lunedì, ottobre 28, 2013

Politica

I più saggi sanno che una stolta legislazione è una corda di sabbia che si sbriciola nell'attorcigliarsi; che lo Stato deve assecondare e non guidare il carattere e il progresso dei cittadini; che anche del più forte usurpatore prima o poi ci si libera; e che solo quelli che costruiscono sulle idee costruiscono per sempre; e
che la forma di governo che prevale è l'espressione del tipo di cultura che esiste nel popolo che l'abbia permessa. La legge è solo un memorandum. Nella nostra superstizione, crediamo che uno statuto abbia un suo stabile valore: ma la sua forza sta in quel tanto di vita che anima gli uomini in carne e ossa. Lo statuto sta lì a dirci: «Jeri ci siamo accordati su questo e su quello, ma che cosa pensate oggi di quest'articolo?». Il nostro statuto è una moneta sulla quale imprimiamo la nostra immagine: ma, ben presto, non la si riconosce più e, passato un certo tempo, dev'essere riportata alla zecca. La natura non è democratica, e non è neanche
monarchico-costituzionale, ma è dispotica, e non si farà aggirare né sottrarre un solo iota della sua autorità nemmeno dal più caparbio dei suoi figli; e quanto più la pubblica opinione si apre a una più acuta intelligenza delle cose, tanto più il suo codice è considerato schematico e balbettante.

Emerson
Politica

domenica, settembre 29, 2013


Dialettica

Improvvisamente, dietro qualche tetto, l'altezza della cascata ci è apparsa obliquamente: abbiamo avanzato verso di essa, stupiti, attraverso i prati umidi. Sul verde massiccio laterale, una nube di goccioline disegnò un cerchio intorno a noi, spinto dal vento creato dalla cascata. Per cogliere la cascata in una vista d'insieme, abbiamo dovuto scendere verso il basso lungo l'erba scivolosa fino al bordo dell'abisso in cui si riversano i flutti. Da qui, godendo la vista della cascata, fin dove era possibile, uno spettacolo sontuoso è venuto a coronare gli sforzi della giornata che all'inizio erano stati penosi . Un rivolo di acqua fuggiva da una fessura nella roccia, cadendo in verticale e rompendosi in rivoli furiosi , rivoli che l'occhio dello spettatore incapace di fermare il flusso di più di quanto non lo fosse di seguirlo, non cessava tuttavia di percepire : immagine che si disfaceva ad ogni istante. Ogni rivolo era sostituito ad ogni istante da un altro eppure, nella cascata, lo spettatore vedeva sempre la stessa immagine, e simultaneamente vedeva che non era la stessa. Dopo che i rivoli lungo il pendio, hanno raggiunto le rocce sono inghiottiti da tre o quattro fenditure e si scagliano rumorosamente in un abisso dove l'occhio non può seguirli per l'ostacolo costituito dalle rocce. A una certa distanza, percepivamo il fumo che sorgeva dal baratro e ci rendemmo conto che era la schiuma creata dalla cascata.


Meiners, giustamente, aveva rivelato l'importanza di questa cascata cosí movimentata. Ma una rappresentazione o una pittura non possono rendere che male la visione reale. La descrizione dà all'immaginazione la possibilità di cogliere l'insieme a condizione di possedere già modelli simili, ma un quadro di piccole dimensioni produrrà una debole impressione e fornirá un piano inadeguato. La posa effettiva dell'opera non offre all'immaginazione l'occasione adeguata, l'oggetto preso come modello e lo coglie solo nella sua forma ridotta (...). Se mettiamo il quadro di fronte a noi o appeso alla parete, i sensi saranno obbligati a ridurre tutto alla nostra dimensione o a quella delle cose circostanti sempre troppo deboli. Il quadro dovrebbe essere così vicino agli occhi che sarebbe impossibile coglierlo tutto, perdendo così il senso della proporzione. Ció che risulta piú interessante, l'essenziale dello spettacolo sfuggirá anche agli schizzi migliori: la vita eterna, la forma immobile della cascata e la mobilitá poderosa che ne fa una cosa viva. Un'opera non puó rendere che un'infima porzione dell'impressione totale, non puó che restituire proporzioni proprie all'immagine secondo certe parti e certi contorni. L'altro aspetto della contemplazione, il divenire incessante, eterno di ogni componente, l'eterna dissoluzione di ogni zampillo che fa oscillare l'occhio in modo tale che la vista non conserva mai la stessa direzione, tutto ció va perduto con la forza e la vita.

