lunedì, luglio 30, 2012
Dietro la notte
Dietro la notte, qualcuno,
Fiutava il paesaggio,
Fiutava il mare, il carillon delle sue ossa,
Il petulante pigolío dei papaveri costieri,
Fiutava le ali che dispiegavano le tenebre
Sulla terrazza dei fiumi.
Qualcuno fiutava, dietro la notte
Con froge favolose, metalliche
Con corrosivi scoppi di tosse;
Colte di sorpresa
Le ortiche si coloravano di viola
E tu scendevi di scoglio in scoglio
Verso il battesimo delle mie mani
Verso quell'altro canto,
Verso la pergola, il chiostro
Le code di milioni di volpi
Erano incendi nella brughiera
Il suo respiro affannoso
Scuoteva la notte come un lenzuolo teso
E io pensavo che la paura
L'avevo deposta sul prato,
L'avevo dimenticata tra gli anemoni,
Dietro il bosso
Tra le ortensie
E che quella che fiutava era lei,
La paura
Dall'altra sponda della notte
I nudi limiti di me stesso.
genseki
Fiutava il paesaggio,
Fiutava il mare, il carillon delle sue ossa,
Il petulante pigolío dei papaveri costieri,
Fiutava le ali che dispiegavano le tenebre
Sulla terrazza dei fiumi.
Qualcuno fiutava, dietro la notte
Con froge favolose, metalliche
Con corrosivi scoppi di tosse;
Colte di sorpresa
Le ortiche si coloravano di viola
E tu scendevi di scoglio in scoglio
Verso il battesimo delle mie mani
Verso quell'altro canto,
Verso la pergola, il chiostro
Le code di milioni di volpi
Erano incendi nella brughiera
Il suo respiro affannoso
Scuoteva la notte come un lenzuolo teso
E io pensavo che la paura
L'avevo deposta sul prato,
L'avevo dimenticata tra gli anemoni,
Dietro il bosso
Tra le ortensie
E che quella che fiutava era lei,
La paura
Dall'altra sponda della notte
I nudi limiti di me stesso.
genseki
Anche le nostre parole
Anche le nostre parole
Finalmente
Erano liquide
Come liquido mondo
Ci scorreva
Tra la vita
Verso i rami dei venti
La fioritura delle nuvole.
Poi furono i laghi
Che esplosero
Tra versanti di muschio
Fino all'orizzonte:
Come nere pupille
La processione dei rospi
Scuoteva l'abetaia
Produceva frane
Fratture
Smottamenti
Fino alla scuola
Al fondo della campagna, al patio,
Nulla piú sarebbe stato colto
Fermato, descritto
Nulla piú detto
Sotto questa luce densa
Come l'olio
Questo splendore viscoso
La pellicola di verde
Dell'istante.
*
Trapassare
Passammo
Con la sola forza dell'estate
Giá svaniti
I polpastrelli
Nell'abbraccio degli occhi
Nella carezza degli sguardi.
*
I nuclei sferici del vino
Come proiettili
Crivellavano le fronde del sicomoro
Per un attimo fummo Abramo
Poi il fumo verde
Raschió via la vista
Ceneri seccche
Tannino sugli zigomi
Agli angoli degli occhi.
*
Era un grande coniglio cornuto
Quello che stringeva la luna
Tra le ciglia
E noi eravamo questo e quello
Prima e dopo
Spenti, noi,
Nell'accensione del divenire
genseki
Finalmente
Erano liquide
Come liquido mondo
Ci scorreva
Tra la vita
Verso i rami dei venti
La fioritura delle nuvole.
Poi furono i laghi
Che esplosero
Tra versanti di muschio
Fino all'orizzonte:
Come nere pupille
La processione dei rospi
Scuoteva l'abetaia
Produceva frane
Fratture
Smottamenti
Fino alla scuola
Al fondo della campagna, al patio,
Nulla piú sarebbe stato colto
Fermato, descritto
Nulla piú detto
Sotto questa luce densa
Come l'olio
Questo splendore viscoso
La pellicola di verde
Dell'istante.
*
Trapassare
Passammo
Con la sola forza dell'estate
Giá svaniti
I polpastrelli
Nell'abbraccio degli occhi
Nella carezza degli sguardi.
