martedì, aprile 20, 2010

Barabba

Da: "Il calice dorato"
di Georg Trakl
Trad. genseki

Barabba

Avvenne proprio alla stessa ora in cui trascinavano il figlio dell'uomo verso il Calvario che era il luogo in cui venivano giustiziati i ladri e gli assassini.
Accadde proprio all'ora alta e ardente in cui egli compí l'opera sua.
Accadde in quella stessa ora in cui una rumorosa moltitudine dilagava per le vie di Gerusalemme, tra la moltitudine andava Barabba, ladro e assassino con il capo orgogliosamente eretto.
Intorno a lui andavano puttane ingioellate con le labbra dipinte di rosso
E intorno a lui andavano uomini dagli sguardi illuminati dal vino e dal vizio. In tutti i discorsi era palese il peccato della loro carne; il disordine dei loro desideri era l'espresione dei loro pensieri.
Molti che agitavan lingue ubriache si stringevano a lui e gridavano: “Viva Barabba!” e tutti rispondevano: “Viva Barabba!”. Qualcuno aveva persino gridato: “Osanna!” Ma fu zittito perché giá avevano osannato quell'altro che era entrato in cittá come re e avevano posto foglie fresche di palma ai suoi piedi. Oggi, invece, il suolo lo coprivano di rose rosse e giubilavano: “Barabba!”.
Quando giunsero davanti ad un palazzo udirono provenire da dentro accordi musicali, risate e il rumore di un'orgia.
Un giovanotto vestito riccamente a festa uscí loro incontro. I suoi capeli erano lucidi di olio profumato il suo corpo odorava di costosissime essenze d'Arabia. I suoi occhi brillavano di gioia orgiastica e il sorriso della sua bocca era eccitato per i baci della sua diletta.
Quando il giovanotto ebbe riconosciuto Barabba si fece avanti a gli disse: “Entra nella mia casa o Barabba, devi riposare sui piú morbidi dei miei cuscini, le mie schiave cospargeranno il tuo corpo con il nardo piú costoso, ai tuoi piedi una fanciulla suonerá sul laud le melodie piú dolci, e nelle mie coppe piú preziose ti mesceró i miei vini piú ardenti e nei vini scioglieró le piú perfette delle mie perle. O Barabba sii oggi mio ospite e al mio ospite di oggi appartiene la mia diletta che è piú bella dell'aurora primaverile. Entra o Barabba e corona di rose il tuo capo e rallegrati perché oggi muore colui il cui capo fu coronato di spine.
Avendo quel giovane cosí parlato giubiló il popolo e Barabba ascese la scalinata marmorea come un vincitore. Il giovane si tolse le rose che lo coronavano e le accomodó alle tempie di Barabba, l'assassino. Pi entró in casa con lui mentre il popolo giubilava nella via.
Su morbidi cuscini riposó Barabba le schiave cosparsero il suo corpo con nardo costosissimo, ai suoi piedí una fanciulla suonó il laud e la diletta del giovane si sedette a lui in grembo, era piú bella dell'aurora primaverile. Risuonarono risate, verso inauditi piaceri si affrettarono gli invitati, che tutti erano nemici giurato dell'Unico, serve del sinedrio e farisei.
All'una il giovane chiese che si facesse silenzio, ogni rumore cessó. Allora il giovane riempí la sua coppa dorata con il vino piú costoso e nella coppa il vino era come sangue ardente. Vi gettó una perla e la porse a Barabba. Poi afferró una coppa di cristallo e bevve con Barabba dicendo: “Il Nazareno è morto! Viva Barabba!” E nella sala giubilarono. “Il Nazareno è morto! Viva Barabba!” E il popolo nelle vie gridava:
“Il Nazareno è morto! Viva Barabba!”
Di colpo il sole si spense la terra tremó nel piú profondo e un'orribile oscuritá avvolse il mondo. Tremó la creatura.
Alla stessa ora si compí l'opera della salvezza.

