lunedì, novembre 03, 2008

La comandante


Racconto di Stephan Hermlin


Il 17 giugno del 1953, subito dopo mezzogiorno due uomini entrarono nella cella di una certa Hedwig Weber, nella prigione di stato di Saalstedt. E, dopo che ella ebbe chiarito che scontava una pena di 15 anni per crimini contro l'umanità, le comunicarono con queste parole: "E' di gente come lei che abbiamo bisogno", che era di nuovo libera.
La sera precedente, la prostituta e infanticida Rallmann, che occupava la cella di sopra, la chiamò alla finestra con il segnale concordato. La Weber si era arrampicata fino alla finestra e aveva udito sussurrare che in città si scioperava. Volle domandare maggiori informazioni ma la Rallmann era già saltata via. La mattina, durante l'ora d'aria, le erano giunti per la prima volta echi di canti e di grida. Pigramente, controvoglia, aveva cercato di ricordare di che ricorrenza si potesse trattare, ma non le venne in mente nulla, e per forza! Quelli non facevano che inventare nuove feste. Mentre stava in piedi davanti ai due uomini le sembrò che l'ora d'aria, quel giorno, fosse stata più breve del solito. Un paio di ore dopo aveva di nuovo udito il suono di molte voci, molto più vicine del solito, più penetranti, determinate, senza tuttavia che le parole fossero chiare. La Weber aveva già scontato, un paio di anni prima quattro mesi di prigione per furto. Ora, secondo il calendario che stava sulla parete era cominciata la sua ventottesima settimana. Abbastanza per essere abituata ai rumori del carcere.
L'ala dell'istitituto di pena riservata alle donne si trovava abbastanza lontana dalla strada. Ciò che occasionalmente vi penetrava dall'esterno, non poteva riconoscerlo con chiarezza, in sé la cosa non aveva importanza, era solo la causa che faceva saltare, nel suo pensiero qualche immagine, così come si salta su di un treno in corsa: non c'era ragione di muoversi, quando si era dentro, erano le cose a saltarti addosso. Poi sognava, sogni selvaggi pieni di desideri, ma senza scopo, senza fede. Anche quella mattina non era cambiato niente, finché la Rallmann non l'aveva di nuovo chiamata alla finestra: vedeva del fumo. La Weber non poteva vedere quel fumo. Tirava un caldo e leggero vento da sud, il sole ricacciava indietro il fumo dalla fabbrica di pompe. Il fumo era in lei, era una nebbia che si espandeva, si espandeva in lei, udiva passi affrettati nei corridoi e colpi soffocati da sotto, tra il rumore della folla. Poi da lontano giunse un grido, che la Weber registrò freddamente, un grido inumano, quale solo un uomo può lanciare.
Fino a quel momento le celle erano rimaste in silenzio. Poi cominciò un vocìo, forte, affrettato, con risa squillanti; si faceva più vicino con i passi e l'aprirsi delle porte. Poi fu lo stridore dei catenacci, la Weber vide quei due uomini. Quello che si era informato dei motivi della sua pena era giovane, carino, robusto. Dell'altro, che era appena un po' più vecchio, notò appena lo sguardo che aveva incrociato il suo, fuggevolmente, mentre rispondeva. Di solito, lo sguardo vagava sempre intorno al taglio dei capelli, ma con gente con quello sguardo lì c'era poco da fidarsi.
I due stavano sulla soglia; portavano berretti baschi e occhiali da sole, dietro di loro si vedevano alcune prigioniere allontanarsi di corsa scendendo per il corridoio. Riconobbe la Inge Gruetzner del piano di sopra, che le strizzò allegramente l'occhio sopra le spalle dei due uomini per poi scomparire. Nella Weber iniziò la corsa folle dei vorrei crederci ma non posso.. La nebbia che in lei si espandeva e si gonfiava era una selvaggia, disordinata voglia di urlare, di impazzare, di rompere qualche cosa. Quegli uomini dicevano che a Berlino e dappertutto stavano succedendo cose grosse, il governo era rovesciato, si andava creando una amministrazione insurrezionale, gli amici erano già in movimento.
E i russi? -
I russi non vogliono fare la guerra per Ulbricht -, disse quello carino e osservava, fischiettando la parete, come se ci fosse uin essa qualche cosa da scoprire.
Se ne ritornano indietro, alla Vistola.
Potremo aver bisogno di gente come lei -, disse quello più anziano.
Lei deve entrare nella squadra di comando di Saalstedt, mi par già di vedere che cercheranno di strozzarci. Abbiamo bisogno di gente con esperienza e con convinzione -.
La Weber disse attraverso la sua nebbia: - Dite la verità, davvero sono libera? - I due scoppiarono a ridere.
La Weber udiva il rumore nei corridoi e sulla strada, ed era come se di colpo udisse una musica quasi dimenticata, richiami di fischi sul crepitio dei tamburi che dirigevano la marcia successiva, e questa musica era sommersa nel tonante Heil che rimbalzava di strada in strada e che la traeva in quel momento fuori dalla sua nebbia. Rivedeva chiaramente e con indifferenza i sette mesi in quella cella in cui avrebbe dovuto trascorrere quindici anni e i sette anni prima di quei sette mesi, gonfi di paura, di dissimulazioni, di disperazione, di inesprimibile odio verso tutti quelli che aveva ritenuto inferiori e che ora vedeva sopra di sé, per tutta quella gente nuova nell'amministrazione e nei giornali, per le loro bandiere, manifestazioni e striscioni. Tutto quel tempo era stato un incubo con minacce sconfinate, non delimitabili, dalle quali non si poteva fuggire perché qualche cosa nel profondo non credeva alla possibilità di una fuga, di un mutamento. Non aveva più frequentato le vecchie conoscenze. Udiva soltanto, presso un conoscente, i bollettini di ricerca del gruppo di lotta. Aveva udito uno o due nomi che conosceva da prima. Un giorno aveva udito il proprio: - Ricercata la funzionaria Hedwig Weber, vista per l'ultima volta nel marzo 1945 a Fuerstemberg - . Si era quasi tradita. Erano anche astuti, dicevano infatti Fuerstenberg che è vicino a Ravensbrueck.
Un paio di volte aveva anche cercato di lavorare in fabbrica, ne aveva subito avuto abbastanza, però, della gente e anche del lavoro. I documenti falsi, che portatvano il nome di Helga Shmidt, la legavano a un passato fatto di migliaia di piccole cose che ignorava del tutto. Aveva avuto storie con uomini, per passare il tempo. A Magdeburgo aveva conosciuto uno che le ricordava l'Obersharfuhrer Worringer, con cui aveva avuto una relazione a Ravensbrueck.
Quando, dopo il furto di un rotolo di filo di rame fu condannata a quattro mesi, fu tranquilla per la prima volta, nessuno poteva più farle domande, non doveva più temere di essere riconosciuta da qualcuno per strada. Dopo questo suo padre le aveva scritto una lettera da Hannover - là nessuno si preoccupava del passato di uno, al contrario, l'aver lavorato nell'apparato di sicurezza del Reich, era per la giustizia adirittura una referenza, lui non poteva lamentarsi, ma lei non doveva ancora raggiungerlo, aveva ancora difficoltà con una casa di nuova costruzione.
Ne aveva abbastanza di questa vita, con le camicie azzurre e tutto il meccanismo delle liste di sottoscrizione e la cultura e le facoltà e le case per le ferie e la polizia popolare sui suoi camion e tutto il traffico per uno straccio di biancheria che risultava proprio introvabile, e soprattutto non ne poteva più di andare per la strada e sedere nei caffè dove doveva stare sempre attenta a non dare nell'occhio, a motrarsi soprattutto di profilo, ne era così esacerbata che pensò seriamente, di partire, semplicemente, per Hannover, se non avesse temuto di essere cercata là ancor prima che qua dove nessuno più sospettava che si trovasse. Poi era accaduto quello che lei avave mille volte visto scorrere davanti agli occhi e che proprio per questo aveva finito per ritenere impossibile: un ex-prigioniero l'aveva riconosciuta a Saalstedt, per la strada, mentre usciva da un negozio, era stata arrestata e condannata a 15 anni di prigione.
In quel momento la Weber comprese che l'incubo non sarebbe durato eternamente e che quelli che stavano in alto sarebbero ritornati in alto. Era così che doveva andare a finire. Dovette sorridere quando si accorse che, involontariamente, la sua mano, forse da un po' di tempo, compiva un gesto abituale, che le dava fiducia: sferzava con un frustino invisibile il gambale di un invisibile stivale.
Può fare pieno affidamento su Fiorellino. Lui sa che cosa ci giochiamo -, disse quello carino, - era ieri a Zehlendorf. E' in grado di sentir crescere l'erba, per questo lo chiamiamo Fiorellino -. Sorrise lievemente.
Mi sembra che ognuno di noi possa fidarsi di tutti gli altri -, disse l'uomo chiamato Fiorellino con modestia.
Soprattutto deve mettersi addosso qualcosa d'altro, così da troppo nell'occhio. Possiamo cercarle qualche cosa in una boutique. Oggi è gratis -. Si scostò dalla porta per lasciare passare la Weber.
Sulla prima rampa di scale giaceva la sorvegliante Helmke con il volto massacrato. Respirava ancora.
Doveva essere una delle peggiori torturatrici -, disse quello carino passandole davanti.
La Weber non era mai stata torturata, nessuno lo era mai stato a Saalstedt. Questo la Weber non era mai riuscito a capirlo e proprio per questo disse: - Boh, e se… - ma subito notó che Fiorellino le aveva lanciato uno sguardo obliquo. Quel uomo poteva ridere senza contrare il volto. Lo sguardo diceva: noi due ci capiamo già… La Weber sentì come un senso di protezione. Il carcere era quasi vuoto, ora. Da qualche parte qualcuno aveva alzato al massimo una radio.
Verrebbe voglia di stare tutto il giorno accanto alla radio -, disse Fiorellino, - c'è un'edizione speciale dopo l'altra -.
La Weber si ricordava di come avevano festeggiatola presa di Parigi e poi quella di Smolensk e di Simferopol e di come tutti la chiamassero Nester… Non devo pensare a queste cose, pensò.
Sentiva l'urgenza di dire a qualcuno che cosa le era capitato. Non le venne in mente nessuno. Forse Worringer, ma era scomparso come un miraggio; qualcuno le aveva detto che si trovava in Argentina. Pensò a suo padre ad Hannover.
- Aspettate un attimo, devo scrivere una lettera -. Entrarono in un'osteria che aveva la porta aperta. C'era una macchina da scrivare accanto a una sedia rovesciata, senza spalliera.


trad genseki

Eminescu

Il lago

Il Lago celeste tra i boschi
Ricoprono gialle ninfee
S’increspa in anelli d’argento
E culla una piccola barca

Ne vo’ percorrendo le sponde
Con passi impazienti in attesa
Ch'ella apparsa dal canneto
Mi si getti tra le braccia

Poi montiamo sulla barca
E ci inebria il suon dell’acqua
Il timone lascio andare
E mi sfuggono via i remi

Nell’incanto navighiamo
Alla luce della luna
Il canneto trema al vento
Ondeggiando canta l’acqua

Ma non giunge, solitario
Io sospiro, soffro invano
Lungo il bel lago celeste
Ricoperto di ninfee.

Trad. genseki

Botanica

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Botanica

Orobanche carbone
Mozzicone di primavera
perfora la terra rossa
il tuo stelo bruciato
fossile di altre rugiade
di una carezza
delle dita di ragno della pioggia.