*
I nuclei sferici del vino
Come proiettili
Crivellavano le fronde del sicomoro
Per un attimo fummo Abramo
Poi il fumo verde
Raschió via la vista
Ceneri seccche
Tannino sugli zigomi
Agli angoli degli occhi.
*
Era un grande coniglio cornuto
Quello che stringeva la luna
Tra le ciglia
E noi eravamo questo e quello
Prima e dopo
Spenti, noi,
Nell'accensione del divenire
genseki
Entra
Entra nella sventura
D'una foglia
Fin che la notte sia solo disfatta
Sintesi
Di silenzio e clorofilla
E nel centro
Del dentro
Il tuo morire
genseki
D'una foglia
Fin che la notte sia solo disfatta
Sintesi
Di silenzio e clorofilla
E nel centro
Del dentro
Il tuo morire
genseki
lunedì, giugno 11, 2012
Ray Bradbury
Io muoio cosí muore il mondo
Povero mondo, che non conosce la sua rovina, il giorno in cui io muoio.
Duecento milioni di ore dura la mia ultima ora,
Porto con me nella tomba tutto il continente.
Sono i piú coraggiosi, tutti innocenti e non sanno
Che se io affondo, loro saranno i prossimi.
Cosí nell'ora della morte festeggiano i Bei Tempi
Mentre io, matto egoista, gli preparo un pessimo Anno Nuovo.
I paesi oltre il mio paese sono ampi e brillanti,
Ma io, con mano sicura, spengo la loro luce
Spengo l'Alaska, nego la Francia del Re Sole, taglio la gola alla Britannia,
Con un battito di ciglia faccio sparire la vecchia Madre Russia,
Spingo la Cina giú dalla scogliera,
Faccio cadere giú l'Australia e metto la lapide,
Do un calcio al Giappone mentre cammino. E la Grecia? Vola via alla svelta.
La faró cadere e volare come il verde Eire,
Torta nel mio sogno sudato, la Spagna si dispera,
Sparo ai figli morti di Goya, torturo i figli della Svezia,
Spacco fiori, fattorie e paesi coi fucili del tramonto.
Quando il mio cuore si ferma sprofonda nel sonno il grande Ra,
Seppelisco tutte le stelle nel Profondo Cosmo.
Allora, ascolta mondo, sii avvisato, conosci il puro terrore.
Quando io mi ammalo, quel giorno il tuo sangue è morto.
Comportati bene, rimarró e ti lascio vivere.
Comportati male, riprenderó quel che ti dono adesso.
Questa è la fine e tutto. Le tue bandiere sono ripiegate.
Se io sono colpito e cado? Allora finisce il tuo mondo.
Ray Bradbury
Trad Paolo Nori e Salim Catrina
Povero mondo, che non conosce la sua rovina, il giorno in cui io muoio.
Duecento milioni di ore dura la mia ultima ora,
Porto con me nella tomba tutto il continente.
Sono i piú coraggiosi, tutti innocenti e non sanno
Che se io affondo, loro saranno i prossimi.
Cosí nell'ora della morte festeggiano i Bei Tempi
Mentre io, matto egoista, gli preparo un pessimo Anno Nuovo.
I paesi oltre il mio paese sono ampi e brillanti,
Ma io, con mano sicura, spengo la loro luce
Spengo l'Alaska, nego la Francia del Re Sole, taglio la gola alla Britannia,
Con un battito di ciglia faccio sparire la vecchia Madre Russia,
Spingo la Cina giú dalla scogliera,
Faccio cadere giú l'Australia e metto la lapide,
Do un calcio al Giappone mentre cammino. E la Grecia? Vola via alla svelta.
La faró cadere e volare come il verde Eire,
Torta nel mio sogno sudato, la Spagna si dispera,
Sparo ai figli morti di Goya, torturo i figli della Svezia,
Spacco fiori, fattorie e paesi coi fucili del tramonto.
Quando il mio cuore si ferma sprofonda nel sonno il grande Ra,
Seppelisco tutte le stelle nel Profondo Cosmo.
Allora, ascolta mondo, sii avvisato, conosci il puro terrore.
Quando io mi ammalo, quel giorno il tuo sangue è morto.
