lunedì, aprile 12, 2010

Georg Trakl

Quelle che seguono sono due proposte di traduzione da Georg Trakl. Ho sempre cercato di tradurre Trakl, sempre sono rimasto deluso del risultato. L'antinatinatura tutta mentale di Trakl simula il paesaggio e ci coinvolge invece in un teatro cattolico del crepuscolo e del disfacimento. Quasi ai limiti della putrefazione dei contenuti psichici.
La traduzione non trasmette pienamente queste sensazioni ma è un primo approccio.
genseki

Georg Trakl

Canto a sette della morte

Quiete e silenzio

Pastori seppellirono il sole nel bosco fresco
Un pescatore trasse
Dal rabbrividente stagno la luna nella sua rete

In azzurro cristallo
Abita il pallido uomo, le guance volte alla sua stella
Oppure china il capo in sonno purpureo.

Tuttavia sempre sfiora nero volo d'uccelli
Chi guarda, il santo fiore azzurro,
Pensa prossimo silenzio d'obliato, angelo spento.

Di nuovo annotta la fronte in pietra lunare
Radiosa giovinetta
Appare la sorella in autunno e nero marcire

*



Nascita

Monti: nero, silenzio e neve.
Rossa dal bosco scaturisce caccia
Oh lo sguardo muschioso della fiera.

Silenzio materno, tra neri abeti
S'aprono mani dormienti
Quando cadente fredda luna appare
Oh, la nascita dell'uomo. Notturna mormora
Acqua azzurra sul fondo della falesia;
Sospirando sfiora la sua immagine l'occhio dell'angelo caduto.

Pallido si risveglia nella stanza soffocante
Come due lune
Risplendono gli occhi di pietrificata vegliarda.

Ahimé, il grido della puerpera. Con nera ala
Culla la notte sogni di bimbo,
Neve che lenta discende da nubi purpuree.

Trad genseki

Il piccolo Monchiero

Monchiero era piccolino
E condannato, lo avreste abbigliato
potendo – di pelle di lepre,
Leprotto, dai grandi occhiali rotti
I riccioli pieni di spighe
E forse scarpe che non ricordo
Dormiva sul balcone, Monchiero,
Tra le ceste di lumache poste a spurgare
Nel candore della farina tutti i peccati
Della loro lascivia, uno a uno
In fondo la linea del fiume il gelo
Il filare dei pioppi il pastore Thorvaldsen
Maledicendo il silenzio di tutti quei ciottoli
Mentre pascolava i suoi cani rossi
Che freddo sul balcone,
La madre dormiva al calduccio del metano
Tra le lenzuola unte nell'odore della lana fracida
Che ha odore di cane e di fango di fiume
Dove si macerano gli ontani
I suoi peccati li scontava al freddo
Il piccolo Monchiero
A colazione la madre lo obbligava
A predere il bricco del latte bollente
Con le mani nude
Lo avresti rivestito di pelliccia
Di merlo
potendo – il piccolo Monchiero
Con un berreto fatto con metá guscio
Di una nocciola di Cortemilia con le sue ditina rosse rosse
E screpolate, cadeva e si rialzava
Solo nei punti in cui il selciato
Era piú duro e tagliente
Era proprio come suo padre il piccolo Monchiero
Uno zingaro di tutti i peccati, un porco di tutti i macelli
Era come suo padre e lei gliele avrebbe fatte pagare tutte
Quelle che lui le aveva fatto a lei, alla mamma
Del piccolo Monchiero, zampe di gatto su unghie spezzate
Contento di ripetermi con tutta la sua innocenza
Che lui era cosí proprio come suo padre
Che non sapeva far nulla, un fagnano da nulla
Le avrebbe pagate tutte quelle che le avrebbe combinato
A lei con la moto sul balcone al freddo di tutti i peccati
Non seppi mai guardarlo con la venerazione
Che il suo martirio avrebbe meritato
Il piccolo Monchiero, io che attraversavo
Tutte le mattine le lastre di ghiaccio in bicicletta
Con un berretto basco e il chiuei rosso,
Non lo seppi guardare, ora da morto
Mi affligge quaggiú il raggio glorioso
Della sua bellezza fangosa.

genseki

*

venerdì, aprile 09, 2010

Erano quasi gioielli

Erano quasi gioielli, questi,
Che andavano poco a poco trasfomandosi
In una idea meno cangiante di se stessi
Quasi splendori boccioli sfarinando
Germinazioni di mitili e di marne
Bandiere fresche alla corrente aperte
Sullo sfondo screziato di un mare
Come un oltraggio a ogni altra ferita
Altri, forse, frammenti di schiuma
Spruzzi fosilizzati alla soglia del culmine
All'ansia del precipizio, al punto esatto
Della fronte dove fibrilla l'elitra del sogno
Ove il bagliore è presentito nella tenebra
E fulmina la coscienza con la dolorosa necessitá
Di cominciare tutto il suo processo
Erano quasi spendore, scintilla dileguandosi
Nell'effimero del loro pullulare, sciami
Gemme appena, grani cristalli di placton
Si combinavano allora rispecchiandosi
Ognuno nel suo riflesso ecchimosi
Fino a riemergere allora da un qualche fondo
Provvisti ora di un interno e di un esterno
Erano quasi gioielli, quasi talismani
Di rigenerazioni disorganiche, miriade
Frammentaria e tagliente nell'assoluta
E limpida infine ineludibile crescita
Delle loro sere, sereni quasi sibili.

genseki

*

sabato, marzo 27, 2010

Orphée


Corot

Orfeo

Orfeo

Orfeo portava con sé l'odore delle cabine dei bagni
Odore di sudore, iodio, sale polpa putrida di legno, bucce di banana
Disseccate dal sole
Orfeo veniva con il suo bandoneon da lontane pampas
Con un poncio ovale, con la caffettiera in tasca
Con la tasca che sapeva di uova tostate nell'orzo
Orfeo suonava ovale e il mondo s'inclinava a spirale
Davanti al suo naso di emarginazione
Il suo naso negro indio il suo naso triste come le ande
Come le araucarie deportate tra i sambuchi
Delle brianze immemoriali di tutte le umide prealpi
Orfeo compartiva le sue bistecche con i suoi sogni di topolino affamato
Faceva due passi avanti un inchino un ipotesi una disgiuntiva
Nelle parentesi aperte tra due tacchi
Orfeo scioglieva i cani del pianto dalle feritoie lebbrose degli occhi
Quando ricordava Muchacha Minnehaha con la chioma caffelatte
A rivoli nella segala e le ditina dei piedi divaricate
A ogni spinta poderosa dei suoi lombi di allora
Il passo di orfeo, con le sue scarpe di vernice
Schiva l'ombra del tacco di un alto tacco
Evoca un tarlato anfiteatro e colpisce come un crotalo
La sistole di una smarrita solitudine.

genseki

Sarastro Ballanche

Pierre Simon Ballanche


Ballanche

Secondo il Biografo Enid Starkie Ballanche è una delle fonti principali di ispirazine per Rimbaud. In realtá non vi sono prove che Rimbaud abbia avuto una conoscenza di prima mano delle opere di queso mistico lionese, ma potrebbe averne avuto contezza attraverso Chateaubriand e Michelet. In realtá è difficile pensare che Ballanche e Rimbaud possano avere qualche cosa in comune. Sembra piú certo, anche se non dimostrato, che Ballanche abbia piuttosto influenzato Schikaneder e Mozart. La descrizione qui tradotta dell'iniziazione ai misteri di Iside da parte di Orfeo richiama irresistibilmente Pamino e Sarastro. In fondo Pamino è un Orfeo flautista e Tamina una Euridice fortunata.
L'Egitto di Ballanche è un mondo onirico, si tratta di un grande sogno silenzioso e minerale, non vi sono quasi rumori che provengano da orgnismi biologici. Lo sciabordio dell'acqua é lo sfondo sonoro. Uno spazio definito architettonicamente è lo spazio di questo Egitto mitico, ma non si tratta di una architettura per uso umano.
L'immagine che viene alla mente leggendo queste righe è quella del quadro l'isola dei morti. Il pittore conosceva Ballanche.
L'assenza dell'organico, del pullulante, di tutto ció che striscia e fermenta è ció che rende meno credibile ogni convergenza tra Ballanche e Rimbaud. Il cratilismo Rimbaud poteva averlo attinto dallo stesso Crátilo sviluppandolo poi in un abbozzo di poetica.
*

Ballanche

Da Orfeo
Vol IV

Giunsi in Egitto al tempo del'inondazione del'inondazione del Nilo. È uno spettacolo inconcepibile per chi non lo abbia visto. I muri delle cittá, le case degli abitanti, gli edifici pubblici, i templi degli dei, sono battuti dalle molli onde del fiume che, in qualche mo, si è mutato nell'Egitto stesso. Non vi racconteró, principe ecellente, i lavori inauditit che sono stati messi in opera per giungere a rendere regolari i benefici di questa meravigliosa inondazione, per produrre un'eguale distribuzione dele acque, per prevenire gli inconvenienti di una crscia troppo rapida o troppo lenta, troppo abbondante o troppo misurata; infine per guidare a decrescita del Nilo, quando vuole ritornare nel suo alveo, e per impedire che il suolo da lui fecondato non divenga una vasta palude insaubre. Si è dovuto scavare canali, elevare dighe, formare vasti laghi, simili a mari contenuti da rive indistruttibili: lavori incredibili che confondono l'immaginazione. Da nessuna parte, sapete, la potenza dell'uomo s é manifestata come in Egitto, Questa terra, conquista sapiente di un'industiositá interamente umana, cominció, si dice, essendo nient'alro che una stretta linea di capanne di canna. Prima era l'ippopotamo che regnava in pace; il coccodrillo, tiranno assoluto d'immense inondazioni, si adormentava al sicuro, e al suo risveglio spargeva il terrore tra gli animali he popolavano quella fangosa contrada.
“Ti dico saggio Evandro, che si trattava di una industria umana, per distiguere ai votri occhi l'Egitto dalle contrade dei Titani. le Muse che un tempo mi avevano ispirato non mi avevano insegnato niente a proposito di un tipo di lavori e di tradizioni come quelli. Cosí, una volta superato lo stretto del faro, finii per credermi trasportato in un altro universo. Tutti i miei pensieri erano svaniti; tutta la mia scienza, o piuttosto ciò che io credevo fosse la mia scienza, si era dissolta come vano vapore. Grotte fatidiche della Samotracia, risveglio civilizzatore della Tracia, potere della lira, tutto spariva per me nelle profonditá di un ricordo in qualche modo spento. Mi sembrav di entrare in una nuova vita in cui tutte le condizioni dell'esistenza sarebbero cambiate.
...

Dovunque avevo conosciuto soltanto popoli nuovi, uomini appena usciti dalla quercia o dalla roccia; per la prima volta mi trovavo prsso un popolo antico, tra uomini che contavano lunghe generazioni di antenati. Ovunque avevo assistito, come ala nascita della societá; qui potevo ammirarla in tutta la pienezza di una grandezza confermata dal tempo. Ovunque avevo incontrato una razza umana prossima alle orignini oscure, culla di ogni cosa; qui era una razza umana giá separata dalle origini oscure da alcuni grandi secoli di tradizioni che si dicono sicure...

