sabato, maggio 12, 2012
Aube
Quella che segue è la aduzione della sola Aube di Peire de Lautel giunta fino a noi nella liberissima traduzione (liberissma dal punto di vista metrico di Dreiser Cazzaniga).
Peire de Lautel
La luce di un canto
Di luna dal pianto
del bosco rifranto
Saluta la notte che muore
Partirti daccanto
Con strazio e rimpianto
E’ dolce dolore
Dell’alba l’incanto
Si scioglie nel pianto
Raccoglie il suo manto
La notte che muore
Avvolti nel canto
Un ultimo bacio soltanto
Ci nutre d’amore
Di tremule piume
S’illumina il fiume
In candido lume
Il bacio ci serra
Di veli, di brume
Di stille, di spume
Si copre la terra
Già l’alba del fiume
Solleva le brume
Nel dolce barlume
Partire m’atterra
Mio passero implume
Del sole nel lume
S’accende la terra.
venerdì, maggio 11, 2012
Tristan Corbière
Il Poeta contumace
Parte II
Non sapendo morire scriveva:
“È un essere di cento lune fa,
tesoro,
Nel tuo cuore poetico in stato
leggendario.
Rimo e dunque vivo … ma non temere a
salve.
- Una conchiglia d'ostrica in un banco
spaccato!
Mi tocco, non vi è dubbio: son io!
Ultimo sbaglio -
In marcia verso il cielo – la mia
nicchia è ben alta ! -
Mi sono domandato mentre prendevo
slancio:
Testa o croce … e ancora non ho
smesso di farlo...
“ È a te che voglio fare il mio
addio a la vita,
A te che piangerai fino a darmi la
voglia
Di mettermi anch'io a piangere con te,
I giochi sono fatti, sono uno spettro
sfatto
In ossa e … (non posso dire in
carne). È sicuro
Son proprio io, eccomi qua, come un
errore.”
“Eravamo collezionisti di
cianfrusaglie;
Vieni a vedere il Bibelot – a me fa
schifo -
Proprio nei miei disgusti, ho dei gusti
eleganti;
Lo sai avevo mollato la vita coi
guanti:
L'Altro non è da prendere nemmeno con
le pinze...
Cerco sul manichino qualche nuova
toilette.”
“Vienimi ad aiutare: i tuoi occhi
negli occhi!
Trad genseki
giovedì, maggio 10, 2012
Il poeta contumace
Tristan Corbière
Il poeta contumace (parte I)
Sulla costa d'ARMOR, in un vecchio
convento
Che i venti avevan preso per un mulino
a vento,
Gli asini si recavano a esercitare il
dente
Sull'edera brucata abbarbicata a un
muro
Con tante brecce che si era persa
l'entrata.
- Solo – ma sempre dritto con un
aplomb ben raro,
Coi merli diradati come denti di
vecchia
Ficcato a pugni il tetto sull'orlo di
un'orecchia
Ai corvi sbadigliando si elevava il
torrione,
Fiero d'avere avuto un tempo una
leggenda
Non era ormai nient'altro che un nido
di briganti
Vagabondi notturni, amanti clandestini,
Sbirri, cani randagi, ratti e
contrabbandieri
Oggi però era ospite della torretta
cieca
Un poeta selvaggio con piombo nelle ali
Laggiù precipitato nel bel mezzo dei
gufi
Che alteri l'osservavano, ne
rispettava i buchi,
Solo gufo inquilino a venti scudi
l'anno
E una vecchia porta sostituita a sue
spese.
La gente del paese, nemmeno la vedeva,
Qualche raro passante mostrava con un
cenno
Del naso a qualcun altro la sua alta
finestra
Il parroco temeva che non fosse un
lebbroso.
Il Sindaco diceva; - Che volete che
dica
A me pare un inglese … un'essere -
sapete?
Le donne già sapevano, vatti a sapere
come .