*

Artritici steli del cappero
graffiano la sabbia
Un fiore su un una pianta-scorpione
Come un diadema indecifrabile
sigilla la sete.

giovedì, ottobre 30, 2008

Al di lá della vita e della morte


Le righe che seguono sono la prima parte della sola traduzione italiana, credo, di Al di là della vita e della morte di César Vallejo.

ganseki
Brughiere di jara immobili, vento legato a ogni picciolo amputato della bacca pulita che in lui gravita. Lussuria morta sulle colline onfaloidi del monte d'estate. Aspetta. No, non deve essere cosí. Cantiamo un'altra volta.

Il mio cavallo avanzava proprio da quelle parti. Dopo undici anni di assenza mi avvicinavo finalmente a Santiago, il mio paese natale. Il povero irrazionale avanzava, e, io, dal piú profondo del mio essere fino alle mie dita esauste, passando forse per quelle stesse redini ben strette, per le orecchie da quadrupede attente, e ritornando indietro attraverso l'acciottolio degli zoccoli che sembravano danzare sul posto, in misteriose evoluzioni como misurando a tentoni la strada e l'incognito, piangevo mia madre morta due anni prima che non avrebbe dovuto attendere ora il ritorno del figliolo traviato e vagabondo. Tutta la regione, il bel tempo, il color di mietura della sera di limone, e anche qualche casa colonica che la mia anima cominciava a riconoscere, tutto contribuiva ad un'incipiente estasi filiale, e quasi potevano corrugarmisi le labbra per urgare il capezzolo eternamente sempre latteo di mia madre, si sempre latteo, anche oltre la morte.
Con lei, di certo, erao passato di li da bambino. Si, certo. Ma no. Non fu con me ch'ella viaggió per queste lande. Ero troppo piccolo allora. Fu con mio padre e quanti anni fa! Ufff... Era luglio anche allora, intorno alla festa di Santiago, papá e mamma andavano sulle loro cavalcature, lui stava davanti. Il sentiero reale. Poi di colpo mio padre che aveva appena evitato un urto contro un agave inopinato da una curva:

- Attenzione! ... Signora.

Ma la mamma non ebbe tempo e fu disarcionata e cadde sulle pietre del sentiero. La riportarono in paese in barella. Io piangevo molto per mia madre e non mi dicevano che cosa le era successo. Guarí. La veglia della festa era allegra e rideva. Aveva lasciato il letto e tutto era cosí bello. E io non piangevo piú per mia madre.
Ma adesso si, adesso piangevo anche di piú ricordandola cosí, malata, prostrata, che mi voleva ancora piú bene e mi coccolava di piú e mi dava biscotti tirandoli fuori da sotto il cuscino o dal comó. Si, piangevo ancora di piú, ora, avvicinandomi a Santiago, dove solo la avrei trovata morta, seppelita sotto le brassicacee mature e rumorose di un povero cimitero.
Mia madre era morta due anni fa. La prima notizia della sua morte la ricevetti a Lima, dove seppi anche che mio padre e i miei fratelli si erano messi in viaggio verso la fattoria lontana di proprietá di uno zio, per cercare di mitigare il loro dolore per una perdita cosí orribile. Il fondo si trovava in una remotissima regione montana all'altro lato del Fiume Marañon. Da Santiago mi sarei poi recato anch'io fin lassú divorando infiniti sentieri per elevati altopiani e selve ardenti e sconosciute.
Di colpó il mio animale soffió. Un brezza leggera portava la polvere della trebbiatura di una piantagione di orzo. Poi, in prospettiva, ecco Santiago, sulla sua ripida meseta con i suoi tetti ridipinti e il sole giá orizzontale. Si vedeva ancora, verso oriente, al limite di un promontorio giallo brasile il panteon intagliato a quell'ora dalla sesta tintura pomeridiana; ma io, ormai non ce la facevo piú soffocato da atroce inconsolabile angoscia.
Giunsi al paese di notte. Svoltai l'angolo, e, entrando nella strada in cui stava casa mia, mi imbattei in una persona seduta su un banco di pietra davanti alla porta. Sola. Molto sola, tanto sola che soffocando il mistico lutto della mia anima, mi fece paura. Forse anche per la pace quasi inerte con la quale, ingommata dalla mezza forza della penombra il suo profilo si appoggiava al paramento imbiancato del muro. Una scossa perticolare dei nervi mi asciugó le lacrime. Mi feci avanti e mio fratello maggiore saltó giú dal banco, Angelo, mi accolse tra le braccia. Era tornato da pochi giorni dalla fattoria per alcuni suoi affari.
Quella notte. Dopo una cena frugale facemmo veglia fino all'alba. Visitai le stanze, i corridoi e le stalle della casa; e Angelo, anche quando faceva forzi evidenti per controllare questo mio affanno di percorrere la vecchia casona, sembrava anche godere di un tale supplizio, proprio di chi vaga per gli allucinanti domini del piú puro passato della vita.
Durante i pochi giorni del suo passaggio per Santiago, Angelo abitava da solo in casa, dove, secondo lui, tutto era restato tal quale nel momento della morte della mamma. Mi riferí anche come furono i giorni di salute che precedettero la malattia mortale e come fu la sua agonia. Quante volte un abbraccio fraterno ci fece fremere le viscere e mosse nuove gocce di tenerezza congelata e di pianto.

Ah, la dispensa dove chiedevano il pane alla mamma piangendo ipocritamente -

e aprii una porticina di semplici pannelli sconquassati.

Come in tutte le costruzioni rustiche delle montagne peruviane in cui a ogni porta corrisponde un banco di pietra, sulla soglia di quella che avevo appena varcato ve ne era uno, lo stesso della mia infanzia immemoriale, certo riparato e imbiancato molte volte da allora. Aprimmo l'umile porticina e ci sedenmmo portando con noi la lanterna occhitriste. La sua luce diede in pieno sul volto di Angelo, che si estenuava di momento in momento, col trascorrere della notte, mentre andavamo riaprendo la ferita, fino a sembrarmi quasi trasparente. Quando me en resi conto, lo accarezzai e mi misi a coprire di baci le sua guance barbute e severe che di nuovo si bagnarono di lacrime.
Un lampo di quelli che vengono da lontano, in estate , sui monti vuotó le viscere della notte. Tornai a massaggiarmi alle palpebre su Angelo. Né lui, né la lanterna, né il banco di pietra, nulla c'era piú. Nulla potevo udire. Ero come rinchiuso in una tomba...
Poi tornai a vedere mio fratello, la lanterna, il banco. Ma mi sembró di notare che l'aspetto di Angelo era come rinfrancato, rappacificato e, forse mi sbagliavo, si sarebbe detto ristabilito dal suo dolore e debolezza anteriori. Ma forse si tratta di un'illusione del mio sguardo poiché un tale cambiamento sarebbe inconcepibile.
trad genseki

martedì, ottobre 28, 2008

Rimbaud




Canzone della Torre piú alta




Giovinezza oziosa
A tutto asservita,
Per delicatezza
Perdetti la mia vita.
Ben venga l'ora
Che il cuor s'innamora.
Lascia mi sono detto
Che nessuno ti veda:
E senza la promessa
D'una gioia piú eletta
Che nulla ti fletta,
Augusto disdegno.
Tanta fu la pazienza
Che piú non v'è oblio
paure e sofferenza
al cielo son volate
Mille seti oscene
oscurano le vene
Così la prateria
Arresa all'oblio
piú ampia e fiorita
Di incenso e di loglio
Nel ronzio accanito
di cento mosche luride.
Ah quante vedovanze
Per l'anima cattiva
Cui sol giova l'icona
Della Nostra Signora
Si può forse pregare

La Vergine Maria?
O giovinezza oziosa
A tutto asservita,
Per delicatezza
Perdetti la mia vita
Ben venga l'ora
Che il cuor s'innamora!
*


trad. genseki

Gaspard de la nuit




Louis Bertrand
Gasparo della notte



Fantasie notturne alla maniera d Rembrandt e di Caillot
Scuola Fiamminga





Quando di Amsterdam il gallo d'oro canterá
La chioccia d'oro di Harlem fará l'uovo.
Nostradamus




***




Haarlem questa ammirevole “bambochade” che riassume la scuola fiamminga, Harlem dipinta da Jean Breughel, Peeter Neef, David Téniers e Paul Rembrandt,




E il canale ove tremola l'acqua azzurra, e la chiesa la cui vetrata arde e la lobbia ove si asciuga al sole il bucato e i tetti verdi di luppolo;




E le cicogne che battono le ali attorni all'orologio della cittá, allungano il collo nell'aria e raccolgono nel becco le gocce di pioggia;




Il borgomastro tranquillo che si accarezza il doppio mento, e il fiorista innamorato che dimagrisce senza poter distogliere l'occhio da un tulipano;




E la zingara che si sfinisce al mandolino e il vecchio che suona la caccavella, il bambino che gonfia una vescica;




I bevitori che fumano nelle taverne losche, e la sguattera della locanda che appende alla finestra un fagiano morto.




trad. genseki

lunedì, ottobre 27, 2008

Giustificazione

Raissa Maritain

Da i grandi amici

Quand’anche non ci fosse che un solo cuore al mondo a soffrire certe sofferenze, un solo corpo a conoscere l’agonia della morte, tutto ciò esigerebbe una giustificazione. E quand’anche non vi fosse che la sofferenza di un solo bambino, se anche soltanto gli animali soffrissero sulla terra, questo, tutto questo, esigerebbe una soddisfazione.

a cura di genseki

Germain Nouveau (1851-1920)

Le Musulmane

Nascondete i capelli come un vello impudico,
Le vostre sopracciglia, questi baffi degli occhi;
Celate i vostri occhi, quei globi preoccupati
Specchi d'ombra ove resta un sadico riflesso.
E l'orlo dell'orecchio: un abisso, la smorfia
Delle labbra, la ferita scarlatta, l'incavo
Della guancia, la rosa della lingua gioiosa
Insieme le celate al naso senza eguali.
Vi custodisce il velo custode della casa
La casa vi rinserra: è la vostra prigione;
Vi comprendo: l'amore vuole un'immensa scena.
Fratello non è questa la donna che tu brami?
Avvolta nel pudore, completamente oscena
Dalle piante dei piedi, su, su fino ai capelli.

*

Il Bacio

"Tutto quanto fa l'amore" -
Tu mi dici. Ed io commento
Anche i passi con la strada
Col tamburo la bacchetta.
Lo fa il dito con l'anello
E la rima con il senso
Anche l'onda con il vento
Con lo sguardo l'orizzonte.
Lo fa il riso con la bocca
Con il vimine il coltello
Lo fa il corpo con il letto
Con l'incudine il martello.
Ogni filo con la tela
E la terra con il verme
Il battello con la stella
Con il sole lo fa il mare.
Come l'albero ed il fiore
Con la E lo fa l'accento
Con il marmo l'epitaffio
Col passato la memoria.