G.W.F Hegel

Da "Strass de la philosophie"
Trad. genseki

venerdì, settembre 27, 2013


Augustinus

Quam similia sint latrociniis regna absque iustitia.

Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? quia et latrocinia quid sunt nisi parua regna? manus et ipsa hominum est, imperio principis regitur, pacto societatis adstringitur, placiti lege praeda diuiditur. hoc malum si in tantum perditorum hominum accessibus crescit, ut et loca teneat sedes constituat, ciuitates occupet populos subiuget, euidentius regni nomen adsumit, quod ei iam in manifesto confert non dempta cupiditas, sed addita inpunitas. eleganter enim et ueraciter Alexandro illi Magno quidam conprehensus pirata respondit. nam cum idem rex hominem interrogaret, quid ei uideretur, ut mare haberet infestum, ille libera contumacia: quod tibi, inquit, ut orbem terrarum; sed quia id ego exiguo nauigio facio, latro uocor; quia tu magna classe, imperator.
 
Augustinus
De Civitate Dei

lunedì, agosto 12, 2013

Due poesie di genseki

Il volo comincia
Dove finiscono penne e piume
Dove anche lo scheletro
È fragile carena di flauto
Poi il vento, tutto quanto,
Sará una cascata di sale
A lavare l'amaro degli occhi.

**

Lasciavi ricadere i polsi come i capelli
Ribelle al vento, ai mulinelli del silenzio
Il rame aveva abbandonato i tuoi occhi
Dal tempo delle tue nozze con la neve.

**

Antonio Gamoneda


Antonio Gamoneda

Dal "Libro del freddo"

Trad. genseki

Il vino era celeste nell'acciaio (Ah la luciditá del venerdí) e nei suoi occhi. Dolcemente andava distruggendo le cause dell'infezione: grandi fiori immobili e la lubricità, la cinta nera nel silenzio dei serpenti.

**

Nella sua canzone vi erano corde senza speranza, un sole lontano di donne cieche (madri scalze nel presidio trasparente del sale).

Suonava a morte e rugiada, poi soffiava in una siringa nera, era il cantore delle ferite. La sua memoria bruciava nel paese del vento, nella bianchezza dei sanatorii sonnolenti.

**

Era sagace nella prigione del freddo,
Scorse presagi nel mattino celeste; gli sparvieri fendevano l'inverno e lenti erano i ruscelli tra i fiori della neve.

Comparivano corpi femminili e ne percepiva la fertilità.


Poi giunsero mani invisibili. Con dolcezza esatta afferò quella di sua madre.

**

Un tempo le mie sole passioni erano la povertà e la pioggia.

Ora sento la purezza dei limiti e la mia passione non esisterebbe se sapessi il suo nome.

**

martedì, luglio 16, 2013

Juan Gelman


Viaggi

Sedia ove talvolta mi siedo
Piatti camicie e altri alibi ancora
La pura veritá e che non ci sono
La pura veritá è che me ne sono andato.

O, magari, saranno stati gli altri
Che se ne sono andati, mi hanno lasciato solo
Con me stesso e gli incubi che restano
Reali come un foro
Profondo come un Dio

Vediamo un po' gianni
Vediamo un po, gellman
Vediamoli, dai! Sti biglietti
Contiamo fino a cento
Cantano gli uccellini
Se guardiamo vedremo che non ci sono
Che me ne sono andato con sinceritá
Che gianni sopporta e che gelman non piange
Piattano i piatti e sediano le sedie,
Senza sosta, canaglie.

Juan Gelman
Da "Cólera buey" 1963
Trad. genseki

lunedì, luglio 15, 2013

Vetrai

Veramente mi pareva di respirare nella fornace, coi vetrai di Murano, e di non avere nella mano la penna ma un ferro, ma un ferro da soffio con in cima un vetri fuso e di non essere rischiarato dal mio quieto olio di oliva ma dalla vampa della grande ara incandescente.
Mi bisognava per creare il calice, convertir la parola in quella piccola pera di pasta rossa dal garzone aggiunta di tratto in tratto alla forma che nasce sotto i tocchi dell'ordegno.

