lunedì, marzo 27, 2023

La Cattedrale


Questo breve testo vorrebbe essere una esplorazione, senza pretese di erudizione della concezione di Huysmans dell’architettura gotica nella sua opera “La Cathédrale”. L’ edificio sacro è trattato da Huysmans dal punto di vista iconologico, simbolico, estetico e spirituale. Questi diversi punti di vista si incrociano e si sovrappongono, aprendo molteplici sentieri nella foresta della Cattedrale.

La visione della Cattedrale propria di Huysmans sorge sulle rovine  delle cattedrali di Chateaubriand nel “Genio del Cristianesimo” e di Hugo, in “Notre dame de Paris”, cioè sulle rovine del romanticismo di cui, però Huysmans-Durtal non fa mai cenno, per acido, sdegnoso disprezzo. Tuttavia i punti di vista, le prospettive che tracciano e delimitano lo spazio della Cattedrale in quanto spazio sacro sono condizionati anche da questi autori, sempre presenti senza però essere mai nominati.

Le linee seguenti hanno l'ambizione di essere una sorta di catalogo, per nulla esaustivo, di questi punti di vista, di queste prospettive, come appaiono ad una prima semplice lettura.

La somma dei punti di vista e delle prospettive Di Durtal-Huysmans disegnano un'altra cattedrale che si sovrappone alla Cattedrale reale, così come la Cattedrale sonora del grande organo si modella sulle  volte dell'edificio straordinario, e le note di una sinfonia di Brückner si ergono come guglie per discendere subito vertiginosamente, in un abisso di toni oscuri.

La Cattedrale è per Chateaubriand una rovina venerabile, egli ha visto un intero mondo, “L'ancien Régime”, sparire davanti ai suoi occhi, è una forma della nostalgia per Hugo che ha vissuto l'epoca della costruzione dei grandi boulevards, è una impossibilità per Huysmans che ha vissuto la comparsa delle grandi fabbriche meccanizzate nel Nord di Zola e di Verhaeren.

I costruttori di cattedrali sono destinati, ora, all'insuccesso. La Cattedrale resta una possibilità reale solo per qualche vecchio prete, qualche vecchia beghina, le guide spirituali di Durtal nella sua catacombale ascesa. Autentica Cattedrale è la fabbrica, il gigante di acciaio che ruggisce nel fondo della pianura.


Il sentiero nella foresta


Per raggiungere la radura, “lucus e non lucendo” si debe percorrere un sentiero, un sentiero oscuro, cupo, nella foresta. È il sentiero del cacciatore e la traccia della preda, il sentiero degli archetipi, il sentiero iniziatico delle fiabe.


“A Chartres, quando si esce da quella piccola piazza spazzata, in tutte le stagioni, dal vento tignoso delle pianure, un alito dolciastro di cantina illanguidito da un odore morbido e quasi soffocato di olio, vi soffia in volto quando vi inoltrate nelle tenebre solenni della tiepida foresta”.


“Anche se conosceva la strada, egli avanzava con precauzione, in questo viale bordato da alberi enormi le cui cime si perdevano nell'ombra. Ci si sarebbe potuti credere in una serra coperta da una cupola di vetro nero, perche si camminava su lastre e né cielo appariva su di voi, né brezza vi accarezzava il volto. Persino le rare stelle, le cui luci tremolavano lontane, non appartenevano a nessun firmamento, posto che brillavano quasi al livello della pavimentazione, insomma, splendevano dal suolo”.


Il bosco è, secondo Chateaubriand, lo spazio sacro originario che costituisce il modello sulla base del quale sono state costruite le cattedrali gotiche. Il sentiero che Durtal percorre per raggiungere la Cattedrale è anche un sentiero che attraversa il tempo, conduce simbolicamente dal bosco arcaico alla cattedrale cattolica, che sono l'una immagine dell'altra, e un sentiero iniziatico che conduce dalla natura allo spirito. Dal sacro alla fede.

