lunedì, dicembre 14, 2009

Lamento dei vecchi smemorati

I pochi vaghi fili ancora intatti
Che ci legano al mondo della luce
Vanno facendosi sempre piú sottili
E quanto piú sottili più dolenti

Cosí van susseguendosi gli istanti
Franosi mancamenti di pensieri
In una nebbia di dimenticanza
In una danza di ali e di fiocchi

Ci appare l'ora mosaico di rintocchi
E il sole che piú scalda è quello d'ieri
Domani è affanno d'esserci precario
La speranza è tessuta in filigrana

Sullo specchio d'ottone impolverato;
Vecchi restiamo avvolti in mille scorie
Eretti contro il vento del futuro
Che furioso vuol spingerci a ritroso

Solo riflessi ormai restiamo eretti
E lo specchio è un tessuto luminoso
Che si va consumando filo a filo
Memoria è regno di robinie in fiore

Bianco il Tuo seno come la ricotta
Lascia che il capo vi si posi ozioso
O Falciatrice dai piedini svelti
Quando gocciolerà l'ultimo raggio.




genseki

venerdì, dicembre 11, 2009

Autunni

Solo un pugno di autunni ci fu dato
E li abbiamo persi quasi tutti
Distratti dall'origine
O dal tramonto
Infreddoliti o timidi
I primi li abbiamo perduti
Per non sapere che erano autunni
Successivamente li mancammo
Perché non sapevamo che erano solo un pugno
Non avevamo freddo, allora - no!
Poi la ragione fu che ci rendemmo conto
Di quanto pochi erano quelli che restavano
E contavamo i milioni e milioni di autunnni
Che si sarebbero sfogliati
Dal grande loto delle stagioni
Quando per noi non ci sarebbero stati piú altri autunni
Oltre quelli infiniti
Immoti del passato
Che avevamo finito per perderci.

genseki

Nice

Anche il ricordo di quell'autunno
Finí con una foto sul lungomare
Tu eri pallida come le onde
Gli occhi all'altezza della linea dell'orizzonte
Il fotografo dava le spalle al Negresco
Tra due palme erano avvitate
Le tue scapole
Poco piú in lá del mare, appena un poco oltre
Viaggiava invece la tua anima preda
A cercare il branco di lupi
Cui era stata destinata
Come avrei potuto seguirti tra le nuvole
Tra pelo e zanne?
Lo sai un altro lupo
Ci aspettava quieto nella stanza dell'Hotel Gounod,
Accoccolato tra le coperte di pelle.
Come avrei potuto seguirti tra queste cascate di luce
Appena all'angolo del mare
Tra le piante di prezzemolo
Che le mani di tua madre accarezavano
Come tu ora accarezzi queste onde
Poco oltre il mare, all'angolo della vecchia bottega
Di assi si specchiava la tua anima preda di lupo
Il vecchio lupo
Quello di sempre
Con il suo branco di motociclisti
E le gitanes e i tuoi occhi paralleli alla linea dell'orizzonte
Le spegneva tra le piante di prezzemolo le gitanes
Tra le dita di tua madre.

geneki

Provenza

Per i capi frastagliati della Provenza
Pedalavo d ramo in ramo
Come fossero alberi di terra
Chiome di terra e roccia
Aperte sul mare che era cielo
Non ancora cartografato
E l'origano mi riportava a casa
Alla porta bianca, alle sedie arancioni
L'origano e il rosmarino dal profumo spinoso
Lontano dalla neve
Per i capi della Provenza
Frastagliati andavo pedalando
Con Bernardo e Rambaldo
E i loro segugi
E mi mancava quella sensazione
Di latte sulle labbra che mi gocciolava
Dal contemplare i tetti di ardesia
Dall'oblò del mio nido campanile
Perché quella di Provenza era un'altra luce
E in quella luce cercavo di dimenticare
Pedalando i pensieri frastagliati
Le punture dell'origano e del rosmarino
Fino a che tutto fosse solo latte
E bacio di neve baciata
Nel bianco senza più chiome