Gabriel de Tarde


Frammenti di storia futura II - La catastrofe -


Non erano piu’ milioni, erano miliardi quelli che guadagnava l’invetore dell’ultima innovazione industriale, perche’ nulla poteva piu’ arrestare, nella sua irradiante espansione la voga di un’idea qualunque nata in qualsiasi posto. Non a centinaia, ma a migliaia si contavano le edizioni di un libro che fosse piaciuto un poco al pubblico e le rappresentazioni di una piece moderadamente di successo. La rivalità degli autori era quindo salita a un diapason acutissimo. La loro verve, inoltre, aveva un ampio spazio di manovra, giacche’ tra i primi effeti del neo-ellenismo dilagante ci fu quello di sommergere tutte le pretese letterature deli avi, divenute inintellegibili, e di cancellare persino i titoli di quelli che erano chiamati capolavori classici, persino i nomi barbari di Shakespeare, di Goethe, di Hugo, di cui solo gli eruditi decifravano con grande fatica i versi pietrosi. Saccheggiare quella gente che quasi nessuno poteva piu’ leggere era far loro un piacere e un onore persino esagerato. Non si manco’di cogliere l’occasione; e fu prodigioso il successo di queste ardite compilazioni vendute come creazioni. La materia da sfruttare in quel modo era quasi inesauribile.
Per disgrazia dei giovanni autori, gli antichi poeti morti da secoli erano tornati alla luce, Omero, Sofocle, Euripide, erano risuscitati, cento volte piu’ fiorenti di salute che ai tempi di Pericle; e questa concorrenza inaspettata disturbava seriamente i nuovi arrivati. I geni originali avevano un bel rappresentare novita’ sensazionali come Athalias, Hemanias, Macbethes, il pubblico spesso le trascurava per correre alle rappresentazioni di Edipo Re o degli Uccelli. Nanais, affresco vigoroso di un romanziere innovatore falli’ míseramente di fronte al suceso frenetico di un’edizine popolare dell’Odissea. Alle orecchie sature di alessandrini classici, romantici o altro, nauseate dai giochi infantili della cesura e della rima, a volte giocando all’altalena aricchendosi e impoverendosi a vicenda, a volte a nascondino scomparendo per farsi ritrovare, il bel esametro libero e abbondante di Omero, la strofa di Saffo, il giambo di Sofocle, vennero a procurare delizie ineffabili che fecero il maggior torto alla musica di un certo Wagner. La musica in generale ricadde in un posto secundario nella gerarchia delle belle arti e ci fu, invece, in questo rinascimento filologico dello spirito umano, l’occasione di una fioritura letteraria insperata che permise alla poesia di riprendere il suo posto legittimo, cioe’ il primo. Essa non manca mai di rifoirire, quando la lingua cambia completamente si prova piacere a esprimere di nuovo le eterne banalita’.
Non era un semplice passatempo di persone delicate. Il popolo vi prendeva parte con passione. Certo, allora, aveva l’agio di leggere e gustare le opere d’arte. La trasmissione della forza a distanza per mezzo dell’elettricita’ e la sua mobilita’ sotto mille forme, per esempio in bombote d’aria compressa fácilmente trsportabili, aveva ridotto a nulla la mano d’opera. Le cascate, i venti, le maree erano diventati i servitori dell’uomo, come nelle epoche antiche, e in proporzioni infinitamente minori, lo era stato il vapore. Distribuita e utilizzata intelligentemente da macchine perfezionate semplici e ingeniose, questa inmensa energia gratuita della natura aveva reso da tempo superflui tutti i domestici e la maggior parte degli operai. I lavoratori volontari che ancora esistevano passavano tre ore scarse nelle fabbriche nazionali, grandiosi falansteri dove la potenza della produzione del lavoro umano, decuplicta, centuplicata, oltrepassava tutte le speranze dei loro fondatori.
Oviamente la questione sociale fu risolta; in mancanza di miseria, e’ vero, non ci si disputava piu’ la ricchezza o il benessere, di cui tutti godevano, e che quasi nessuno ormai apprezzava piu’, per la mancanza della bruttezza anche l’amore non era piu’ desiderato, visto che l’abbondanza di belle donne e begli uomini lo rendeva cosi agevole e comune, almeno in apparenza. Cacciato cosi’ dai suoi grande percorsi precedenti, il desiderio umano si precipito’ tutto intero verso il solo campo che gli restasse e che si ampiava ogni giorno in virtù della centralizzazione socialista, il potere politico da conquistare e, l’ambizione debordante, crebbe di colpo con tutte le brame confluenti in essa soltanto, con tutte le cupidigie e le invidie dell'età precedente, e si elevó, infine, ad altezze spaventose. Era una gara a chi si impadroniva di questo bene supremo, lo Stato; si trattava di porre l’onnipotenza e l’onniscienza dello Stato universale al servizio del proprio programma personale o del prorio sogno umanitario. Non fu, come era stato tanto previsto, una vasta repubblica democratica quella che sorse da questa situazione. Tanto orgoglio in ebollizione non poteva non sollevare un nuovo trono, il piu’ alto, il piu’ forte, il piu’ radioso che mai fosse stato. D’altra parte da quando la popolazione dello Stato unico si contava a miliardi il suffragio universale era diventato illusorio e impraticabile, per ovviare all’inconveniente molto grave di assemblee deliberanti si erano dovuti ampliare a tal punto i collegi elettorali che ogni deputato rapresentava almeno dieci milioni di elettori. Questo non e’ affatto sorprendente se si pensa che allora si ebbe l’idea semplicissima di estendere il diritto di voto alle donne e ai bambini, esercitato a nome loro, ovviamente, dal padre o dal marito legittimo o naturale. Tra parentesi questa riforma necessaria e salutare, conforme al buon senso e alla logica, reclamata contemporaneamente dal principio della sovranità nazionale e dal bisogno di stabilità sociale, quasi fallì, cosa che ha dell’incredibile, a causa della coalizioane degli scapoli.
La tradizione racconta che la proposta di legge relativa a questa estensione indispensabile del suffragio sarebbe stata sicuramente respinta se, per fortuna, l’elezione recente di un miliardario sospettato di cesarismo non avesse spaventato l’assemblea. Essa credette di nuocere alla popolarita’ di questo ambizioso affrettandosi ad accogliere questo progetto in cui non vide che una cosa e cioe’ che i padri e i mariti, allarmati dalle galanterie del nuovo Cesare, sarebbero stati piu’ forti per ostacolare la sua marcia trionfale. Ma questa attesa fu a quanto pare delusa. Qualunque sia il greado di veritá di questa leggenda, è certo che a causa dell’allargamento delle circoscrizioni elettorali, combinato con la soppressione del privilegio elettorale, l’elezione di un deputato era una vera e propria incoronazione e dava di solito all’eletto la vertigine della grandezza. Questa feudalita’ ricostituita doveva fatalmente condurre alla ricostruzione della Monarchia. Alcuni scienziati, cinsero per un istante questa corona universale, secondo la profezia di un antico filosofo ma non la conservarono. La scienza volgarizzata da scuole innumerevoli, era diventata un patrimonio tanto comune come una bella donna o un arredamento elegante; e, estremamente semplificata dalla sua stessa perfezioe, compiuta in grandi linee immutabili, in cornici rigide, ormai, e piene di fatti, progredendo solo impercettibilmente, occupava un piccolo posto soltanto, in fondo ai cervelli dove sostituiva il catechismo di una volta. La maggior parte della forza intellettuale andava quindi in tutt’altra direzione, cosi’ come la gloria e il prestigio. Già i corpi scientifici, resi venerabili dall’antichità loro, cominciavano, ahimè a tingersi di una leggera patina di ridicolo, che faceva sorridere e pensare ai sinodi dei bonzi o alle conferenze ecclesiastiche come erano rappresentate in vecchi disegni.
Non è dunque in nessun modo sorpendente che a questa prima dinastia di imperatori fisici e geometri, miscuglio bonario di Antonini, sia rapidamente succeduta una dinastia di artisti evasi dall’arte che maneggiavano lo scettro come un tempo l’archetto, lo scalpello o il pennello. Il piu’ glorioso di costoro, uomo dallimmaginazione esuberante dominata e servita da un’energia ineguagliabile, fu un architetto che, oltre altri progetti giganteschi, immagino’ di radere al suolo la sua capitale, Costantinopoli, per ricostruirla altrove, sul sito, deserto da piu’ di tremila anni, dell’antica Babilonia. Idea davvero luminosa. In questa pianura incomparabile della Caldea, bagnata da un altro Nilo, c’era un altro Egitto, ancora piu’ fertile e piu’ bello da resuscitare, da transfigurare, una distesa orizzontale infinita da coprire di arditi monumentisi, di popolazioni dense e febbrili, di messi dorate sotto un cielo sempre azzurro, di ferrovie irradianti dalla citta’ di Nabucodonosor alle estremità dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia, attraverso l’Himalaya, il Caucaso e il Sahara. Tutto questo fu fatto in qualche anno. La forza immagazzinata e trasmessa elettricamente di cento cascate abissine e di non so quanti cicloni bastò senza sforzo a trasportare dai monti d’Armenia la pietra, il legno e il ferro necessari a tante costruzioni. Un giorno, un treno di piacere composto da mille e un vagoni, essendo passato troppo vicino a un cavo trasmettitore nel momento della sua maggior carica, fu folgorato e polverizzato in un batter d’occhio. Ma anche Babilonia la fastosa citta’ di fango, dallo splendore miserabile di mattoni crudi e dipinti, si trovo’ ricostruita in marmo e granito, per la maggior umiliazione dei Nabopolassar e dei Baldassarre, dei Ciro e degli Alessandri. Inutile aggiungere che gli archeologi fecero, in questa occasione, scoperte inestimabili, in molti strati sovrapposti di antichità babilonesi e assire. La mania assiriologica andò tanto in là che tutti gli ateliers di scultura, i palazzi e persino gli armadi dei sovrani si riempirono di tori alati dalla testa umana, come un tempo i musei erano pieni di cherubini avvolti nelle proprie ali, e si giunse a far stampare alcuni manuali della scuola elementare in cueniforme per dare autorità a questi testi sulle giovani immaginazioni.
Questa orgia imperiale di edilizia avendo causato disgraziatamente la settima, ottava e nona bancarotta dello Stato, e innumerevoli inondazioni consecutive di carta moneta, ci si rallegrò, in generale, di vedere, dopo questo regno brillante, la corona portata da un finanziere filosofo. Una volta ristabilito l’ordine nelle finanze egli si impegno’ ad applicare su vasta scala il suo ideale di governo che era di una natura molto singolare. Non si tardò a notare, in effetti, dopo la sua entrata in carica, che tutte le dame d’onore appena scelte, intelligentissime ma prive di spirito, brillavano per la loro evidente bruttezza; che le livree di corte erano di un colore grigio e opaco; che i balli di corte, riprodotti dalla cinematografia istantanea in milioni di esemplari, fornivano la collezione dei volti più onesti e più insipidi e delle forme meno attraenti che si potessero vedere; che i candidati appena nominati, dopo invio di ritratti, alle piu’ alte cariche dell’Impero, si distinguevano essenzialmente per la volgarità dei loro tratti; infine che le corse e le feste publiche (il cui giorno era stato stabilto in anticipo sulla base dei dispacci segreti segnalanti l’arrivo di un ciclone americano) si svolgevano nove volte su dieci sotto una pioggia battente o in una nebbia spessissima che le trasormava in un’immensa esposizione di ombrelli e impermeabili. Nel caso dei progetti, come in quello delle persone, la scelta del principe era sempre la stessa, il piu’ utile o il migliore tra i più brutti. Una monocromia insopportabile, una soffocante monotonia, una insipidita’ nauseabonda, era il tratto distintivo di tutte le opere del governo. Se ne rideva, ci si ribellava, ci si indignava, ci si abituava. Il risultato fu che dopo un certo tempo, non si poteva più trovare un artista o un letterato declassato che non abbandonasse la ricerca delle cariche per rimettersi a rimare, scolpire e dipingere ; e in seguito si diffuse e consolidò questo aforisma, che la superiorità degli uomini di Stato non è che la mediocrità elevata alla massima potenza.
Grande vantaggi si dovettero a questa mente eminente. L’alto pensiero del suo regno ci è stato rivelato dalla pubblicazione postuma delle sue memorie. Di questo scritto che tanto ci manca, non ci resta che qualche frammento che basta a farsi rimpiangere tutto il resto:
“Chi è il ver fondatore della sociología? Auguste Comte? No, Menenio Agrippa. Questo grand’uomo ha compreso che il governo era lo stomaco, non la testa del corpo sociale. Ora, il merito di uno stomaco, è di essere buono e brutto, utile e repugnante da vedere, perchè se questo organo indispensabile fosse piacevole da vedersi, ci sarebbe da temere che si finisse per porvi mano e la natura ha preso tutte le sue precauzioni per nasconderlo e per defenderlo. Quale uomo sensato si picca di avere un bel apparato digestivo, un fegato grazioso, dei polmoni eleganti? Questa pretesa non sarebbe, tuttavia, più ridicola della mania della grandezza e della beltà in politica. Bisogna che la politica sia solida e piatta. I miei poveri predecessori...”, una lacuna. Un po’ piu’ avanti, si legge: “Il miglior governo e’ quello che si dedica a essere cosi’ perfettamente borghese, corretto, neutro e castrato, che nessuno si potrebbe più appassionare pro o contro”. Tale era quest’ultimo successore di Semiramide. Sul sito ritrovato dei giardini pensili, aveva fatto erigere a spese dello stato, una statua di Ligi-Flippo in alluminio battuto, nel mezzo di un giardino pubblico di alloro e cavolfiore.
L’universo respirava, sbadigliava un po’, forse, ma si apriva per la prima volta alla pienezza della pace, all’abbondanza quasi gratuita di tutti i beni, e e questo nella piu’ abbondante fioritura o piuttosto esposizione di poesia e di arte, ma soprattutto di lusso che si fosse mai vista sulla terra. Fu allora che un allarme straordinario e di nuovo genere, provvocato a giusto titolo da osservazioni astronomiche fatte sulla torre di Babele, ricostruita come Torre Eiffel, molto piu’ grande, comincio’ a difforndersi tra le popolazioni spaventate.

