sabato, dicembre 26, 2009
L'uomo approssimativo
Frammento “L'Uomo approssimativo” 1931
Domenica grave coperchio al ribollire del sangue
Ebdomadario peso accoccolato sui suoi muscoli
Caduto al'interno di se stesso ritrovato
Le campane suonano senza ragione e noi pure
Suonate suonate campane senza ragione e pure noi
Noi ci rallegreremo al rumore delle catene
Che faremo suonare in noi con le campane
Che linguaggio è questo che ci scudiscia sussultiamo nella luce
I nostri nervi sono fruste tra le mani del tempo
E viene il dubbio con una sola ala incolore
Che si avvita si comprime si schiaccia in noi
Come la carta stropicciata del pacco aperto
Regalo d'un'altra epoca dagli scivolamenti dei pesci di amarezza
Suonano le campane senza ragione e noi pure
Gli occhi dei frutti ci guardano con attenzione
E tutte le nostre azioni sono controllate nulla è celato
L'acqua del fiume ha tanto a lungo lavato il suo letto
Porta con sé i dolci fili degli sguardi che hanno bighellonato
Ai piedi dei muri nei caffé leccato vite
Allettato i deboli connettato sensazioni disseccato estasi
Approfondito fino in fondo antiche varianti
Aperto il varco alle fonti delle lacrime prigioniere
Le sorgenti atte ai quotidiani soffocamenti
Gli sguardi che prendono con mani secche
Il chiaro prodotto del giorno o l'apparizione in ombra
Che concede l'attenta ricchezza del sorriso
Avvitato come un fiore all'occhiello del mattino
Coloro che pretendono riposo o voluttá
Tocchi di vibrazioni elettriche soprassalti
Avventure fuoco di certezza o schiavitú
Sguardi che hanno strisciato lungo discreti tormenti
Consumato i selciatii delle cittá e espiato molte meschinitá con elemosine
Si susseguono strette attorno ai nastri d'acqua
E scorrono ai mari trascinando al loro passaggio
Sporcizia umana con i suoi miraggi
L'acqua del fiume ha lavato cosí a lungo il suo letto
Che persino la luce striscia sull'onda liscia
E cade al fondo con grave bagliore di pietre
Senza ragione suonano le campane e noi pure
Le preoccupazioni che portiamo con noi
Che sono i nostri abiti interiori
Che indossiamo ogni mattina
Che la notte scioglie con mani di sogno
Ornati d'inutile rebus metallici
Purificati nel bagno dei paesaggi circolari
Nelle cittá preparate per la carneficina il sacrificio
Presso i mari che spazzano le prospettive
Sulle montagne severamente inquiete
Nei paesini dai dolorosi abbandoni
La mano pesante sulla testa
Suonano le campane senza ragione e pure noi
Partiamo in partenza e arriviamo in arrivo
Partiamo con chi arriva e arriviamo con chi parte
Senza ragione un po' duri un po' secchi severi
Pane cibo manca il pane che accompagna
La canzone saporita alla gamma della lingua
I colori depositano il loro peso e pensano
E pensano o gridano e restano e si nutrono
Di frutti leggeri come il fumo planano
Ce pensa al calore che tesse la parola
Attorno al suo nucleo sogno che ci chiama
Suonano le campane senza ragione e pure noi
Marciamo per sfuggire dalle strade formicolanti
Con un flacone di paesaggi una sola una sola malattia
Che coltiviamo fino alla morte
So che io porto in me la melodia e non ho paura
Porto la morte e se muoio è la morte
Che mi porterá nelle sue braccia impercettibili
Fini e leggere come odore d'erbe magre
Fini e leggere come partenze senza scopo
Senza amarezza debiti rimpianto senza
Suonano senza scopo le campane e pure noi
Perché cercare il capo della catena che ci lega alla catena
Campane suonate senza scopo e pure noi
In noi suoneremo vetri rotti
Monete d'argento e false monete
Schegge di feste scoppiate a ridere in tempesta
Alle cui porte si aprirebbero abissi
Tombe di vento mulini che frantimano le osa dell'artico
Feste che ce elevano le teste al cielo
E sputano sui nostri muscoli la notte di piombo fuso
Io parlo di chi parlo e sono solo
Non sono che un piccolo rumore con piccoli rumori in me
Un rumore gelato stropicciato all'incrocio gettato sul marciapiede umido
Ai piedi di quelli che vanno di fretta corrono con i morti attorno alla morte che stende le
braccia
Sul quadrante della sola ora vivente sotto il sole
Spesso si fa il soffio oscuro della notte
E nelle vene cantano flauti marini
Trasposti sulle ottave degl strati di diverse esistenze
Le vite si ripetono all'infinito fino ala magrezza atomica
E in alto cosí in alto che non possiamo vedere con queste vite accanto che non vediamo
L'ultravioletto di tante vie parallele
Che avremmo potuto imboccare
Sule quali avremmo potuto non entrare nel mondo
O averlo abbandonato da così tanto tempo
Che sarebbe dimenticata l'epoca della terra che ci succhió la carneficina
Sali e metalli liquidi limpidi al fondo dei pozzi
Penso al calore che tinge la parola
Attorno al nucleo del sogno che ci chiama.