Il cammino, l'itinerario, inoltre, contiene in sé la meta. La radura non è altra cosa rispetto alla foresta, è proprio la foresta in quanto raggiunta, in quanto fatta propria dal viaggiatore, dall’errante. Durtal è uno di essi, certo, egli ha attraversato, la disperazione dell'edonismo, la vertigine del satanismo con il suo cattivo gusto e i la sua isteria, la religione dell'arte per l'arte e altro ancora fino a ritrovarsi sulla strada per Chartres in compagnia di vecchi preti fanatici e di una beghina sfiorita e mezza matta.


“Con l'alba che cominciava a spuntare, la foresta di questa chiesa sotto gli alberi della quale stava seduto si faceva davvero incoerente. Le forme appena giunte a sbozzarsi si cancellavano in questa oscurità che fondeva tutte le linee mentre si spegneva. In basso, in una nube che si dissipava, scaturivano, come fossero piantati in pozzi che li stringevano nei colletti stretti delle loro bocche, i tronchi secolari dei favolosi alberi bianchi; poi la notte, quasi diafana al livello del suolo, si faceva più spessa, risalendo, e li privava dalla base dei loro rami che non si vedevano più”.


La comparazione tra la Cattedrale e la foresta diventa qui del tutto esplicita:


“La tiepida foresta era scomparsa con la notte; pochi alberi restavano come scaturiti vertiginosamente dal suolo, si slanciavano con un solo movimento nel cielo, si riunivano ad altezza smisurate, sotto le volte delle navate la foresta era diventata una immensa basilica, fiorita di rose fiammeggianti, perforata da vetrate incandescenti, pullulante di Vergini, di Apostoli, di Patriarchi e di Santi”.


L'intuizione di Chateaubriand è sviluppata qui con una sensibilità che, lo si vede bene, ha attraversato le esperienze ricche e contraddittorie del simbolismo e del realismo.


Nel terzo capitolo la comparazione tra lo spazio naturale della foresta e lo spazio sacro della  Cattedrale diviene sempre  più chiara, l'intuizione di Chateaubriand sull'origine del gotico, è sviluppata in modo analitico e estetico minuzioso:


"Senza sminuire la teoria che consiste nel vedere in questo problema soltanto una questione materiale, tecnica, di stabilità e di resistenza, una invenzione dei monaci che avevano scoperto un bel giorno che la solidità delle loro volte sarebbe stata meglio assicurata dalla forma a mitra dell'ogiva che da quella mezza luna dell'arco pieno, non sembra che la dottrina romantica, la dottrina di Chateaubriand di cui ci si è fatto beffe sia la meno complicata di tutte, la più naturale, insomma la più evidente e la più giusta?

Per me è quasi certo, proseguí Durtal, che l'uomo ha trovato nei boschi la forma tanto discussa della navata e dell'ogiva. La più stupefacente cattedrale che la natura ha costruito, da se stessa, prodigandovi l'arco spezzato dei suoi rami, si trova a Jumièges. Là, accanto alle magnifiche rovine dell'abbazia che ha conservato intatte le sue due torri e la cui navata scoperchiata e ricoperta di fiori si collega ad un coro di fronde circondato da un'abside di alberi, tre immensi viali, bordati di tronchi secolari, si estendono in linea retta; uno, quello del mezzo, molto largo, gli altri due, che lo affiancano, più stretti; essi disegnarono l'immagine astratta di una nave e delle sue fiancate, sostenute da pilastri neri e avvolte da fasci di foglie. L'ogiva vi è chiaramente riprodotta dai rami che si toccano, così come le colonne che la sostengono sono imitate dai grandi tronchi. Bisogna vederla d'inverno, con la volta ad arco spolverata di neve, i pilastri bianchi come tronchi di betulla, per comprendere l'dea originaria, il seme dell'arte che ha potuto far sorgere lo spettacolo di simili viali, nell'animo degli architetti che sgrossarono, poco a poco, il romanico e finirono per sostituire completamente l'arco acuto all'arco pieno.