genseki

giovedì, dicembre 10, 2009

L'infanzia di Dreiser Cazzaniga

L'infanzia di Dreiser Cazzaniga trascorse integralmente nel barrio operaio, boscoso e umido detto Briggio. La città dai tetti grigi si estendeva come un mare pietrificato dietro alcune creste di colline luminose su cui vegliavano le pievi ora come ali d'angeli ora come vascelli dalle vele candide. C'erano odori sconosciuti nel Barrio di Briggio, almeno sconosciuti al piccolo Dreiser, come per esempio la cannella, altri che persistevano ossessivamente per lunghi periodi ,come quello della fioritura dei castagni, che aveva qualche remota somiglianza, nella mappa olfattiva e simbolica del piccolo Dreiser con quello della farina e della mollica del pane. C'era poi una stagione, verosimilmente la tarda primavera, in cui predominava il profumo di linfa delle fronde appena tagliate che venivano poste ai lati delle porte come verde adorno silvestre, omaggio a qualche divinità dimenticata che anticamente scendeva a benedire le soglie. Il barrio di Briggio era sovrastato dagli archi delle vie ferrate che si sovrapponevano e che conducevano questi luminosi serpenti di metallo verso le loro tane: i tunnel montani sui fianchi dei monti selvosi. Presto a queste vie si sovrapposero quelle autostradali bianche e dalle linee semplici e dirette. Tutte queste vie erano la ragione dell'isolamento di Briggio. Le strade servivano a isolarlo sotto le volte dei loro ponti sul fondo della sua umida valle.
A nord di Briggio, oltre i monti selvosi, si apriva la landa delle colline inebrianti. Onde su onde di trigo e vigne, osterie, cortili e piazze polverose delimitate da ippocastani. Un mondo selvaggio, in cui l'odore del motore non era ciò che inebriava i giovani, ma il profumo alcolico del fieno sotto il sole. Le ragazzine avevano le trecce!
A sud del Barrio di Briggio il mondo precipiava in ripida discesa verso il mare, sconosciuto deserto di simboli abbracciato dalla città materna rorida di latte.
A Briggio gli uomini bevevano un vino spesso che si appiccicava ai bicchieri, le donne vestivano quasi tutte di nero, i ragazzini formavano bande armate di lance e fionde per cacciare i cani randagi e battersi tra di loro. In realtà le bande poi erano due: quella di a monte e quela di a valle.
In esse Dreiser ricevette i primi rudimenti della muta disciplina militare che doveva segnare in una certa misura il suo modo di veder la vita.

A cura di genseki

Alfonso Cortés

Odor di Dio

L'universo ultimo di Cortés è un modello di ipseitá e, per tanto, di costruzione dinamica dell'io,

Questa risulta una costante dei suoi versi:

Yo soy un ser ávido y lóbrego, un profundo

Centro de gravedad de todos los misterios

dice nella poesia “Hermanos”;

Es que yo he de ser siempre un punto alucinante

Resuene el múltiple eco del universo?”

Si interroga nel “Poema quotidiano”:

Yo soy la roca en que será labrado

Un ideal dos veces primitivo,”

si autodefinisce in “Ararat”.


Essere avido, oscuro, centro profondo, punto allucinato e roccia non sono espressioni prese dalla letteratura, ma dall'esperienza: dall'angosciane intensitá di un uomo, di un io che si ubica, si riconosce e si compenetra nell'immensitá dell'esistente, del creato. Tuttavia, metre cerca la propria identitá, scopre altre realtá per mezzo di studi allucinanto della propria coscienza, o piuttosto, di autodefinizioni che rispondono a una piena rascendenza di se stesso.


La festa dei sensi


Trascendendo se stesso, Cortés si inventa. Lo stesso capita al suo coetaneo, al poeta messicano Ramón López Velarde, con cui puó essere comparato per il fatto che i due hanno molti elementi in comune e una equivalente altezza poetica. Entrambi, per esempio, sono eredi di Charles Baudelaire nello stabilire sottili relazioni tra le cose e impiegare l'olfatto come pochi hanno saputo farlo dopo il francese.