A un palmo dalle mele

Ad un palmo dalle mele
Allora fu tutto l'oro scoppiando
Tra mele tra merli inerti rammemoravi, ancora
L'ondata dei tuoi sentimenti
spenta come ancora piú vaga ascoltavi
nell'ultimo scorrere del sangue
La prehiera piú negra
lasciami serpente, diamante
Credere ancora nel pane
Domani sará il melo ancora piú ritorto
A vicende connesse i suoi chiodi
Il crocifisso
Lascia che baci il tuo mantello
Signora
dalla fodera rosa.

*

Una ferita, apre sempre
Rosa paradiso di rose
Miele di luce acquatica e sale
Oltre tutte le paure sgorga
delfino minerale lo spirito
a logiche piú alte alternando lo slancio
Portato dalla schiuma del suono
Di cristalli scroscianti di strepitose trombe.

genseki

Georg Trakl

Georg Trakl

L'Autunno del solitario

Ritorna l'oscuro autunno in abbondanza di frutti,
Splendore ingiallito dei bei giorni estivi.
Puro azzurro s'insinua dallo sfascio delle colline;
Da antiche saghe risuona volo d'uccello
Riposa giá il vino, morbida quiete
Riempie di risposte sussurrate l'oscura domanda.

Su alture deserte stanno sparse croci;
Nel bosco rosso si perde un gregge.
Vaga la nube sullo specchio del lago;
Quieta riposa la capanna del contadino
L'ala azzurra della sera dolcissimamente sfiora
Un tetto di paglia secca, la terra nera.

Presto si annideranno le stelle nelle fronti spossate;
In fresche locande circolano silenzi novelli.
Escono delicatamente gli angeli dagli occhi azzurri
Degli amanti che teneramente soffrono
Freme il canneto, osseo grigio assalto,
Quando nera rugiada stilla da nude pareti.

trad. genseki

Le gocce del tuo tempo

Diverse erano allora le parole e diverso il dolore
Il calore dell'agosto traboccava dagli olmi
L'ombra sgorgava ancora dalla soglie delle capanne
E la corsa scrosciava ai madidi talloni
Feriti come rami dall'ombra dei ruscelli
La piuma della tua iride era nera di corvo
Il palmo della mia mani stringeva tutti i tuoi sguardi
(alcuni sgusciavano via tra le dita non abbastanza serrate)
Nell'amido d'amore fecondo si covava
La speranza solare falena vellutata
Dalla ferita scoscesa stillava il desiderio
Alla palma era inchiodato dal nitrito festivo
Le gocce del tuo tempo le lasciavi cadere
E conservavi il fiato come un petalo trasparente
Tremante sull'avena che inclinava la nuca
In rari diagonali brividi d'argilla.

*
Altri vestiti altre erbe no non volevo provarli
Indossarli come l'acque indossa la corrente
Come il vento prova sul suo corpo vibrante
La fibra trasparente dei sofffi e dei voli
Preferivo cadere allora tra i rintocchi
Frantumarmi in un volo di accordi
In uno scroscio di significati e di ciglia dal battito asincrono
E poi i tuoi erano neri – con quei denti – e ricamati
Vestiti a dorare la primavera nei meli
Quante piume anch'esse nere erano sparse nel prato
Tra la colza, sulla neve, tra gli olivi impoveriti
Dal passo troppo rapido della storia!
Altre erbe altri racconti ad una svolta del senso
Promettevano che la parola fosse carne e ricamo.

*

genseki

venerdì, aprile 16, 2010

Wang Wei


Si tratta della riproduzione tarda di un dipinto di paesaggio di Wang Wei.

Wang wei



Questi nell'immagine sopra alla sinistra sono i caratteri della poesia analizzata nel testo di François Chgeng tradotto nel precedente messaggio.