Trad genseki
giovedì, dicembre 24, 2009
Era anche nella mente dei delfini
Era anche nella mente dei delfini
In quella delle balene, forse
D'altri cetacei, l'agonia della bambina
Caduta nel pozzo
Profondo come un'occhio
Tra il grano dorato, lei correndo
Nell'azzurro, tra due ispirazioni
Il delfino è consapevole della luce
Della schiuma, della purezza dello iodio
Del buio che ferisce laggiú
Ci sono scale fungose, muco fosforescente
La bambina non è sicura di essere
Davvero mai esistita nella mia mente
L'oro del grano, l'odore rosso delle ginocchia
Le balene soffiano rabbiose
Tremano gli alberi di amarene
La pianura rovente i delfini
Scarabocchiano con la schiuma
Raggi azzurri dalla loro alla mia mente
E lei cade tra altri funghi
Questi anche piú deformi maligni
In altre menti, in altri cetacei
Inconsapevole di quell'odore di cuoio
Di quell'occhio appena lacrimoso
Dell'oscuro che si apre un varco
Tra l'oro i delfini e i suoi capelli rossi
Nella mente della balena
Nella mia mente scivolando
Dall'una all'altra mentre
Lui la apre e qualcosa sanguina
Tra il grano e l'azzuro richiamo
del mare.
genseki
Natale 2009
Oggi la Vergine da alla luce
Colui che per l'Essenza è l'Eccelso
La Terra offre accesso a una grotta
A colui che è inaccessibile.
Angeli e pastori intonano canti di lode
I Magi nel loro cammino
Seguono la stella.
Ecco per noi è nato un bambino:
Egli è il Dio senza tempo.
Kontakion di Natale
Romano il Melode
trad. genseki
martedì, dicembre 22, 2009
Sul dorso della colline
Dormivamo interminabili
Fino a rendere trasparente il sonno
Fino al profumo di spine e ginepro
Il vento, infatti, era davvero vetro
E noi oscillavamo come fiamme di candela
Come candele ci accendevamo
L'un l'altra nel profumo del timo
Le tue radici le cercavo a tentoni
Andavo cercandole sotto le pietre
I miei occhi li accarezzavi tra lo sparto
Dove si erano infitti nell'urto
Con le tue lunghe dita di scoiattolo;
Io ero lepre pronta alle tue fughe:
O fuggimi, fuggimi ancora
Come se fossi l'ultima parola
Il corpo in canna, la foglia sospesa
Il lapsus, la stella che non vuol cadere
La falce di luna piena del sorriso
Fuggimi, dormimi sul filo tagliente
Sul coltello della collina come conchiglia
Fossile accoccolato nella marna
Levigato dalla marea del tuo cuore
Con tutti quei coralli e le galassie
*
Il merlo lo avrebbe detto a tutti
A chi non aveva mani per guardare
Corolle per captare le radiazioni della rugiada
Il merlo alla fine ci avrebbe traditi lo stesso
Avrebbe portato nel becco il filo rosso
Per connetterlo alla maledetta bobina
Per connetterlo a tutta quella sofferenza
Per questo non riuscivamo piú a sciogliere
L'intreccio delle nostre dita
Unite tra di loro come la noce al suo martello
La nuditá al cappotto
Come l'invito alla perdizione
L'ubriaco alla paura
La luna alle nuvole notturne
Il giglio alla libellula cobalto
Il telefono ed il tuo salotto vuoto
Le persiane alla serratura dei gerani
I passi di tuo padre e la sua bara
Le sue scarpe di vernice e i tuoi collant
La mia cravatta e il tuo smalto da unghie
Strette come un nodo stretto al suo tumore
Si gonfiavano le nostre dita, e poi
Si facevano bianche bianche
Come un grappolo di scheletri di feti.