...

Ecco alfine sul foglio di carta, il vetro che si tempera a poco a poco, quasi colorato d'un colore mattutino dal mio spirito, come da un'alba piú profonda di quella vera.

G. D'Annunzio

Da: "Il compagno dagli occhi senza ciglia"












Acque

Nacqui in un anno di siccitá. Quell'estate
Mia madre aspettava in casa, chiusa nel sole
Nel vento secco, incessante,
Gli uomini che ritornavano alla sera,
Portando acqua da fonti lontane
Le vene delle foglie erano secche
Avizzzite anche le radici.
Per tutta la vita ho continuato a temere il ritorno
Di quell'anno, sicuro che da qualche parte si è acquattato
Come l'anima di un nemico morto
La paura della `polvere nella bocca non mi abbandona
Sono lo sposo fedele della pioggia
Amo l'acqua di stagni e sorgenti
Il sapore di tetto dell'acqua di cisterna
Sono un uomo secco la cui sete loda
Le nuvole, la cui mente ha qualcosa di una tazza
La cosa piú dolce per me è destarmi di notte
Dopo una giornata rovente e arida
Per ascoltare la pioggia.

Wendell Berry
trad. genseki

L'upupa rossa

Ho sognato un'upupa rossa
Con la cresta d'oro fino
Ahi! Come è amaro il risveglio!
Nel ricamo mattutino
Che tesse il canto dei merli
Ai rami del brachichito.

genseki

lunedì, luglio 01, 2013

Raissa Maritain



… attraverso tutte le catastrofi, attraverso il crollo degli imperi, attraverso le persecuzioni e il martirio, il bene passa, il bene si fa, il bene resta. Ma la mia propria vita, la mia vita imperfettissima arriva a quell’età adulta dell’anima che si raggiunge solo a prezzo di sventure straordinarie, personali o no: quell’età in cui non resta più niente dell’infanzia, né della felicità di vivere. La mia vita arriva a questo punto assai meno attraverso le prove che hanno raggiunto me sola, che attraverso le sventure che si sono abbattute sull’umanità intera, perché la giustizia è in lutto, perché gli afflitti non sono, non possono essere consolati, perché i perseguitati non vengono soccorsi, perché la verità di Dio non è detta, perché improvvisamente il mondo è diventato così piccolo, così stretto per lo spirito, per l’uniformità della menzogna che vi regna e che quasi sola fa sentire la sua voce.

Da: "I grandi amici"

6 luglio 1940

Louise Labé



Louise Labé

1525-1565

***



Begli occhi bruni, ahimé, sguardi distolti
Sospiri ardenti e lacrime versate
Oh notti scure perse in vane attese!
Giorni lucenti che in vano tornate

Oh tristi pianti oh disio ostinato!
Oh tempo perso oh dolore sprecato!
Oh mille morti in mille lacci tese!
Oh pene nove per me preparate

Oh riso, fronte, capelli e mani e dita
Oh triste liuto , viola, archetto e voce
Cotante fiamme per ardere una donna!

Di te mi lagno che con tanti fochi
In tanti lochi il core mio toccando
Non ti scottò neppure una scintilla.

***

Dacché crudele amor m’ha attossicato
Primieramente co’l su’ foco il petto
Sempre bruciai di sua fiamma divina
Ch’un giorno solo il mio cor non ha lasciato.

Qualunque pena di molte che mi diede
O minaccia di prossima ruina:
Pensier di morte che di tutto è fine
Nulla poté stupir l’ardente core.

Quanto più amor ci viene a indebolire
Tanto più nostra forza rinfranca
Sì che in tal lotta sempre siamo freschi

Questo non face siccome favore
Quei che i Superni e gli uomini disprezza
Ma contr’a’ forti per più forte parere.

***

Morir si vede ogne cosa animata
Quando dal corpo l’anima si parte
I’ sono ‘l corpo e tu la meglior parte
Ove sei tu anima beneamata?