Nel caso del nostro poeta, questo senso risulta speciale perché egli è capace di trovare:

Un perfume de cosas que no son de la vida” (“Me ha dicho el alma”)

e capta quello che resta proibito alla maggioranza degli uomini:

¿Sientes? En este sitio en que estamos los dos

Huele a gas, huele a infancia y a Dios” (“La chimenea”)

Nemmeno la divina presenza puó sfuggire alla sua capacitá olfattiva. Percé essenzialmente Cortés è sensoriale. (...). nel suo contatto profondo con le cose, o meglio, con l'anima delle cose, non si tratta tanto del tatto e del gusto, quanto dell'olfatto – come si è detto – e della vista. Ma soprattutto dell'olfatto.

(...)

Il significato dell'udito, tuttavia, affonda nella capacitá di andare “oltre i sensi” che è una delle direttrici fondamentali della sua poesia. (...) così giunge a udire l'invisibile: “La morte è un silenzio (“Aniversario”) che suppone impossibilitá di esistere senza parlare e udire dal momento che la vita è suono.


Jorge Eduardo Arellano

Mexico 2009

trad. genseki

mercoledì, dicembre 09, 2009

Lucian Blaga

Canzone dell'origine

All'origine, alla sorgente
Solo in forma di nubi
Tornano l'acque.
All'origine, alla sorgente
Con nostalgia vanno i sentieri
Acque, sentieri, nubi, nostalgia
Quando domani torneró alla fonte
Acqua saró, o nube
O nostalgia?

Trad genseki

sabato, dicembre 05, 2009

Haydn - Symphony 22 - mvt 3

Haydn - Symphony 22 - mvt 2

Haydn - Symphony 22 - mvt 1

Alma Ata

Fu ad alma Ata che la vidi nuda Per la prima volta sulla moquette Dell'Hotel Rahat Venivamo dalla città bassa Dalla visita alla cattedrale di Zenkov Il Principe Timur aveva rienpito Anche i miei occhi del suo miraggio azzurro In cui cavalcava con i serpenti E le fiamme ballavano tra la segala Sulla moquette la sua biancheria Formava come l'immagine plastica Di una catena montuosa, innevata Nuda aveva davvero pelle e pori E tutto ben avvolto nel tepore Era come carena abbandonata Sulla spiaggia da un monaco naufrago Un discepolo di San Brandano Come un uccello senza seno, venere senza penne Le dita dei suoi piedi mi sorpresero: Avevano unghie! Sembravano impegnate a fingere Una solenne indifferenza O poterla volare, essere in caccia Persguirla nel cielo in una grandine Di sangue Fino a che fosse neve la sua carne E il suo tepore cervo solitario! genseki

La casa di Alfonso Cortès a Leòn


Isolati restavano i due picchi

Isolati restavano i due picchi
Nella solitudine delle dune
Anche la luna si situava al centro
Di tanta pallida desolazione
Non smettere di salire mi dicevo
Sanguinando di ciottolo in zolla
Tanti granelli di sangue seminando
Palme future dai datteri perlacei
Con gli occhi non volevo separarle
Quelle due cime, la luna, gli anelli di fumo
Anche i fiori erano taglienti
Come frammenti di specchi infranti
Petali dolenti scricchiolanti
Inchioda i miei occhi Dio Lupo
Uno per ciascuna delle cime
Saranno testimoni del dolore
Che non si espia di essere se stessi
Infranti nel confronto con le cose
lascia che piangano rivoli di vista
Fiumi di visioni scorreranno
dalle cime isolate picchi antichi
Per le pianure di anice e mughetto
Fiumi di percezione visuale
Laddove una fanciulla delicata
Possa raccogliere nel palmo della mano
La storia che fu vista e maledetta
Quando l'uomo era io nudo rabbioso
Annodato a se stesso condannato.

genseki

giovedì, dicembre 03, 2009

Ricardo Jaimes Freyre

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Pellegrina colomba immaginaria


Pellegrina colomba immaginaria

Evocatrice degli estremi amori

Anima luminosa di musica e di fiori

Pellegrina colomba immaginaria


Vola sopra la roccia solitaria

Che bagna il freddo mare del dolore

Al tuo passaggio riverberi splendore

La secca e spoglia roccia solitaria


Vola sopra la roccia solitaria

Pellegrina colomba, ala di neve

Come ostia divina, ala sì lieve...


Come fiocco di neve; ala divina

Ostia di neve giglio nebbiolina

pellegrina colomba immaginaria.