Che cosa doveva essere allora per me il ricordo di quelle fotezze di eroi costruite sulle rocce, simili a nidi d'aquila, fortezze che sovente abbiamo considerato come cittá primitive, che cosa doveva essere in presenza di tante cittá popolose, piene di magnifici edifici, obbedienti a leggi non antiche ma eterne?
...
Per l'Egitto, i Titani non hano sradicato gradualmente vaste foreste per farvi entrare la luce; il suolo in tutta la sua estensione dovette essere stato creato dall'uomo prima che vi si stabilisse. Fuori non vi sono i boschi, soggiorno dell'oscuritá antica, ma le sabbie del deserto o i flutti tempestoi del mare.
...
Ció che stupisce di piú, (in Egitto) è che tutto è simbolico, e che si ha inmediatamente un sentimento indefinibile di queste creazioni simboliche, segno davvero di un'intelligenza forse divina.
La lingua presenta un senso misterioso e uno letterale, un senso nascosto e un senso scoperto, un senso profondo e uno superficiale; gli stessi monumenti sono una lingua dii emblemi.
...
Anche il Nilo, che nasconde il segreto delle sue sorgenti ignorate, sembra un'immagie rapida e viva delle tradizioni che si perdono nella notte dei tempi. Sembrerebbe che con il suo limo fecondo trascini tutte le leggi dell'allegoria.
...
L'egiziano, educato da ció che vede, mette un'intenzione allegorica in tutto quello che fa.

In Egitto, cittá di cui voi potreste appena concepire l'estenione, si attraversano in seno a un vasto silenzio o in mezzo a un rintocco sucessivo e prolungato, come quando si ode dalla cima dei monti, il rumore iafferrabile delle valli profonde. E questo vasto silenzio è interrotto solanto dal sordo sciabordio di un'nda prigioniera che si culla su se stessa, o si rompe conro alti muri neri, dai suoni uniformi di una moltitudine di navicelle i cui remi colpiscono a colpi cadenzati la superficie del fiume e dalle grida dei piloti che le dirigono, che si chiamano e si evitano reciprocamente. Questo aspetto scuote tutti i pensieri, rovescia tutte le convinzioni piú intime: sembrerebbe di scivolare attraverso un mondo fantastico.
...
Si avanza di scoperta in scoperta in un mondo creato dal sogno.
...
Questa civiltà saggia e perfeta, ma fissa e uniforme, che avevo sotto gli occhi, mi faceva apprezzare meglio tutto il fascino di quelle civiltá appena abozzate, che promettevano una varietá di usanza e di costumi piú o meno severi o irridenti.

La vita in Egitto, sembra reggersi sul nulla; cosí gli uomini cercano di darle la durata della morte. Tutte le differenti epoche della vita umana, come una sequenza di vite e di morti che nascono le une dalle altre, sono celebrate con cerimonie funebri, Cosí l'uomo non giunge alla sua ultima morte che attraverso una serie di successivi trapassi: e quest'ultima morte a sua volta è il passaggio a un'altra vita. Cosí luomo, quando entra in una nuova tappa della vita prende il lutto di quella precedente; è dunque succesivamente in lutto della sua propria esistenza mobile e cangiante...

Sbaglia stranamente chi creda che l'Egiziano voglia unicamente sottrarre il suo corpo e le sue opere alla distruzione; quello che vuole, soprattutto, è stabilizzare proprio la morte, stabilizzarla come emblema e pegno di immortalitá.
...
La veritá non si insegna, essa illumina chi ne è degno. I preti dell'Egitto non scostano mai il velo che
copre la statua di Iside e loro stessi non l'hanno mai vista senza velo.

*

Tre massime sono il fondamento dell'iniziazione; ... Eccole: Nessuno è degno della veritá se non la scopre da solo. Nessuno puó giungere alla veritá si non scopre se stesso. Infine, nessuno è in grado di comprendere la veritá se non è stato in grado di raggiungerla da solo. Dio ha fatto tutto quando ha dato il linguaggio agli uomini: è la grande rivelazione universale del genere umano. I sacerdoti dell'Egitto, dunque, non insegnano nulla perché credono che tutto è nell'uomo; non fanno che scartare gli ostacoli. Vanno piú lontano, gli adepti, gli adepti che non possono entrare con i loro propri sforzi nella sfera delle idee e dei sentimenti in cui si vuole introdurli sono respinti come profani. I depositari della saggezza credono che la veritá è una cosa pericolosa per l'uomo che non la trova in sé.

Ballanche
Trad genseki.

venerdì, marzo 26, 2010

La fleur des amants


La fleur des amants è rimasta in me un simbolo occultato, dimenticato, sepolto. Proprio questo suo stato di presenza latente ha fatto si che condizionasse la mia vita in modo piú profono di quanto sia in grado di valutare ora. Un simbolo sepolto nella terra della mente è come un seme, chhe va germogliando in corolle impreviste.
Certo qui la corolla è la meraviglia, l'imprevisto, la ricerca ossessiva del talismano, la sfiducia nell'amore e la fiducia nella magia naturalis,
genseki

Zá-barás

Zá'-barás mi è apparsa questa mattina mentre stavo guardando l'insegna di un ristorante, in realtá non mi ha condotto molto lontano, il messaggio che recava si è fermato a un livello alquanto superficiale. Sembrava promettere di piú. Comunque, eccola qua.

Zá'-barás nel suo manto di squame
Danza nel fuoco spento tra onde e fiamme dimenticate
Danza sulle chiocciole che furono carbone
Sulle foglie scartate dei carciofi
Le capre marine leccano il sale dalla pianta dei suoi piedi
Zá'-barás è un corpo di delfino
Ti si disfa tra le braccia come un banco di alici all'ombra del volo di un gabbiano
Occhi di poseidonia tra gemiti bianchi di gallinelle dalle zampe di corallo
Chi trascina la sua conchiglia sfrigolante
Su cui agita il suo corpo iridato dalle brezze nella samba del sálnitro?
Eccola! Scompiglia lettere e sillabe
Come se un oceano di combinazioni innumerevoli si frangesse sulla scogliera
Sollevando spruzzi di parole sonore come la caduta uno sciame di scarabei
Sul fondo di un vassoio d'argento
Zá'-barás al compasso delle tue chele anche lo scorpione
Si fa mantide e dirige la sua preghiera proprio al cuore dell'amanita esculenta delle spiagge
Zá'-barás
Il polipo vorrebbe aver artigli per ghermire i tuoi seni di di medusa
Il mio corpo ti schiaccia e ti serra in una lotta che mi lascia gli occhi liquefatti
I miei occhi gocciolano dentro di me
Portano la freschezza della tua immagine
Alla mucosa riarsa del palato alla lingua di salgemma
Goccia a goccia gocciola il desiderio di vedere una a una le dita dei tuoi piedi
Trascinarsi a passo di milonga
Sulla battigia che protegge il sole.

martedì, marzo 23, 2010

Il vecchio Remolaccia

Il vecchio Remolaccia
Aveva un tumore di fragola
Appena sotto il naso, uno appena dietro l'orecchio
Aveva una macchia di vino vecchio
A colare dalla fronte al mento a ciocche
A scoppi il vecchio Remolaccia
Sangue di barbabietola
Il cugino di sampietro e di john dory
Era quello che preferivo contemplare
Nella sua arsura, nell'arida gloria rossiccia
Della vetrata in cui se la godeva
Con tutti i grandi santi calvi, il vecchio Remolaccia
Quel furbo, sangue di barbabietola
Sempre ben dritto sapete tra le coste e gli asparagi
E le loro aureole e le coroncine di piselli
Suonando il tamburo con i fiori d'aglio
E il fegato piú giallo di un limone
Si prendeva per il sole si credeva
Chissá cosa e poi scoppiare
In foglie novelle di pioppi e giovani ramoscelli di frassino
Il vccchio Remolaccia, ma dai! Con tutti i suoi tumori
Le macchie i nidi, gli scoiattoli, l'artrite e i millepiedi
Sempre ficcato nel suo buco con quel vaso di vino
Tracanna e canna
Lasiatelo dormire con la testa sul cavolfiore come un angioletto
Tutto rosso e gonfio e trasuda il suo pus
Fino al ruscello
Nella sua vetrata

*

genseki

lunedì, marzo 22, 2010

La plume, où est-elle?


Nadja

avec quelle grâce elle
dérobait son visage derrière la lourde plume
inexistante de son chapeau !
André Breton
Nadja

*

Con quanta grazia ella celava il viso dietro la voluminosa piuma inesisente del suo cappello.

Trad genseki

Jules Lapache

Jules Lapache morì in ospedale con i polmoni completamente atrofizzati. Jules Lapache morì annegato in se stesso. Jules Lapache fu il miglior amico di Dreiser Cazzaniga, forse la sola persona che Dreiser Cazzaniga avrebbe potuto considerare amico. Era un cacciatore-raccoglitore del neolitico inserito per un casa bizzarro del destino in una delle regioni più industrializzate del mondo sviluppato. Avrebbe vissuto e visse effetivamente per certi periodi più o meno lunghi di bacche, erbe selvatiche e della cattura di piccoli mammiferi. Portava nel mondo una curiositá instancabile, una paura istintiva delle donne, l'impossibilitá di accettare qualsiasi forma anche minima di ragionevole agio e di cura della sua persona. Era talmente stoico che a prima vista appariva cinico.
Ignorava l'esistenza di qualsiasi istituzione, passó un lungo periodo in carcere per aver lasciato passare il periodo concesso per il pagamento di una multa amministrativa e non aver poi mai risposto alle successive notificazioni giudiziarie. Un caso forse unico in Europa per una persona sana di mente. Ebbe molti figli, soprattutto figlie che era solito abbandonare alle cure delle rispettive madri. Non sapeva quasi nulla della sua numerosa prole. Solo qualche vaga notizia dalla quale curiosamente emergeva che quasi tutti e tutte lavoravano nel settore zoologico: allevamento o addestramento. Jules Lapache passava lunghi periodi scrivendo lettere immaginarie a ciascuno dei suoi figli e organizzando una immaginaria festa di compleanno suo al quale invitarli tutti. A quanto fu dato sapere a Dreiser Cazzaniga i suoi figli e figlie, tutti indistintamente lo odiavano e disprezzavano con fredda determinazione. Quanto doveva pesare questo dolore sull'anima di Jules Lapache! Perché anche Jules Lapache doveva avere un'anima, pensava Dreiser Cazzaniga, anche se lui en avrebbe fatto volentieri a meno. La morte di Jules Lapache segnó per Dreiser Cazzaniga la fine dell'illusione infantile che restava inconsapevolmente intessuta a quasi tutti i movimenti della sua coscienza della sua propria immortalitá. Adesso Dreiser Cazzaniga era direttamente esposto al vento della morte. Non c'era davvero piú nulla tra lui e Lei. Jules Lapache fu per Dreiser Cazzaniga un monito vivente e la testimonianza reale della forza della volontá di vivere che trasforma alchemicamente tutte le sostanze della depressione e dell'autodistruzione in scaturigine di passione. Jules lapache morí affogato in se stesso. Si affogó da solo, sigaretta dopo sigaretta, ogni sigaretta la fumava singolarmente, fumava le sigarette una per una e ogni sigaretta era potenzialmente per lui l'ultima sigaretta. Morí affogato da se stesso, dentro se stesso, solo, annegó come Flebas il fenicio. Annegó.
I bronchi pieni di acqua, i suoi figli lo odiavano. Jules Lapache temeva le donne, le insultava, soleva, con loro, esprimersi con lazzi e sarcasmi che suonavano sempre pateticamente violenti, era senza difese con loro. Le donne solevano disprezzarlo. Alcune lo socorrevano. Jules Lapache è morto dopo aver sofferto tutte le sofferenze, dopo essere stato spogliato di tutte le illusioni, anche dell'illusione dell'autodistruzione. Forse per questo lo avrá accolto con un sorriso la Vergine, Kannon, colei che ascolta i gemiti nel mondo, colei a cui non volle mai abbandonarsi, la intravide oltre la pellicola di acqua che bruciava quello che restava della sua vista e per un istante eternamente lo accolse con un sorriso degli occhi di felce, un sorriso di tante braci, con il sorriso che lui aveva sempre onorato sfuggendolo e negandolo.