E non vi sono parchi, più o meno antichi dei boschi di Jumièges, che non riproducano con altrettanto esattezza gli stessi contorni; ma quello che la natura non poteva dare, era l'arte prodigioso, la scienza simbolica profonda, la mistica appassionata e placida dei credenti che edificaron le cattedrali. Senza di loro, la chiesa restata allo stato bruto, così come la natura l'aveva concepita, sarebbe rimasta un abbozzo senz'anima, un rudimento; essa era l'embrione di una basilica, cangiante secondo le stagioni e i giorni, inerte e viva al tempo stesso, animandosi al suono dell'organo del vento, che deformava il tetto mobile dei suoi rami, al suo solo spirare, era inconsistente e spesso taciturna, assolutamente sottomessa alle brezze, serva rassegnata dellepiogge; non era stata illuminata, insomma, che da un sole che si insinuava tra le losanghe e i cuori delle foglie, così come tra le maglie delle piastrelle verdi. L'uomo, con il suo genio, raccolse questi sparsi bagliori, li condensò in rosoni e in feritoie, li riversò nei viali di bianchi fusti; e persino con il tempo peggiore, le vetrate risplendettero, imprigionarono fino alla più piccola luce del tramonto, rivestirono il Cristo e la Vergine degli splendori più favolosi, quasi giunsero a realizzare su questa terra il solo abbigliamento che potesse convenire ai corpi gloriosi, vestiti diversi di fiamme!"


In questo testo non è solo la cattedrale che riproduce la foresta aggiungendo la profondità simbolica e mistica che manca alla natura, ma è la natura stessa che cerca di riprodurre la Cattedrale. Si genera un movimento circolare che va dalla foresta alla Cattedrale e dalla Cattedrale alla foresta il cui asse mediano è costituito dal simbolo.




La fortezza, l'armatura


La Cattedrale è paragonata a una fortezza e persino all'armatura di un cavaliere di quella crociata predicata da S. Bernardo proprio nella Cattedrale. Si tratta di una “Lorica” l'armatura fatta di orazioni e di esorcismi che avrebbe dovuto proteggere il cristiano che se rivestiva. La cattedrale è una “Lorica” ma non una “Lorica” di parole o di altri segni verbali, quanto piuttosto di pietre e di segni architettonici:


“Ritornava a casa sua per mangiare qualche cosa e, abbracciando, con un'ultimo sguardo, la chiesa ammirevole, ricapitolando i simulacri guerrieri così come apparivano: le forme di scudo dei rosoni, di lama di spade dei vetri , i contorni dei caschi e degli elmi delle ogive, la somiglianze di alcune vetrate in grisaglia filigranata di piombo con le tuniche di maglia di ferro dei combattenti, e, fuori, contemplando uno dei campanili intagliato a lamelle come una pigna, come una cotta di maglia, si diceva che pareva davvero che “gli ospiti del buon Dio” avessero preso in prestito i loro modelli ai bellicosi arnesi dei cavalieri; che avessero voluto perpetuare come per perpetuare il ricordo delle loro imprese, raffigurando dovunque l'immagine ingrandita di quelle armi di cui i Crociati si cinsero quando si imbarcarono per partire alla riconquista del Santo Sepolcro”.


Il Battello


La barca, il battello sono stati impiegati come immagini della Chiesa nel corso di tutto il Medioevo. Un esempio classico si trova nella “Navigatio Brandani” ancora una volta si trattava di un simbolo volto a rappresentare la Chiesa intesa come comunitá di credenti al quale Huysmans sovrappone l'immagine della Chiesa come edificio di pietra in una metaforizzazione regressiva..

Il riferimento ai vascelli crociati è, naturalmente soltanto letterario e privo di riferimenti storici seri.


“L'interno stesso della basilica sembrava esprimere, nel suo insieme, la stessa idea e completare cosí le immagini simboliche dei particolari, inarcando la sua navata, la cui volta a forma di fondo di barca imitava la chiglia rovesciata di un battello, ricordava lo scafo delle navi che si dirigevano verso la Palestina".


La Cattedrale Antropomorfa


L'ultima immagine che ritroviamo nel I capitolo è molto intensa nel suo antropomorfismo simbolico.