Non sono una meraviglia ma non ho trovato di meglio.
genseki


Introduzione alla poesia cinese

La parola e il vuoto

Da François Cheng

La scrittura poetica cinese


Nell'ordine lessicale e sintattico, la preoccupazione piú importante dei poeti si riferisce (...) all'opposizione tra parole piene (i sostantivi e i due tipi di verbi, quelli di azione e quelli di qualitá) e parole vuote (pronomi personali, avverbi, preposizioni, congiunzioni, comparativi, particelle, etc.).
l'opposizione tra questi due tipi di parole si da in due registri. In un registro piú superficiale si tratta di alternare ingeniosamente parole piene e parole vuote per dar luogo al verso. Tuttavia i poeti si resero presto conto che la funione ritmica in poesia legata alla nozione filosofica di soffio vitale, puó svolgere una funzione sintattica, cioé di separare o di unir le parole (quello che nella lingua normale fanno le parole vuote) in modo che i poeti procedono, in un registro piú profondo a una riduzione di parole vuote (pronomi personali, comparativi, preposizioni e particelle) conservando solo alcuni avverbi e congiunzioni.
In questo modo introducono nella poesia la dimensione del vero vuoto corrispondente al soffio mediano. In questi, come in altri casi, il pensiero cinese considea il vuoto (...) come il luogo in cui gli esseri viventi e i segni si incrociano e si scambiano in modo non univoco, e per questo come il luogo per eccellenza dove si moltiplica il senso. In certi casi i poeti giungono persino a usare una parola vuota al posto di una piena (nella maggior parte dei casi un verbo) sempre con il proposito di introdurre il vuoto nel pieno ...
Nelle parole piene vi sono altre sottocategorie come per esempio tra parole morte e parole vive: si-zi e huo-zi; parole statiche e parole dinamiche: jing-zi e dong-zi che marcano la differenza tra sostantivo e verbo, ma anche tra verbo di qualitá (aggettivo) e verbo di azione. Per i poeti che cercano di afferrare l'azione segreta delle cose un verbo puó avere tre stati: dinamico (quando si usa come verbo di azione), statico, (quando si usa come verbo di qualitá), e, infine vuoto (quando al suo posto si usa una parola vuota).
...
Il “vuoto” ... tra i segni e “dietro” i segni modifica le loro relazioni e le loro implicazioni e ottiene l'effetto di restituire agli ideogrammi la loro natura ambivalente e mobile, il che permette l'espressione di una simbiosi sottile tra l'uomo e il mondo, simbiosi che la poetic cinese esprime con la combinazione di sue termini qing “sentimento interiore” e jing “paesaggio esteriore”.

Elisse dei pronomi personali
Il proposito di evitare il piú possibile le tre persone grammaticali è una decisione cosciente e da luogo a un linguaggio che situa il soggetto in una relazione particolare con le cose e con gli esseri. Cancellando o sottintendo la sua presenza il soggetto interiorizza gli elemeti esterni.
...
Montagna vuota/nulla vedere
Solo udire/ voce umana risuonare
Sol ponente/ penetrare bosco profondo
Ancora un istante/ illuminare muschio verde

In questa quartina di Wang Wei, poeta, pittore e seguace del Chan si descrive un paesaggio di montagna che è contemporaneamente un'esperienza spirituale del vuoto e della comunione con la natura. I due primi versi dovrebbero intepretarsi cosí: “Nella montagna deserta non vedo nessuno, solo posso udire voci lontane”. Con l'eliminazione del pronome personale e dei locativi il poeta si identifica inmediatamente con la montagna deserta che non è piú un complemento di luogo. Cosí, nel terzo verso il poeta è il raggio di sole che alla sera penetra nel bosco profondo.
Dal punto di vista del contenuto i due primi versi presentano il poeta come qualcuno che ancor non vede ...; i due ultimi versi, invece si centrano sulla visione: vedere lo splendore dorato dei raggi del sole al tramonto sul muschio verde (...). Vedere significa qui illuminazione e comunione profonda con l'essenza delle cose.