genseki
*

Lu Spadaro di Quittengo scrive in una nota che spera di condividere con Dreiser Cazzaniga altri ricordi. Quali ricordi potrá condividere con chi non ne ha piú di ricordi? Con chi non en ha piú e neppure vuole piú averne? Lu Spadaro di Quittengo leggerá queste righe? Se lo fará potrá collaborare con qualche ricordo suo al nostro sforzo di ricostruzione delle Memorie di Dreiser Cazzaniga. Gliene saremo davvero grati.
a cura di genseki

martedì, marzo 16, 2010

Cuor suppliziato

Cuor suppliziato

Cuor suppliziato

Triste il mio cuore va sbavando a poppa
Tutto coperto di trinciato forte
Sopra gli sputano schizzi di zuppa
Vengono dopo i lazzi della truppa
Che in una gran risata infine scoppia
Triste il mio cuore va sbavando a poppa
Tutto coperto di trinciato forte

quegli insulti itifallici e nonneschi
Lo hanno interamente depravato;
Al vespro van scarabocchiando affreschi,
Graffiti Itifallici e nonneschi
A voi marosi abracadabranteschi
Dono il mio cuore perché sia lavato:
Che con insulti ittifallici e nonneschi
Lo han depravato.

Quando le cicche saranno tutte spente
Cosa ti resterá cuore rubato?
Il baccanale verrá coi ritornelli
Quando le cicche saranno tutte spente
Mi si rivolteranno le budella
Se il cuore triste sará ancora infangato
Cosa ti resterá cuore rubato?

Rimbaud
Trad.genseki

Note sulle memorie di Dreiser Cazzaniga

Nota sulle memorie di Dreiser Cazzaniga

Lo stato in cui ci sono giunti i diversi materiali che costituiscono le memorie di Dreiser Cazzaniga permettono di formulare diversi ipotesi sulla forma definitiva che egli avrebbe voluto conseguire. Nessuna di queste ipotesi può essere considerata definitiva, e probabilemente lo stesso Dreiser Cazzaniga aveva in mente diversi e contradditori progetti che non giunsero mai a una forma meno fluida, di quella alla quale ci troviamo di fronte.
Dreiser Cazzaniga era un collezionista saltuario. Collezionava qualsiasi cosa in modo programmaticamente non sistematico e soprattuto assolutamente non esasustivo.
Per un lungo periodo collezionó i biglietti di qualunque mezzo di trasporto di cui si fosse servito in qualunque parte del mondo conservandoli nelle scatole di cartone delle camicie che stava bene attento a conservare dopo averle tolte, le camicie dal cellofan e aver tolto tutti quelli spilli e graffette di plastica. Per un certo periodo collezionó anche gli spilli delle camicie in una scatola di latta delle pastiglie Leone. Per un certo tempo, infatti, collezionó anche scatole di latte di pastiglie Valda, Leone, Re Sole e di svariati tipi di te cinesi. Poi usó le scatole come contenitori di altre collezioni minori. Le collezioni avevano per lui soprattuto un significato di amuleto. Agalma. Ritorniamo alla collezione di biglietti. Questa prosperó, impazzita dilagando dalle scatole delle camicie ai vasetti di yogurt da mezzo chilo fino a quando Dreiser Cazzaniga pensó che una cosa cosí la poteva fare solo qualcuni al bordo della follia e in poche decine di minuti se en disfó.
In diversi occasioni si disfó di materiale raccolto per le Memorie e di altre collezioni saltuarie come quella tanto amata di fumetti pornografici.
Poi si dimenticó di essersene disfatto e la cercó con sempre crescente frustrazione in tutti gli anfratti del suo grande solaio dove prima di regalarla all'Apache la aveva coscienziosamente custodita.
Una delle ipotesi piú interessanti è che Dreiser Cazzaniga volesse scrivere le sue memorie al futuro. Non ci è dato sapere se con un tono oracolare o narrativo. Peró al futuro. Qualche cosa del tipo: “il giovane Dreiser Cazzaniga con il maglioncino giallo fosforescente che la mamma avrá comprato nel mercatino del barrio di Briggio il decimo uscirá dalla classe nell'intervallo per recarsi ai bagni dove i saranno soliti riuniri i fumatori e tutti gli altri duri. Nel corridoio, anzi a un aangolo del corridoio quasi si scontrerá con la compagna di scuola Lagrassa-Cavani, dallo sguardo irrimediabilmente porcino che gli getterá su maglioncino un sostanza bluissima, azzurrosa e viscida scoppiando poi a ridere insieme a la di lei inseparabile amica...etc”
Piú sicura, quasi certa è, invece, l'ipotesi che Dreiser Cazzaniga volesse scrivere le sue memorie dal punto di vista della morte. Dovevano apparire come le memorie di quelcuno che era giá morto, compilate e interpolate da un fedele curatore quando ancora Dreiser Cazzaniga era in vita. Pienamene in vita, direi. Il fatto è che Dreiser Cazzaniga non sapeva come procurarsi un curatore. Nessuno lo conosceva e non aveva mai combinato niente per tutta la vita.
Dreiser Cazzaniga era proprio quel tipo cui durante una festa o un ricevimento nessuno rivolge mai la parole e che se inizia a parlare lui, tutti gli altri con la scusa di andare a cercare un'altra coppa di champagne o con la scusa del canapé scivolano inmediatamente a formare altri capannelli.
Come trovare qualcuno che si interessasse alle sue memorie? Si giunse a formulare l'ipotesi che l'intenzione di Dreiser Cazzaniga fosse quella di crearlo, il curatore, O persino che egli intendesse adotarre come curatore qualcuno che fosse già morto e dare alla luce le sue memorie usando il nome di costui come schermo narrativo, naturalmente con il consenso degli eredi. Avrebbe cosí conepito le memorie di un vivo curate da un morto chele narra al futuro.

a cura di genseki

L'occhio dell'acqua

Zimbello d'uno specchio d'acqua immobile, non seppi cogliere,
Immobile il battello, troppo troppo corto il braccio, né l'uno
E neppure l'altro fiore: non il giallo importuno
Laggiù; né l'azzurro, amico dell'acqua cinerina.

Polvere di salici, è un'ala che la scuote!
Le rose nei canneti da tempo divorate!
Immobile ancora la barca, calata la catena
Al fondo dello specchio d'acqua senza bordo, - in quale limo?

A. Rimbaud
Trad. genseki

I sufi di Andalusia

Abdallah ben ja'dûn al-Hinnawi ben Muhammad ben Zakariyya.

Morì a Fez nel 597/1201. L'avevo presentato al mio compagno Abdallah Badr al-Habashî, Questo Maestro era uno dei quattro awtâd grazie ai quali Allâh preserva questo mondo. Egli aveva chiesto ad Allâh di cancellare la sua buona reputazione dal cuore di tutti, in questo modo quando era assente, non era rimpianto da nessuno e quando era presente nessuno gli rivolgeva la parola, quando giungeva in qualche posto non gli davano il benvenuto, non conversavano con lui e tutti lo ignoravano.

Io ero giunto a Fez e mi ricordo che alcune persone, avendo udito parlare di me, volevano incontrarmi. Io, invece, non avevo intenzine di vederli, lasciai la casa dove dimoravo e andai alla moschea. Non avendomi trovato in casa, queste persone vennero alla moschea. Io li vidi giungere e quando mi domandarono dove fossi risposi loro: “cercatelo fino a quando non lo troviate”.
Mentre stavo li seduto, molto ben vestito, improvvisamente vidi il Maestro davanti a me. Non lo avevo mai visto prima di allora. Mi disse: “Che la pace e la benedizione di Allâh siano su di te”, io risposi al suo saluto. Allora egli aprì un libro di al-Muhâsibî, il Trattato sulla conoscenza” me en lesse un passaggio e mi chiese di spiegarglielo. Per ispirazione divina, conoscevo già la sua identitità e il suo maqâm, sapevo che era uno degli awtâd e che suo figlio avrebbe ereditato il so maqâm. Gli dissi, allora chi era e quale fosse il suo nome. Egli chiuse il libro, si alzò e disse: “sii discretissimo perchè nutro affetto per te e vorrei conoscerti meglio. La tua aspirazione è autentica.”
Quindi mi lasciò. Da allora ci incontrammo soltanto quando nesun altro era presente.
Soffriva di un danno alla lingua e parlava con difficoltà; tutavia, quando leggeva il Corano la sua pronuncia era eccellente. Quast'uomo che faceva grandi sforzi sul cammino spirituale era commerciante di henné. I suoi capelli erano sempre in disordine e pieni di polvere, egli ungeva gli occhi di kohl per proteggerli dalla polvere di henné.

Ad-Durrat al-fakhirah

Quando parlava passava per matto, quando sedeva in un'assemblea gli altri si alzavano e se en andavano perché lo trovavano fastidioso. Questo stato di cose gli piaceva molto. Un giorno me en stavo seduto presso il minareto quando ibn Ja'dûn venne a sedersi davanti a me dopo avermi salutato. Aprì un libro di al-Muhâsibî. il Trattato della conoscenza. me en lesse un passaggio e mi chiese di commentarlo. Lo feci. Mi disse: “Compagno, se non smetti, rivelerò a tutti la tua funzione, tu sei uno dei quattro. Mi chiese, allora, di non svelare la sua identitá e promise di fare lo stesso per me.
Ibn Arabi
trad a cura di genseki

A cosa pensavano i due cavalieri nella foresta

Questa poesia di Hugo, tratta dalla raccolta: "Les contemplations" è uno dei pocchissimi esempi di poesia romantica della letteratura francese, con alcuni testi di Nerval. Sembra di udirla con la musica di Schuman o di Wolf.


Cosa pensavano i due cavalieri nella foresta

Oscura era la notte e la foresta cupa
Al mio fianco Herman era come uno spettro
I cavalli al galoppo. Che Dio voglia guidarli!
Le nuvole del cielo sembravano di marmo.
le stelle volavano tra le chiome degli alberiI
Come uno stormo d'uccelli ardenti.

Son gonfio di rimorsi. Spezzato dal dolore.
Lo spirito di Hermann ha perso la speranza.
Son gonfio di rimorsi. Amori miei dormite!
Mentre percorrevamo questo verde deserto,
Herman mi disse: "penso alle tombe socchiuse;"
"Penso" - io gli risposi " alle tombe ormai chiuse".

Egli guarda in avanti ed io guardo all'indietro
I cavalli galoppano in mezzo a una radura;
Il vento porta l'eco di un angelus lontano
"Io vo pensando a quelli che l'esistenza affliggei".
Queli che ancora sono, quelli che ancora vivono"
"Io penso - gli rispondo: "a quelli che son morti".