Che in peccato viveva insieme a certe
Muse
Un eretico insomma … o forse un
parigino
Di Parigi o d'altrove vatti a sapere
dove
Era un invisibile, come le sue donzelle
Non soleva mostrarsi, non si sparlò di
quelle.
Lui era un perdigiorno, alto, pallido e
secco
Eremita per hobby spazzato da ogni
raffica...
Troppo egli aveva amato i paesi
malsani
I medici e gli uscieri lo davan per
spacciato;
S'era posato qua, sazio e in cerca del
posto
Per morire da solo o viver contumace...
Facendo d'un quasi artista,
Un filoso d'accatto
Rantolava al sole e al ghiaccio
Traviato ormai del tutto dall'umano
sentiero.
Ancora gli restava un'amaca sfibrata,
Un cane dormiglione che chiamava Fedele
Ed era dolce e triste come lo era lui
Eppur non più fedele della compagna
noia.
Come morto di sonno solo viveva in
sogno,
Il suo sogno era l'onda che saliva la
rena
E poi la discendeva.
A volte vagamente ... restava li ad
attendere …
Che cosa … solo l'onda … che viene
e rifluisce,
Forse … chissà? L'assente.
Ma lui ne sa qualcosa. Chiuso nella
garrita
Forse ha dimenticato che i morti vanno
in fretta,
Lui viveur stagionato, spettro che si è
smarrito.
Cerca il suo fuoco fatuo salma sepolta
male?
O Lei non è lontana, quella per cui
bramisci
Cervo di sant'Uberto! Ma senza fiamme
in fronte...
Tal forse non sembravi vecchio mio,
esule triste e falso
Fai il morto se ora puoi,,, Ella ha
pianto per te!
- Forse lui non poteva! … Ma non era poeta
Come un altro immortale? Sentiva nella
testa
Spaesata che tutti i versi esametri
Facevan cento passi con andamento
sghembo
Privo di saper vivere – sopravviveva
.
Non sapendo morire scriveva.
trad genseki
venerdì, maggio 04, 2012
La sestina del cane e della lingua
Oro Senhal:
Arcana Signora della Sfera
Cane
Vespro
Sfera
Erba
Gioco
Quando la sera si colora d’oro
Vago sperduto e solo come un cane
Nel suono grigio che diffonde il vespro
Sui boschi e le colline come sfera
Che di rintocchi fa tremare l’erba
Dove la morte sembra solo un gioco
Dolce è il ricordo del tempo del gioco
Di labbra di capelli e d’occhi d’oro
Di corpi che si stringono nell’erba
- Sotto lo sguardo mite del mio cane -
D’amore dolce e teso fino al vespro
Del Vostro corpo liscio come sfera
Oh se avessi guardato nella sfera
Forse avrei visto la trama del gioco
Senza aspettare che giungesse il vespro
E la nebbia coprisse i boschi d’oro
Come la lingua umida d’un cane
Adagiandosi morbida sull’erba
Verde fu la speranza come l’erba
Dell’amore perfetto come sfera
Ma troppo presto abbandonaste il gioco
Lasciandomi ansimante come un cane
Nel buio che discende con il vespro
Sui boschi che l’autunno copre d’oro
Ora non mi consolerebbe tutto l’oro
Che la terra nasconde sotto l’erba
Che il tramonto diffonde dopo il vespro
Dall’orizzonte immenso della sfera
Del primo cielo che ruota nel gioco
Dell’universo fedele come un cane
Si che vorrei latrare come un cane
Latra all’alone della luna d’oro
Ora che non ho più carte nel gioco
E incombe grigio nella nebbia il vespro
Vorrei - scacciato lungi dalla sfera
Del vostro amore - giacere sotto l’erba
Vola canzone prima che giunga il vespro
Dall’Arcana Signora della sfera
Che seppellisce i cuori sotto l’erba.