“Solo la cattedrale vegliava sulla città indifferente, implorava perdono per le sofferenze non accettate, per l'inerzia della fede che dimostravano ora i suoi figli, tendendo al cielo le sue due torri come due braccia, che simulavano con la forma dei campanili le due mani giunte, le dieci dita diritte, strette le une alle altre, in quel gesto che i creatori di immagini di un tempo davano ai santi e ai guerrieri morti scolpiti sulle tombe".


La cattedrale e il Cristo morto


Il simbolo più violento per l'immaginazione è quello per cui si vede nel corpo di pietra della Cattedrale, la rappresentazione del corpo del Cristo morto, o meglio, la rappresentazione del Cristo morente, nel momento di esalare il suo ultimo respiro. La pietra, ció che vi è di piú lontano dalla vita nell'universo è piegata a rappresentare il brivido dell'uomo-dio agonizzante.

È un brivido quasi impercettibile, che si trasmette attraverso i secoli, le età, cristallizzato e, tuttavia attivo.

La teologia sottolinea come la chiesa sia il corpo di Cristo in quanto comunità di credenti. Con un gesto di rara violenza iconica Huysmans ritorna alla confusione de bambini e degli incolti tra la Chiesa come corpo collettivo dei credenti e la chiesa come corpo fisico per unificare le due immagini in quella definitiva della chiesa come corpo di Cristo, Huysmans impiega il “corpo” come perno e crea l'equazione vertiginosa: Cattedrale=chiesa=Cristo; ma qui non si tratta del Cristo vincitore della morte, al contrario, di un Cristo agonizzante che coinvolge tutta quanta la creazione nella propria agonia, persino le pietre in un unico, immenso, spaventevole brivido.


“Gesù è morto: il suo cranio è l'altare, le sue braccia distese son le due ali del transetto le sue mani trafitte sono le porte; le sue gambe le navate in cui ci troviamo e i suoi piedi perforati il portone da cui siamo appena entrati. Considerate, ora la sistematica deviazione dell'asse della chiesa; imita l'atteggiamento del corpo abbandonato sul legno del supplizio, e, in certe cattedrali, come quella di Reims, l'esiguità, la strozzatura del santuario e del coro in relazione alla navata, simula ancora meglio il capo e il collo di quell'uomo piegati sulla spalla dopo aver reso l'anima".


*


"Fino ad ora abbiamo esaminato soltanto l'immagine del Cristo, immobile, morto, nelle nostre navate; ora voglio discorrere di un caso meno comune, di una chiesa che non raffiguri più soltanto i contorni del cadavere divino, bensì la figura del suo corpo ancora vivo, di una chiesa dotata di una specie di apparenza di mobilità, che cerca di muoversi con Gesù sulla croce.

Sembra, infatti, un dato ormai acquisito che certi architetti abbiano voluto rappresentare, nella struttura dei templi che edificarono, le condizioni di un organismo umano, scimmiottare il movimento dell'essere che si inclina, animare, per dirlo con una parola sola, la pietra. Questo tentativo è stato fatti nella chiesa abbaziale di Preuilly-sur-Claise, in Turenna. La pianta e le fotoincisioni di questa basilica illustrano un libro interessante che vi presteró e il cui autore, Don Picardat, è il parroco stesso della chiesa, Potrete allora riconoscere con facilitá che l'aspetto di questo santuario è quello di un corpo che si tende in diagonale, che si dispiega tutto da un lato e che si inclina. Questo corpo si muove per lo spostamento voluto dell'asse la cui curva comincia con la prima trabeazione e va via via sviluppandosi, attraverso le navate dal coro e dall'abside fino al capitolo con il quale si fonde, appropriandosi così dell'aspetto di una testa ciondolante.