Deh non lasciarmi così a lungo smarrita
Che per salvarmi potresti giunger tardi
Non porre a tal periglio il tuo bel corpo
Rendigli tosto la sua parte pregiata.

Fa’ bell’amico che non sia periglioso
Il nostro incontro e il colloquio amoroso
Ornalo tu non di severitate

Non di rigor ma di grazia amichevole
La tua beltà rendimi dolcemente
Da crudele che fu or favorevole.

***

18/06/02 18.44
Trad. genseki

Le cittá tentacolari



La pianura

La pianura è cupa le sue stoppie, i granai
E le cascine dalle travi marce
E’ cupa la pianura, sfinita, non si difende più
E’ cupa la pianura e morta la città la divora
Potenti e criminali
Le braccia di macchine iperboliche
Falciano l’evangelico frumento
Spaventano il seminatore malinconico
Il cui gesto pareva in armonia col cielo.
Lurido fumo in stracci di sego
Ha attraversato il vento e l’ha sporcato
Ed il sole povero e svilito
E’ come consumato dalla pioggia.
Là dove un tempo le luminose case
In gruppi l’una all’altra si stringevano
E i giardini dagli alberi dorati
Dal sud al nord infinita si scorge
La nera immensità dei capannoni.
Come una bestia enorme e taciturna
Che ronzi dietro un muro
S’ode il ronfare ritmico e duro
Delle caldaie e delle mole notturne
Vibra il suolo come fermentasse
Bolle il lavoro come un delitto,
E la fogna trascina un fango vellutato
A sporcare l’acqua del fiume
Un supplizio d’alberi scorticati
Torce convulso le braccia
Sulla facciata del bosco vicino
Sfinisce l’ortica il suolo sabbioso
E i letamai sempre più alti dei rifiuti
Unti cementi, putridi laterizi, pietre spaccate
Lungo i vecchi fossati dagli argini scuri
Si levano la sera in marci monumenti.
Sotto gli hangars pesanti di rimbombi,
Le notti e i giorni
Senz’aria e senza sonno
Lungi dal sole soffrono persone
Pezzi di vita nell’ingranaggio enorme
Pezzi di carne fissati con ingenio
Pezzo per pezzo, ripiano per ripiano
Da un capo all’altro della vasta giostra
I loro occhi son gli occhi della macchina
Sotto di essa piegano le schiene
Le loro vive dita si moltiplicano
In mille dita precise e metalliche
Tale è l’usura della loro fatica
Sulla materia sanguinaria
Che vi imprimono continuamente
Tracce di rabbia e gocce di sangue.
Dite l’antica fatica contadina d’agosto
Tra segale mature e avene rosse
Le braccia nella luce, alta la fronte
In mezzo al grano d’oro che si piega
Al torrido orizzonte di silenzio bollente.
Dite! Quella tiepida quiete i mezzogiorni eletti,
Nell’intreciare l’ombra per la siesta.
Sotto i rami di cui i venti lesti
Ritmano con lentezza gli ampi gesti frondosi
Dite, la gran pianura come un fertile orto
Folle d’uccelli sparsi nella luce
Che la cantano tutti a piena voce
Così prossimi al cielo che non li si ode.
Oggi la pianura è finita
E’ cupa la pianura e più non si difende
Il flusso ed il riflusso di rovine
L’hanno sommersa con monotonia.
Solo lontano muri d’orto diruti
Sentieri neri di scorie di carbone
Scheletri di masserie
Tagliano rapidi i treni i villaggi.
Tacciono le voci delle madonnine
Negli angoli dei boschi in mezzo agli alberi;
I vecchi santi  dalle nicchie di marmo
Sono caduti nelle fonti sacre.
Tutte le cose come bare vuote
Sono sfasciate disperse nello spazio
Ed è un lamento di defunti perduti
Singhiozzanti al tramonto nell’umida brughiera.
E’ morta la pianura, è finita!
Son morti i campanili inchiodati i mulini.
E gli ultimi rintocchi d’un angelus lontano
Sono i singulti della sua agonia.

Emile Verhaeren
Trad. genseki