Comportati bene, rimarró e ti lascio vivere.
Comportati male, riprenderó quel che ti dono adesso.
Questa è la fine e tutto. Le tue bandiere sono ripiegate.
Se io sono colpito e cado? Allora finisce il tuo mondo.
Ray Bradbury
Trad Paolo Nori e Salim Catrina
martedì, maggio 15, 2012
Bools Corracha
La poesia che segue è uno dei pochi testi che ci ha lasciato Bools Corracha proprio nei primi mesi autunnali successivi al suo arrivo a Jeve. In quel periodo il giovane ma provato Bools Corracha era fortemente influenzato dalla posia di Ferlingheti adepto di un tardo, patetico e anche un po ridicolo "hyppismo" (Spero che questa parola esista ed abbia un senso). I testi che pubblicherò in questo blog, quando ne avrò il tempo, li devo alla cortese liberalità di Tristan Lermita che di Bools Corracha fu sodale e che fu testimone della tragica scomparsa del nostro Dreiser Cazzaniga,
La terra
Da qualche parte Debord
afferma che lo sviluppo della tecnologia
introdurrà inevitabilmente,
dopo l’automobile come mezzo di trasporto
per le masse,
l’elicottero
o qualche analogo veivolo,
questa previsione,
puntualmente,
non si è verificata,
ed è un grande scorno per l’inventore della psicostoriografia
il non aver capito che proprio sulla base degli assiomi di questa
scienza
era evidente che essa non avrebbe potuto realizzarsi.
Se potessimo vedere il mondo dall’alto
tutte le mattine
quando andiamo al lavoro
tra la nebbia leggera
come il respiro delle
foglie
dorate dall’autunno incipiente
dall’autunno che annuncia
il trionfo
della sua trasparenza funerea
se l’angolo della vostra visuale potesse restringersi
dirigendosi in precipite
picchiata
verso il serpente grigio e argento del fiume
che striscia tra le foglie leggere
bianche
nitide dei
pioppi
variando di diversi gradi il piano
sui cui
scorre parallelo
come
in un quadro
cubo futurista
per poi innalzarsi
di colpo
verso il cielo
viola e argento
come la nota cristallina
di un violoncello di betulla
in modo tale che la nostra bocca
socchiusa potesse bere
i primi raggi candidi dell’alba
che sono frizzanti
e lattei
come le piume di un angelo
addormentato dopo l’amore
con una tenera angela pallida
incontrata a una curva del tramonto
allora
il nostro IO
IO
che è un meschino aggregato di dolorose abitudini
di costrizioni
e cogenze appuntite come aculei
rivolti verso il dentro
si dissolverebbe
in polvere di luce
e noi saremmo
piume
schiuma di luce
lievi balzi di azzurro
e vapore
appena percepibili
nell’abbraccio verde
e ocra della terra
nel suo caldo respiro bianco.
Per questo
è necessario
per la produttività
e il profitto
e forse anche per la professionalità che il nostro sguardo
abbia una sola prospettive
lineare
che la nostra vita sia un percorso
rettilineo su un unico piano
che il nostro corpo si
muova esclusivamente
sul nastro grigio viscido e sporco
delle strade
e non possa percepire null’altro che la superficie
dei centri commerciali
e delle zone industriali
e le cancellate delle villette
con il loro giardinetti
dove spunta un’araucaria
perfettamente stupida
nella sua minacciosa ottusità
e i cani dal pelo lucido
che latrano
l’aggressiva ignoranza dei loro padroni
pieni di odio
e di paura inespressa.
Il percorso lineare
educa la mente alla monodimensionalità
l’anima all’obbedienza,
il corpo al dolore
Il percorso lineare
educa l’uomo al lavoro
la strada è l’ipnosi dello sfruttamento.
Per queste ragioni
eminentemente
psicogeografiche
Debord
sbagliava
e non ci sarà mai
l’elicottero
utilitario
e le strade feriranno sempre
i boschi
e lungo le strade
sorgeranno sempre i capannoni vuoti
con gli spiazzi pieni di lamiere e laterizi e spazzatura e mucchi di
terra
su quali spuntano rovi stenti
e ortiche pallide.