*
La libertá lasciva ci versava
Il mosto delle sue lacrime
Tra le pieghe della tua tunica
Pullulavano bruchi in preghiera.
*
genseki
lunedì, dicembre 21, 2009
Due testi di Tristan Tzara
O Spagna madre di tutti coloro che la terra non ha cessato di mordere da quando hanno avuto la crudeltà di vivere
Forza del sole alle putrelle di vecchi pani
Nessun sorriso che non si sia disfatto in sangue
Con gli occhi sbarrati hanno taciuto le campane
Bambole di terrore mettono i bimbi a letto
L'uomo si è spogliato del mistero delle parole
Le campagne mostrano gli artigli le case spente
Quelle ancora in piedi nei sudari si asciugano al sole
Sparite immagini pietose ai nudi denti
Risuonano gli stivali della mercede dei traditori
Avrei avuto per me la chiarezza
Sulle strade di Joigny dal sole collegato
Che sono io protetto da un'apparenza in marcia
Undici anni di morte sono passati su di me
E la brughiera non ha atteso il prezzo della sua foga
Non ha atteso la ricompensa della sua calma
Per manifestare alla vita un pomposo rinascimento
Mentre scorza ruvida di monte a raffichi
Correndo ho superato l'immrtalitá dell'illusione...
*
L'acqua scavava lunghe fanciulle
Mezzanote per giganti in “L'Antitesta” 1933
domenica, dicembre 20, 2009
Blacatz e il Capitano
Nel testo di Sordello anche i destinatari-eredi sono guerrieri, nella canzone i destinatari eredi appartengono al lato femminile dell'esistenza. Morire per il Capitano degli Alpini è rientrare nel mondo della Madre, per Sordello è restare in quello della guerra attraverso la sopravvivenza del proprio spirito guerriero ad altri membri della stessa casta. Quest'ultima differenza dipende dal fatto che sopra è appena accennato in partenza che la figura del soldato non è sovrapponibile a quella del guerriero, il soldato è una forma molto molto degradata di guerriero.
La relazione tra i due testi è forte a livello simbolico e permette una analisi dettagliata di come un archetipo vada trasformandosi e forse depotenziandosi nel tempo.
genseki
sabato, dicembre 19, 2009
Coro Piccole Dolomiti - Il testamento del capitano
Sordel
Planher vuelh en Blacatz en aquest leugier so,
Planher vuelh en Blacatz en aquest leugier so,
Ab cor trist e marrit! et ai en be razo,
Qu'en luy ai mescabat senhor et amic bo,
E quar tug l'ayp valent en sa mort perdut so!
Tant es mortals lo dans qu'ieu non ai sospeisso
Que jamais si revenha, s'en aital guiza no!
Qu'om li traga lo cor e que·n manio·l baro
Que vivon descorat, pueys auran de cor pro.
Premiers manje del cor, per so que grans ops l'es
L'emperaire de Roma, s'elh vol los Milanes
Per forsa conquistar, quar luy tenon conques
E viu deseretatz, malgrat de sos Ties!
E deseguentre lui manje·n lo reys frances:
Pueys cobrara Castella que pert per nescies!
Mas, si pez'a sa maire, elh no·n manjara ges,
Quar ben par, a son pretz, qu'elh non fai ren que·l pes.
Del rei engles me platz, quar es pauc coratjos,
Que manje pro del cor! pueys er valens e bos,
E cobrara le terra, per que viu de pretz blos,
Que·l tol lo reys de Fransa, quar lo sap nualhos!
E lo reys castelas tanh qu'en manje per dos,
Quar dos regismes ten, e per l'un non es pros!
Mas, s'elh en vol manjar, tanh qu'en manj'a rescos,
Que, si·l mair'o sabia, batria·l ab bastos!
Del rey d'Arago vuelh del cor deia manjar,
Que aisso lo fara de l'anta descarguar
Que pren sai de Marcella e d'Amilau! qu'onrar
No·s pot estiers per ren que puesca dir ni far!
Et apres vuelh del cor don hom al rei navar,
Que valia mais coms que reys, so aug comtar!