Meglio cha a Chartres, che a Reims, che a Rouen, l'umile edificio che eressero alcuni benedettini i cui nomi sono ignorati, dipinge, con l'andamento a serpeggiante delle sue linee, la fuga delle sue colonne, l'obliquità delle sue volte, la figura allegorica di Nostro Signore sulla croce. In tutte le altre chiese, però, gli architetti hanno imitato, in qualche modo, la rigiditá cadaverica, il capo reclinato per il trapasso, mentre a Preuilly i monaci hanno fissato questo indimenticabile momento che trascorre, nel Vangelo di san Giovanni tra il “Sitio” e il “Consommatum est”.

La vecchia chiesa di Turenna è dunque l'effige di Gesù crocifisso ma ancora vivo".




sabato, marzo 25, 2023

Yecla



Il rosa dei peschi fioriti fluttua come un lenzuolo sulla terra grigia e secca, risalta sulle strisce d’erba verdissima che ne definiscono i limiti e lo esaltano nella sua indefinizione. Come su un tappeto si distende lo sguardo che cerca il conforto del riposo, il tappeto meraviglioso si srotola davanti a ai miei occhi come il limite del loro campo, ed è quasi doloroso il suo púdico tremore. 

Un velo trasparente di pallidi colori ondeggia e cela la verità dell’istante. Pare che un soffio del tempo il soffio più lieve del divenire lo possa sollevare e spazzare via come il vento spazza le nubi bianchissime sul cielo di cobalto.

Ecco il rosa dei peschi, il verde delle strisce di prato o di lattuga sono il colore della mia stessa pelle, sono la mia pelle che si increspa per il desiderio di pioggia, quella stessa pioggia che sciogliendo il colore, schiaccerà nel fango le mille sfumature di quelle corolle, fresca sui petali delle mie palpebre.



Ana Blandiana


Trad. Pietro



Certo con la morte tutto inizia.

Non sappiamo per che cosa:

Preferiamo confondere il mistero con il nulla.

Solo quando un essere amato,

Una gran parte di te, forse,

Varca la linea di separazione,

Tutto si illumina

Il tempo di un lampo

E vedi come lungo il cammino

Che inizia proprio in quel punto.

È cosí lungo

Che non vedi dove ti conduce

Ma non importa,

Quello che importa è che ricomincia.


***


Nulla è statico,

La morte non è come sembra

Una mineralizzazione, un punto e basta.

La sparizione di qua è apparizione 

In un altro luogo pe altri fini. 

Sempre in movimento

L’esistenza e la non esistenza

Si combinano 

Mano a mano

E ti spingo come su un piano inclinato

Verso un altro universo

Dove davanti alle porte imperiali

Non ti arresti

Ma scivoli via scivoli allontanandoti

Sempre più sorpreso.


Da: Variazioni su un tema dato



venerdì, marzo 24, 2023

Il Carrubo




Il carrubo irradia i suoi remi, li scaglia con forza verso il cielo, forse con ira, come raggi di clorofilla,; il suo cuore è rosso, le sue ossa vegetali fragili, trema tra le sue piccole foglie la luce fresca di questa dolorosa primavera. La primavera è dolorosa per le vecchie ossa, le mie e quelle del carrubo, ossa fragili dal midollo rosso, pronte a spezzarsi per l’urto della luce e quello del desiderio. In fitte diramazioni si incrociano i rami, i più alti e i più bassi, quelli secchi e quelli che seccheranno, si propaga la vita da un’intimità che ignora il tempo, ignora qualsiasi abbraccio che non sia quello del vento o quello della pioggia, irradio con lui le mie parole, vorrei essere centro di questa pace, diramarmi pure io nel tempo e nello spazio, deporre le pulsazioni e gli impulsi, vivere come un flusso, come una serie di flussi che cresce in direzione della luce, senza spinte senza pressione, si direbbe che fluisca verso l’alto come il rigagnolo scivola in mezzo alle erbe verso il piano sottostante.

Non amo questo albero, non mi adatto alla sua presenza con la piena disponibilità con cui vivevo l’odore di pane dei castagno, la metallica impassibilità del faggio, alla sua ombra mi sento uno straniero, l’ultimo arrivato a queste terre.



Pietro

giovedì, marzo 23, 2023

La collana di perle



Dal mio punto di vista la morte è sempre la mia morte. La morte degli altri è anche la mia morte. Nella morte altrui vivo la mia morte, essa è una parte della mia morte.