I capannoni sono vuoti perché la loro funzione non è produttiva ma
educativa
o socioipnotica
essi iterano sul nostro percorso lineare
la rappresentazione dell’inevitabile cogenza del lavoro salariato
in tutta la sua
disperata bruttezza.
Bools Corracha
sabato, maggio 12, 2012
Aube
Quella che segue è la aduzione della sola Aube di Peire de Lautel giunta fino a noi nella liberissima traduzione (liberissma dal punto di vista metrico di Dreiser Cazzaniga).
Peire de Lautel
La luce di un canto
Di luna dal pianto
del bosco rifranto
Saluta la notte che muore
Partirti daccanto
Con strazio e rimpianto
E’ dolce dolore
Dell’alba l’incanto
Si scioglie nel pianto
Raccoglie il suo manto
La notte che muore
Avvolti nel canto
Un ultimo bacio soltanto
Ci nutre d’amore
Di tremule piume
S’illumina il fiume
In candido lume
Il bacio ci serra
Di veli, di brume
Di stille, di spume
Si copre la terra
Già l’alba del fiume
Solleva le brume
Nel dolce barlume
Partire m’atterra
Mio passero implume
Del sole nel lume
S’accende la terra.
venerdì, maggio 11, 2012
Tristan Corbière
Il Poeta contumace
Parte II
Non sapendo morire scriveva:
“È un essere di cento lune fa,
tesoro,
Nel tuo cuore poetico in stato
leggendario.
Rimo e dunque vivo … ma non temere a
salve.
- Una conchiglia d'ostrica in un banco
spaccato!
Mi tocco, non vi è dubbio: son io!
Ultimo sbaglio -
In marcia verso il cielo – la mia
nicchia è ben alta ! -
Mi sono domandato mentre prendevo
slancio:
Testa o croce … e ancora non ho
smesso di farlo...
“ È a te che voglio fare il mio
addio a la vita,
A te che piangerai fino a darmi la
voglia
Di mettermi anch'io a piangere con te,
I giochi sono fatti, sono uno spettro
sfatto
In ossa e … (non posso dire in
carne). È sicuro
Son proprio io, eccomi qua, come un
errore.”
“Eravamo collezionisti di
cianfrusaglie;
Vieni a vedere il Bibelot – a me fa
schifo -
Proprio nei miei disgusti, ho dei gusti
eleganti;
Lo sai avevo mollato la vita coi
guanti:
L'Altro non è da prendere nemmeno con
le pinze...
Cerco sul manichino qualche nuova
toilette.”
“Vienimi ad aiutare: i tuoi occhi
negli occhi!
Trad genseki
giovedì, maggio 10, 2012
Il poeta contumace
Tristan Corbière
Il poeta contumace (parte I)
Sulla costa d'ARMOR, in un vecchio
convento
Che i venti avevan preso per un mulino
a vento,
Gli asini si recavano a esercitare il
dente
Sull'edera brucata abbarbicata a un
muro
Con tante brecce che si era persa
l'entrata.
- Solo – ma sempre dritto con un
aplomb ben raro,
Coi merli diradati come denti di
vecchia
Ficcato a pugni il tetto sull'orlo di
un'orecchia
Ai corvi sbadigliando si elevava il
torrione,
Fiero d'avere avuto un tempo una
leggenda
Non era ormai nient'altro che un nido
di briganti
Vagabondi notturni, amanti clandestini,
Sbirri, cani randagi, ratti e
contrabbandieri
Oggi però era ospite della torretta
cieca
Un poeta selvaggio con piombo nelle ali
Laggiù precipitato nel bel mezzo dei
gufi
Che alteri l'osservavano, ne
rispettava i buchi,
Solo gufo inquilino a venti scudi
l'anno
E una vecchia porta sostituita a sue
spese.
La gente del paese, nemmeno la vedeva,
Qualche raro passante mostrava con un
cenno
Del naso a qualcun altro la sua alta
finestra
Il parroco temeva che non fosse un
lebbroso.
Il Sindaco diceva; - Che volete che
dica
A me pare un inglese … un'essere -
sapete?
Le donne già sapevano, vatti a sapere
come .
