Corracha e dei suoi compagni. ( La prima parte si trova due entrate fa in questo stesso blog. Il primo di maggio)
genseki


D'estate il folto fogliame trasformava la strada serpeggiante
In un tunnel umido e scivoloso in modo che
Passata la terza curva, districato lo sguardo dal grande acero
Che un tempo ombreggiava l'edicola presso la quale
Le massaie si recavano a lavare i panni
L'aprirsi subitaneo dello spazio ala vista
Produceva una sensazione d'abbaglio e di speranza.
La vastissima radura pianeggiante dava la sicurezza
Che danno i luoghi di esatti confini, di limiti tracciati
Da leggi oggettive: fiumi e scoscendimenti e spumeggiava
Di luce nella bella stagione e di nebbia pungente nell'Autunno
Sovente in inverno il biancore nevoso la rendeva
Simile a una pagina su cui semi e tracce delineavano
Una scrittura tremula e profonda.
Bools Corracha giunse alla radura dall'Africa
Un'Africa prenatale fu la sua in cui fu feto
E nacque a stento e con gran pena alla vista,
Allo sguardo, al situarsi, a distendere il suo corpo
Al godere del bolo e dell'eiaculazione,
Della seta di pelli tiepide al tremolio costante
Delle tende nel dormiveglia come un cielo
Nuvoloso, gli scrosci di pioggia e i fanghi rossi
Come il dolore, l'inquieta assoluta intemperata solitudine
Non bastavano a farne un uomo
Tra le colonne smarrite e dementi degli eucalipti
Mimava la gioventù di un altro: il Poeta delle volpi
Dei lupi con l'indigestione di piume e di tutti quegli altri ortaggi.
La sua fino a quel momento non aveva saputo raggiungerla
Fu un relitto che qualche mare superfluo
Gettò sulle rive della radura dove avrebbe poi regnato
Jules Lapache l'uomo della tana dei libri sudici
Il vagabondo dei sentieri dei funghi, il pataro smemorato.
Nessuno aveva libri più sudici di quelli di Jules Lapache
Nessuno ne avrebbe mai più avuto altri altrettanto sudici
E poi sudici non erano i suoi libri ma anche le riviste,
I ritagli unti di vecchi quotidiani macchiati di caffè muffoso
E su tutto si stendeva la frusciante sporcizia aracnoidea
Che strisciava pruriginosa dalla pareti scrostate.
All'aria aperta, invece, Jules Lapache era un vero Lautaro
Quale Ercilla cantò nella selva araucana,
Schietta razza di caciatore guerriero uso alla fame
E stremato dal tanto camminare.

Dreiser Cazzaniga

martedì, maggio 01, 2012

Sestina di Peire de Lautel




*



Saggio

Maggio
Raggio
Coraggio
Faggio
Aura


Senhal: La Dama Silvestre




Questo verso fu fatto sotto un faggio1
Tra le cui fronde mai non filtrò un raggio
Da un uom ch’un tempo fu creduto saggio
E mentovato pel su’ gentil coraggio2
Ed ora non distingue April da Maggio
E con pala e badile ammassa l’aura.3


Più non mi giova dell’Aprile l’aura
Che pone gemme ai rami del faggio
Che non distinguo più Giugno da Maggio
E l’ombra fosca dal gioioso raggio
Dacché col guardo saettastemi ‘l coraggio
Per far della possanza vostra un saggio.


Ahi che in amor tanto credea esser saggio4
Qual buon nocchier drizzar la vela all’aura
E affrontar la procella con coraggio
Saldo nel temporale come un faggio
Ora non mi rallegra sol di Maggio
Quando ravviva il bosco col suo raggio.


Ah se d’una candela al picciol raggio5
V’avessi nuda tra le braccia, un saggio
Ben vi darei d’amor che al sol di maggio
Mai non godeste così dolce l’aura6
Ch’allor sarei quale un bordon di faggio
Per la vertù che sale dal coraggio.