Tortz es, quan Dieus fai home en gran ricor poiar,
Pus sofracha de cor lo fai de pretz bayssar.
Al comte de Toloza a ops qu'en manje be,
Si·l membra so que sol tener ni so que te!
Quar, si ab autre cor sa perda non reve,
No·m par que la revenha ab aquel qu'a en se!
E·l coms proensals tanh qu'en manje, si·l sove
C'oms que deseretatz viu guaire non val re!
E, si tot ab esfors si defen ni·s chapte,
Ops l'es mange del cor pel greu fais qu'el soste.
Li baro·m volran mal de so que ieu dic be,
Mas ben sapchan qu'ie·ls pretz aitan pauc quon ilh me.
Belh Restaur, sol qu'ab vos puesca trovar merce,
A mon dan met quascun que per amic no·m te.
Il Testamento
a cura di genseki
Il Testamento
Come fece un tempo Blacasso
Anch'io dispongo qui il mio testamento
Mentre sul prato ulula il lupo
Accanto al fuoco con buon mantello
Con molta legna nella legnaia
Cipolle e biada, patate e grano
Forti candele per lunghe veglie
Sano di mente e senza inganno
Questo ritengo vada disposto
Quando verrá la Dolce Dama
Quella che porta la lunga falce
Sottile e lucida come la luna
Voglio che il cuore che fu tanto ansioso
In quattro spicchi venga tagliato
E dato ai gatti del vicinato
Che sempre intesero il mio dolore
E lo calmarono con tante fusa
Quanti i suoi palpiti d'amor perduto.
Voglio che gli occhi che il sole accolsero
Lo custodirono sotto le palpebre
Fecero cuocere con i suoi raggi
Tanti pensieri ed orazioni
Siano interrati nell'orto di Enza
Germoglieranno a primavera
Come datura che inebria e stronca
Perché lo mescoli con l'amanita,
In libazione al Dio d'amore.
Tutte le dita le lascio agli alberi;
Non furon foglie e le invidiarono,
Forse potranno cadere in autunno
Sfiorate appena dalle libellule.
Il mio pisello: quel piccolino
Lo lascio a Edmo dal gran bordone
Perché ne apprezzi la tenerezza,
La delicata anatomia
Che sparse vita in bianche gocciole
Quando dovunque infuriava lo stupro.
I piedi poi li voglio donare
A tutti quelli che non sanno lasciare
La loro vita tanto tranquilla:
Con il lavoro, con la famiglia
Perché anche loro sappian godere
D'una gran fuga per i sentieri
Che van sparendo sotto le chiome
Dei grandi boschi o che il vento cancella
Soffiando ardente sopra le dune.
Le orecchie, infine, che hanno udito
Tante calunnie e maldicenze,
Che sono piene delle sciocchezze
Che in tanti anni hanno ascoltato
Le lascio entrambe a tutti coloro
Che non ascoltano le implorazioni
Di quanti soffrono e chiedono aiuto
Come castigo ben meritato.
Nell'annodomini duemilanove
Mentre sui campi infuria tormenta
Guardando i lupi dalla finestra
Con un gran ceppo nel focolare
Io sottoscrivo questo legato
E lo consegno allo Sfregiato
Perché ne curi l'adempimento.
venerdì, dicembre 18, 2009
Vox I
Russian Basso Profondo: The Lowest Voices
Questa è la prima parte di un viaggio nel mondo delle voci. La voce del basso liturgico, forse è un ricordo vivo dello sciamanesimo staroslavo, scita. Dio abita nella voce come nel pane, si corpo con la voce e nella voce come nell'eucarestia, nel figlio.
genseki
giovedì, dicembre 17, 2009
Dreiser Cazzaniga e l'amicizia
Questi sono l'oggetto di altre pagine della sua vasta e inutile biografia intellettuale di cui mi sforzo di fornire un vago resoconto. Per quanto riguarda invece l'amicizia come contenuto, ebbene, Dreiser non ebbe molta fortuna, questo è certo. La cosa piú simile a un'amicizia che ebbe negli anni dell'adolescenza fu la sua relazione con Beaumont. Di cui solo vent'anni dopo avrebbe scoperto la natura miserabile, dppia, codarda e malvagia, ma che anche quando persisteva a vivere in comunione con lui sulla base di un'umiliante equivoco, gli amareggiava sensibilmente la vita. Infiniti furono i casi di aperta ostilitá, sempre meschina e codarda del Beaumont e davvero incomprensibilmente ignobile la bassezza con cui, prono, Dreiser gli ignorava e, anzi si ostinava a considerarli momenti dialettici di crescita della relazione.