Che in peccato viveva insieme a certe
Muse
Un eretico insomma … o forse un
parigino
Di Parigi o d'altrove vatti a sapere
dove
Era un invisibile, come le sue donzelle
Non soleva mostrarsi, non si sparlò di
quelle.
Lui era un perdigiorno, alto, pallido e
secco
Eremita per hobby spazzato da ogni
raffica...
Troppo egli aveva amato i paesi
malsani
I medici e gli uscieri lo davan per
spacciato;
S'era posato qua, sazio e in cerca del
posto
Per morire da solo o viver contumace...
Facendo d'un quasi artista,
Un filoso d'accatto
Rantolava al sole e al ghiaccio
Traviato ormai del tutto dall'umano
sentiero.
Ancora gli restava un'amaca sfibrata,
Un cane dormiglione che chiamava Fedele
Ed era dolce e triste come lo era lui
Eppur non più fedele della compagna
noia.
Come morto di sonno solo viveva in
sogno,
Il suo sogno era l'onda che saliva la
rena
E poi la discendeva.
A volte vagamente ... restava li ad
attendere …
Che cosa … solo l'onda … che viene
e rifluisce,
Forse … chissà? L'assente.
Ma lui ne sa qualcosa. Chiuso nella
garrita
Forse ha dimenticato che i morti vanno
in fretta,
Lui viveur stagionato, spettro che si è
smarrito.
Cerca il suo fuoco fatuo salma sepolta
male?
O Lei non è lontana, quella per cui
bramisci
Cervo di sant'Uberto! Ma senza fiamme
in fronte...
Tal forse non sembravi vecchio mio,
esule triste e falso
Fai il morto se ora puoi,,, Ella ha
pianto per te!
- Forse lui non poteva! … Ma non era poeta
Come un altro immortale? Sentiva nella
testa
Spaesata che tutti i versi esametri
Facevan cento passi con andamento
sghembo
Privo di saper vivere – sopravviveva
.
Non sapendo morire scriveva.
trad genseki
venerdì, maggio 04, 2012
La sestina del cane e della lingua
Oro Senhal:
Arcana Signora della Sfera
Cane
Vespro
Sfera
Erba
Gioco
Quando la sera si colora d’oro
Vago sperduto e solo come un cane
Nel suono grigio che diffonde il vespro
Sui boschi e le colline come sfera
Che di rintocchi fa tremare l’erba
Dove la morte sembra solo un gioco
Dolce è il ricordo del tempo del gioco
Di labbra di capelli e d’occhi d’oro
Di corpi che si stringono nell’erba
- Sotto lo sguardo mite del mio cane -
D’amore dolce e teso fino al vespro
Del Vostro corpo liscio come sfera
Oh se avessi guardato nella sfera
Forse avrei visto la trama del gioco
Senza aspettare che giungesse il vespro
E la nebbia coprisse i boschi d’oro
Come la lingua umida d’un cane
Adagiandosi morbida sull’erba
Verde fu la speranza come l’erba
Dell’amore perfetto come sfera
Ma troppo presto abbandonaste il gioco
Lasciandomi ansimante come un cane
Nel buio che discende con il vespro
Sui boschi che l’autunno copre d’oro
Ora non mi consolerebbe tutto l’oro
Che la terra nasconde sotto l’erba
Che il tramonto diffonde dopo il vespro
Dall’orizzonte immenso della sfera
Del primo cielo che ruota nel gioco
Dell’universo fedele come un cane
Si che vorrei latrare come un cane
Latra all’alone della luna d’oro
Ora che non ho più carte nel gioco
E incombe grigio nella nebbia il vespro
Vorrei - scacciato lungi dalla sfera
Del vostro amore - giacere sotto l’erba
Vola canzone prima che giunga il vespro
Dall’Arcana Signora della sfera
Che seppellisce i cuori sotto l’erba.
Peire de Lautel
mercoledì, maggio 02, 2012
Jeve II
Questa che segue è la seconda parte del vasto poema "Jeve ovvero la radura" di Dreiser Cazzaniga che narra la vita e le gesta di Bools Corracha e dei suoi compagni. ( La prima parte si trova due entrate fa in questo stesso blog. Il primo di maggio)
genseki
D'estate il folto fogliame trasformava
la strada serpeggiante
In un tunnel umido e scivoloso in modo
che
Passata la terza curva, districato lo
sguardo dal grande acero
Che un tempo ombreggiava l'edicola
presso la quale
Le massaie si recavano a lavare i panni
L'aprirsi subitaneo dello spazio ala
vista
Produceva una sensazione d'abbaglio e
di speranza.