Le fontane cantavano. Che parole cantavano?
Le querce mormoravano. Che cosa mormoravano?
Gli arbusti susurravano come dei vecchi amici.
Herman mi disse: I vivi non possono dormire,
Vi sono occhi che vegliano, vi sono occhi che piangono."
Io gli risposi "ed altri giacciono addormentati."

Herman riprese allora:. "È la vita sventura.
I morti più non soffrono. Infine sono in pace!
Come invidio le tombe ricoperte di erba
Sulle quali l'autuno fa cadere le foglie
E la notte accarezza con le sue dolci fiamme
Perhé il cielo raggiante calma tutte le anime.

Gli risposi; "silenzio, rispetta il gran mistero!
I morti son distesi nella terra che premi.
I morti sono i cuori che un tempo ti hanno amato
Il tuo angelo estinto! Son tuo padre e tua madre
Non devi rattristarli con amara ironoa
Come attraverso un sogno ci odono parlare.

Victor Hugo
Trad. genseki

venerdì, marzo 12, 2010

Corvacci II

Questa versione di corvacci è molto più oggettiva della precedente.
genseki

*

Inmediatamente volò verso tutti quei corvi
Portato dal vento del latte
Con tutti i rottami di altri, violato -
Manichini rotti, occhi unghie
Le ferite nel petto
E quel vestito poporporino molto caro
Ricamato con lacrime e nocciole
Pascoli biancospino
Le ciliege, le gocce di sangue della passione
Quel tremito che scuoteva il suo corpo torturato
Lo fece precipitare la moltitudine che stava a Sula
Come fosse pioggia di rubini, spilli, l'acqua, il sudore lo spirito
Perfino la lingua lo leccó tutto fino al bordo
E allora si ruppe in mille idiomi porpora
Come Dimitri succhiato Royce
Lo stenditoio dei vestiti dei fiori Estrelle di Sicilia
E I CORVI corvacci a sbattere le alucce nella fronte
In cerca di altre piscine di olio di anice, di ottone
Era la febbre, le spine nelle tempie, la tunica azzurra
Madre
No, non dentro la madre della madre
C'era il vecchio rovere
Quello che apparve repentinamente nel giardino
Quando voltò la testa
Ufficio del Direttore, emozionato
Non c'era prima e ora minaccia il cristallo sporco
Con bollicine di parecchi appena azzurra sul bordo
Tocca con i suoi rami neri di foglie leggermente arancioni
Su cui riposavano i corvi stridenti
Percorso della primavera dei suoi baffi
Proprio come molti piloti da caccia
E quello che aveva perduto gli occhiali.

genseki

Corvacci

Volarono via di colpo tutti quei corvi
Trascinati dal vento di latte
Con tutti gli altri rottami violati
I manichini spezzati, gli occhi i chiodi
Le ferite del costato
E quell'abito viola tanto costoso
Ricamato di lacrime e nocciole
e di tutte le parole abbiette
Quante! Fino al terremoto dette,
Fino al sollevarsi immenso della spalla del mare
In un getto di vomito salato
Una lingua, sapete, verde e gialla
A leccare i pascoli, il biancospino,
Le amarene, le goccioline di sangue della passione
Che scuotendo scuotendo il corpo tormentato
Egli faceva cadere sula folla che lo assisteva
Come una pioggia di rubini, di spilli, di acqua, sudore, spirito
Fino a che la lingua leccò tutto via
E si ruppe poi in altr mille lingue violacee
Che succhiavano la Royce di Dimitri
Lo stenditoio di estrelle con i vestiti siciliani a fiorellini
E i corvi, corvacci svolazzando davanti
In cerca di altre pozze di olio di anice, di ottone
Era la febbre, le spine sulle tempie, la tunica azzurra
della madre
Senza dentro la madre
la madre era quella quercia rossa secolare
Che era apparsa di colpo nel giardino
Quando aveva girato la testa
nell'ufficio del direttore, emzionato,
Prima non c'era e ora minacciava i vetri sporchi
Con tante bollicine leggermente azurrate
Sfiorandoli s¡con i suoi rami neri dalle foglie delicatamente aranciate
Su cui si posarono i corvi stridenti
Lisciandosi i baffi primaverili
Come tanti piccoli piloti da caccia
Che avessere smarrito gli occhiali protettivi.
genseki

Sogno per l'inverno

L'inverno ce ne andremo in un vagone rosa
Con azzurri cuscini
Come staremo bene!
Un nido di folli baci riposa
In quei morbidi angolini.

Chiuderai gli occhi per non vedere oltre il vetro
Le smorfie degli spettri cupi
Arcigni mostri di un branco tetro
Di demoni neri e di lupi.

Poi sulla guancia, sentirai un prurito
Un bacetto, come un ragno impazzito
Percorrerà la tua nuca deliziosa

"Cercalo!" - mi dirai inclinando la testa.
Quanto a lungo la cacceremo quella bestia
Che sfugge senza posa.

A. Rimbaud
Trad genseki

Sogno per l'inverno

martedì, marzo 09, 2010

Un bacio

L'ostia dei tuoi denti è canneto
Alla voragine dei miei baci
O mia Kundri, tramestio di tanti ricordi
Di piazze, lampioni arancioni, solitudine
Castelli radiali e cavernosi kebab.
Ogni dente è un cigno per la freccia della mia lingua
Uno ad uno li accarezzo, li assaporo
Come l'euforbia e la graminacea di maggio
Assaporano il filo della falce:
È più di un grido è un volo scorticato
Diglielo per una vota allo spadaro
Sulla tolda del vascello pietrificato.

*

genseki

Trilce

I testi che seguono sono tratti da Trilce e si riferiscono ai nuclei tematici dell'infanzia e del carcere. L'infanzia declinata al futuro e il carcere come corpo carnale del soggetto reificato. I due temi sin uniscono nel componimento LVIII in una dialettica chiusa di speranza senza speranza
genseki

Cesar Vallejo

Trilce

L

Can cerbero per ben quattro volte
Ogni giorno manipola i lucchetti, apre
E chiude il nostro sterno, ammiccando
In modo che intendiamo perfettamente.
Con i fondelli goffi melanconici,
Vecchio ragazzo di trascendentale trascuratezza,
Fermo, è adorabile il vecchietto.
Scherza con i prigionieri, quanto può
I pugni ficcati nelle anche. Il burlone
Rode loro i bei bocconi, sempre però
È ligio al suo dovere.

Tra le sbarre interroga
Inavvertito, issandosi sulla falange
Del mignolino
Sulla traccia di quello che dico,
Di quello che mangio
Di quello che sogno.
Il corvaccio spalanca ogni intimità
E come ci fa male quello che vuole il Can Cerbero.

Con un sistema ad orologeria,
Gioca il vecchio imminente, pitagorico
Su e giù per le aorte, e soltanto
Di sera in notte, di notte
Tollera alcuna metallica eccezione,
Sempre, naturalmente compiendo strettamente il suo dovere.

*

LII

E ci alzeremo quando ne avremo
Voglia, anche se la mamma tutta luce
Ci svegli con canterina bella collera materna.
Noi ce la rideremo ben nascosti
Mordendo il bordo alle tiepide coperte
Di vigogna , dai! Non mi fare il solletico!

Fumo dalle baracche, ah quei monelli
Uccelletti! Si saranno alzati presto per giocare
Con gli azzurratissimi aquiloni,
E tra frantoio e pietra, ci mandano
Il fragrante richiamo della stalla,
Per tirar fuori da noi
Il bebè che non sa ancora l'abbecedario
E che si mette a litigare per i fili.

Un altro giorno vorrai pascolare
Tra le tue cavità onfaloidi
Avide caverne
Noni mesi
I miei sipari
O vorrai accompagnare i vecchietti
A sturare la presa di un crepuscolo
Per che sgorghi di giorno
Tutta quell'acqua che scorre di notte,

E arrivi morendo dal ridere,
E nel pranzo musicale
Mais soffiato, farina con lardo,
Con lardo
Prendi in giro il peone sdraiato
Che anche oggi dimentica il buongiorno
Quei suoi giorni buoni con la B di balordi
Che insistono a scoppiargli al poveretto
Per la culatta della V
Labiodentale che veglia su di lui.

*

LIII

Chi grida le undici non sono le dodici!
Come se le avessero spinte, si affrontano
A due a due undici volte.

Che brutta testata. Si affacciano
Le corone ad udire,
Senza però superare gli eterni
Trecentosessanta gradi, si sporgono
Esplorano invano, ove entrambe le mani
Nascondono l'altro ponte che nasce
Tra gravi scherzi liturgici.

Torna la frontiera a provare
Le due pietre che non giungono a occupare
Una stessa stazione nello stesso tempo.
La frontiera, ambulante bacchetta, che segue
Immutabile, eguale, soltanto
Più lei ad ogni guizzo in alto.

Vedi ciò che è senza poter essere negato,
Vedi ciò che dobbiamo sopportare.
Per quanto ci costi.
Quanto si une in gomiti
Che giungono alla bocca.

*

LVI

Tutti i giorni mi sveglio alla cieca
A lavorare per vivere; faccio colazione
Senza assaggiare nemmeno una goccia, tutte le mattine.
Senza sapere se ce l'ho fatta o mai più
Qualche cosa che schizza dal sapore
O è solo cuore e che è ritornato, lamenterà
Fin dove è il meno peggio.

Il bambino sarebbe cresciuto sazio di felicità,
o albe,
Di fronte al rimorso dei genitori di non poter cessare
Di condurci dai loro sogni d'amore a questo mondo;
Di fronte a loro che di tanto amore
Si compresero fino a creare
Ci amarono fino a farci male.

Frange d'invisibile tessuto,
Denti che spiano da neutra emozione,
pilastri
Liberati da base e capitello,
Nella gran bocca che voce ha perduta.
Fosforo e ancora fosforo nell'oscurità
Lacrima e ancora lacrima nel mulinello polveroso.

*

LVIII

In cella, nel solido, persino
Gli angoli si rannicchiano.

Sistemo i nudi che si raggrinzano,
Si spiegazzano, si stracciano

Scendo dal cavallo che ansima e sbuffa
Linee di schiaffi e orizzonti;
Spumoso il piede ogni tre zoccoli.
E lo aiuto: dai, animale!

Si prenderebbe meno, sempre meno
Di quanto mi toccherebbe erogare,
In cella, nel liquido.

Il compagno di cella mangiava grano
Delle colline con il mio cucchiaio,
Quando bambino, a tavola dei genitori,
Mi addormentavo masticando

Mormoro a qull'altro:
Torna, esci dall'atro cantone;
Rapido, in fretta, lesto!

E inavvertito, allego, pianifico
Ci sta il pagliericcio sfasciato, pietoso.
Non credere. Quel medico era sano.

Non riderò più, quando mia madre prega
Nell'infanzia, domenica, alle quattro
Del mattino, per i viandanti,
I carcerati
I malati
I poveri.

Nel recinto dei bambini più non picchierò
Coi pugni più nessuno di loro, che, poi,
Ancora sanguinanti piangerebbero:
Sabato prossimo ti darò il mio prosciutto, però
Non mi picchiare!
Non dirò più d'accordo.

In cella, nel gas illimitato
Fino ad arrotondarsi nella condensazione
Chi inciampa là fuori?