François Cheng
L'Écriture Poëtique en Chine
Trad. genseki

giovedì, aprile 15, 2010

Apollinaire


Apollinaire

Guillaume Apollinaire

Sulla poesia

Quella che segue è una pagina di Apollinaire, tratta da una lettera a Lou nella quale egli tenta di delineare una definizione della funzione del poeta e della poesia. Certo si tratta di un testo davvero goffo. Si puó perdonare una tale goffagine in considerazione del conteso e della persona a cui il testo è diretto? A Guillaume Apollinaire si puó perdonare tutto anche solo in virtú della “Chanson du mal aimé” ma qual era il suo fine nel voler ridurre il poeta a una specie di Giulio Verne in versi?
Che cosa cercava di dire a Lou spiegandole che la poesia trova la sua giustificazioe non in sé ma in altro da sé sie esso l'amore che come fu dett piú tardi consiste nel “dare ció che nonsi ha a qalcuno che non lo vuole” o, piuttosto l'immaginazione anticipatrice che, poi come si evince da altri testi dello stesso Apolinnaire è immaginazione tecnologia (i poeti per primi hanno immaginato il volo umano, etc). quest'ultimo fine è davvero risibile e ogi si è adirittura capovolto. È la tecnica che immagina da sola quello che nessun poeta mai poté immaginare: internet o la clonazione, Un testo davvero goffo.
genseki

“Ti devo pregare che non ti facia piú beffe dell'ufficio di poeta. So che non lo fai con cattiva intenzione ma se continui così diverrá un vizio. Per prima cosa, essere poeta non vuol dire che non si sia capaci di fare nient'altro. Molti poeti hanno fatto dell'altro e in modo rigoroso. (...). Inoltre, l'ufficio di poeta non è inutili, né folle e neppure frivolo. I poeti sono i creatori. ( Poeta viene dal greco e significa effettivamente creatore e poesia significa creazione). Peratnto sulla terra non esiste nulla, nulla appare agli occhi degli uomini che prima non sia stato immaginato da un poeta. L'amore stesso è poesia naturale della vita, l'istinto naturale che ci spinge a creare la vita, a riprodurci. te lo dico perché tu ti renda conto che non mi dedico all'ufficio di poeta per simulare di fare qualche cosa e dedicarmi al dolce far niente. So che coloro che si dedicano al lavoro poetico fanno qualche cosa che è essenziale, prmordiale, necessario, in definitiva divino. Naturalmente non mi riferisco ai semplici versificatori. parlo di coloro che con un processo penoso, amoroso o geniale giungono giungono poco a poco a esprimera una cosa nuova e muoiono per l'amore che gli ispirava.

G Apollinaire
Lettres à Lou
Trad. genseki

mercoledì, aprile 14, 2010

Il temporale viola

Fu la tartaruga che conobbe per prima
Il peso dei segni, la gloria del sigillo,
Il temporale viola, intanto lavava via il polline
Dalle case e il vento rubava i canti alle puerpere
Impazzando tra le lenzuola bianche
Stese a ad asciugare sull'erba
Anch'esse prone al pennello,
Destinate al rintocco di campane
In una profusione di pistilli e cristalli
A lei chiesero allora l'oracolo,
Il cammino verso i sentieri di incenso
Il temporale viola spazzava l'innocenza
Dalle labbra e dalle lenzuola.