Conferma e riconferma la certezza che anch’io dovrò morire, la coscienza della ma impermanenza. Questa coscienza è già la morte. È la mia morte in ogni istante. “Mai più”, la consapevolezza totale del “mai più” paralizza la vita, perché l’infinito del “mai più” divora la vita proprio in quanto finita.

Davanti all’infinito la vita finita scompare. L’infinito del “mai più” è il “mai più” del “proprio adesso”.

Non ti rivedrò mai più vuol dire che non ti ho mai visto. Non torneremo a stringerci in un abbraccio significa che non ci siamo mai abbracciati. Perché nell’infinito del nulla non resta spazio per il finito dell’adesso. L’infinito del nulla non è un contenitore, una scatola e, se è infinito, occupa ogni spazio possibile, ogni spazio di possibilità.


A questo punto però, credo, ia situazione si capovolge. Si capovolge perché non vi è dubbio che ora sto vivendo nonostante l’infinito nulla che mi aspetta e che essendo infinito già ora mi ha ghermito, ad ogni istante, senza sosta mi nega.

Eppure sono vivo, le mie dita si muovono veloci sulla tastiera, il sonno mi pesa sulle palpebre, in qualche punto dell’essere di cui ignoro le coordinate sono cosciente dei mie ricordi. La vita ferita a morte, la preda dell’artiglio tagliente sempre di nuovo trionfa e si riafferma come vita, come l’istante che esiste testardamente di fronte al nulla, oltre ogni possibilità del pensiero, oltre la logica.

È la sorpresa irradiante dell’esistenza che nella sua completa insignificanza non cessa di momento in momento di creare il significato.

Allora quel è la dialettica tra nulla infinito ed esistenza momentanea?

Tra l’oscurità infinita e l’irrilevante, istantaneo lampeggiare della luce?

Credo che sita possibile pensare che è la luce istantanea che in qualche modo rende possibile il nulla infinito. Perché senza questa luce, per quanto ferita mortalmente già al suo apparire il nulla infinito non potrebbe essere né nulla e neppure infinito. Perché il nulla è nulla di qualche cosa e l’infinito è infinito di un finito.

Credo di poter dire che questo pensiero si può esprimere anche con la forma teologica di creazione dal nulla. Dio mi ha creato dal nulla. Ê come dire che l’infinito mi ha tratto da sé e che questo sé dal quale mi ha tratto, nel momento e dal momento in cui mi ha tratto è per me nulla. Lo posso pensare soltanto come nulla, lo posso sperimentare soltanto come nulla cioè nell’angoscia.

La fede è il salto che mi permette, invece di sperimentarlo come Amore.

La vera meraviglia, l’impossibile, l’impensabile è proprio questa vita finita, la vita concreta banale, di tutti i giorni, di ogni secondo, di ogni istante con i suoi gesti piè meschini sempre minacciati dall’angoscia, scossi dalla nausea e dalla paura e che si ripetono come pure perle. Perle di una collana di amore.


Pietro

lunedì, marzo 20, 2023

Salinas de San Pedro del Pinatar



La bellezza di questa luce fresca che accarezza il mare e la salina, la bellezza di questi voli bianchi e grigi, di queste scintille sulle creste delle onde, della spuma che si frange in candidi spruzzi si apre a me come un dono, quando mi apro ad essa, quando sono disposto ad accoglierla, quando lascio che la mia individualità si estenda fino al punto di svanire. Si distenda piuttosto che estendersi fino al limite della dissoluzione, al confine della scomparsa, solo in questo limite, su questo filo di rasoio la colgo e mi inonda. Perdersi perché questo dono, o meglio questa grazia, questa benedizione sia anche disvelamento, perdersi è la condizione necessaria. Non si tratta di voler fermare il tempo, questo movimento distrugge la belleza, si tratta di lasciare che il tempo ci trascini nel suo fluire che ci neghi e che in lui possiamo riemergere di nuovo in una spossante altalena di nulla e appena qualcosa. Tra questo nulla e questo qualcosa si da la belleza che è allora promessa e speranza, ignoto e nido, apertura all’orizzonte e capanna alla soglia del bosco, al bordo del deserto rossastro.