II La catastrofe

A più riprese gia’ il sole aveva dato segni manifesti di indebolimento. Di anno in anno, le sue macchie moltiplicate si ingrandivano, il suo calore diminuiva sensibilmente. Ci si perdeva in congetture: mancava il combustibile?. Stava attraversando, nel suo esodo attraverso lo spazio, una regione estremamente fredda ? Chissà. Comunque l’opinione pubblica non si preocupava molto della cosa come di tutto quello che è graduale e non imprevisto. L’anemia solare, che ridava qualche interesse all’astronomia trascurata, era diventata solo il tema di articlo piccanti nelle riviste. In generale, gli scienziati, nei loro laboratori ben scaldati, mostravano di non credere all’abbassamento della temperatura, e, malgrado le indicazioni formali dei termometri, ripetevano senza sosta che il dogma dell’evoluzione lenta e della conservazione dell’energia, combinati con l’ipotesi classica della nebulosa, impediva di ammettere un raffreddamento della massa del sole, abbastanza rapido da farsi sentire nel corso di appena un secolo, e quinde a maggior ragione di un lustro o di un anno. Alcuni dissidenti di temperamento eretico e pesimista facevano notare, e’ vero, che in diverse epoche, a credere agli astronomi del passato, certe stelle si erano gradualmente spente nel cielo, o erano passate dal più intenso splendore all’oscurità quasi assoluta, nel corso di un anno scarso. Concludevano che il caso del sole non aveva nulla di eccezionale, che la teoria dell’evoluzione tardigrada non era, forse, universalmente applicabile, e che, come lo aveva profetizzato, in tempi favolosi, un antico visionario mistico chiamato Cuvier, accadevano vere rivoluzioni nel cielo come sulla terra. Ma la scienza ortodossa lottava indignata contro simili arditezze.
Tuttavia l’inverno del 2489 fu cosi’ disastroso che si dovettero ben prendere sul serio le minacce degli allarmisti. Si giunse a temere ad ogni istante “l’apoplessia solare”. Era il titolo di una brochure sensazionalista che ebbe ventimila edizioni. Si aspettavaa ansiosamente il ritorno della primavera.
Tornò, infine la primavera e il re degli astri riapparve, ma quanto degradato e irriconoscibile! Era rosso. I prati non erano piu’ verdi, il cielo non era piu’ azzurro, i cinesi non erano piu’ gialli, tutto aveva cambiato colore di colpo come in un incantesimo. Poi, poco a poco, da rosso che era si fece arancio, sembrava, allora, una mela d’oro nel cielo, e, per qualche anno lo si vide passare con tutta la natura attraverso mille sfumature magnifiche oppure terribili, da arancione a giallo, da giallo a verde e, infine, dal verde all’indaco chiaro e all’azzurro pallidi. I metereologi si ricordarono, allora che, nel 1883, il 2 settembre, il sole era apparso un giorno intero, azzurro come la luna. Tanti colori, altrettanti paesaggi nuovi dell’universo proteiforme, che meravigliavano lo sguardo spaventato, che ravvivavano, riconducevano alla sua acutezza primitiva l’impressione rinnovata delle bellezze naturali e commuovevano in modo strano il profundo dell’anima rinnovando il volto delle cose.
trad genseki

giovedì, ottobre 23, 2008

Malvina

Malvina aveva occhi cattivi
Quando passeggiava nel viale dei gelsi
Quando sedeva su sedie di raffia
Quando provava i suoi vestiti di fustagno
Malvina aveva occhi cattivi
Quando fregava i piedi sui mattoni del suolo
Facendo convergere gli alluci
Mentre i talloni facevano da perno
Le mani si scaldavano nel suo grembo nero
Malvina apparteneva a Jacob
Io potevo vederla di rado
Attraverso le grate della finestra
O del cancello
Passeggiare tra le foglie morte
O indossare i suoi mantelli neri
Jacob possedeva il suo corpo bianco
Goffo come la carena di un relitto
Come il fossile di un gigantesco airone del giurassico
Così gettata bianca sulla schiena le braccia
ad abbracciare la luna
Come un gabbiano morto
Malvina non mi apparteneva
Non era mio il suo odore di muffa
Le sue parole stantie
Non corrispondevano alle mie esclamazioni
Jacob possedeva Malvina
Con i suoi occhi cattivi
Jacob la possedeva con avarizia meschina
Come si possiede una pelliccia di topi albini
E io li guardavo giocare
Il loro gioco cattivo
Dal fondo del parco reale
Dietro le grate del cancello
O dalla finestra della cucina
Scaricando la farina di castagne
O quanto avrei voluto sgranare
Il mio povero rosario
Sulle pupille dei suoi occhi crudeli!

genseki

Georgette de Vallejo



Settanta anni fa il 15 di aprile 1938 a Parigi moriva César Vallejo, sulla sua tomba nel cimitero di Montparnasse Georgette sua moglie fece incidere questi versi:

Mia vita
Mia disgrazia

Culla ogni donna
Eternamente un bimbo

Ho tanto nevicato
Perché ti addormentassi

Ho pianto tante lacrime
Per scioglierti la bara.

*
trad. genseki

Huerta

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Khidr Elia


Mosè disse al suo servo:
“Non mi fermerò finché non giunga alla confluenza dei due mari, dovessi camminare anche una vita”.
E quando giunsero alla confluenza, dimenticarono il loro pesce, che prese la via del mare misteriosamente. Or quando furono passati altre, Mosè disse al servo:
“Portaci la cena, siamo stanchi del viaggio”.
Gli rispose:
“Non hai visto? Quando riparammo alla roccia dimenticai il pesce; soltanto Satana me lo fece scordare, impedendomi di dirtelo. E il pesce prese la sua strada nel mare, meravigliosamente”.
“Questo” rispose Mosè “è quanto desideravamo”, e tornarono sui propri passi. Trovarono quindi uno dei Nostri servi, cui avevamo accordato misericordia presso di Noi, insegnandoli della Nostra Scienza.
Mosè gli disse:
- “Posso seguirti, perché tu mi insegni, per mia guida, parte della tua scienza?”.
Rispose:
- “Se Dio vuole mi troverai paziente, non ti disobbedirò per nulla”.
“Dunque, se mi segui, non interrogarmi su nessuna cosa, finché io non te la spieghi”.
Andarono, e quando salirono nella barca, colui la bucò. Disse Mosè:
“L’hai bucata per fare annegare i naviganti? Hai commesso un’azione grave!”.
Rispose:
“Non ti avevo detto che con me non saresti riuscito a pazientare?”
“Non rimproverarmi la dimenticanza e non impormi prove troppo dure !”.
Andarono finché incontrarono un giovane e colui lo uccise. Esclamò Mosé:
- “Hai ucciso un’anima innocente senza la scusa di vendicare un altro omicidio, commettendo un’azione perfida!”.
Rispose:
“Non ti avevo detto che con me non saresti riuscito a pazientare?”.
“Se dopo questa volta ti faccio altre domande, lascia la mia compagnia, te ne avrò dato motivo”.
Andarono, e giunti ad un villaggio, domandarono da mangiare alla gente, che rifiutò di ospitarli. C’era nel villaggio un muro che stava per crollare, colui lo raddrizzò. Disse Mosè:
“Se volevi potevi riceverne un premio”.
Colui rispose:
“E’ venuto il momento di separarci: ti darò la spiegazione delle cose che non hai potuto sostenere con pazienza. Quanto alla barca apparteneva a povera gente che lavorava per mare, ed io la volli guastare perché dietro di loro c’era un Re che si impadroniva di tutte le navi con la forza. Quanto al giovane, i suoi genitori erano credenti, ed io temevo che ricadesse su di loro la sua malvagità, la sua miscredenza, mentre desideravo che il Signore desse loro un figlio migliore, puro e devoto ai suoi genitori. Quanto al muro, apparteneva a due ragazzi orfani della città, e sotto c’era un tesoro che spettava, ed il tuo Signore, usando loro misericordia, desidera che raggiungano l’età maggiore prima di scoprire il loro tesoro. Quel che feci non l’ho fatto di mia iniziativa, e questa è la spiegazione della condotta che non hai saputo sopportare con pazienza”.
Corano, XVIII, 60-82

***

Khidr è la “guida invisibile” dei Sufi e si ritiene che sia lui l’anonima guida di Mosè nel Corano. Questi, detto “Il verde”, viene spesso citato come “L’Ebreo” ed è stato assimilato nella leggenda con persone come S. Giorgio ed Elia.

***

Una volta mentre mi trovavo sulle rive del fiume Oxus vidi un uomo cadere in acqua. Un altro uomo, che vestiva i panni del derviscio, corse in suo aiuto ma finì per farsi trascinare anch’egli in acqua. D’un tratto vidi una terza persona, vestita d’un abito verde luminoso e smagliante che si gettava nel fiume. Ma nell’attimo in cui tocco la superficie dell’acqua la sua forma parve mutare; non era più un uomo ma un tronco. Gli altri due faticosamente riuscirono ad aggrapparvisi e insieme faticosamente lo spinsero verso la riva.
Stentando a credere ai miei occhi, continuai ad osservarli a distanza, nascondendomi fra i cespugli che ivi crescevano. Gli uomini si issarono affannati sulla riva; il tronco si allontanò galleggiando. Lo tenni d’occhio fino a quando, non più visibile ai due uomini, si spostò lateralmente e l’uomo vestito di verde, infangato e fradicio si trascinò a riva. L’acqua cominciò a fluire rapidamente dal suo corpo; prima che lo raggiungessi era quasi asciutto.
Mi gettai a terra ai suoi piedi esclamando: “tu devi essere la presenza Khidr, il Verde, Maestro dei Santi. Benedicimi perché vorrei raggiungere la meta”.
Avevo paura di toccare la sua veste perché sembrava di fiamma verde.
Egli rispose: “Hai visto troppo. Sappi che vengo da un altro mondo e senza che lo sappiano sto proteggendo quelli che hanno un servizio da portare a termine. Puoi anche essere stato discepolo di Sayed Imdadullah ma non sei ancora abbastanza maturo per sapere quanto stiamo facendo per amore di Dio”.
Quando alzai gli occhi era scomparso e udii soltanto un fruscio risuonare nell’aria. Quando fui di ritorno da Khotan rividi quell’uomo. Giaceva su un materasso di paglia in una casa di riposo vicino a Peshawar. Mi dissi: “Se la volta passata fui immaturo, questa volta non lo sarò”. Afferrai la sua veste, una veste molto ordinaria, sebbene sotto di essa mi parve di scorgere un bagliore verde. “Tu sarai anche Khidr”, gli dissi, “ma io devo sapere com’è che un uomo come te può compiere tali meraviglie… e perché. Spiegami la tua arte affinché possa praticarla anch’io”.
Rise. “Sei un impetuoso, amico mio, e sei ancora troppo testardo. Va, di’ a tutti quelli che incontri che hai visto Khidr Elia; ti metteranno nella casa dei pazzi e più protesterai di aver ragione e più pesanti saranno le catene con cui ti avvinceranno”. Indi tirò fuori una pietruzza. Io guardai fissamente… e mi ritrovai paralizzato, tramutato in pietra, fin dopo che egli ebbe raccolto le sue bisacce e non se ne fu andato.
Quando racconto questa storia, la gente ride, oppure credendo che io giri raccontando favole mi fa regali.