La vastissima radura pianeggiante dava
la sicurezza
Che danno i luoghi di esatti confini,
di limiti tracciati
Da leggi oggettive: fiumi e
scoscendimenti e spumeggiava
Di luce nella bella stagione e di
nebbia pungente nell'Autunno
Sovente in inverno il biancore nevoso
la rendeva
Simile a una pagina su cui semi e
tracce delineavano
Una scrittura tremula e profonda.
Bools Corracha giunse alla radura
dall'Africa
Un'Africa prenatale fu la sua in cui fu
feto
E nacque a stento e con gran pena alla
vista,
Allo sguardo, al situarsi, a distendere
il suo corpo
Al godere del bolo e dell'eiaculazione,
Della seta di pelli tiepide al tremolio
costante
Delle tende nel dormiveglia come un
cielo
Nuvoloso, gli scrosci di pioggia e i
fanghi rossi
Come il dolore, l'inquieta assoluta
intemperata solitudine
Non bastavano a farne un uomo
Tra le colonne smarrite e dementi degli
eucalipti
Mimava la gioventù di un altro: il
Poeta delle volpi
Dei lupi con l'indigestione di piume e
di tutti quegli altri ortaggi.
La sua fino a quel momento non aveva
saputo raggiungerla
Fu un relitto che qualche mare
superfluo
Gettò sulle rive della radura dove
avrebbe poi regnato
Jules Lapache l'uomo della tana dei
libri sudici
Il vagabondo dei sentieri dei funghi,
il pataro smemorato.
Nessuno aveva libri più sudici di
quelli di Jules Lapache
Nessuno ne avrebbe mai più avuto altri
altrettanto sudici
E poi sudici non erano i suoi libri ma
anche le riviste,
I ritagli unti di vecchi quotidiani
macchiati di caffè muffoso
E su tutto si stendeva la frusciante
sporcizia aracnoidea
Che strisciava pruriginosa dalla pareti
scrostate.
All'aria aperta, invece, Jules Lapache
era un vero Lautaro
Quale Ercilla cantò nella selva
araucana,
Schietta razza di caciatore guerriero
uso alla fame
E stremato dal tanto camminare.
Dreiser Cazzaniga
martedì, maggio 01, 2012
Sestina di Peire de Lautel
Saggio
Maggio
Raggio
Coraggio
Faggio
Aura
Senhal: La Dama Silvestre
Questo verso fu fatto
sotto un faggio1
Tra le cui fronde mai non
filtrò un raggio
Da un uom ch’un tempo fu
creduto saggio
E mentovato pel su’
gentil coraggio2
Ed ora non distingue April
da Maggio
E con pala e badile
ammassa l’aura.3
Più non mi giova
dell’Aprile l’aura
Che pone gemme ai rami del
faggio
Che non distinguo più
Giugno da Maggio
E l’ombra fosca dal
gioioso raggio
Dacché col guardo
saettastemi ‘l coraggio
Per far della possanza
vostra un saggio.
Ahi che in amor tanto
credea esser saggio4
Qual buon nocchier drizzar
la vela all’aura
E affrontar la procella
con coraggio
Saldo nel temporale come
un faggio
Ora non mi rallegra sol di
Maggio
Quando ravviva il bosco
col suo raggio.
Ah se d’una candela al
picciol raggio5
V’avessi nuda tra le
braccia, un saggio
Ben vi darei d’amor che
al sol di maggio
Mai non godeste così
dolce l’aura6
Ch’allor sarei quale un
bordon di faggio
Per la vertù che sale dal
coraggio.
Donna, ché in pugno avete
‘l mio coraggio
Che si discioglie come
neve al raggio
Del sol ardente, e pur
fiorì qual faggio
Che con l’ampie sue
fronde allieta il saggio
E l’usignolo alberga e
freme a l’aura,
Fate ch’io colga la Rosa
di maggio!
Fate ch’io colga la rosa
di maggio!