Peire de Lautel
mercoledì, maggio 02, 2012
Jeve II
Questa che segue è la seconda parte del vasto poema "Jeve ovvero la radura" di Dreiser Cazzaniga che narra la vita e le gesta di Bools Corracha e dei suoi compagni. ( La prima parte si trova due entrate fa in questo stesso blog. Il primo di maggio)
genseki
D'estate il folto fogliame trasformava
la strada serpeggiante
In un tunnel umido e scivoloso in modo
che
Passata la terza curva, districato lo
sguardo dal grande acero
Che un tempo ombreggiava l'edicola
presso la quale
Le massaie si recavano a lavare i panni
L'aprirsi subitaneo dello spazio ala
vista
Produceva una sensazione d'abbaglio e
di speranza.
La vastissima radura pianeggiante dava
la sicurezza
Che danno i luoghi di esatti confini,
di limiti tracciati
Da leggi oggettive: fiumi e
scoscendimenti e spumeggiava
Di luce nella bella stagione e di
nebbia pungente nell'Autunno
Sovente in inverno il biancore nevoso
la rendeva
Simile a una pagina su cui semi e
tracce delineavano
Una scrittura tremula e profonda.
Bools Corracha giunse alla radura
dall'Africa
Un'Africa prenatale fu la sua in cui fu
feto
E nacque a stento e con gran pena alla
vista,
Allo sguardo, al situarsi, a distendere
il suo corpo
Al godere del bolo e dell'eiaculazione,
Della seta di pelli tiepide al tremolio
costante
Delle tende nel dormiveglia come un
cielo
Nuvoloso, gli scrosci di pioggia e i
fanghi rossi
Come il dolore, l'inquieta assoluta
intemperata solitudine
Non bastavano a farne un uomo
Tra le colonne smarrite e dementi degli
eucalipti
Mimava la gioventù di un altro: il
Poeta delle volpi
Dei lupi con l'indigestione di piume e
di tutti quegli altri ortaggi.
La sua fino a quel momento non aveva
saputo raggiungerla
Fu un relitto che qualche mare
superfluo
Gettò sulle rive della radura dove
avrebbe poi regnato
Jules Lapache l'uomo della tana dei
libri sudici
Il vagabondo dei sentieri dei funghi,
il pataro smemorato.
Nessuno aveva libri più sudici di
quelli di Jules Lapache
Nessuno ne avrebbe mai più avuto altri
altrettanto sudici
E poi sudici non erano i suoi libri ma
anche le riviste,
I ritagli unti di vecchi quotidiani
macchiati di caffè muffoso
E su tutto si stendeva la frusciante
sporcizia aracnoidea
Che strisciava pruriginosa dalla pareti
scrostate.
All'aria aperta, invece, Jules Lapache
era un vero Lautaro
Quale Ercilla cantò nella selva
araucana,
Schietta razza di caciatore guerriero
uso alla fame
E stremato dal tanto camminare.
Dreiser Cazzaniga
martedì, maggio 01, 2012
Sestina di Peire de Lautel
Saggio
Maggio
Raggio
Coraggio
Faggio
Aura
Senhal: La Dama Silvestre
Questo verso fu fatto
sotto un faggio1
Tra le cui fronde mai non
filtrò un raggio
Da un uom ch’un tempo fu
creduto saggio
E mentovato pel su’
gentil coraggio2
Ed ora non distingue April
da Maggio
E con pala e badile
ammassa l’aura.3
Più non mi giova
dell’Aprile l’aura
Che pone gemme ai rami del
faggio
Che non distinguo più
Giugno da Maggio
E l’ombra fosca dal
gioioso raggio
Dacché col guardo
saettastemi ‘l coraggio
Per far della possanza
vostra un saggio.
Ahi che in amor tanto
credea esser saggio4
Qual buon nocchier drizzar
la vela all’aura
E affrontar la procella
con coraggio
Saldo nel temporale come
un faggio
Ora non mi rallegra sol di
Maggio
Quando ravviva il bosco
col suo raggio.
Ah se d’una candela al
picciol raggio5
V’avessi nuda tra le
braccia, un saggio
Ben vi darei d’amor che
al sol di maggio
Mai non godeste così
dolce l’aura6
Ch’allor sarei quale un
bordon di faggio
Per la vertù che sale dal
coraggio.