Idries Shah
La strada del Sufi

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E’ dottrina esclusivamente musulmana che santi e devoti abbiano un capo soprannaturale e immortale, il quale talvolta si manifesta visibilmente. Il suo nome è Khidr; è credenza generale che a lui alluda il Corano (XVIII, 60-82) narrando di un misterioso e anonimo saggio, ammonitore di Mosè e sua guida alla ricerca dell’Acqua di Vita. Khidr, nelle leggende sufiche, percorre continuamente il mondo per assistere i buoni nelle loro difficoltà e pericoli, visita i santi, “detta ai cuori le formule delle orazioni”; a lui si rivolgono preghiere per l’intera comunità musulmana.
Nel Corano Khidr comparisce più sapiente del profeta Mosè, e questo ha dato origine alla pericolosa opinione di certi ambienti sufici, che i santi siano superiori ai profeti e quindi (estrema conseguenza) emancipati dalla Legge rivelata al profeta Maometto.
Virginia Vacca

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Omar ibn ‘Abd al-Aziz
Morì nel 101\720 dopo due anni e quattordici giorni di Califfato a trentadue anni.
Aveva una stanza sotterranea dove scendeva ogni notte; si metteva una catena al collo, piangeva e si umiliava fino al mattino. Piangeva sangue, aveva colloqui con Khidr.

***

al-Imam Ahmed ibn Hanbal
Morì nel 241\855 a 77 anni.
Khidr mandò a Ahmed un poverello con questo messaggio:
O Ahmed, gli abitanti del Paradiso e gli angeli che stanno intorno al trono si allietano di te, che hai sostenuto la causa di Dio.
Bishr ibn al-Harith al-Hafi (lo scalzo), nativo di Merv, morì a Baghdad il 10 del mese di Moharram del 227\841.
Riceveva ogni tanto la visita di Khidr, in questo modo: “Entrai in casa e vi trovai un uomo alto intento alla preghiera; mi spaventai, perché la porta era chiusa e avevo io la chiave. Terminata la preghiera, colui mi disse: “Non aver paura, sono tuo fratello Khidr”.
“Insegnami qualche cosa, che Dio mi renda giovevole”.
“Pronuncia queste parole: - Chiedo perdono a Dio e gli chiedo di riconciliarsi con me per ogni peccato in cui cono ricaduto dopo il pentimento, per tutte le promesse che gli ho fatto e non ho mantenuto, e per tutti i benefici da Lui ricevuti in tutta la vita mia e di cui mi sono valso per ribellarmi a Lui. Che Dio mi protegga e mi difenda da tutte queste cose”.
***

Abu Turab Askar ibn al-Husein an-Nakshabi
Del Khurasan, morì nel 245\860, nel deserto e il suo cadavere fu sbranato dalle fiere.
Raccontava di aver incontrato nel deserto un uomo; gli domandò chi era, rispose: “Sono Khidr, il custode dei santi; quando i loro cuori si allontanano da Dio li rimetto a posto. O Abu Turab, l’errore sta nel primo passo e la salvezza nell’ultimo.

***

Abd al-Qadir al-Gili
Sono vissuto nei deserti e fra i ruderi dell’Iraq venticinque anni spoglio di tutto, errabondo, senza conoscere esseri viventi, sconosciuto a loro.
(…)
Appena giunsi nell’Iraq, Khidr divenne mio compagno senza che lo avessi riconosciuto. Mi pose la condizione che non lo avrei mai contrariato e mi disse: “Stabilisciti qui”. Io allora rimasi tre anni nel luogo dove mi aveva collocato; Khidr mi visitava una volta l’anno e diceva: “Resta qui fino al mio ritorno”.
*

Ali ibn Wahb as-Singiari
Fu maestro di Sufismo a Singiar e dintorni, educatore di Sheikh illustri; quando morì aveva quaranta discepoli, tutti estatici.
Racconta lo Sheikh as-Singiari: “A sette anni sapevo il Corano a memoria, poi mi dedicai alle scienze religiose, facendo vita devota in una Moschea sull’orlo del deserto. Una notte, mentre dormivo, vidi Abu Bakr che mi disse:
“O Alì, mi è stato comandato di metterti questo berretto”.
Lo tirò fuori dalla manica e me lo posò in testa. Dopo qualche giorno venne da me Khidr e disse:
“O Alì, esci di qui e va verso gli uomini, perché ne abbiano giovamento; sii costante nell’eseguire il mio incarico”.
In seguito rividi Abu Bakr che mi fece lo stesso discorso; mi svegliai e continuai con perseveranza le mie occupazioni.
Ahmed ibn Abi al-Husein ar-Rifa’i
Originario della tribù beduina dei Banu Rifa’ah.
Diceva: “I viaggi spezzano la religiosità dei Sufi e dissipano il loro raccoglimento, eppure non si contano quelli perpetuamente in cammino per tutto il mondo islamico, sulle orme di Khidr, loro patrono”.
*

Abu Sa’id al-Qaluri
Morto nel 557\1162 riceveva frequenti visite da Khidr.
E’ noto il suo detto:
“Il Sufi non deve possedere nulla e non deve essere posseduto da nessuna cosa”.
Abu Madyan Shu’aib ibn al-Husein al Maghrabi
Nato presso Siviglia, passato a Fez, discepolo di al-Gili, ritenuto il Polo della sua epoca.
Un certo Sheikh ‘Abd er-Razzaq raccontava:
“Incontrai Khidr nel 580 e lo interrogai su Abu Madyan, rispose: E’ il capo dei devoti sinceri; Dio gli ha dato la chiave dei segreti custoditi sotto il velo della santità; nessuno ai nostri giorni conosce meglio di lui i segreti degli Inviati di Dio”.
Abu ‘Abdallah al-Qurashi
Si cuoceva spesso zuppe di grano e diceva che era la sua pietanza preferita perché Khidr, nelle su frequenti visite notturne gli chiedeva di preparargliela.
Shekh Yusuf
Era uno dei buoni servi di Dio e raccontava frequenti suoi incontri con Khidr. La sua faccia spirava sincerità, sapeva recitare il Corano secondo le sette scuole.
*

Zakariya al-Ansari
Morì dopo il 930\1524
Una volta raccontò:
-“Un mio confratello, Alì an-Nabatiti, soleva incontrarsi con Khidr, e un giorno, parlandogli in confidenza, domandò: - Che ne pensi del tale Sheikh ? E del tal altro ? E che ne pensi dello Sheikh Zakariya ?
Rispose Khidr: “Dello Sheikh Zakariya non si può dir male, sennonché ha una preziosità”
Quando questo mi fu riferito, mi si strinse il cuore e non capii cosa intendesse; mandai a dire al mio fratello: - Quando rivedi Khidr domandagli, per favore, che cosa ha voluto dire parlando di preziosità -. Non lo rivide per nove mesi, poi si ritrovò con lui, lo interrogò, e Khidr rispose: - Quando manda un discepolo o un messaggero da qualche emiro gli dice: - Digli così e così da parte dello Sheikh Zakariya -, dandosi da sé il titolo di Sheikh -. Questa risposta mi rianimò come se fosse caduta dalle mie spalle una montagna; da allora in poi, quando mandavo un messo a qualche emiro o visir, gli dicevo: - Digli così e così da parte di Zakariya, servo dei poveri -.
Shams ed-Din ad-Diruti
Morto nel 921\1515, autore di opere giuridico-religiose, predicatore in al-Azhar, venerato da re, emiri e ogni classe di persone.
Prima di morire annunciò alla madre che stava per addormentarsi e sarebbe morto nel sonno; lei domandò: - Come lo sai ?-. Rispose: - Me lo ha comunicato Khidr -, e infatti così avvenne.
IL SUFI
Potrà essere come Khidr, il verde, che viaggia per la terra sotto diverse spoglie e con mezzi a voi ignoti. Se quella è la sua “stazione” potrete trovarlo un giorno a pascolare pecore e l’indomani a bere da una coppa d’oro insieme ad un re.
Se è il tuo maestro, farà si che tu tragga beneficio dai suoi lumi, che tu lo sappia o no sul momento.
Quando lo incontri, agirà su te, che tu lo sappia o no.
Quel che dice o fa potrà sembrarti incoerente o anche incomprensibile. Ma ha un suo significato. Egli non vive interamente nel tuo mondo.
La sua intuizione è quella di chi è ben guidato e lavora sempre in armonia con la Giusta Strada.
Potrà frustrarti. Ciò sarà voluto come necessario.
Potrà sembrare che restituisca male per bene, o bene per male.
Ma quel che sta realmente facendo è noto solo ai Pochi.
Può darsi che tu senta dire che alcuni lo combattono. Troverai che solo pochi lo fanno realmente.
E’ modesto e ti consentirà di scoprire quel che devi scoprire, lentamente.
Quando lo incontri la prima volta potrà sembrarti molto diverso da te. Non lo è. Potrà sembrarti molto simile a te. Non lo è.
Salik

***

mercoledì, ottobre 22, 2008

Altre saghe

Correvano le saghe per selve di conifere
Per selve di pini, di abeti, di larici rossi, di pino mugo
Correvano le saghe scapigliate e discinte
Come baccanti in un quadro di Botticelli
Verso le creste taglienti le creste di gelo del nord
In uno sfavillare di aghi di ghiaccio e di fiocchi
Che nella corsa sfrenata sollevavano
Davanti al parabrezza correvano
Che si apriva sull'aurora boreale
Su un cielo pesante come il bronzo
Correvano correvamo mentre mi parlavi
Di un pettirosso annidato tra le buganvillee
In una presa d'aria del parcheggio soterraneo di Carrefour
Mi parlavi con le scarpe rosse e il maglioncino rosa
Mi parlavi di sfiorire e di fiorire dei denti di lupo
Davanti al parabrezza sull'autostrada delle saghe
Correvamo tra pini lontani, larici di rame muschi modulati
Come gioielli di scizia come in una pubblicitá di audi
Correvamo tra le saghe e i parabrezza e mi parlavi
Come un pettirosso
E io pensavo a Giaffredo, a Tripoli, agli amori lontani
Che maggio è un mese simmetrico
E il passo delle saghe quadruplice.

Huerta

Posted by Picasa

Severino Boezio


Felix qui potuit boni
Fontem visere lucidum,
Felix qui potuit gravis
Terrae solvere vincula


*


Felice chi seppe del bene
Vedere la fonte splendente
E della terra pesante
sciogliere le catene.
Trad. genseki

martedì, ottobre 21, 2008

Severino Boezio

Il seguente testo di Boezio, tratto dal "De Persona" contiene la definizione del concetto di "persona" che sará discussa per tutto il Medioevo cristiano e su cui si basa ancor oggi l'impiego di questa nozione.
Il testo serve anche da delucidazione del Capitolo V della traduzione "L'eone dogmatico" di Lucian Blaga in cui si discute proprio, credo sulla base di queste linee.
genseki

Che cosa è persona?