genseki

Dreiser Cazzaniga e il passato

Alla soglia della vechiezza, nei primi anni del suo esilio volontario, Dreiser Cazzaniga si volse all'indietro e scoprí che alla sue spalle si esetendeva un mondo intero, il mondo del ricordo, il passato.
Scoprì che questo mondo era piú ricco e interessante che quello della speranza, dell'imaginazione, del vagheggiamento del futuro al quale fino ad allora aveva rivolto la sua attenzione, Mondo nebbioso questo dell'avvenire, fatto di vaghe coincidenze di linee, di orizzonti soltanto probabili, di paludi in cui il desiderio lasciava macerare la ragione. E poi si faceva stretto stretto. Sempre piú prossime apparivano alla coscienza angustiata le scogliere bianche come zanne su cui si frangevano le correnti dell'abisso. Non ce la faceva piú il suo cuore, quando le pioggerelline dell'impermanenza
infracidavano le lande, a afferrare il mantello della Vergine, a scaldarsi alla candela di una fede.
Fu in queste ambasce che si volse l'anima sua al ricordo. Il paese del ricordo era lui stesso che lo aveva creato, era quello che di se stesso egli aveva fatto e ancora poteva fare, aggiustando le interpretazioni, cercando le coincidenze, coordinando i percorsi, variando indefinitamente le rotte. Vivere nel ricordo divenne per lui una passione e una ragione. Le sue memorie divennero il suo talismano. Nelle regioni dell'adolescenza si ergeva sovrano il giovinetto divino, il poeta dai calzari alati, il goffo, bellissimo, scontroso Rimbaud e molti dei fili della sua vita si dipanavano dalla fede cieca che nella prima adolescenza aveva avuto in lui, fino a vedere con gli occhi di lui il fresco paesaggio della dolce Francia, i temporali sulla Sologna, i campi coperti dai corvi nelle sere fredde dell'estremo autunno, viaggiare nel ricordo fu per Dreiser Cazzaniga, in un primo momento ritornare a credere in lui, scoprire le ragioni della sua fede e valutare quanto immensamente un verso che egli aveva poi dimenticato, avesse potuto condizionare in forma concreta la sua vita.
Intensa fu la meraviglia che in questo periodo Dreiser Cazzaniga dedicó alla ventura amororsa dell'amico suo Lu Spadaro di Quittengo. Egli sembrava aver goduto di una esperienza molo simile a quella di Dreiser Cazzaniga. Soltanto che per lui la scoperta del ricordo, il paese del passato aveva assunto la forma molto concreta e poco metaforica del corpo e dell'anima della bella Unica, monade del suo amore adolescente, per la quale sempre arse nel suo cuore fiammeggiante Minne. Amava finalmente ancora riamato l'amore dei suoi teneri anni che aveva creduto perduto. Dreiser Cazzaniga si chiedeva come concretamente potesse darsi una simile esperienza, che cosa potesse restare in un corpo segnato dalla crudeltá degli anni e accresciuto in bellezza, questo è certo, dalle ferite del tempo trascorso, della freschezza primaverile di quegli occhi verdi o lilla di Riviera, in cui tuffarsi come lo sguardo negli olivi, e poi giú fino al mare sul promontorio. Dreiser Cazzaniga ricordava i loro motorini appaiati tracciare calligrafie di tenerezza nel traffico raro del primo pomeriggio. Non ricordava quasi niente di lei, solo forse che soleva indossare maglioncini bordó o di un qualche sensuale colore vinoso. La veritá era che Dreiser Cazzaniga era stato geloso di lei, geloso fino all'ariditá del cuore di colei che legitimamente poteva stringere l'amico suo in piú lacci e piú amplessi. Dreiser Cazzaniga si consolava della gelosia, allora, leggendo e mettendo a punto minuziosamente il suo insuccesso, organizzando con lieta incoscienza i suoi futuri fallimenti.

A cura di genseki

martedì, aprile 13, 2010

Michele e Cristina

Orsú se il sole lascia queste lande
Fuggi chiaro diluvio dall'ombra delle strade
Sui salici, nel vecchio cortile spande
Dapprima il temporale gocce ampie.

Oh cento agnelli d'idillio soldati biondi,
Dagli acquedotti, da pallide brughiere
Fuggite! piano, deserti, prateria, orizzonti
Il rosso temporale sta lavando!

Can nero, pastor bruno di vorticosa cappa
Fuggite ormai dai raggi superiori
Biondo gregge al nuotar d'ombra e di zolfo,
Orsú discendi ai ripari migliori.

Ma io Signore! Il mio spirito vola
Oltre il rosso dei cieli gelati alle
Nuvole celesti che correndo sorvolano
Cento Sologne lunghe come binari.

Poi mille lupi mille semi selvaggi
Solleva, ben attento ai convolvoli,
La religiosa sera di tempesta
Sull'Europa da tante orde percossa.

Poi chiara luna, ovunque la landa
Arrossa, la fronte volta ai cieli neri i guerrieri
Lenti van cavalcando i pallidi corsieri
Come suonano i ciottoli sotto la fiera banda!

Ch'io torni a riveder il bosco giallo
La sposa, occhi celesti, l'uomo di fronte rossa, Gallo!
L'Agnello, l'Ostia, ai loro piedi amati
- Michele e Cristina - Cristo! - Fine dell'idillio.