Altri amici per lungo tempo non ebbe. Una quasi amicizia la strinse con il medievista Enrico Sesti, negli anni dell'Universitá. E con Charlse Obana nel cuore del Cameroun.
Poi poco a poco la natura dell'amicizia gli si venne rivelando come vuota e fantasmatica. Comprese cioè che tutti in qualsiasi luogo e in qualunque momento: cioè proprio in questo momento e proprio in questo posto, tutti e ciascuno sono il nostro amico e la nostra amica; e che quando fissiamo qualcuno negli schemi dell'amicia, lo inchiodiamo con i chiodi del nostro affetto, non facciamo altro che costruire un fantasma con i frammenti del nostro Io che sentono questa necessitá di sdoppiarsi e di riflettersi. In questi fantasmi che siamo soliti chiamare amici finiamo per avvilirci o per eccitarci e per esercitare un frustrante senso di potere. I nostri amici per essere tali devono, soprattutto essere un vuoto, un nulla. L'amicizia è, invece, la dolcissima coscienza, di condividere con tutte le persone, e non solo le persone, la sensazione di vivere.
Un vuoto assoluto fu per Dreiser Cazzaniga la sua fantasmatica amicizia con la Señora Tejada de las Silvas. Non poteva, per quanto si sforzasse evitare di evocare questo tarlato ectoplasma con una frequenza pendolare.
Qualcuno di coloro che furono in intimitá con Dreiser Cazzaniga potrebbero, a questo punto chiedermi perché non menzione qui il suo sodalizio con Spadaro di Quittengo.
Risponderó, lo prometto in un altro capitolo della mia esposizione del manoscritto delle memorie di Dreiser Cazzaniga.
genseki
martedì, dicembre 15, 2009
Promessa
genseki
Il limone e il rosmarino
Ci bastò per esserne abbagliati
Invano ci saremmo chiesti poi
Se perdurare fosse nella promessa
Quello che importava era bruciare
E bruciammo, questo è certo,
Sapevamo bruciare, ceste intere
Di ricordi, di paesaggi, di lacrime
Bruciammo le speranze e l'eco
Bruciammo il calcolo e l'abitudine
Le carezze e i passi spesi invano
O quanti, quanti furono questi ultimi,
Bruciammo l'amicizia ancora in erba
Anche i baci bruciammo quando erano germogli
Bruciammo le radici e i torrenti
Le vele e il vento che le gonfiava
Bruciammo pensieri e disperazione
Come fossere carbone e diamante
Mentre ci asciugavamo gli occhi con le rose
E ballavamo su gli aisberg con Gertrude
Perché lo spirito è pura fiamma azzurra
Ma la promessa è solo in seme e in carne
Ci ritrovammo su di un mucchio di cenere
Con ossa terse e occhi cristallini
Ma proprio accanto stava germogliando
Sotto un limone il fresco rosmarino.
genseki
lunedì, dicembre 14, 2009
Lamento dei vecchi smemorati
Che ci legano al mondo della luce
Vanno facendosi sempre piú sottili
E quanto piú sottili più dolenti
Cosí van susseguendosi gli istanti
Franosi mancamenti di pensieri
In una nebbia di dimenticanza
In una danza di ali e di fiocchi
Ci appare l'ora mosaico di rintocchi
E il sole che piú scalda è quello d'ieri
Domani è affanno d'esserci precario
La speranza è tessuta in filigrana
Sullo specchio d'ottone impolverato;
Vecchi restiamo avvolti in mille scorie
Eretti contro il vento del futuro
Che furioso vuol spingerci a ritroso
Solo riflessi ormai restiamo eretti
E lo specchio è un tessuto luminoso
Che si va consumando filo a filo
Memoria è regno di robinie in fiore
Bianco il Tuo seno come la ricotta
Lascia che il capo vi si posi ozioso
O Falciatrice dai piedini svelti
Quando gocciolerà l'ultimo raggio.
genseki
sabato, dicembre 12, 2009
venerdì, dicembre 11, 2009
Autunni
E li abbiamo persi quasi tutti
Distratti dall'origine
O dal tramonto
Infreddoliti o timidi
I primi li abbiamo perduti
Per non sapere che erano autunni
Successivamente li mancammo
Perché non sapevamo che erano solo un pugno
Non avevamo freddo, allora - no!