A proposito della persona è molto difficile sapere quale sia la definizione adatta. Infatti se ad ogni natura corrisponde una persona, è un nodo che non si puó sciogliere facilmente quello di quale sia la differenza tra persona e natura, se peró non si considerano equivalenti natura e persona ma se la persona si considera subordinata alla natura, è difficile dire fino a quali nature pervenga la persona, cioè quali nature convenga che siano dotate di persona, e quali, invece, occorre allontanare dalla parola persona; infatti una cosa è chiara, la persona è subordinata alla natura, e non si puó predicare la persona che della natura. Si deve dunque investigare questo: siccome non vi puó essere persona senza natura e siccome quello che si chiama natura sono le differenti sostanze e accidenti e vediamo che non si puó costituire una persona sulla base degli accidenti giacché a nessuno verrebbe mai in mente di dire che la nerezza o la bianchezza o la grandezza siano persone, si deve ammettere che solo le sostanze possono essere dette persone. Le sostanze, tuttavia, possono essere corporee o incorporee; delle corporee alcune sono viventi, altre no. Delle viventi, alcune sono sensibili altre no, delle sensibili alcune sono razionali, altre irrazionali; delle razionali alcune sono immutabili e impassibili per natura come Dio, altre sono mutabili e passive, se non impassibili per una mutazione dovuta alla grazia, come gli angeli e le anime razionali. Di tutte queste sostanze è chiaro che si puó dire persona solo la sostanza vivente, e a nessuno verrebe in mente di dire che le pietre sono persone; neppure si possono dire persone quei viventi che mancano di senso, infatti gli alberi non sono persone; non si possono nemmeno dire persone quegli esseri viventi cui manca la ragione, infatti, non sono persone cavalli o bovi o tutti quegli animali che conducono una vita solo in base all'istinto e senza la ragione.
Diciamo che sono persone gli uomini, Dio e gli angeli. Alcune sostanze poi sono universali mentre altre sono particolari. Sono universali quelle che sono predicabili dei singoli come uomo, animale, pietra, legno e cosí via. Sono particolari quelle che non si predicano di altro che di se stesse come Cicerone, Platne, questa pietra di cui è fatta la statua di Achille, questo legno di cui è composto questo tavolo. Le sostanze universali non possono mai essere dette persone ma soltanto le singole e le individuali. Non sono persone l'animale oppure l'uomo in generale, ma Cicerene o Platone o gli altri singoli individui.
Differenza di natura e persona
Se la persona è solo sostanza e sostanza razionale, non universale ma individuale ecco data la sua definizione: Persona è sostanza individuale di natura razionale.

Da: Liber De Persona Et Duabus Naturis Contra Eutyche Et Nestorium
Cap. II – III

trad. genseki

Silvio Rodriguez - Te Perdono

Ti perdono quei mucchi di parole
Che mi hai sibilato nelle orecchie
Da quando ti conosco

Ti perdono le foto dei gatti
Pranzare fuori
Le birre e le sigarette
e poi...

Ti perdono che cammini così
Nelle scarpe di nube
I tuoi denti e i capelli
Ti perdono le cento ragioni
I tuoi mille problemi
Ti perdono
Di non amarmi

Ma quello che non ti perdono
È di avermi baciato
Con tanta passione
E en ho i testimoni
Un cane, l'alba,
Il freddo.
No! questo non te lo perdono
Perchè se te lo perdono
Di certo lo dimentico.

Noel Nicola
trad genseki

Altura y pelos

Questa è la traduzione del testo di Vallejo:

Chi non porta un vestito blu?
Chi non fa colazione e prende il tram?
Con una sigaretta contrattata e il dolore da tasca?
Io che soltanto son nato!
Io che soltanto son nato!

Chi non scrive una lettera?
Chi non parla di un affare importantissimo?
Morendo di abitudine e gemendo d'udito?
Io che soltanto son nato!
Io che soltanto son nato!

Chi non si chiama Carlo o qualcosa del genere?
Chi al gatto non dice gatto gatto?
Ahimè che son nato soltanto!
Ahimè che son nato soltanto!

César Vallejo
trad genseki

lunedì, ottobre 20, 2008

Huerta

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Mañanas

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L'eone dogmatico V


La struttura e la giustificazione del dogma

Antinomie trasfigurate

La formula cristiana della Trinitá non è dogmatica solo per uno dei suoi lati o dei suoi elementi. Essa contiene una serie intera di elementi dogmatici, di modo che partendo da essa si possono studiare le articolazioni strutturali del dogma meglio che con qualsiasi altra. L'enunciato – Dio è un”essere” in tre “persone” (una “sostanza” in tre ipostasi) tanto strano per le possibilitá umane di comprensione non lo commentaremo qui dal punto di vista del contenuto. Non ci interessa sondare il mistero in se stesso. Il dogma ci interessa solo come uun tipo di ideazione, come apparenza e vincolo interno, come struttura. L'intelletto guardó sempre con difficoltá a questo dogma per via del disaccordo degli attributi numerici (“uno” e “tre”) attribuiti alla divinitá. I motivi per i quali l'intelletto si rifiuta di accettarlo sono, tuttavia, ancora piú complessi. Il fatto che Dio si presenta in diversi testi biblici e in diverse argomentazioni esegetiche e filosofiche come contemporaneamente “unitario” e “molteplice” si sarebbe potuto spiegare in modo logico. Dio lo si puó concepire come “uno” in quanto all'essere e “molteplice” in quanto ai modi delle sue manifestazioni. Che cosa c'è di illogico in questa affermazione? Niente. Tuttavia il pensiero cristiano si decise per una soluzione dogmatica.
Il dogma della trinitá provvoca perplessitá irrisolvibili. Penetrare al suo interno è come vedersi di colpo tra specchi deformati. Suscita stupore specialmente la tensione volontaria ma irrealizabile per la nostra intelligenza, tra i termini di “essere” e di “persona”. Per la conoscenza logica e per quella intuitiva il concetto di “persona” è subordinato gerarchicamente e astrattamente a quello di “essere”
Il concetto di “essere” è piú amplio di quello di "persona”. La nozione di “persona”, più concreta, contiene anche in sé quella di “essere”: Tra le due nozioni c`è quindi una relazione chiara da piú concreto (“persona”) a piú astratto (“essere”), una relazione logicamente coesa che si estende anche nel campo delle esistenze numeriche. Insomma quando si afferma a proposito di qualche cosa di concreto che è formata da “tre persone”, si afferma anche che è costituita da “tre esseri”. Quando si affrema che una esistenza è un essere, al massimo si puó dire che è anche una “persona” ma non che è “tre persone”. Le nozioni di “persona e di “essere” sono almeno nell'uso numerico, reciprocamente solidali. Il dogna rompe questa solidarietá a livello dell'uso numerico a proposito della divinitá, sebbene come nozioni astratte le conservi inalterate.
Scopriamo così, nel dogma della trinitá un curioso muro di isolamento, che si interpone tra il concetto di “essere” e quello di “persona”, peró solo per quanto riguarda il loro uso in un caso particolare. La formula si puó semplificare nel modo seguente: quando usiamo i termini di “persona” e di “essere” su di un piano trascendente possiamo prescindere dalle relazioni logiche ad essi inerenti. Si postula, poi, come impensabile per dalle nostre menti, in quanto appunto le trascende, un'esistenza che potrebbe essere “una” in quanto all'”essere” e “tre” in quanto alle persone. E questo fa si che il dogma della trinitá appaia come un corpo alieno alla funzione assimilatrice dell'intelletto, e che, in altre parole, diventi incomprensibile anche per la ragione che deforma una relazione logica chiaramente determinata tra concetti dati (“essere” e “persona”). La relazione astratto-concreto tra le due nozioni è esclusa, a certe condizioni, e annullata. Questo annullamento non è concepibile dall'intelletto e nemmeno rappresentabile dall'intuizione (nemmeno sul piano dell'immaginazione), per essere contraria alle sue funzioni. Tuttavia lo spirito pretende la deformazione oltre l'intelletto e l'intuizione come un atto al quale ha pieno diritto. Il dogma, separa, quindi, le nozioni di “essere” e di “persona” senza tener conto delle loro differenze logiche e naturali per mente, ma ne conserva intatti i concetti.
Un altro esempio di separazione di due nozioni solidali è il dogma delle “due nature” unite e non mescolate nella “persona" di Gesú Cristo. Per coloro che costruirono questo dogma, la parola persona significava certamente la manifestazione concreta di una natura (essenza). La nozione di persona si subordina, in una realzione che vada dal concreto all'astratto, alla nozione di “natura”. La tesi cristologica, quindi, dal punto di vista logico avrebbe potuto essere enunciata nel modo seguente:
Se in Gesú Cristo ci sono due nature (umana e divina), allora ci devono essere due persone.
Se in Gesú Cristo c'è una sola persona, allora una delle due nature è solo illusoria (metafora) e una sola di esse resta reale (la divina, oppure la umana).
Il dogma, invece afferma tanto le due nature in Gesú, e contemporaneamente l'unicitá della sua persona. Se ci atteniamo alle nozioni antiche di “natura” e di “persona”, la sintesi richiesta dal dogma in questione appare incomprensibile per il nostro intelletto. È una sintesi che funziona da postulato e che rompe ancora una volta la solidarietá logica tra nozioni date senza alterarne il contenuto. Due concetti in relazione di subordinazione (di cui il piú astratto è incluso nel piú concreto), solidali in un grado che è possibile determinare, si biforcano forzatamente nel processo della loro applicazione sotto l'autoritá del dogma. Siccome la nozione concreta è la più carica e la piú ricca delle due in essa è possiile, eo ipso, una differenziazione logica (proprio nella definizione del concetto piú concreto appare la sua differenza specifica) ...
Il dogma attacca, nel suo meccanismo piú intimo le relazioni logiche inerenti alle nozioni, deforma le loro reciproche relazioi logiche senza, tuttavia, modificare il significato che esse avevano anteriormente. Accade come se le nozioni avessero, oltre la loro funzione logica, anche quella di articolare qualche cosa di trascendente per l'intelletto e che l'intuizione non è in grado di costruire. In questa funzione dogmatica, le nozioni potrebbero stabilire tra di loro altre relazioni che siano del tutto opposte a quelle della logica. In altre parole il dogma indebolisce radicalmente la relazione considerata come assolutamente necessaria tra Nozioni e Logica.
Lucian Blaga
a cura di genseki

giovedì, ottobre 16, 2008

Il dio disfatto

Non era il mare quello che ci sembrava di ascoltare
Perduto nelle nubi di diossina
Tra l'odore del guano e la tempesta
No, piuttosto era l'orecchio che si apriva al martello
alla risacca dei contraccolpi, all'amaro del litio
Il polpastrello sesibile ai chiodi, al freddo degli spilli
alle capocchie spente dei sali e dei cristalli
Non v'era ala per nessuna sega penna per nessun taglio
Bastavano i suoni d'arpa delle goccioline di sudore
E il profumo da pochi soldi di cui impregnava le sue bende di raso
Per suscitare in me tutto il peso del volo
Non era il mare smarrito tra le imposture
Ma un oceano di pecore morte
Una premonizione di futuro colta in un angolo della mente
Al contemplare un soffitto del tiepolo
E il suo scialle – era vecchia e bionda – al tavolo della terrazza
Il suo occhio che correva tra la sponde delle ali e il vertice della schiuma
Pochi istanti prima di formulare per un istante perfetto
il desiderio sincero di morire...
*
Lesto composto
Lo attendeva l'orchestra
Come l'occhio
Attende la sua lacrima
Come il taglio
La sua gola
Pronta a spiccare
Il salto perfetto
nel suono dei suoi gesti
matematici.
*
Ammorbidisce il fico
Il mezzogiorno desolato
Tra le ragnatele dei capperi
Le froge delle palme
Hanno il presentimento della corsa
Viola nel cielo verde
Sanguina come un cuore
La sua voce
Fino all'ultima nota
All'albumina
*
Osceno come un lombardo guardo i miei passi sulla sabbia
Nel fuscio di piume di una mandria di gallinelle
Rabbioso come un veneto schivo le pozze di latte fresco
E stiro le labbra contro i denti ad annusare l'odore della pece
Dell'odio dell'olio di oliva della pelle verde
Della carne bruciata della cenere della mia civiltá
Sono cristiano per una sola bestemmia
Per una sola ustione di disprezzo prego
Il mio dio disfatto
*

mercoledì, ottobre 15, 2008

Gabriel de Tarde

Il testo che segue è la prima parte della traduzione del testo del sociologo francese Gabriel de Tarde "Fragment d'histoire future", credo che sia la prima traduzione italiana di questo testo per tanti versi straordinario e dimenticato.
Su Gabriel de Tarde ritorneró nei giorni prossimi

