I testi che seguono sono tratti da Trilce e si riferiscono ai nuclei tematici dell'infanzia e del carcere. L'infanzia declinata al futuro e il carcere come corpo carnale del soggetto reificato. I due temi sin uniscono nel componimento LVIII in una dialettica chiusa di speranza senza speranza
genseki
Cesar Vallejo
Trilce
L
Can cerbero per ben quattro volte
Ogni giorno manipola i lucchetti, apre
E chiude il nostro sterno, ammiccando
In modo che intendiamo perfettamente.
Con i fondelli goffi melanconici,
Vecchio ragazzo di trascendentale trascuratezza,
Fermo, è adorabile il vecchietto.
Scherza con i prigionieri, quanto può
I pugni ficcati nelle anche. Il burlone
Rode loro i bei bocconi, sempre però
È ligio al suo dovere.
Tra le sbarre interroga
Inavvertito, issandosi sulla falange
Del mignolino
Sulla traccia di quello che dico,
Di quello che mangio
Di quello che sogno.
Il corvaccio spalanca ogni intimità
E come ci fa male quello che vuole il Can Cerbero.
Con un sistema ad orologeria,
Gioca il vecchio imminente, pitagorico
Su e giù per le aorte, e soltanto
Di sera in notte, di notte
Tollera alcuna metallica eccezione,
Sempre, naturalmente compiendo strettamente il suo dovere.
*
LII
E ci alzeremo quando ne avremo
Voglia, anche se la mamma tutta luce
Ci svegli con canterina bella collera materna.
Noi ce la rideremo ben nascosti
Mordendo il bordo alle tiepide coperte
Di vigogna , dai! Non mi fare il solletico!
Fumo dalle baracche, ah quei monelli
Uccelletti! Si saranno alzati presto per giocare
Con gli azzurratissimi aquiloni,
E tra frantoio e pietra, ci mandano
Il fragrante richiamo della stalla,
Per tirar fuori da noi
Il bebè che non sa ancora l'abbecedario
E che si mette a litigare per i fili.
Un altro giorno vorrai pascolare
Tra le tue cavità onfaloidi
Avide caverne
Noni mesi
I miei sipari
O vorrai accompagnare i vecchietti
A sturare la presa di un crepuscolo
Per che sgorghi di giorno
Tutta quell'acqua che scorre di notte,
E arrivi morendo dal ridere,
E nel pranzo musicale
Mais soffiato, farina con lardo,
Con lardo
Prendi in giro il peone sdraiato
Che anche oggi dimentica il buongiorno
Quei suoi giorni buoni con la B di balordi
Che insistono a scoppiargli al poveretto
Per la culatta della V
Labiodentale che veglia su di lui.
*
LIII
Chi grida le undici non sono le dodici!
Come se le avessero spinte, si affrontano
A due a due undici volte.
Che brutta testata. Si affacciano
Le corone ad udire,
Senza però superare gli eterni
Trecentosessanta gradi, si sporgono
Esplorano invano, ove entrambe le mani
Nascondono l'altro ponte che nasce
Tra gravi scherzi liturgici.
Torna la frontiera a provare
Le due pietre che non giungono a occupare
Una stessa stazione nello stesso tempo.
La frontiera, ambulante bacchetta, che segue
Immutabile, eguale, soltanto
Più lei ad ogni guizzo in alto.
Vedi ciò che è senza poter essere negato,
Vedi ciò che dobbiamo sopportare.
Per quanto ci costi.
Quanto si une in gomiti
Che giungono alla bocca.
*
LVI
Tutti i giorni mi sveglio alla cieca
A lavorare per vivere; faccio colazione
Senza assaggiare nemmeno una goccia, tutte le mattine.
Senza sapere se ce l'ho fatta o mai più
Qualche cosa che schizza dal sapore
O è solo cuore e che è ritornato, lamenterà
Fin dove è il meno peggio.
Il bambino sarebbe cresciuto sazio di felicità,
o albe,
Di fronte al rimorso dei genitori di non poter cessare
Di condurci dai loro sogni d'amore a questo mondo;
Di fronte a loro che di tanto amore
Si compresero fino a creare
Ci amarono fino a farci male.
Frange d'invisibile tessuto,
Denti che spiano da neutra emozione,
pilastri
Liberati da base e capitello,
Nella gran bocca che voce ha perduta.
Fosforo e ancora fosforo nell'oscurità
Lacrima e ancora lacrima nel mulinello polveroso.
*
LVIII
In cella, nel solido, persino
Gli angoli si rannicchiano.
Sistemo i nudi che si raggrinzano,
Si spiegazzano, si stracciano
Scendo dal cavallo che ansima e sbuffa
Linee di schiaffi e orizzonti;
Spumoso il piede ogni tre zoccoli.
E lo aiuto: dai, animale!
Si prenderebbe meno, sempre meno
Di quanto mi toccherebbe erogare,
In cella, nel liquido.
Il compagno di cella mangiava grano
Delle colline con il mio cucchiaio,
Quando bambino, a tavola dei genitori,
Mi addormentavo masticando
Mormoro a qull'altro:
Torna, esci dall'atro cantone;
Rapido, in fretta, lesto!
E inavvertito, allego, pianifico
Ci sta il pagliericcio sfasciato, pietoso.
Non credere. Quel medico era sano.
Non riderò più, quando mia madre prega
Nell'infanzia, domenica, alle quattro
Del mattino, per i viandanti,
I carcerati
I malati
I poveri.
Nel recinto dei bambini più non picchierò
Coi pugni più nessuno di loro, che, poi,
Ancora sanguinanti piangerebbero:
Sabato prossimo ti darò il mio prosciutto, però
Non mi picchiare!
Non dirò più d'accordo.
In cella, nel gas illimitato
Fino ad arrotondarsi nella condensazione
Chi inciampa là fuori?
César Vallejo
trad. genseki