Donna, ché in pugno avete
‘l mio coraggio
Che si discioglie come
neve al raggio
Del sol ardente, e pur
fiorì qual faggio
Che con l’ampie sue
fronde allieta il saggio
E l’usignolo alberga e
freme a l’aura,
Fate ch’io colga la Rosa
di maggio!
Fate ch’io colga la rosa
di maggio!
Che io porto marchiata nel
coraggio
La rosa che di sé profuma
l’aura
Si ch’io gioisca ancor
del sole al raggio
E come un tempo ancor
ritorni saggio
Ed ampio e forte come un
vecchio faggio
Canzone nata d’affranto
coraggio7
Del pianto che mi tragge
col suo raggio.
Peire de Lautel
Trad. genseki
1
L’incipit di questa canzone ricorda quello celeberrimo di Guilhem
IX “farai un vers”.
2
Coraggio è un provenzalismo per core: “coratge”.
3
Si tratta di un evidente richiamo ai tre versi per i quali Arnaut
Daniel è universalmente noto:
“Ieu sui Araut qu’ama l’aura.
E chatz le lebre ab lo bou
E nadi contra suberna”.
Secondo la versione del codice parigino della
Biblioteca Nazionale 856.
4
Il testo riecheggia qui il verso di Bernart de Ventadorn “Ai las
tan cuidava saber d’amor”
5
Reminiscenza del verso di Arnaut Daniel “E quel remir contral lum
de la lampa”.
6
Il codice Mallarensis 161 riporta la variante: “Mai non godeste
così, dolce Laura”.
7
Coraggio è un provenzalismo per cuore “coratge”.
8
Si ignora quale Dama si celi sotto il “Senhal”. La qualità di
silvestre si riferisce alla crudeltà ferina con cui essa si nega al
poeta che per lei langue.
Jeve I
La valle si stringeva improvvisamente
Tra aceri e ontani. Sul corso del fiume
Ormai morto da tanto tempo
Lo scheletro di un idrometro
Ormai quasi un'astrazione di povero
cemento
E barre di ferro disfatte in polvere
rossa
Di ruggine fangosa. Da quanto ormai
Il fiume aveva perso la sua funzione?
Inutile giaceva ora come dimenticato
dalla sua lingua,
In nessun dialetto più da nessuno
nominato
Morto insomma morto come un fiume sa
morire
Conservando le apparenze di una povera
vita
Solo in poche pozze nascoste tra le
fronde
Lassù dove vi era stata forse una
miniera di torba
Poi un bordello e un mercante di
cavalli
E ormai solo un bosco confuso nella
povera
Demenza del silenzio
Si permetteva ancora di ripetere ad
anime più
Ingenue il sermone dell'unione e quello
dell'impermanenza.
Con tre curve strette scure e viscide
la strada si sforzava
Di oltrepassare la gola e si apriva
allora
Una vasta radura, proprio nel punto
In cui il povero fiume riceveva
l'apporto
Delle acque di un breve fresco
affluente
Che scrosciava dal selvoso versante
meridionale
Nel quale aveva scavato la sua propria
valle
In tante migliaia di anni popolata poi
da pastori
E da assassini della cui esistenza
testimoniavano
Ormai solo le umide edicole della
Vergine e di Santa Rita
Da nessuno ormai più venerate con la
misteriosa miseria
Dell'orazione che accomunava le
vecchine
E i guardacaccia, carbonari ed i
pastori
I cacciatori di selvaggina di passo e
gli sterratori -
Tutte le leggende si erano perse con la
lingua che le aveva espresse -
Il mondo dei fiumi fantasma era muto e
il gelo
Non era più la lieta chiamata di Dio
nella carne viva
Alla pace della fede.
I fiumi conversarono un tempo con gli
schioppi
E con le squille degli alti borghi, dei
santuari inerpicati
Sui colli protetti dai faggeti.