A. Rimbaud
Trad. genseki

Poesia e calligrafia

Du Fu


Storia della calligrafia cinese

François Cheng

La calligrafia

La calligrafia esalta la bellezza visuale degli ideogrammi e non invano divenne in Cina un'arte maggiore. Quando pratica quest'arte un arte, un cinese scopre il ritmo profondo del suo essere e comunica con gli elementi. Per mezzo dei tratti significanti si consacra interamente. Lo spessore e la scioltezza dei tratti gli permettono di esprimere i molteplici aspetti della propria sensiblitá: forza e tenerezza, impulso e quiete, tensione e armonia. Quando ottiene l'unitá di ogni ideogramma e l'equilibrio tra i caratteri, il calligrafo attinge alla cosa in sé e realizza la sua propria unitá. Gesti immemoriali e sempre di nuovo intrapresi, la cui cadenza, come in una danza con la spada si plasma istantanemante grazie ai tratti che si slanciano, si incrociano, volano oppure affondano che assumono un significato e aggiungono altri significati a quello codificato delle parole. In efetti si puó parlare di senso per quanto riguarda la calligrafia perché la sua indole gestuale e ritmica non permette in nessun modo di dimenticare che opera con segni. Durante una esecuzione, il calligrafo ha sempre in qualche modo in mente il significato del testo. Per questo la scelta di un brano non è mai gratuita o indifferente.

I testi preferiti dai calligrafi sono senza dubbio i testi poetici. (Versi, poesie, prose poetiche). Quando un calligrafo affronta un poema non si limita a un mero atto di copia. Nel calligrafare risuscita integralmente il movimento gestuale e il potere immaginario dei segni. È questa la sua maniera di calare nella realtá profonda di ciascuno di essi, di adattarsi alla cadenza propriamente fisica del poema e alla fin fine di ricrearlo.

Anche i testi di indole incantatoria attraggono i calligrafi. In essi, l'arte calligrafico restituisce ai segni la loro funzione magica e sacra. I monaci taosti giudicano l'efficacia dei talismani o degli incantesimi che tracciano dalla qualitá della calligrafia che permette la comunicazione adeguata con l'al di là. ...

Il poeta non puó essere insensibile alla funzione sacra dei segni tracciati. Come il calligafo che nel suo atto dinamico ha l'impresione di vincolare i segni al mondo originario, di scatenare un movimento di forze armoniche o contrarie, il poeta non dubita che combinando i segni ruba qualche segreto ai genii dell'universo, come dimostra questo verso di Du Fu:
Finito il poema stupiscono demoni e dei

Questa convinzione ha come conseguenza che ognuno dei segni che compongono il poema acquisisce una presenza e una dignitá eccezionali. Questo spiega anche la ricerca, durante la composizione del poema di una parola chiave: la parola occhio che illuminando in un sol colpo il poema intero rivela il mistero di un mondo occulto. Numerosi annedoti rivelano come un poeta si prosterna davanti ad un altro e lo venera come “Maestro di una parola” all'avergli “rivelato”la parola assolutamente esatta e necessaria che li permette di finire il poema e cosí di “completare la creazione”.

François Cheng
La scrittura poetica in Cina
Trad. genseki

lunedì, aprile 12, 2010

Georg Trakl

Quelle che seguono sono due proposte di traduzione da Georg Trakl. Ho sempre cercato di tradurre Trakl, sempre sono rimasto deluso del risultato. L'antinatinatura tutta mentale di Trakl simula il paesaggio e ci coinvolge invece in un teatro cattolico del crepuscolo e del disfacimento. Quasi ai limiti della putrefazione dei contenuti psichici.
La traduzione non trasmette pienamente queste sensazioni ma è un primo approccio.
genseki

Georg Trakl

Canto a sette della morte

Quiete e silenzio

Pastori seppellirono il sole nel bosco fresco
Un pescatore trasse
Dal rabbrividente stagno la luna nella sua rete

In azzurro cristallo
Abita il pallido uomo, le guance volte alla sua stella
Oppure china il capo in sonno purpureo.

Tuttavia sempre sfiora nero volo d'uccelli
Chi guarda, il santo fiore azzurro,
Pensa prossimo silenzio d'obliato, angelo spento.

Di nuovo annotta la fronte in pietra lunare
Radiosa giovinetta
Appare la sorella in autunno e nero marcire

*



Nascita

Monti: nero, silenzio e neve.
Rossa dal bosco scaturisce caccia
Oh lo sguardo muschioso della fiera.