Frammento di storia futura

Fu verso la fine del secolo XXV dell’era preistorica, un tempo detta cristiana, che avvenne, come si sa, la catastrofe inattesa da cui procedeono i nuovi tempi, il felice disastro che ha costretto il fiume straripato della civiltá a sprofondare nella terra per il bene dell’uomo. Racconteró brevemente questo grande naufragio e il salvataggio insperato operato cosi’ rapidamente in pochi secoli di sforzi eroici e trionfanti. Beninteso, passeró sotto silenzio i fatti particolari che sono conosciuti da tutti e non mi dedicheró che alle grande linee di questa storia. Prima di tutto, peró conviene ricordare in poche parole il grado di progresso relativo al quale l’umanitá era giá giunta, nel suo periodo esteriore e superficiale, alla vigilia di questo grande avvenimento.

La prosperitá

L’apogeo della prosperitá umana, nel senso superficiale e frivolo della parola, sembrava raggiunto. Da cinquant’anni, il consolidamento definitivo della grande confederazione asiatico-americano-europea e il suo incontrastato dominio su quanto restava ancora qua e la, in Oceanía e nell’Africa Centrale, di barbarie non assimilabile, aveva abituato tutti i popoli, convertiti in province, alle delizie di una pace universale e ormai imperturbabile. C’erano voluti non meno di centocinquant’anni di guerre per giungere a questo risultato meraviglioso. Tutti quegli orrori erano stati dimenticati; e tante spaventose battaglie tra armate di tre e quattro milioni di uomini, tra treni dai vagoni corazzati, lanciati a tutto vapore sparando da tutti i lati gli un contro gli altri, tra squadre di sottomarini che si folgoravano elettricamente, tra flotte di palloni blindati, arpionati, scoppiati da torpedini aeree, precipitati dalle nuvole con migliaia di paracaduti bruscamente aperti che si mitragliano ancora cadendo insieme; di tutto questo delirio bellicoso, non restava che un poetico e confuso ricordo. L’oblio è l’inizio della felicitá, come la paura è l’inizio della saggezza.

Per una straordinaria eccezione, i popoli, dopo questa gigantesca emorragia, non godevano il torpore della spossatezza, ma la calma di una forza accresciuta. Ció si spiega. Da circa un secolo, i consigli di revisione, rompendo con la routine cieca del passato, sceglievano con cura i giovani piu’ validi e ben fatti per esonerarli dal servizio militare diventato del tutto automatico, e inviavano sotto le armi, tutti gli infermi, ben sufficienti per il ruolo extremamente semplificato del soldato e persino del sottuficiale. Era una selezione intelligente, e lo storico non puo’ mancare di lodare con gratitudine questa innovazione, grazie alla quale l’incomparabile bellezza del genere umano attuale si è venuta pian piano formando. Effettivamente quando ora guardiamo, dietro le vetrine dei nostri museo di antichita’, le raccolte singolari di caricature che i nostri avi chiamavano i loro album di fotografie, possiamo constatare l’immensita’ del lavoro compiuto, sempre che noi discendiamo davvero da quei mostriciattoli e da quegli omuncoli, come attesta una tradizione rispettabile.

Da questa epoca data la scoperta degli ultimi microbi, non ancora analizzati dalla scuola neo-pasteuriana. Una volta conosciuta la causa, il rimedio non tardó, e a partire da allora un tisico, un artritico, un qualunque malato e’ diventato un fenomeno tanto raro come un tempo lo fu un mostro duplice oppure un mercante di vino onesto; è da allora che si è perduto il ridicolo uso di quelle domande sulla salute che riempivano le conversazioni dei nostri antenati: “Come sta? Come va?” La miopía soltando aveva continuato la sua triste marcia stimolata dalla diffusione straordinaria dei giornali; non una donna o un bambino poteva fare a meno del pince-nez. Questo inconveniente, del resto momentaneo, e’ stato largamente compensato dai progressi che ha fatto fare all’arte degli ottici. Con l’unita’ politica che sopprimeva le ostilita’ dei popoli, si aveva l’unita’ linguistica che cancellava rapidamente le ultime diversita’. Dal XX ecolo, il bisogno di una lingua unica e comune, come il latino del Medio Evo, era divenuto abbastanza intenso tra gli scienziati del mondo intero da deciderli a usare in tutti i loro scritti un idioma internazionale, Dopo una lunga rivalita’ tra l’inglese e lo spagnolo, fu il greco che, dopo la sconfitta dell’Impero Inglese e la ripresa di Costantinopoli da parte dell’Impero Elleno-Russo, si impose definitivamente. Poco a poco, o piuttosto con la celeritá propria di tutti i progressi moderni, il suo uso discese, di strato in strato, fino ai gradi piú umili della società, e dalla metá del XXII secolo, non ci fu piú nessun bambino, tra la Loira e l’Armur che non si esprimesse facilmente nella lingua di Demostene. Qua e la alcuni villaggi sperduti in valli di montagna si ostinavano ancora, malgrado i divieti dei maestri a storpiare il vecchio dialetto chiamato un tempo francese, tedesco, italiano, ma nelle grandi cittá una cosa del genere avrebbe scatenato le risate.

Tutti i documenti del tempo sono d’accordo nell’attestare la velocitá, la profonditá, l’universalitá del cambio che si operó nei costumi, nelle idee, nei bisogni, in tutte le forme della vita sociale livellata da un polo all’altro, come conseguenza di questa unificazione del linguaggio. Pareva che fino ad allora il corso della civiltá fosse stato bloccato, e che per la prima volta, rotte tutte le dighe, si diffondesse senza sforzo per tutto il globo.
Gabriel de Tarde
Fragment d'histoire future
Trad. genseki

lunedì, ottobre 13, 2008

 
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La arance

Le arance si avvolgevano in gomitoli di sillabe calde
Si avvolgevano in luminosi fili liquidi in gomitoli sonori
Ma furono le palme a nitrire per prime scuotendo le criniere
Taglienti come spade mentre la cittá tardava a svegliarsi
Dal sogno delle frane di nebbia.
Il suo occhio verde
Il solo
Gonfio d'acqua e di sali di cromo
Mi catturó poi nella sua orbita
Con tanta voglia di vomitare e un gomitolo di vapore
Nelle schegge di quelle che furono le mie viscere
e che io continuavo a stringere con dita convulse
Fusoliere gomitoli di criniere nella luce fresca
Della nebbia e delle arance
Conficcandomele nei polpastrelli
Sotto le unghie
Perché franava la mia vista
Nel burrone
Definitivamente sprovvista d'altro suono.
...