César Vallejo
trad. genseki

lunedì, marzo 08, 2010

La terra mi schiaccia

La terra mi schiaccia nel suo pugno di tempestosa angoscia
Che nessuna si muova! Ora si ode il volo di una mosca che si apre il cammino
Unifica la giornata in cerca di un fine
Annodiamo nei fazzoletti i minuti che ci separano!
In alto le mani! Per accogliere l'angelo che sta per cadere
Che sta per disfarsi in neve di lucciole sulle vostre teste
Cielo malato del vento che troppo ha soffiato
Noi, proprio noi pagheremo i dolori i debiti senza numero...

Tristan Tzara

Trad. genseki

domenica, marzo 07, 2010

Teatro

Qual era il senso, il significato dell'affannarsi
Di tutti quei personaggi sul palcoscenico
Sullo sfondo di sole ardente
Tra ardenti graminacee, cereali come spade
All'ombra relativa di poche tamerici
Germinando, amando, fiorendo, tradendo
Ingannati, radicati, supplicando, ronzando
Movendo senza freni desideri e inibizioni
In una contorta scalata al cielo a cavallo
Senza nubi, con pesanti fardelli di nicotina
Sferrando potenti colpi al destino
Ma sempre diffidando dei funghi e dei loro strani poteri
Di dilatare il tempo molto oltre l'orizzonte degli eventi?
Qual era il senso? Il reale? Dietro il telone purpureo
Che ad ogni atto cala come una catarrata di sangue
Sangue sparso da tante spade, sperso tra le spighe
Tra le ginocchia degli ultimi opliti
Premendo la terra della loro e della nostra vergogna.
Era plurale il senso dei loro minuetti
Sempre includeva la luna, i bei modi, l'amido
Il calzascarpe a testa di serpente i mobili color polenta
Della nonna Azzurra nel suo reame di gerani,
Era ambiguo quello sfiorarsi continuo delle ciglia
L'incrociarsi minuziose degli sguardi allo scambio
Del tranvia
Salire e scendere tutte quelle scale
Ferite le palpebre alla vista reiterata dei carciofi
Al mercato del Damm.
Qual era il senso? La vita, forse,
Il cobalto della libertà, il verde colore
Del farsi crescendo di negazione in negazione
Fino a loro stessi, a noi
Cuore per cuore.

*

genseki

Biunità divina

Seyyed Hossein Nasr

Se Ti chiamo,
Sei colui che invoca il Tuo stesso Nome,
Come potrebbe la Tua unicità accettare il mio io come un Io?
La Tua Ipseità soggiace a ogni io che ti invoca;
Oltre l'io e il tu
Del noi e del loro
Del lui e del lei
Oltre tutti i nomi
Sta il Tuo
L'Unico.
Tutti i soggetti si fanno eco della Tua Unicità,
Perchè solo Tu puoi profferire questo Io
Che le creature usurpano come loro.
Ci sono un io e un Tu,
Ma la Tua Unicità comprende entrambi
Mentre la Tua immagine sullo specchio dell'anima mia
Esclama:
“O Tu che sei il mio io,
Salvami da questa dualità!
Che la Tua Unicità regni
In questo istante eterno
Porto sicuro dell'allora e dell'adesso.
Como posso dirTi Tu,
Se io non sono e Tu sei Io?
Lascia che per l'ultima volta brilli questa verità,
Permetti he la Tua Unicità
Faccia a pezzi questo Io pretenzioso
E riveli infine l'Uno che comprende
L'Io e il Tu.

Trad. a cura di genseki

Place Dauphine


Nadja



Quello che segue è un percorso alll'interno del romanzo Nadja di André Breton. Il percorso passa attraverso diverse tappe secondo la successione delle pagine o in ordine abbastanza casuale. Nadja è lo sventurato oggetto nelle mani di Breton che la modella con una violenza e un cinismo indecifrabili per farne l'incarnazione della possibilità surrealista. Nadja è l'opera d'arte voluta da Breton e scolpita nella sofferenza di una ragazza malata. Si tratta del sacrificio umano surrealista. Quello stesso sacrificio che Bataille teoricamente più, o forse è meglio dire meno, scrupoloso di Breton descrisse ma non giunse mai a realizzare.
Nadja è cosciente per tutto il tempo della violenza che Breton esercita su di lei ed egli, con perfetta onestá artistica non lo cela. Nadja è un storia gotica, un testo del Guignol, una malattia morbosa illuminata da qualche lampo notturno d'amore.
L'arcangelo sulla soglia di questo paese dei supplizi è naturalmente:

Rimbaud

Ove Rimbaud appare come il Verbum il dio della deriva e dello splendore dell'immaginario.

Il potere incantatorio che Rimbaud esercitò su di me intorno al 1915 e che a partire da allora si è distillato nella sua quintessenza in qualche rara poesia come Devozione, è forse, allora ciò che mi ha consentito, un giorno in cui passeggiavo solo sotto una pioggia battente, di incontrare una ragazza, che per prima mi rivolse la parola e senza tergiversare, appena dopo pochi passi si offrì di recitarmi il “Dormeur du Val”. Era una cosa davvero inaspettata, fuori stagione.

A questo passo di Nadja Breton aggiunge nel 1962 la nota seguente:

La parola “incantatorio” deve essere intesa letteralmente. Per me il mondo esteriore corrispondeva in ogni istante al suo mondo, che per dirlo piú chiaramente lo quadricolava: sul mio percorso quotidiano al margine di una città che era Nantes, si stabilivano folgoranti corrispondenze con il suo. Un angolo di villette, la linea dei loro giardini, io riconoscevo tutto questo come attraverso il suo occhio, creature apparentemente ben vive che, all'improvviso scivolavano nella sua scia.

Sul lavoro

Qui Breton tratta credo più direttamente del lavoro “poetico”, ma non necessariamente. La concezione del lavoro che sviluppa nelle linee che seguono egli afferma doverla al suo incontro con Nadja.

… e, soprattutto che non mi si venga a parlare di lavoro, voglio dire del valore morale del lavoro. Sono obbligato ad accettare l'idea del lavoro come necessità materiale, e in questo senso sono estremamente favorevole a una sua migliore e più giusta ripartizione. È già abbastanza che le sinistre necessità della vita mi obblighino a lavorare, ma, per favore, non mi si obblighi a crederci, a riverire il mio o quello degli altri. Questo, poi, giammai.
Preferisco ancora una volta avanzare al buio piuttosto che volermi credere uno di quelli che procedono in piena luce.
Non serve a niente essere vivi per tutto il tempo in cui si lavora. L'avvenimento dal quale ciascuno ha il diritto di aspettarsi la rivelazione del senso della propria vita, questo avvenimento che forse io non ho ancora trovato ma sul sentiero de quale cerco me stesso, non lo si compra con il lavoro...

Il primo ritratto di Nadja

… vedo una giovane, vestita molto poveramente, anch'ella mi vede. Avanza a testa alta, a differenza degli altri passanti. Così gracile che pare appena gravare il suolo nell'andare. Un sorriso impercettibile sembra errare sul suo viso. Truccata in modo curioso, come chi, avendo cominciato dagli occhi, non ha avuto tempo di finire. Il bordo degli occhi, tuttavia, troppo nero per una bionda. Il bordo, non la palpebra (un tale effetto lo si ottiene solo passando con cura la matita sotto la palpebra. (...)
Non avevo mai visto occhi così. Senza esitazione rivolsi la parola alla sconosciuta, aspettandomi il peggio, ne convengo. Ella sorrise, ma molto, misteriosamente, direi come se la sapesse lunga, anche se allora non potessi saperlo io,

L'apparizione di Nadja preparata dalla rivelazione di Blache Derval-Solange, (è come se Nadja uscisse fuori da Blanche-Solange, come se si duplicasse da lei) richiama certe atmosfere stilnoviste, o forse preraffaellite e forse perfino francescane. L'osservazione che Nadja e pare appena toccare il suolo richiama alla mente le rappresentazioni pittoriche gotiche in cui i personaggi paiono come sospesi con le punte dei piedi rivolte verso il baso in diagonale su sfondi d'oro chiaro.

Ancora sul lavoro
p. 34

La maggior parte dei viaggiatori sono persone che escono dal lavoro. Ella si siede in mezzo a loro, ella cerca di sorprendere sul loro volto quello che può costituire l'oggetto delle loro preoccupazioni. Pensano, per forza a quello che appena cessato di fare fino all'indomani, e poi a quello che gli aspetta la sera, che li rilasserà o li renderà ancora più ansiosi. Nadja guarda qualche cosa in aria: - “Ci sono brave persone”. Ancora più emozionata di quanto io mi sforzi di non apparire. Questa volta mi irrito: - “Ma no, le cose non stanno così, questa gente non è interessante per il fatto di sopportare il lavoro o altre miserie. Come potrebbe elevarli una vita così se la rivolta non è forte in loro più forte? Adesso, Lei o nota, del resto, non ci vedono. Odio, con tutte le mie forze, questo servilismo che mi si vuole proporre come un valore. Compiango l'uomo condannato a questa pena, che, in generale non vi si può sottrarre, ma non è la durezza della sua condizione che mi muove a compassione, bensì solo e soltanto il vigore della sua protesta. Io so che presso il forno di un'officina o di fronte a una di quelle macchine inesorabili che impongono tutto il giorno, con intervalli di qualche secondo, la ripetizione dello stesso gesto, o in qualsiasi altro luogo e sotto gli ordini meno accettabili, o in cella, o davanti a un plotone d'esecuzione, ci si può sentire liberi, ma non è il martirio che si subisce che crea questa libertà. Questa libertà piuttosto uno svincolarsi permanente e, inoltre, perché questo svincolarsi sia possibile bisogna che i vincoli non ci strozzino come invece avviene con molti di coloro di cui Lei parla. La libertà, tuttavia, è anche, forse umanamente molo di più, la meravigliosa serie dei passi che è consentito all'uomo di fare senza vincoli, Questi passi costoro li saprebbero fare?, Ne hanno almeno il tempo?, Il cuore? Brava gente? Si, come coloro che si fanno ammazzare in guerra …
Quanto a me, io confesso che per me questi passi sono tutto. Dove vanno? Questa è la vera domanda. Finiranno per descrivere un cammino e su questo cammino, forse, potrà apparire il mezzo per liberare dai vincoli o aiutare a liberarsi coloro che non hanno potuto seguirlo. Solo allora sarà bene aspettare un po', senza però tornare indietro.”

Questa lunga perorazione rabbiosa e ribelle potrebbe parere fuori luogo, non saprei spiegare perché a me non lo sembra se non ricorrendo al dubbio argomento autobiografico che ha messo è successo diverse volte di pronunciare simili perorazioni in situazioni astrattamente analoghe e anche peggio.

Nadja non cercò di contraddirmi... portò invece il discorso sulla sua salute, molto compromessa .

Secondo ritratto di Nadja

Abbastanza elegante, in rosso e nero, un cappello ben scelto che si tolse, lasciando scoperti i capelli avena che avevano rinunciato al loro incredibile disordine, porta calze di seta e scarpe perfette.

Nella descrizione precedente non si trova nessuna osservazione sul colore e neppure sul disordine dei capelli di Nadja. Il disordine dei capelli, evidente simbolo della deriva, appare invece qui dove Nadja si presenta in forma ctonia, come quasi una divinità della soglia.