Dreiser Cazzaniga
mercoledì, marzo 21, 2012
La Parola nel deserto
Quando sentiamo oppressi in modo intollerabile dal mistero dell'esistenza umana e da quella che sembra l'impotenza totale di Dio per fare qualsiasi cosa, fosse anche solo preoccuparsi della sofferenza umana, ci troviamo nello stadio della "parola nel deserto" di Eliot e ascoltiamo tutta quanta la retorica degli ideologi che vanno spurgando, razionalizzando, proclamando il tempo del rinnovamento. Solo dopo di questo ci sarà forse dato di ascoltare la voce spaventosa e tanto attesa che annichila tutto quello che credevamo di sapere e restaura tutto quello che non avevamo mai perduto.
Frye.
martedì, febbraio 21, 2012
sabato, febbraio 18, 2012
Il cerchio protetto
Costruiva
l'albero per noi
L'estensione
di uno spazio interiore
Il
cerchio protetto
Il
pane, la luce gialla di una candela
Il
rifugio dello spossato
E
l'ascolto della luna lassù
Della
luna elettrica e dei suoi trilli blu
E
questo era perdurare nel cerchio
Abitare
sotto tetti vegetali,
Percepire
il profumo variabile della pioggia
La
scorreria delle perle sulle foglie
Cartografiche
del banano
E
la sagoma d'argento dei merli
Sullo
sfondo freschissimo
Della
notte
Dell'ultima
primavera
Questo
era perdurare
Da
questa parte del mare, tra i funghi,
Tra
il salnitro, purificando il sale in voli
Di
scintille nel focolare.
Tante
volte fu maledetta la mano che versò il latte
Sotto
il melo
Altrettante
maledizioni furono fragranti perle di gelo
Era
un manto d'amore
Non
il gelo della notte
Quello
che ci faceva rabbrividire di gratitudine.
genseki
venerdì, febbraio 17, 2012
Il disgelo
Parliamo
poco ormai
Con
occhi conserti
E
gigli convolvoli alle tempie
Parliamo
poco sai
Come
colombe
Ala
soglia del tempio
All'alloro
abbandonando
Tutti
i segreti del piacere
Della
mattina e questo fremito
Di
vivere, di essere qui svegli
Questo
brivido di rinuncia
Per
una morte più fresca
Per
il disgelo:
Finalmente
genseki
a cura di Dreiser Cazzaniga
Il Postero
Lo confesso
Speranza non ne ho più
I ciechi mormorano di una via di uscita
Io ci vedo.
Quando svaniscono gli errori
Un ultimo ospite ci siede in fronte:
Il nulla.
Betold Brecht
Trad genseki
Speranza non ne ho più
I ciechi mormorano di una via di uscita
Io ci vedo.
Quando svaniscono gli errori
Un ultimo ospite ci siede in fronte:
Il nulla.
Betold Brecht
Trad genseki
A mia madre
Wieviel Schmerz brauchte es, bis sie so leicht ward.
B. Brecht
(Quanto dolore ci volle per farla così leggera).
Trad genseki
giovedì, febbraio 16, 2012
La luna nella casa
Questa è la sola poesia mai scritta dalla mamma, credo nel Natale del 2009
La luna nella casa
La luna entrò in casa
E non lo seppe nessuno
Penetrò per la finestra,
Ma era accesa la lampada:
Restò in un angolo ignorata ...
Quando tutti andarono
A coricarsi, i fiori di un vaso
Videro la loro anima disegnata,
Con lieve chiarore di luna,
Sulla pace bianca della parete.
Antonietta
a cura di Dreiser Cazzaniga
La luna nella casa
La luna entrò in casa
E non lo seppe nessuno
Penetrò per la finestra,
Ma era accesa la lampada:
Restò in un angolo ignorata ...
Quando tutti andarono
A coricarsi, i fiori di un vaso
Videro la loro anima disegnata,
Con lieve chiarore di luna,
Sulla pace bianca della parete.
Antonietta
a cura di Dreiser Cazzaniga
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