Poi la ragione fu che ci rendemmo conto
Di quanto pochi erano quelli che restavano
E contavamo i milioni e milioni di autunnni
Che si sarebbero sfogliati
Dal grande loto delle stagioni
Quando per noi non ci sarebbero stati piú altri autunni
Oltre quelli infiniti
Immoti del passato
Che avevamo finito per perderci.
genseki
Nice
Finí con una foto sul lungomare
Tu eri pallida come le onde
Gli occhi all'altezza della linea dell'orizzonte
Il fotografo dava le spalle al Negresco
Tra due palme erano avvitate
Le tue scapole
Poco piú in lá del mare, appena un poco oltre
Viaggiava invece la tua anima preda
A cercare il branco di lupi
Cui era stata destinata
Come avrei potuto seguirti tra le nuvole
Tra pelo e zanne?
Lo sai un altro lupo
Ci aspettava quieto nella stanza dell'Hotel Gounod,
Accoccolato tra le coperte di pelle.
Come avrei potuto seguirti tra queste cascate di luce
Appena all'angolo del mare
Tra le piante di prezzemolo
Che le mani di tua madre accarezavano
Come tu ora accarezzi queste onde
Poco oltre il mare, all'angolo della vecchia bottega
Di assi si specchiava la tua anima preda di lupo
Il vecchio lupo
Quello di sempre
Con il suo branco di motociclisti
E le gitanes e i tuoi occhi paralleli alla linea dell'orizzonte
Le spegneva tra le piante di prezzemolo le gitanes
Tra le dita di tua madre.
geneki
Provenza
Pedalavo d ramo in ramo
Come fossero alberi di terra
Chiome di terra e roccia
Aperte sul mare che era cielo
Non ancora cartografato
E l'origano mi riportava a casa
Alla porta bianca, alle sedie arancioni
L'origano e il rosmarino dal profumo spinoso
Lontano dalla neve
Per i capi della Provenza
Frastagliati andavo pedalando
Con Bernardo e Rambaldo
E i loro segugi
E mi mancava quella sensazione
Di latte sulle labbra che mi gocciolava
Dal contemplare i tetti di ardesia
Dall'oblò del mio nido campanile
Perché quella di Provenza era un'altra luce
E in quella luce cercavo di dimenticare
Pedalando i pensieri frastagliati
Le punture dell'origano e del rosmarino
Fino a che tutto fosse solo latte
E bacio di neve baciata
Nel bianco senza più chiome
genseki
giovedì, dicembre 10, 2009
L'infanzia di Dreiser Cazzaniga
A nord di Briggio, oltre i monti selvosi, si apriva la landa delle colline inebrianti. Onde su onde di trigo e vigne, osterie, cortili e piazze polverose delimitate da ippocastani. Un mondo selvaggio, in cui l'odore del motore non era ciò che inebriava i giovani, ma il profumo alcolico del fieno sotto il sole. Le ragazzine avevano le trecce!
A sud del Barrio di Briggio il mondo precipiava in ripida discesa verso il mare, sconosciuto deserto di simboli abbracciato dalla città materna rorida di latte.
A Briggio gli uomini bevevano un vino spesso che si appiccicava ai bicchieri, le donne vestivano quasi tutte di nero, i ragazzini formavano bande armate di lance e fionde per cacciare i cani randagi e battersi tra di loro. In realtà le bande poi erano due: quella di a monte e quela di a valle.
In esse Dreiser ricevette i primi rudimenti della muta disciplina militare che doveva segnare in una certa misura il suo modo di veder la vita.
A cura di genseki
Odor di Dio
Questa risulta una costante dei suoi versi:
“Yo soy un ser ávido y lóbrego, un profundo
Centro de gravedad de todos los misterios
dice nella poesia “Hermanos”;
“Es que yo he de ser siempre un punto alucinante
Resuene el múltiple eco del universo?”
Si interroga nel “Poema quotidiano”:
“Yo soy la roca en que será labrado
Un ideal dos veces primitivo,”
si autodefinisce in “Ararat”.