Che io porto marchiata nel
coraggio
La rosa che di sé profuma
l’aura
Si ch’io gioisca ancor
del sole al raggio
E come un tempo ancor
ritorni saggio
Ed ampio e forte come un
vecchio faggio
Canzone nata d’affranto
coraggio7
Del pianto che mi tragge
col suo raggio.
Peire de Lautel
Trad. genseki
1
L’incipit di questa canzone ricorda quello celeberrimo di Guilhem
IX “farai un vers”.
2
Coraggio è un provenzalismo per core: “coratge”.
3
Si tratta di un evidente richiamo ai tre versi per i quali Arnaut
Daniel è universalmente noto:
“Ieu sui Araut qu’ama l’aura.
E chatz le lebre ab lo bou
E nadi contra suberna”.
Secondo la versione del codice parigino della
Biblioteca Nazionale 856.
4
Il testo riecheggia qui il verso di Bernart de Ventadorn “Ai las
tan cuidava saber d’amor”
5
Reminiscenza del verso di Arnaut Daniel “E quel remir contral lum
de la lampa”.
6
Il codice Mallarensis 161 riporta la variante: “Mai non godeste
così, dolce Laura”.
7
Coraggio è un provenzalismo per cuore “coratge”.
8
Si ignora quale Dama si celi sotto il “Senhal”. La qualità di
silvestre si riferisce alla crudeltà ferina con cui essa si nega al
poeta che per lei langue.
Jeve I
La valle si stringeva improvvisamente
Tra aceri e ontani. Sul corso del fiume
Ormai morto da tanto tempo
Lo scheletro di un idrometro
Ormai quasi un'astrazione di povero
cemento
E barre di ferro disfatte in polvere
rossa
Di ruggine fangosa. Da quanto ormai
Il fiume aveva perso la sua funzione?
Inutile giaceva ora come dimenticato
dalla sua lingua,
In nessun dialetto più da nessuno
nominato
Morto insomma morto come un fiume sa
morire
Conservando le apparenze di una povera
vita
Solo in poche pozze nascoste tra le
fronde
Lassù dove vi era stata forse una
miniera di torba
Poi un bordello e un mercante di
cavalli
E ormai solo un bosco confuso nella
povera
Demenza del silenzio
Si permetteva ancora di ripetere ad
anime più
Ingenue il sermone dell'unione e quello
dell'impermanenza.
Con tre curve strette scure e viscide
la strada si sforzava
Di oltrepassare la gola e si apriva
allora
Una vasta radura, proprio nel punto
In cui il povero fiume riceveva
l'apporto
Delle acque di un breve fresco
affluente
Che scrosciava dal selvoso versante
meridionale
Nel quale aveva scavato la sua propria
valle
In tante migliaia di anni popolata poi
da pastori
E da assassini della cui esistenza
testimoniavano
Ormai solo le umide edicole della
Vergine e di Santa Rita
Da nessuno ormai più venerate con la
misteriosa miseria
Dell'orazione che accomunava le
vecchine
E i guardacaccia, carbonari ed i
pastori
I cacciatori di selvaggina di passo e
gli sterratori -
Tutte le leggende si erano perse con la
lingua che le aveva espresse -
Il mondo dei fiumi fantasma era muto e
il gelo
Non era più la lieta chiamata di Dio
nella carne viva
Alla pace della fede.
I fiumi conversarono un tempo con gli
schioppi
E con le squille degli alti borghi, dei
santuari inerpicati
Sui colli protetti dai faggeti.
Dreiser Cazzaniga
mercoledì, marzo 21, 2012
La Parola nel deserto
Quando sentiamo oppressi in modo intollerabile dal mistero dell'esistenza umana e da quella che sembra l'impotenza totale di Dio per fare qualsiasi cosa, fosse anche solo preoccuparsi della sofferenza umana, ci troviamo nello stadio della "parola nel deserto" di Eliot e ascoltiamo tutta quanta la retorica degli ideologi che vanno spurgando, razionalizzando, proclamando il tempo del rinnovamento. Solo dopo di questo ci sarà forse dato di ascoltare la voce spaventosa e tanto attesa che annichila tutto quello che credevamo di sapere e restaura tutto quello che non avevamo mai perduto.
Frye.
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