Donna, ché in pugno avete ‘l mio coraggio
Che si discioglie come neve al raggio
Del sol ardente, e pur fiorì qual faggio
Che con l’ampie sue fronde allieta il saggio
E l’usignolo alberga e freme a l’aura,
Fate ch’io colga la Rosa di maggio!


Fate ch’io colga la rosa di maggio!
Che io porto marchiata nel coraggio
La rosa che di sé profuma l’aura
Si ch’io gioisca ancor del sole al raggio
E come un tempo ancor ritorni saggio
Ed ampio e forte come un vecchio faggio


Canzone nata d’affranto coraggio7
Alla Dama Silvestre8 porta ‘l saggio
Del pianto che mi tragge col suo raggio.


Peire de Lautel
Trad. genseki


1 L’incipit di questa canzone ricorda quello celeberrimo di Guilhem IX “farai un vers”.
2 Coraggio è un provenzalismo per core: “coratge”.
3 Si tratta di un evidente richiamo ai tre versi per i quali Arnaut Daniel è universalmente noto:
“Ieu sui Araut qu’ama l’aura.
E chatz le lebre ab lo bou
E nadi contra suberna”.
Secondo la versione del codice parigino della Biblioteca Nazionale 856.
4 Il testo riecheggia qui il verso di Bernart de Ventadorn “Ai las tan cuidava saber d’amor”
5 Reminiscenza del verso di Arnaut Daniel “E quel remir contral lum de la lampa”.
6 Il codice Mallarensis 161 riporta la variante: “Mai non godeste così, dolce Laura”.
7 Coraggio è un provenzalismo per cuore “coratge”.
8 Si ignora quale Dama si celi sotto il “Senhal”. La qualità di silvestre si riferisce alla crudeltà ferina con cui essa si nega al poeta che per lei langue.

Jeve I


La valle si stringeva improvvisamente
Tra aceri e ontani. Sul corso del fiume
Ormai morto da tanto tempo
Lo scheletro di un idrometro
Ormai quasi un'astrazione di povero cemento
E barre di ferro disfatte in polvere rossa
Di ruggine fangosa. Da quanto ormai
Il fiume aveva perso la sua funzione?
Inutile giaceva ora come dimenticato dalla sua lingua,
In nessun dialetto più da nessuno nominato
Morto insomma morto come un fiume sa morire
Conservando le apparenze di una povera vita
Solo in poche pozze nascoste tra le fronde
Lassù dove vi era stata forse una miniera di torba
Poi un bordello e un mercante di cavalli
E ormai solo un bosco confuso nella povera
Demenza del silenzio
Si permetteva ancora di ripetere ad anime più
Ingenue il sermone dell'unione e quello dell'impermanenza.
Con tre curve strette scure e viscide la strada si sforzava
Di oltrepassare la gola e si apriva allora
Una vasta radura, proprio nel punto
In cui il povero fiume riceveva l'apporto
Delle acque di un breve fresco affluente
Che scrosciava dal selvoso versante meridionale
Nel quale aveva scavato la sua propria valle
In tante migliaia di anni popolata poi da pastori
E da assassini della cui esistenza testimoniavano
Ormai solo le umide edicole della Vergine e di Santa Rita
Da nessuno ormai più venerate con la misteriosa miseria
Dell'orazione che accomunava le vecchine
E i guardacaccia, carbonari ed i pastori
I cacciatori di selvaggina di passo e gli sterratori -
Tutte le leggende si erano perse con la lingua che le aveva espresse -
Il mondo dei fiumi fantasma era muto e il gelo
Non era più la lieta chiamata di Dio nella carne viva
Alla pace della fede.
I fiumi conversarono un tempo con gli schioppi
E con le squille degli alti borghi, dei santuari inerpicati
Sui colli protetti dai faggeti.

Dreiser Cazzaniga