Essere avido, oscuro, centro profondo, punto allucinato e roccia non sono espressioni prese dalla letteratura, ma dall'esperienza: dall'angosciane intensitá di un uomo, di un io che si ubica, si riconosce e si compenetra nell'immensitá dell'esistente, del creato. Tuttavia, metre cerca la propria identitá, scopre altre realtá per mezzo di studi allucinanto della propria coscienza, o piuttosto, di autodefinizioni che rispondono a una piena rascendenza di se stesso.
La festa dei sensi
Trascendendo se stesso, Cortés si inventa. Lo stesso capita al suo coetaneo, al poeta messicano Ramón López Velarde, con cui puó essere comparato per il fatto che i due hanno molti elementi in comune e una equivalente altezza poetica. Entrambi, per esempio, sono eredi di Charles Baudelaire nello stabilire sottili relazioni tra le cose e impiegare l'olfatto come pochi hanno saputo farlo dopo il francese.
Nel caso del nostro poeta, questo senso risulta speciale perché egli è capace di trovare:
“Un perfume de cosas que no son de la vida” (“Me ha dicho el alma”)
e capta quello che resta proibito alla maggioranza degli uomini:
“¿Sientes? En este sitio en que estamos los dos
Huele a gas, huele a infancia y a Dios” (“La chimenea”)
Nemmeno la divina presenza puó sfuggire alla sua capacitá olfattiva. Percé essenzialmente Cortés è sensoriale. (...). nel suo contatto profondo con le cose, o meglio, con l'anima delle cose, non si tratta tanto del tatto e del gusto, quanto dell'olfatto – come si è detto – e della vista. Ma soprattutto dell'olfatto.
(...)
Il significato dell'udito, tuttavia, affonda nella capacitá di andare “oltre i sensi” che è una delle direttrici fondamentali della sua poesia. (...) così giunge a udire l'invisibile: “La morte è un silenzio (“Aniversario”) che suppone impossibilitá di esistere senza parlare e udire dal momento che la vita è suono.
Jorge Eduardo Arellano
Mexico 2009
trad. genseki
mercoledì, dicembre 09, 2009
Lucian Blaga
All'origine, alla sorgente
Solo in forma di nubi
Tornano l'acque.
All'origine, alla sorgente
Con nostalgia vanno i sentieri
Acque, sentieri, nubi, nostalgia
Quando domani torneró alla fonte
Acqua saró, o nube
O nostalgia?
Trad genseki
sabato, dicembre 05, 2009
Alma Ata
Isolati restavano i due picchi
Nella solitudine delle dune
Anche la luna si situava al centro
Di tanta pallida desolazione
Non smettere di salire mi dicevo
Sanguinando di ciottolo in zolla
Tanti granelli di sangue seminando
Palme future dai datteri perlacei
Con gli occhi non volevo separarle
Quelle due cime, la luna, gli anelli di fumo
Anche i fiori erano taglienti
Come frammenti di specchi infranti
Petali dolenti scricchiolanti
Inchioda i miei occhi Dio Lupo
Uno per ciascuna delle cime
Saranno testimoni del dolore
Che non si espia di essere se stessi
Infranti nel confronto con le cose
lascia che piangano rivoli di vista
Fiumi di visioni scorreranno
dalle cime isolate picchi antichi
Per le pianure di anice e mughetto
Fiumi di percezione visuale
Laddove una fanciulla delicata
Possa raccogliere nel palmo della mano
La storia che fu vista e maledetta
Quando l'uomo era io nudo rabbioso
Annodato a se stesso condannato.
genseki
giovedì, dicembre 03, 2009
Ricardo Jaimes Freyre
Pellegrina colomba immaginaria
Pellegrina colomba immaginaria
Evocatrice degli estremi amori
Anima luminosa di musica e di fiori
Pellegrina colomba immaginaria
Vola sopra la roccia solitaria
Che bagna il freddo mare del dolore
Al tuo passaggio riverberi splendore
La secca e spoglia roccia solitaria
Vola sopra la roccia solitaria
Pellegrina colomba, ala di neve
Come ostia divina, ala sì lieve...
Come fiocco di neve; ala divina
Ostia di neve giglio nebbiolina
pellegrina colomba immaginaria.
Da "Castalia Bàrbara"
trad. genseki
Dreiser Cazzaniga e il "mobbing"
Durante, però, quando il “mobbing” era in atto, non se ne era mai reso conto. Il “mobbing” scivolava su di lui senza graffiarlo, oppure era lui che si muoveva nelle nebbie del “mobbing” come in un mattino cristallino di un gennaio solare e montano.