Pietro

Felissa



Felissa è un nome dal sapore di menta, appena un poco amara, dall’odore della lavanda tra vecchie camicie impercettibilmente ingiallite Felissa è una anziana, vestita umilmente di panni grigi, nel mio ricordo di infanzia, mi conduce per mano fino a un chiaro nel bosco di pini e mi ingiunge di respirare profondamente il forte odore di resina, non lo dice con affetto, non vi è traccia di tenerezza in lei, semmai di una certa severità che comunque non si esprime. Mi tiene per mano, mi conduce verso il bosco, non so bene chi realmente sia né se possa rivelarsi ostile. Mi adatto a credere che no, che non ha intenzione di farmi del male, che non sono stato abbandonato. Questa passeggiata si ripete ogni mattina, come un rito celebrato esclusivamente da noi due. Non so nulla di lei, non so perché mi prenda per mano e mi conduca alla radura tra i pini, l’odore di resina, di terra bagnata, l’indaffararsi delle coccinelle tra i rannuncoli mi fa battere il cuore, respiro profondamente, e questo mi fa sentire come un batuffolo di mondo e di un mondo sacro, tra scoppi di pigne. Ê la sensazione di essere divenuto degno della morte, di una morte anonima come carne di pino, con il colore della terra appena mossa, e mi sento annegare da questa inebriante dolcezza, da questa dolorosa sicurezza. Respiro forte, forte l’odore dei pini tra il ronzio delle mosche.

domenica, marzo 19, 2023

Sulle belle favole



Sono immerso nella realtà, questa realtà è tale per me solo perché la accetto senza riflettere. La realtà nella quale ci incontriamo mi sembra essere una forma di automatismo, una serie di risposte immediate e univoche a una serie di stimoli predisposti. Se mi fermo un frammento di istante a riflettere ecco che la realtà mi appare molto meno reale.

Nella stanchezza, negli istanti immediatamente precedenti al sogno, nell’amore, di fronte al dolore, di fronte alla morte.

In queste situazioni l’automatismo cessa e posso percepire in un altro mondo.

Normalmente sono prigioniero delle parole, le parole sono come le grate di una gabbia che mi dicono che cosa devo percepire, come devo percepire, quali parole costituiscono la risposta ad altre parole.

Cessa per un istante questo incantesimo che simula la necessità e sorge la speranza.

Le parole e il loro modo di concatenarsi, di richiamarsi, di riecheggiarsi sono anche quello che considero il mio essere me stesso. 

Per un istante le parole tacciono, il ronzio del linguaggio si fa flebile, la superficie si sfaglia in lievi crepe, tutto è tremore allora, ma anche levità, fragilità non esente da letizia, allora tutto è mistero e rivelazione.

Perché le nostre parole il nostro linguaggio sono come una benda sugli occhi di qualcuno che è già cieco, non possono dirci nient’altro che la realtà, non possono aiutarci a percepire quello che sta oltre.

Neppure il silenzio rende possibile uscire dalla gabbia. Si tratta di qualche cosa di intermedio tra la parola e il silenzio, Una sospensione del linguaggio, un silenzio che ancora freme o si fa tremore, qualcosa che è molto meno di un sussurro, uno spazio in cui il silenzio avvolge le parole senza sopprimerle. Le discioglie in qualcosa che non è più parola ma nemmeno è la sua abolizione.

In questa sospensione anch’io scemo, vado sfumando, mi riconosco in un ricciolo di luce, nella trasparenza di una foglia, nel ticchettio della pioggia, sono ancora e non sono già più, la speranza sboccia costantemente dalla disperazione.

Questo è il mondo delle belle favole, qui è dove sgorgano tutti i sogni, qui dove tutto è sospeso, indefinito, intermedio si prepara la rivelazione e la verità può diventare immagine e le immagini possono rappresentare la verità.