Paco Yunque - Ultima parte


Yunque lo avrebbe deto alla mamma e se Umbertino lo picchiava lo avrebbe detto al maestro, ma il maestro non gli faceva niente all'Umbertino. Allora lo avrebbe detto a Paco Farina. Disse a Paco Farina:
A te ti picchia l'Umbertino?
A me? Che ci provi soltanto! Gli do un pugno sul muso, io che gli faccio sputare sangre! Ma guard un po'! Che ci provi soltanto! Che ci provi e vedrá! Lo dio alla mamma! E verrá mio papá e gli dará un pugno sul naso a lui a suo padre e a tutti quanti!
Paco Yunque ascoltava spaventato quello che diceva Paco Farina. Davvero avrebbe picchiato Umertino? E suo papá avrebbe picchiato sul serio il signor Grieve? Paco Yunque non poteva crederlo, l'Umbertino non lo picchiava nessuno. Se Farina lo picchiava sarebbe venuto il padrone a picchiare Farina e anche il papá di Farina. Il padrone avrebbe picchiato tutti. Perché faceva paura a tutti. Perché il signor Grieve era molto duro e stava sempre comandando. E tutti quelli che andavano a casa sua avevano paura e obbedivano sempre al padrone e alla padrona. Insomma il signor Grieve era piú forte del maestro e di tutti quanti gli altri. Paco Yunque guardava il mestro che scriveva alla lavagna. Chi era il maestro? Perché era tanto serio e faceva tanta paura? Yunque continuava a guardarlo. Non era come suo padre e il signor Grieve. Sembrava cme quegli altri signori che venivano a casa a parlare con il apdrone. Aveva la nuca arrossata e il suo naso sembrava moccio di tacc
Tunque comnichino. Le sue scarpe facevano risss-risss-risss-risss quando camminava molto.
Yunque cominciava a essere inquieto. Quando era l'ora di andare a casa? L'umnertino lo avrebbe picchiato all'uscita dalla scuola. E la mamma di Paco Yunque gli avrebbe detto all'Umbertino: “No signorino, per favore non picchi Paquito. Non sia tanto cattivo. E nient'altro”. Paco avrebbe avuto le gambe piene di lividi per i calci dell'Umbertino e si sarebbe messo a piangere. Perché all'Umbertino non gli avrebbe fatto niente nessuno. E il padrone e la padrona amavano molto Umbertino e Paco Yunque aveva molta pena perché l'Umbertino o picchiava molto. A tutti, ma propio a tutti, facevano parua, Umbertino e i suoi genitori. Tutti, tutti, tutti. Anche il maestro, la cuoca, sua figlia. Mamma. Venanzio con il so grembiale. La Maria che lava gli orinali. Ruppe un orinale in tre grandi pezzi. Il padrone picchiava anche il padre di Paco Yunque? Che cosa brutta era questa del padrone e dell'Umbertino. Quando avrebbe finito, il maestro, di scrivere alla lavagna?
Bene! - disse il maestro, smettendo di scrivere. - Ecco qua l'esercizio scritto. Adeeso tirate fuori tutti il quaderno e copiate quello che sta sulla lavagna. Bisogna copiarlo esattamente uguale.
Nel quaderno? - domandó timidamente Paco Yunque.
Si, nel quaderno – rispose il maestro. - Lei sa scrivere un po'?
Sissignore papá mi ha insegnato in campagna.
Molto bene. Tutti a copiare, allora.
I bambini tirarorno fuori i loro quaderni e si misero a copiare l'esercizio che il professore aveva scritto sulla lavagna.
Non dovete stancarvo – diceva il maestro. Bisogna scrivere poco a poco, per non sbagliare.
Umberto Grieve domandó:
Si tratta dell'esercizio scritto dei pesciolini?
Si, forza, tutti a copiare.
L'aula si fece silenziosa. Si poteva udire il fruscio delle matite. Anche il maestro si sdette in cattedra e si mise a scrivere su certi suoi quaderni.
Umberto Grieve, invece di copiare il suo esercizio, si mise a scarabocchiare sul suo quaderno. Lo riempí completamente di disegnini di pesci, di pupazzetti, e di quadrettini. Nell'ultima pagina disegnó questa figura:
Dopo un po' il maestro si fermó e chiese:
- Allora, avete finito?
Bene – disse il maestro – scrivete ben chiaro il nome in fodo alla copia.
Proprio in quel momento suonó la campana della ricreazione.
I bambini cominciarono subito a far gazzarra e uscirono correndo in cortile.
Paco Yunque aveva copiato molto bene il suo esercizio e andó in cortile con il suo libro, il quaderno e il lapis.
Nel cortile arrivó subito Umberto Grieve e afferró Paco Yunque per un braccio dicendogli con collera:
Vieni a giocare.
Lo spnse con forza in mezzo al cerchio e fece cadere il libro, il quaderno e il lapis.
Yunque faceva quello che gli ordinava Grieve, ma era tutto rosso e vergognoso perché glin altri bambini vedevano come lo trattava Umberto. Paco Yunque aveva tanta voglia di piangere.
Paco Farina, i due Zuniga e altri bambini circondavano Umberto Grieve e Paco Yunque. Il bambino magrolino e pallido raccolse il libro, il quaderno e il lapis di Yunque, ma Umberto Grieve glieli strappó via con la forza, dicendogli:
Lasciali! Non ti immischiare, Paco Yunque è il mio servo!
Umberto Grieve portó in classe le cose di Paco Yunque e le mise nella sua cartella. Poi ritornó nel cortile per giocare con Paco Yunque. Lo prese alla nuca e lo fece piegare e mettersi a quattro zampe.
Resta così, tranquillo e non muoverti finché io non te lodica.
Umberto Grieve si ritiró a una certa distanza e si mise a correre da lì per saltare su Paco Yunque con una mano appoggiata sulle sue spalle e dandogli un violentissimo calcio nel sedere. Tornó ad allontanarsi e a saltare su paco Yunque dandogli un altro calcio. Stette a giocare cosí a lungo, Furono piú o meno venti salti e venti calcioni.
Poii, di colpo si udí un pianto. Era Yunque che stava piangendo per i calcioni dell'Umbertino. Allora Paco Farina uscí dal cerchio che avevano formato i bambini e si piantó davanti a Paco Yunque dicendogli:
No! No! Non ti lascio saltare sopra Paco Yunque!
Umberto Grieve rispose minaccioso:
Oh! Paco Farina! Ti spacco la faccia!
Farina peró non si muoveva e restava teso davanti a Grieve dicendogli:
Siccome è il tuo servo lo picchi, gli salti sopra e lo fai piangere, salta e vedrai!
I due fratelli Zuniga abraccaiarono Paco Yunque e gli dicevano di non piangere e lo consolavano:
Perché lasci che ti tratti cosí? Picchialo! Saltagli sopra anche tu! Perché lo lasci fare? Non essere vigliacco! Basta! Non piangere! Adesso andiamo a casa!
Paco Yunque contunuava a piangere e le sue lacrime sembravano affogarlo.
Si formó un gruppo attorno a Paco Yunque e un altro attorno a Umberto Grieve e a Paco Farina.
Grieve diede uno spintone brutale a Farina e lo buttá a terra. Giunse un alunno piú grande, del secondo anno e difese Farina, dando un calcio a Grieve e un altro alunno ancora maggiore, uno del terzo difese Grieve dando uno sberlone furioso a quello del secondo. Per un certo tempo piovvero calci e ceffoni tra i bambini, una vera rissa.
Suonó la campana e tutti i bambini ritornarono nelle loro aule.
Paco Yunque lo trascinarono per le braccia i fratelli Zuniga.
Nell'aula di Prima regnava un gran chiasso, quando entró il maestro tutti tacquero di colpo. Il maetro li vide tutti molto seri e disse con voce militare:
Seduti
Rumore di banchi cartelle e tutti gli alunni già stavano seduti.
Allora il maestro si sedette ala sua cattedra e chiamó i bambini in ordine alfabetico perché consegnassero le copie con gli esercizi scritti sui pesci. Mano a mano che il maestro riceveva le copie le andava leggendo e scrivevav i voti in alcuni libri con una matita.
Umberto Grieve si avvicinó al banco di Paco Yunque e gli restituí il linro, il quaderno e la matita. Prima, peró, aveva strappato la pagina sulla quale stava l'esercizio di paco Yunque e vi aveva messo la firma.
Quando il maestro disse: - Umberto Grieve -, questo presentó l'esercizio di Paco Yunque come se fosse il suo.
E quando il maestro disse. - Paco Yunque -, egli si mise a cercare nel suo quaderno la pagina sulla quale aveva scritto il suo esercizio e non la trovó.
La ha persa o non ha fatto proprio l'esercizio? - chiese il maestro.
Paco Yunque non sapeva che cosa era capitato alla pagina del suo quaderno e pieno di vergogna, restó in silenzio e abbassó il capo.
Bene, - disse il maestro e annotó in uno dei suoi libri la mancanza di Paco Yunque.
Poi vennero tuti gli altri a consegnare ciascuno il proprio esercizio. Quando il maestro ebbe visto il lavoro di tutti, ecco, improvvisamente entrare il Direttore della Scuola.
Il maestro e i bambini si misero in piedi con rispetto. Il Direttore guardó come se fosse arrabbiato gli alunni e disse ad alta voce:
Seduti!
Poi chiese al maestro.
Lei sa giá chi è l'alunno migliore di questa classe, hanno giá fatto l'esercizio settimanale di classificazione?
Si, Signore, hanno appena finito di farlo e Umberto Grieve ha avuto il voto più alto.
Dov'é il suo esercizio?
Eccolo qua, signor Direttore.
Il maestro cercó tra i fogli degli alunni e trovó l'esercizio firmato da Umberto Grieve. Lo diede al Direttore che esaminó a lungo la copia.
Molto bene – disse il Direttore, contento-
Salì in cattedra e guardó severamente gli alunni. Poi disse con la sua voce un poco roca ma energica:
Di tutti gli esercizi che avete fatto, il migliore è quello di Umberto Grieve. Cosí il nome di questo bambino sará scritto nel Tabellone d'Onore di questa settimana, come l'alunno migliore del primo anno. Venga fuori Umberto Grieve.
Tutti i bambini guardarono ansiosi Umberto Grieve che uscì pavoneggiandosi e si fermó dritto e orgoglioso davanti alla cattedra del maestro. Il Direttore gli diede la mano e gli disse:
Molto bene, Umberto Grieve, felicitazioni. Tutti i bambini dovrebbero essere così. Molto bien.
Si rivolse, poi, agli altri alunni e disse loro:
Tutti voi dovete fare come Umberto Grieve. Devono essere buoni alunni come lui. Devono studiare e applicarsi come lui. Devono essere seri, educati e rispettosi come lui. E cosí facendo riceverete tutti un premio alla fine dell'anno e anche i vostri nomi saranno scritti nel tabellone d'onore della Scuola come quello di Umberto Grieve. Speriamo che la settimana prossima ci sia un altro alunno che si comporti bene e faccia un buon esercizio come quello che ha fatto Umberto Grieve. Lo spero proprio.
Il direttore restó un po' in silenzio. Tutti gli alunni erano pensierosi e guardavano Umberto Grieve con ammirazione! Che forte l'Umberto! Che buon esercizio ha fatto!
Proprio buono! Il migliore di tutti! Anche se arriva tardi! E se picchia tutti! Peró lo vedevano coi loro occhi! Aveva stretto la mano al direttore! Umberto Grieve, il migliore di tutti quelli di Prima.
Il Direttore si congedó dal maestro, fece un cenno agli alunni che restarono immobili per salutarlo e uscí:
Poi il maestro disse:
Seduti!
Rumore di banchi. Gli alunni stavano seduti.
Il maestro ordinó a Grieve di ritornare al suo posto. Umberto Grieve, molto allegro, tornó al suo posto e passando davanti a Paco farina gli fece una linguaccia.
Paco Farina diss a bassa voce a Paco Yunque:
Guarda, il maestro sta scrivendo il tuo nome nel suo libro, perché non hai presentato l'esercizio. Guardalo! Ti dará una punizione, resterai qui a scuola senza poter ritornare a casa. Perché hai strappato il tuo quaderno? Dove lo hai messo?
Paco Yunque non rispondeva niente e restava con la testa bassa.
Eddai! - Ripeteva Paco Farina – Rispondi! Perché non rispondi? Dove lo hai lasciato l'esercizio?
Paco farina si chinó per sbirciare il volto di Paco Yunque e vide che stava pinagendo.
Piantala! Non pinagere! Non devi star male! Vieni andiamo a giocare con la mia scacchiera! Ci sono le torri nere! Piantala! Non fare lo scemo! Non piangere.
Paco Yunque continuava a piangere accoccolato.

giovedì, ottobre 09, 2008

Cesare

Morire di giovedi, Cesare
Nell'acquazzone, a Parigi
Perchè non si ha piú la forza
Di trascinare tante stanze d'albergo
Nelle tasche del cappotto
E nemmeno di trascinare le tasche
Piene di pezzetti di rabbia e di mondo
Torsoli di dolore
Morire di sera a Parigi, un giovedi
Mentre piove
E la tua cagnetta bianca
Rabbiosa morde quello che resta della tua caviglia
Perché hai impegnato tutte le tue ossa
Per comprare quel tavolo di noce
Al quale apparire seduto per sempre
In camicia perfettamente bianca
Mentre scrivi versi su giovedi
e su quelli che muoiono soli

Sestri

Di Sestri ora ricordo tante corde
Corde di canapa, corde vere, secche o umide
Amiche del palmo della mano
Fino a ferirlo
Di Sestri ricordo corde e corde
Non quelle dei panni stesi
Solide corde intrecciate, invece,
Come devevano essere i capelli delle paesane
Quando l'uomo ancora esisteva e a Sestri c'erano fiumi
Uno si chiamava Chiaravagna
Che scendevano tra le canne e i fichi fino alla riva del mare
Io non mi ricordo i fiumi, mi ricordo di corde e corde
Anche esse serpeggianti come gli orbetti dei torrentelli
E la luce ricordo
Tra corda e corda
Lavare una a una le crose
Appena sveglia liberata dal lenzuolo azzurro del mare

mercoledì, ottobre 08, 2008

andava spegnendosi in me

Genova e la sua leggenda andavano spegnendosi in me
Non si ramificavano in episodi secondari non mettevano
Foglie né gemme resinose.
Soltanto il mare restava, restava laggiú lontano e definito
Come un mattone immenso di cobalto e di rame
Pesante sul destino di tutti coloro che respirano
Rendendo lenti, e viscosi gli aloni di tutte le anime
Genova e la sua leggenda si spegnevano
Si spegnevano in me in una fugace rincorsa di platani
In alberi maestri abbandonati nei campi di giugno
In un mare di grano, in ondeggianti sottovesti bianche
Avanzavano gli ultimi mattini di Genova con passo
Da top model dimentichi di blasoni e di grifoni
Di spille da balia e di cammei
E anche io andavo spegnedomi nei viaiai delle risacche
Mi spegnevo in Genova e in me lasciando che mare
E schiuma scalzassero il grande fico dell'orto
Sotto il quale sedeve Bertin il patriarca fumando con un grillo
Sulla spalla respirando con profonda soddisfazione
L'odore del fruttosio e quello del letame.

Soria della Calligrafia Cinese

Breve documentario della televisione cinese dove si parla anche di Wang Xizhi e della sua calligrafia nel parco delle peonie