Si chiese il perché di questa strana sua scoperta senza giungere mai a una conclusione che gli paresse soddisfacente.
Può darsi che il “mobbing” fosse così continuo, fin dal principio e che non avesse mai avuto la possibilità di confrontare la sua vita lavorativa minacciata con una vita lavorativa normalmente serena.
Questa ipotesi, tuttavia non spiegava affatto come fosse possibile che ora, invece, ritirato tra i fichi d'India della Sierra de los Puros , in compagnia di tre galline sterili e di qualche avvoltoio moreno se ne rendesse conto. Ora che non aveva più nessuna possibilità di confronto!
Forse, il lavoro era per lui così privo di importanza esistenziale che egli lo attraversava come in stato ipnotico.
In effetti aveva lavorato poco, e quel poco con tanta ingenua leggerezza che la cosa che ricordava di più delle sue occupazioni, era il viaggio che gli toccava intraprendere tutte le mattine per raggiungere il posto di lavoro.
Aveva sempre lavorato come pendolare estremo e polimodale. Ebbe lavori in luoghi freddissimi e nebbiosi, irraggiungibili con i mezzi pubblici, che seppe sempre raggiungere, tuttavia con una fantasiosa e devastatrice combinazione di sistemi di trasporto, treno, rimorchio, bicicletta, passaggio del collega. Intervallati di attese interminabili.
Così, però, si godeva l'autunno, seguiva la variazione di colore delle foglie di un certo albero con precisione assoluta, calcolava la fioritura dei ciliegi, sapeva dell'apparizione delle primule sui cigli di molti prati.
E non si ricordava di avere un lavoro.
Giunto sul posto di lavoro, era troppo stanco per lavorare. Lavorare era allora per lui sognare di poter dormire.
E in questo sogno di giungere a sognare si rendeva conto, per esempio del lampeggiare pieno di odio degli occhi della grassa pescivendola Donatella Sbardello che tramava per farlo licenziare con ignominia da una ispezione all'uopo convocata.
Probabilmente gliene sarebbe stato grato.
Avrebbe anticipato il suo ritiro, con una vacca però e tre galline, in una valle alpina davvero vaginale.
Come Bosco Cappuccio di Ungaretti, dove dormire finalmente e vivere di latte e uova nell'odore acre della legna bruciata del camino.
Sicuramente anche il direttore Nespolino doveva aver tentato di farlo fuori, l ricordava mentre aggrottava la faccia castagnosa.
Egli però non cessò mai di vivere al lato del “mobbing” di viaggiare, sognare di dormire e leggere, leggere leggere.
A cura di genseki
mercoledì, dicembre 02, 2009
Le Contemplazioni
Ho colto questo fiore per te sulla collina
Su di un'aspra parete che sul flutto s'inclina
Che l'aquila soltanto conosce e frequenta
Tranquillo in una crepa della roccia cresceva
L'ombra bagnava il fianco del cupo promontorio
La cupa notte vidi, ove il sole tramonta
Erigere, qual arco di trionfo vermiglio
fatto solo di nubi un colonnato immenso
Vidi vele fuggire fuggire sul lontano orizzonte
E casette nascoste in fondo ad un imbuto
Con luci tremolanti per timor d'esser viste
Ho colto questo fiore per te mia dolce amata
Pallido non possiede corolla profumata
la sua radice fragile sulla cresta del monte
Sol l'amaro ha succhiato delle alghe celesti;
Così ho pensato: - O fiore dall'alto della cima
Alfin dovrai cadere nell'abisso profondo
Dove l'alghe, le nubi e le vele scompaiono,
Muori allor su di un cuore abisso senza fondo
Appassisci sul seno ove palpita un mondo
Il ciel che t'ha creato per sfogliarti sull'onda,
Ti fece per l'Oceano, all'amore ti dono
Solo un vago chiarore rimaneva del giorno
Morente mentre il vento scompigliava le onde
O quanto ero triste nel fondo del pensiero
Mentre fantasticavo ed un vortice nero
Nell'anima m'entrava con brivido notturno.
Isola di Serk Agosto 1855
Victor Hugo
Les Contemplations
trad. genseki
martedì, dicembre 01, 2009
Pensiero
Hegel
Lezioni sulla filosofia della religione
Parte II cap.1 Sez. prima