Place Dauphine

Place Dauphine è uno dei luoghi più profondamente ritirati che io conosca, uno dei peggiori terreni vaghi che vi siano a Parigi, Ogni volta che mi ci sono trovato ho sentito che poco a poco la voglia di andare altrove mi abbandonava, ho dovuto discutere con me stesso per liberarmi da una stretta dolcissima, troppo gradevolmente insistente e sfibrante. Inoltre ho abitato per qualche tempo un hotel che dava su questa piazza: “City Hôtel, in cui il via vai a ogni ora, di giorno e di note è sospetto per chi non si accontenta di soluzioni troppo semplici),

Veggenza

Lo sguardo di Nadja fa il giro delle case, ora: “La vedi quella finestra lassù? È nera, come tutte le altre. Guarda bene. Fra un minuto si illuminerà. Sarà rossa.

Place Dauphine spaventa Breton e Nadja un sentimento di paura, dice Nadja: “Che orrore! Lo vedi quello che succede tra gli alberi? È il vento azzurro? L'azzurro è il vento, il vento azzurro. Una sola altra volta ho visto passare il vento azzurro sotto questi stessi alberi...”

Il getto d'acqua

Verso mezzanotte, eccoci alle Tuileries, ove ella desidera che ci sediamo un momento. Davanti a noi sprizza un getto d'acqua di cui sembra seguire la curva. “Sono i tuoi pensieri e i miei, Vedi da dove partono tutti, fino a dove si innalzano, e poi è ancora più bello quando ricadono, poi si fondono all'improvviso e di nuovo risalgono e poi ancora questo slancio spezzato, questa caduta... e così via, indefinitamente”. Io esclamo: Nadja, che strano! Dove sei andata a prendere proprio questa immagine che si torva rappresentata quasi nella stessa forma in un'opera che tu non puoi conoscere e che ho appena letto?”

Nadja

… ella è pura, libera da ogni legame terrestre, … ella appartiene appena, ma meravigliosamente alla vita. Tremava, ieri, di freddo forse. Vestita così leggera.

Un bacio

Bacio con rispetto i suoi denti bellissimi e ella dice, con gravità e lentamente, la seconda volta in una tonalità più alta della prima: “La comunione avviene nel silenzio...La comunione avviene nel silenzio.”. Mi spiega che questo bacio le lascia la sensazione di qualche cosa di sacro, ove i suoi denti “stavano al posto dell'ostia”.

giovedì, marzo 04, 2010

Il segreto

Qualunque fosse il segreto

Qualunque fosse il segreto, il nostro
Queste parole non l'avrebbero mai rivelato
Come ogni segreto non aveva parole adeguate
Per essere svelato
Ogni parola, piuttosto era un nuovo velo
Posto a negare la sua manifestazione.

genseki

martedì, marzo 02, 2010

Mani? Ciotole

Un tempo pensavo che le mie mani
Fossero ali piuttosto che mani
Attesa o resto di un volo.
O rami, ricordi diretti della benedizione del sole
E della suzione minerale.
Ora vedo che le foglie delle palme sono lame
Non mani, che menano fendenti alla luce sorgiva
dei limoneti. Tagliano di netto, l'innocenza dei primi voli.
Le ali dei colombi sono come il fruscio di una tunica
Che cade da un corpo profumato
(Sognó di rose, di gelsomino, tutta la notte passata tra la rucola)
In nome dell'Altissimo, non spezzeró il collo alla ghiandaia.
Il martin pescatore resta in euilibrio sui fili della luce.
Guardo le mie mani, ora come ciotole,
Le riempio dell'acqua fangosa che bevo con le capre
Annaffio l'aloe vera
Ho le unghie spezzate.

genseki

Dove caddero le loro mani

Sono mani cadute laggiú
Dove la città declina, si stinge
Sbocca delta di cemento
Nell'azzurrità dei canneti
Nel volo di cromo degli sciami di mosche
Tra le lame di palmizi stinti
mani abbandonate con le palme all'insú
a raccogliere come catini la pioggia
Maleducata del marzo impallidito
Mani che furono strette altrove
dagli dei di bronzo di cui portarono i sigilli
Il sole le disincarna in ali d'uccelli bianchi
Caduti alla riva del volo.
Le bietole e il tarassaco crescono tra dito e dito
Mani che giacciono aperte laggiú
Dove la cittá è un grido
E il sole sembra appoggiarsi
Ai fianchi madidi del monte.

genseki

Le mani della Giovanna

La Giovanna ha mani forti
Mani brune che il sole ha conciato
Pallide come le mani dei morti
Non son le mani della Juana.
Vi ha forse spalmato le creme
Dei pantani del piacere?
Si saranno immerse nelle lune
Delle lagune bianche e serene?
Hanno bevuto da cieli barbari
Immobili su gambe che innamorano?
Hanno forse arrotolato sigari?
O fatto contrabbando di diamanti?
Sui piedi ardenti delle madonne
Sono andate a sfogliare fiori d'oro?
È sangue nero di belladonna
Che nelle palme esplode e dorme.
Con queste mani cacciava i ditteri
Di cui risuonano azzurramenti
Nell'albeggiare verso il nettareo?
Distillano veleni queste mani,
Quale fu il sogno che le sorprese
In un momento di spossatezza?
Sogno d'immense asie inaudite
Di kenghavar o di Sionne?
Con queste mani non vende arance
No, non si scurirono sui piedi santi
Lavando fasce e pannolini
Per accecati bambini obesi
Non sono mani di una cugina
Di un'operaia di fronte spessa
Che brucia nel bosco che olezza
Di fabbriche, inebriato il sole dalla pece.
Sono mani che piegano le schiene
Sono mani che non farebbero alcun male
Ancora piú fatali delle macchine
Molto piú forti di un cavallo intero
Sono mani, fornaci che ribollono
Che sferzano come brividi di febbre
La loro carne canta la marsigliese
E giammai canterebbe l'Agnus Dei.
Sono mani che vi strozzerebbero
Donne malvage che le mani infami
Delle nobili dame schiaccerebbero
Le mani piene di cipria e di carminio
Splendore di mani amorose
Rivolta il cranio dei capri
Per falangi leggendarie
Il gran sole crea rubini
Macchia della canaglia
Le oscura come vecchi seni.
Il dorso di queste mani è l'altare
Che bacia ogni rivoluzionario.
Impallidirono, che meraviglia!
Sotto il gran sole carico d'amore
Sul bronzo della mitraglia
Attraverso Parigi insorta!

A volte o mani consacrate
Al polso ove tremano i baci
delle nostre labbra per sempre ubriache
Stridono catene di anelli chiari!

Allora un soprassalto strano
Ci coglie fin nel profondo
Quando vi vogliono rendere pallide
Insanguinandovi le dita!

Rimbaud
trad. genseki

lunedì, marzo 01, 2010

Mani

Le mani

Le mani di due speci lottano nella vita
van sbocciando dal cuore, sgorgano dalle braccia,
Saltano per sboccare nella luce ferita
A colpi, a graffi.

La mano è lo strumento dell'anima, il messaggio,
Il corpo trova in essa il ramo combattente;
Con le mani levate fate una mareggiata
Uomini della mia gente.

Giá vedo l'alba delle mani pure
Di chi lavora sulla terra o sul mare,
Come una primavera di allegri dentature,
Di dita mattutine.

Duramente abitate dal sudore,
Rintoccano le vene fin dalle unghie rotte,
Costellano lo spazio di palchi e di clamori,
Di lampi e gocce.

Conducono le zappe, conducono i telai;
Monti e metalli mordono, rapiscono ascie e querce,
Erigono, se vogliono, perfino, in mezzo al mare
Miniere, borghi e fabbriche.

Mani sonore, mani oscure e lucenti
Le ricopre una pelle di corteccia invincibile
E sono inesauribili sorgenti generose
Di vita e di ricchezza.

Come se con le stelle lottassero le polveri,
Come se con i vermi lottassero i pianeti
La specie delle mani lavoratrici e chiare
Lotta con altre mani.

Ferocemente strette in banda sanguinaria
Avanzano al cadere dei cieli vespertini;
Livide mani, ossute, mani sterili
Paesaggio di assassini.

Non han suonato, non cantano, hanno le dita afone,
Svolazzano in silenzio, vagliano, si propagano
I velluti non tessero, non tagliarono i tronchi
Molli, oziose procedono.

Impugnan crocifissi, afferrano gioielli
Che appartengono solo a quelli che li fecero
Nei crepuscoli muti assorbono i sonori
capitali di aurora.

Orgoglio di pugnali, armi per bombardare
Con calici, delitti, con morti in ogni unghia;
Esecutrici pallide dei neri desideri
Che l'avarizia impugna.

Chi laverá le mani fangose che raggiungono
L'acqua e la disonorano arrossano ed infangano?
Nessuno lava mani che in pugnali s'accendono
Che nell'amore si spengono.

Le mani laboriose di quelli che lavorano
Cadranno su di voi con i denti e i coltelli
Le vedranno amputate i tanti sfruttatori
Sulle loro gincchia.

Miguel Hernandez
15 febbraio 1937

trad genseki

sabato, febbraio 27, 2010

margueritte duras - le mani negative 1978 Part 1

Mani

Le mani

Le vostre mani amatele cosí saranno belle
Nessun ungüento sembri troppo caro per loro
Curatele e tagliate ogni unghia spezzata
Per loro usate sempre lo strumento adeguato.

Iddio fece le mani feconde in meraviglia;
Il loro bianco è quello serafico dei gigli
Nel giardino carnale sono due fiori simili
Hanno sangue di rosa sotto unghie sottili

Mistica primavera circola nelle vene
E sembrano sorridere il mughetto e la viola
Sulle linee del palmo s'addorme la verbena
Rivelano le mani segreti spirituali.

I piú grandi pittori amarono le mani
I pittori di mani sono grandi maestri.

Come due bianchi cigni che nuotano affiancati,
Due vele che sull'onda si fondono nel bianco,
Immergete le mani nei catini argentati
Asciugatele in lini impregnati di aromi.

Le mani sono l'uomo come l'ali l'uccello;
Le mani dei malvagi son terre inaridite
Quelle della vecchina che maneggiano il fuso
Hanno molta saggezza incisa nelle rughe.

Mani di contadini, mani di marinai
Appaiono dorate sotto la pelle bruna.
L'ala dei cormorani porta l'odore salso
Le mani della vergine il bacio della luna.

Le mani piú preziose fanno mestieri oscuri,
Quelle del carpentiere sono mani santissime.
Sono le vostre figlie son le vostre gemelle
Le dita i nipotini benedetti piccini
Attenti ai loro giochi ai piccoli contrasti
Alla loro condotta in tutti i suoi dettagli.

Le dita fanno reti e sorgono cittá;
Le dita han celebrato la lira anticamente
Lavorando si piegano ai compiti piú vili
A volte manovali ed altre musicisti

Liberati nel bosco dell'organo alla messa,
Le dita sono uccelli e sulle loro punte,
Che volano tra i rami come tante ghiandaie,
Ci sorride lo stormo dei segni della croce,

Il pollice è un gran duro piccolo e corpulento
Dotato della forza d'Ercole trionfante,
Quello piú gracilino, sensibile alla grazia,
È il dolce dito mignolo: è restato bambino.

Siate servi alle mani che son serve fedeli,
Fatele riposare in un letto di lino.