Silenzio materno, tra neri abeti
S'aprono mani dormienti
Quando cadente fredda luna appare
Oh, la nascita dell'uomo. Notturna mormora
Acqua azzurra sul fondo della falesia;
Sospirando sfiora la sua immagine l'occhio dell'angelo caduto.

Pallido si risveglia nella stanza soffocante
Come due lune
Risplendono gli occhi di pietrificata vegliarda.

Ahimé, il grido della puerpera. Con nera ala
Culla la notte sogni di bimbo,
Neve che lenta discende da nubi purpuree.

Trad genseki

Il piccolo Monchiero

Monchiero era piccolino
E condannato, lo avreste abbigliato
potendo – di pelle di lepre,
Leprotto, dai grandi occhiali rotti
I riccioli pieni di spighe
E forse scarpe che non ricordo
Dormiva sul balcone, Monchiero,
Tra le ceste di lumache poste a spurgare
Nel candore della farina tutti i peccati
Della loro lascivia, uno a uno
In fondo la linea del fiume il gelo
Il filare dei pioppi il pastore Thorvaldsen
Maledicendo il silenzio di tutti quei ciottoli
Mentre pascolava i suoi cani rossi
Che freddo sul balcone,
La madre dormiva al calduccio del metano
Tra le lenzuola unte nell'odore della lana fracida
Che ha odore di cane e di fango di fiume
Dove si macerano gli ontani
I suoi peccati li scontava al freddo
Il piccolo Monchiero
A colazione la madre lo obbligava
A predere il bricco del latte bollente
Con le mani nude
Lo avresti rivestito di pelliccia
Di merlo
potendo – il piccolo Monchiero
Con un berreto fatto con metá guscio
Di una nocciola di Cortemilia con le sue ditina rosse rosse
E screpolate, cadeva e si rialzava
Solo nei punti in cui il selciato
Era piú duro e tagliente
Era proprio come suo padre il piccolo Monchiero
Uno zingaro di tutti i peccati, un porco di tutti i macelli
Era come suo padre e lei gliele avrebbe fatte pagare tutte
Quelle che lui le aveva fatto a lei, alla mamma
Del piccolo Monchiero, zampe di gatto su unghie spezzate
Contento di ripetermi con tutta la sua innocenza
Che lui era cosí proprio come suo padre
Che non sapeva far nulla, un fagnano da nulla
Le avrebbe pagate tutte quelle che le avrebbe combinato
A lei con la moto sul balcone al freddo di tutti i peccati
Non seppi mai guardarlo con la venerazione
Che il suo martirio avrebbe meritato
Il piccolo Monchiero, io che attraversavo
Tutte le mattine le lastre di ghiaccio in bicicletta
Con un berretto basco e il chiuei rosso,
Non lo seppi guardare, ora da morto
Mi affligge quaggiú il raggio glorioso
Della sua bellezza fangosa.

genseki

*

venerdì, aprile 09, 2010

Erano quasi gioielli

Erano quasi gioielli, questi,
Che andavano poco a poco trasfomandosi
In una idea meno cangiante di se stessi
Quasi splendori boccioli sfarinando
Germinazioni di mitili e di marne
Bandiere fresche alla corrente aperte
Sullo sfondo screziato di un mare
Come un oltraggio a ogni altra ferita
Altri, forse, frammenti di schiuma
Spruzzi fosilizzati alla soglia del culmine
All'ansia del precipizio, al punto esatto
Della fronte dove fibrilla l'elitra del sogno
Ove il bagliore è presentito nella tenebra
E fulmina la coscienza con la dolorosa necessitá
Di cominciare tutto il suo processo
Erano quasi spendore, scintilla dileguandosi
Nell'effimero del loro pullulare, sciami
Gemme appena, grani cristalli di placton
Si combinavano allora rispecchiandosi
Ognuno nel suo riflesso ecchimosi
Fino a riemergere allora da un qualche fondo
Provvisti ora di un interno e di un esterno
Erano quasi gioielli, quasi talismani
Di rigenerazioni disorganiche, miriade
Frammentaria e tagliente nell'assoluta
E limpida infine ineludibile crescita
Delle loro sere, sereni quasi sibili.

genseki

*