Sono le vostre mani che danno le carezze
Son sorelle dei gigli, sorelle delle ali,
Non meritano disprezzo e neppure abbandono
Lasciatele fiorire come degli asfodeli.

Elevate al signore le gioie profumate
La sera di preghiere dischiuse sulle labbra.
O mani, mani giunte per i poveri morti,
Perché Dio nelle mani ci rinfreschi la febbre.

Perché il mese dei frutti vi carichi di doni
Se resterete aperti su un nido di perdoni.
E infine, voi che siete nemici delle armi,
E tristi vi specchiate in un fiume di pianto
Vegliardi i cui capelli vanno bianchi alla luce,

Garzoni occhi divini ove l'amor si desta
Donna che vai mischiando i tuoi sogni con gli angeli

Il cuore gonfio a volte in fondo a strani vespri
Non sapendo di avere il voler nelle mani
Tutti voi dimandate: Signore, in veritá,
Dove trovar la cura ai nostri mali estremi?

Ê nelle vostre mani, sono loro, le mani.


Germain Nouveau
trad genseki

giovedì, febbraio 25, 2010

I sufi d'Andalusia

Abû Jafar al-'Uryanî II

Si racconta che mentre egli si trovava a Siviglia vennero a informarlo che la gente della fortezza di Kutamah aveva bisogno di pioggia. Sebbene la firtezza fosse sull'altra sponda di un braccio di mare e si dovesse viaggiare otto giorni per raggiungerla via terra, lui si mise in cammino con uno dei suoi discepoli chiamato Muhammad. Prima che partissero suggerirono loro di pregare per loro senza intraprendere il viaggio, egli rispose che Allâh gli aveva ordinato di andare di persona. Quando raggiunsero la fortezza non vi poterono entrare ma egli fece la preghiera di istiqâ e poco dopo Allâh inviò la pioggia. La pioggia cadde intorno a lui e al suo discepolo ma non una sola goccia li bagnó. Quando il discepolo espresse il suo stupore per il fatto che la misericordia divina non fosse caduta anche su dilui, il maestro esclamó: - certo che sarebbe caduta ma avrei dovuto pensarci prima.

Un giorno mentre stavo seduto presso il Maestro, si presentó un uomo con suo figlio. Salutó e ingiunse al figlio di fare altrettanto. Allora il nostro Maestro aveva giá perduto la vista. L'uomo disse: - O Sidi, ecco mio figlio che ha imparato a memoria il Corano.
Udendo queste parole l'aspetto del maestro cambió completamente per l'impressione di uno stato spirituale. Disse allora: - È l'Eterno che porta il transitorio, che il Corano ci porti e ci preservi, noi e tuo figlio!
Questo annedoto è un esempio dei suoi stati di presenza spirituale.

Ibn Arabi
Trad a cura di genseki

Non c'è né spirito né metodo

- L'errore ha il potere di velare il mio spirito e non ho ancora compreso come liberarmene.
- Restare nell'errore o liberarsene questo vuol dire semplicemente ancora un errore. In fondo l'errore non ha radici e esiste soltanto perché vi è discriminazione. Quando non avrete piú opinioni iintorno a ció che è ordinario o straordinario, allora l'errore scomparirá da sé. Che altro si dovrebbe poter fare? Quando non resta nemmeno un granello di polvere a cui afferrarsi, allora, come si dice, si aspira alla buddhitá sacrificando ad essa entrambe le braccia.
- Se non ci si puó afferrare a nulla che cosa mi raccomandate riguardo alle cose sensibili?
- Lo spirito si trasmette con lo spirito.
- Se lo spirito si trasmette perché dite che non vi è nemmeno lo spirito?
- Non avere niente da trasmettere. Questo si chiama trasmettere lo spirito, se si comprende che cosa è questo spirito allora non c'è spirito, non c'è metodo..
- Se non vi è nè spirito nè metodo, che cosa vuol dire trasmettere?
- Io vi parlo di trasmissione dello spirito e voi pensate che esista qualche cosa del genere. Per questo il Patriarca ha detto:

Quando riconobbi la natura del mio spirito
Fu qualche cosa davvero inimmaginabile
Una realizzazione che realizza l'irrealizzabile
Di cui no dir'se davvero avvenne.

Ma se io vi insegnassi qualche cosa del genere, non sapreste che farvene

Huangpo
Dialoghi
trad a cura di genseki

I sufi d'Andalusia

Abû Ja'far al-Urianî

Il primo che incontrai sulla Via di Allâh fu Abû Ja'far al-Urianî. Questo maestro venne a Siviglia quando io avevo appena cominciato ad acquisire le conoscenze di questa nobile Via. Fui il primo di coloro che si indirizzarono a lui. Entrato nella sua casa, lo trovai consacrato al dhikr. Mi presenai e lui seppe imediatamente qual era la mia necessitá spirituale.
Mi chisese: - Sei fermamente convinto a seguire la Via di Allâh?
Risposi: - Il servitore puó prendere la decisione, ma è Allâh che stabilisce.
Mi disse allora: - Chiudi la porta, rompi ogni legame, prendi come compagno Il Generoso, Egli ti parlerá senza veli.
Mi impegnai cosí fino ad ottenere l'apertura.
Bencjé fosse un campagnolo illeterato che non sapeva né contare né scrivere, bastaa ascoltare i suoi insegnamenti sul Tawhid per apprezzare il suo livello spirituale.
Dominava i pensieri con l'energia spirituale e poteva superae gli ostacoli dell'esistenza grazie alle sue parole. Lo si vedeva sempre invocare in stato di purezza rituale, rivolto verso la Qiblah, la maggior parte dei casi a digiuno. Un giorno fu fatto prigioniero dai cristiani. Siccome ancora prima di partire sapeva quelo che sarebbe successo avvertí tutta la carovana che sarebbero stati fatti prigionieri dai cristiani il giorno dopo. Il mattino dopo, come aveva previsto, il nemico tese un'imboscata e furono fatti prigionieri. I cristiani ebbero molti riguardi per il maestro e gli diedero un alloggio comodo e servi. Poco dopo poté essere liberato avendo pagato un riscatto di 500 dinari e si mise in viaggio verso il nostro paese. Al suo arrivo gli proponemmo di raccogliere la somma tra due o tre persone. Egli ci rispose che voleva raccoglierla da molte, se fosse statoorno del giudizio posibile voleva ottenere da ciascuno una piccola somma perché Allâh pesava ogni anima il Giorno del Giudizio e in ogni anima c'era qualche cosa degna di essere salvata dal Fuoco. Cosí Egli voleva prendere il bene di ciascuno per la comunitá di Muhammad.

Ibn Arabi
Trad genseki

mercoledì, febbraio 24, 2010

Il cardo

Quando mi donasti il tuo cardo
Il latte profumava ancora caldo
Sulle tue labbra azzure per il freddo
Il coro delle capre balbettava
I passi di una danza zodiacale
Dalle tue labbra gocciolava il latte
Sul circolo dell'erba bruciata
Dove i ceppi carbonizzati
Fiorirono in ironiche scintille
Il tuo cardo era solo un ricordo
Grigio argentato del nostro sole antico
Il dio barbuto che preservava i tuoi talloni
Lo portava tatuato sulle palpebre
Convulsa come le pieghe della tua veste
La tua mano fingeva d'essere un gioiello
Nessun artista barbaro avrebbe cesellato
L'asprezza con cui ti seppi cingere.

genseki

lunedì, febbraio 22, 2010

Il tuo occhio

Il tuo occhio si schiudeva come un tulipano
Alle carezze delicate del mio sguardo
Il tuo occhio era velluto all'alito del mio contemplarti
Il tuo occhio sorgeva all'orizzonte della mia vista
Rotolava sulla mia luce come una palla da biliardo sul velluto
Il tuo occhio penetrava il mio osservarti
Tatuare su di me la tua avversione
A qualunque sbocciare
Pioveva su di me il tuo occhio le sue gocce ardenti
Sui petali delle mie palpebre
Le tue erano ali allora sulla notte della pupilla
Sulle smeraldo spezzato dell'iride
Con le nocche cercavo il tuo occhio
Perché per sempre fosse anello del mio essere in te
Lancia che assicurava il tuo possesso
L'occhio impenetrabile altrove
In cui ti ritiravi per sparire sotto la pellicola della luce
Come il lago sparisce sotto le increspature dell'acqua verde
Quando la brezza lo accarezza
Le onde sotto il grido rabbioso dei loro tentacoli corallini
Gli steli sotto le scaglie quando sognano i rettili
Il tuo occhio era alba al mio sogno indefinito
Tramonto rovente per l'ebrezza dei miei antichi liquori
L'avrei intrecciato alle mie dita il tuo occhio
Per accarazare con il palmo della mano
La direzione delle tue luci
Il tuo occhio guizzante come un luccio
Nel torrente delle tue visioni
Nella cascata turbinosa che vela la grotte
Delle tue passioni ramificate
Il tuo occhio fu sentiero al mio perdermi
Groppa al mio saltare alla mia fuga
Il tuo occhio testimone delle mie lacrime
Tomba del mio giudizio balbuziente
Galeone del mio oro perduto
Per sempre nei fondali del tuo oceano.

genseki

Michel Leiris II

Mi appare,l'insieme dei miei scritti, piuttosto come il racconto di un sogno durato smisuratamente che una lunga conversazione quando lo considero da questa distanza ove quello che si è visto e quello che si è immaginato non sono più che una foschia così indistinta che si finisce per domandarsi se davvero è esistito ció che pareva esservi di più reale, (di più fisicamente sperimentato).


Dando valore essenzialmente allo sgorgare presente del canto, non provo piacere nel rileggere quello che ho pubblicato molto tempo fa o appena ieri e quelle pagine diverse - che miravano nella maggior parte a una conoscenza di sé che pretendo perseguire ma che si dimostra illusoria alla prova dei fatti, i frutti della mia investigazione restano sparsi in una moltitudine di brani piú o meno letterari che il tempo mi fa dimenticare e i cui risultati dovrebbero riassumersi in una frase o una figura che si possa afferrare in un sol colpo (una chimera e niente piú, giacché bisognerebbe che questo riratto assoluto, mi mostrasse ripreseo a tutti i livelli e in tutte le diferenti etá che ho attraversato) - ne lascio allora naufragare il contenuto nel calderone di una memoria inetta a restituirmi qualche cosa di più che poche briciole del mio passato. Quasi quasi direi che i miei anni non sono stati altro che la materia di una aritmetica follemente astratta (i decenni che si aggiungono ai decenni) e che tutti questi racconti, impressioni, riflessioni o pure costruzioni mentali che ho messo nero su bianco non pesano niente, o almeno non più di un sogno sognato da tanto tempo e che ha perso ogni significato ammesso che ne avesse quando mi abitava.

A cor et à cri
Gallimard p. 96-97
trad genseki

Michel Leiris

Anatomizzando le parole che amamo, senza preoccuparci di seguire le etimologie e il significato ammessi, noi scopriamo le loro virtú pú recondite, canalizzate dalle associazion di suoni, di forme e di idee.

Smulacre et glossaire

Osservazioni sugli angoli

Era da un angolo che la parola conferiva visuale
Prima di cristalizzarsi al suo senso e ad altri possibili
Era da un angolo visuale predefinito
Che finiva per porsi la parola con tutto il peso del suo significato
Ammettevano anche un angolo particolarmente ottuso
Un seno di mare cristallino come la foto di un depliant
Una sequenza del tuffo di un gabbiano
A decapitare un grasso sudicio picccione sul granito
Di una gotica piazza accanto al mare.
Nell'angolo, in quall'angolo dimenticato
Un paracqua arcobaleno a spicchi
Evocava la natura dispiegabile di tutti gli altri angoli
La meraviglia dei meccanismi a soffietto
Come quelli delle vecchie macchine fotografiche
I quadri di pessimo gusto di rachel che raffiguravano paracqua
E ombrelloni arcobaleno
Piegati con angoli differenti su una fredda spiaggia arancione
Poi tutto volava via
Come un biglietto del bus
Come il ricordo degli angoli retti della metropolitana di Pechino
Era stretto nell'angolo ora dalla tempesta dei significati
Dei suoi ricordi si dibatteva nel suo angolo
Nella poltona di legno angolosa
Con i gomiti con i gomiti a formare un angolo divergente
Spezzato a significare la sconfitta, la disfatta
La crocifissione
Si, spezzato, ficcato a forza in un angolo
Eppure sempre cosciente di essere cosciente
Dei tanti angoli della coscienza
Ciascuno con il suo angolo visuale o auricolare
E così ancora di nuovo ancora
E ancora di nuovo fino al rompersi o meglio al frantumarsi
In uno scroscio vero e proprio delle specchio con il suo enigma
Dell'erompere del salmone come puro scatto
Madido muscolo sforza traiettoria

Argento e nulla.

genseki

sabato, febbraio 20, 2010

Hisperica famina

Devo confessare il mio stupore nell'incontrarmi per la prima volta con il mondo del “Latino Hisperico”. Fino ad ora non en avevo mai sentito parlare, nonostante una certa passione per il latino medioevale.
Il latino hisperico è il latino scritto dai monaci irlandesi nei primi secoli di cristianzzazione dell'isola. il VI e il VII. Si tratta di un latino quasi totalmente indecifrabile e stupefacente. La difficoltá di comprensione e lo stupore sono dovuti soprattutto al suo lessico. La sintassi è infatti elementare, paratattica, quasi del tutto priva di subordinate, con il verbo tra il soggetto e il complemento. Il lessico invece è assolutamente stravagante. Le parole del latino classico sono impiegate nel latino hisperico come se avessero tutte lo stesso valore e la stessa funzione, come se fossero equvalenti. Una metafora è considerata equivalente a un sostantivo di uso comune, a un'immagine mitologica, o a un neologismo formato da parole greche per un uso tecnico filosofico o teologico. Gli oggetti e le azioni piú quotidiani sono designati di volta in volta con i termin piú peregrini. A questo si aggiunge una forte presenza di termini celtici o germanici brutalmente latinizzati, per esempio per mezzo dell'uso di una desinenza.
Una descrizione come questa, tuttavia, non rende lo stupore e la meraviglia che colgono il lettore di fronte ad un testo come questo:

Adelphus adelpha meter
Alle pilus hius tegater
Dedronte tonaliter,
Blebomen agialius
Nicate dodrantibus
Sic mundi vita huius,

Calexomen agialus
tu det bolen suum
nobisque auxilium
Didaxon, sapisure,

Toto biblion acute
Non debes reticere

Equinomicun epensum
Habemus apud deum
Si autumetimus audum

Fallax est vita mundi
Decidit ut flos feni

Chiuso nello splendore della sua impenetrabilitá nell'asprezza delle sue alliterazioni, nell'ingenuitá delle sue metafore.
È un testo il cui senso è quello di comunicare l'artificioso, faticoso, entusiasmante processo della sua elaborazione. Un testo che significa soltanto il suo farsi e il suo disfarsi.
Un testo progettato, infatti, per essere caduco. Il tempo finisce per chiuderlo ancora di piú in se stesso, per allontanarlo da ogni possibile interpretazione per trasformarlo da testo a gioiello, un gioiello cesellato nel significante grafico e in quello sonoro.
Un testo che peró si apre alla fine nella ingenua banalitá di un facile e leggero proverbio sapienzale, la cui banalitá non sorregge nessuna possibile malinconia.

Una possibile traduzione della prima strofa è la seguente:
Fratello, sorella, madre, padre figlio e figlia muoiono ugualmene
Vediamo la barca sbattuta dalle onde, cosí è la vita di questo mondo

venerdì, febbraio 19, 2010

Cappotto di finamore

Alla fine lei non si voltó nemmeno
Il suo profilo restó oscurato dal fiore della calla
Che emergeva appena dal vaso di cristallo
Come la bocca di un bambino che sta affogando
Anche le teste decapitate delle anatre
Una per ogni posacenere erano restate
Esattamente la dove lei le aveva lasciate
Si mosse per afferrare le chiavi le squame
Scivolarono appena sulla lama piantata nella crepa del tinello
Non avevo piú abbastanza saliva
Per fumare un'altra sigaretta
Indossava scarpe di scarabeo i suoi piedi erano cuoriformi
Il neon del palazzo dirimpetto disegnava sul suo cappotto di cammello
RISTORANTE CINESE KUNMING
Pensavo al suo seno come a una lattina di pesche scriroppate
Da lasciare per anni nella dispensa del ricordo.

genseki


Tournesol

Léger
Tournesol

Girasole

Di André Breton non ho mai amato Lautréamont. Che non è poca disamistade, Non ho mai amato nemmeno Sade e nemmeno quell'idea degna del peggior Tarantino che la cosa più ganza che ci sia sia uscire per strada con la pistola e sparare nel mucchio, nelle folla, alla rinfusa. Ci sono tante cose di André Breton che come il mio povero amico Dreiser Cazzaniga non ho mai amato. Eppure è stato uno dei miei venerati maestri, Grazie a lui ho coltivato l'arte dell'insuccesso con il solo successo che in essa è permesso: il fallimento. Lbertá colore d'uomo.
Sempre ho sognato di tradurre

Il girasole

Girasole

La viaggiatrice che aveva attraversato le Halles nel crepuscolo dell'estate
Camminava in punta di pedi
La disperazione trascinava per il cielo i gicheri bellissimi
La borsetta conteneva la fiala dei sali mio sogno
Sali che solo la madrina di Dio aveva fino ad allora respirato
Come bruma si dispiegavano i torpori
Nel Cane Fumatore
Dove erano appena entrati pro e contro
La ragazza la si poteva appena scorgere a sghimbescio
Essere pareva nunzia del salnitro
O della curva nera su bianco che diciamo pensiero
Poco a poco si accendevano i lampioni negli ippocastani
La Dama senza ombra si era inginocchiata sul Pont-au-Change
Rue Git-le-Coeur non erano piú gli stessi
Gli impegni notturni erano infine mantenuti
I piccioni viaggiatori i baci d scorta
Confluivano in seno all'incognita beltá
Come dardi sotto il crespo dei significati perfetti
Una fattoria prosperava in piena Parigi
Le sue finestre davano sulla via lattea
Nessuno piú vi abitava a causa di coloro che la frequentavano
Tutti lo sapevano che erano piú fedeli di coloro che la infestavano
Alcuni come questa donna sembra che nuotino
E nell'amore c'è posto per un po' della loro sostanza
Che li interiorizza
Nessun potere sensoriale si sta facendo beffe di me
Eppure il grillo che cantava nella chioma cinerina
Una sera accanto alla statua di Étienne Marcel
M ha strizzato l'occhio con complicitá
Ecco che passa m'ha detto André Breton

André Breton
da "Clair de terre"
Trad. genseki

giovedì, febbraio 18, 2010

Cuori di primavera

L'azzurro penetrava a stento
la gran coltre frondosa di tutte le primavere
Una primavera per ogni bacio
Un'ala per ogni primavera
Era tutto un tramestio di frulli e spinte
Gli aceri cercavano un varco verso il sole
Le graminacee come raggi
Saettavano tra le scure foglie dell'edera
verso la processione dei cuori
Con un panno giallo sfregavo i ricordi
Li collocavo in ordine di primavera
Tutte le primavere avevano almeno un cuore
Alcune ne avevano piú di uno
Alcuni cuori erano sfregiati dal peso del risentimento
Altri dall'oscuritá del loro stesso sangue
La processione dei cuori la illuminavano
Ceri di menta e buttafuochi di bronzo
Cuore per cuore primavera per primavera
Il suo cuore sanguinante lui lo reggeva in una mano
Avvolto in una coroncina fosforescente
Il cuore di sua madre era trafitto da un ramo appuntito di fusaria
Le gocce di sangue si confondevano
Con quegli stupidi fiorellini rossi
Anche il suo petto dava latte di sangue
Da tutti quei forellini di rubino
Si fissavano con occhi lampeggianti
Come lampade al neon tra le gemme dei carpini
Sotto quei raggi scorrevano le primavere
Passavano i cuori e i grandi mantelli
I fastelli di belladonna e le salamandre
E tutti i dolori che erano piú di sette
Da maggio a maggio
Fino a dopo autunno
Fino alla croce di ghiaccio di gennaio.

genseki

mercoledì, febbraio 17, 2010

Pianto

indossati i vestiti da tramonto
senza pupille declinavi il mio sguardo
senza innalzare le mani alle nuvole
spalancavo la vista a un altro volto
dall'interno del cavo dei tuoi occhi
conobbi infine i tratti tuoi perfetti
mi feci allora azzurro come l'acqua
che sulle guance ti scorre se non piangi

genseki

martedì, febbraio 16, 2010

Soglia

Alla soglia sta il punto di parola
Dove collassa l'istante successivo
Ogni istante necessita uno sguardo
dalla soglia si scorge la finestra
Il volo, o solo l'ala e poi la schiuma
Che si frange in processo senza fine
E ricade prima d'altri istanti
L'istante è istante solo se lo dici
La soglia stringe l'istante taciuto
Fuori è la cavitá del tuo soffrire
La soglia è specchio dell'oltrepassare.

genseki

Bruno Maderna: Aura (1972) Prima parte

lunedì, febbraio 15, 2010

Invano

Invano ascoltava gli ottoni
Avvolgere le gomene sonore
Ai tronchi delle palme, al bagolaro
Solitario nell'azzurro del parco
L'inquietudine del metallo
Distillava solo remota
L'eco d'altri ascolti
Futuri, forse sperati
Concavi sempre rotando
Certamente oscuri oltre i mondi

Alla rete sonora, alla griglia delle trombe
Al zampettare inetto dei clarinetti
Allo sbocciare dell'oboe come orchidea
Dal limo dell'improvvido laghetto
Si aggrappava cercando un appoggio
Uno specchio, possibilmente lo spiccare d'un volo
In piena consapevolezza d'istante in istante
Dell'ardente errore del delitto delle galassie
Degli acidi del latte e delle linfe

Raggi di flauti come schegge di fresco mattino
Scintillavano sullo spessore del prato
Il tamburo della terra scuoteva l'ombelico
Del guerriero sepolto dalla madreselva
Trascinato da un odore di polvere
Nel numinoso regno degli archi

Invano, certamente, il suono lo torniva
In presenza in consistenza
Appena a un capello
Dall'essere accolto

Invano - ancora

genseki

domenica, febbraio 14, 2010

Hijab


C'è sempre un angolo del velo che richiede espressamene di non essere sollevato, qualsiasi cosa ne pensino gli imbecilli questa è la condizione stessa dell'incantesimo.

André Breton
Flagrant Délit