Da "Castalia Bàrbara"

trad. genseki



Dreiser Cazzaniga e il "mobbing"

Dreiser Cazzaniga e il mobbing

Ripensandoci ora, sul limite dell'estrema vecchiezza Dreiser Cazzaniga si rendeva conto di essere stato, nel corso di tutta la sua brevissima vita lavorativa e dei suoi molti lavori, oggetto costante di quello che s suole chiamare “mobbing”.
Durante, però, quando il “mobbing” era in atto, non se ne era mai reso conto. Il “mobbing” scivolava su di lui senza graffiarlo, oppure era lui che si muoveva nelle nebbie del “mobbing” come in un mattino cristallino di un gennaio solare e montano.
Si chiese il perché di questa strana sua scoperta senza giungere mai a una conclusione che gli paresse soddisfacente.
Può darsi che il “mobbing” fosse così continuo, fin dal principio e che non avesse mai avuto la possibilità di confrontare la sua vita lavorativa minacciata con una vita lavorativa normalmente serena.
Questa ipotesi, tuttavia non spiegava affatto come fosse possibile che ora, invece, ritirato tra i fichi d'India della Sierra de los Puros , in compagnia di tre galline sterili e di qualche avvoltoio moreno se ne rendesse conto. Ora che non aveva più nessuna possibilità di confronto!
Forse, il lavoro era per lui così privo di importanza esistenziale che egli lo attraversava come in stato ipnotico.
In effetti aveva lavorato poco, e quel poco con tanta ingenua leggerezza che la cosa che ricordava di più delle sue occupazioni, era il viaggio che gli toccava intraprendere tutte le mattine per raggiungere il posto di lavoro.
Aveva sempre lavorato come pendolare estremo e polimodale. Ebbe lavori in luoghi freddissimi e nebbiosi, irraggiungibili con i mezzi pubblici, che seppe sempre raggiungere, tuttavia con una fantasiosa e devastatrice combinazione di sistemi di trasporto, treno, rimorchio, bicicletta, passaggio del collega. Intervallati di attese interminabili.
Così, però, si godeva l'autunno, seguiva la variazione di colore delle foglie di un certo albero con precisione assoluta, calcolava la fioritura dei ciliegi, sapeva dell'apparizione delle primule sui cigli di molti prati.
E non si ricordava di avere un lavoro.
Giunto sul posto di lavoro, era troppo stanco per lavorare. Lavorare era allora per lui sognare di poter dormire.
E in questo sogno di giungere a sognare si rendeva conto, per esempio del lampeggiare pieno di odio degli occhi della grassa pescivendola Donatella Sbardello che tramava per farlo licenziare con ignominia da una ispezione all'uopo convocata.
Probabilmente gliene sarebbe stato grato.
Avrebbe anticipato il suo ritiro, con una vacca però e tre galline, in una valle alpina davvero vaginale.
Come Bosco Cappuccio di Ungaretti, dove dormire finalmente e vivere di latte e uova nell'odore acre della legna bruciata del camino.
Sicuramente anche il direttore Nespolino doveva aver tentato di farlo fuori, l ricordava mentre aggrottava la faccia castagnosa.
Egli però non cessò mai di vivere al lato del “mobbing” di viaggiare, sognare di dormire e leggere, leggere leggere.

A cura di genseki

mercoledì, dicembre 02, 2009

Le Contemplazioni

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Ho colto questo fiore per te sulla collina

Su di un'aspra parete che sul flutto s'inclina

Che l'aquila soltanto conosce e frequenta

Tranquillo in una crepa della roccia cresceva

L'ombra bagnava il fianco del cupo promontorio

La cupa notte vidi, ove il sole tramonta

Erigere, qual arco di trionfo vermiglio

fatto solo di nubi un colonnato immenso

Vidi vele fuggire fuggire sul lontano orizzonte

E casette nascoste in fondo ad un imbuto

Con luci tremolanti per timor d'esser viste

Ho colto questo fiore per te mia dolce amata

Pallido non possiede corolla profumata

la sua radice fragile sulla cresta del monte

Sol l'amaro ha succhiato delle alghe celesti;

Così ho pensato: - O fiore dall'alto della cima

Alfin dovrai cadere nell'abisso profondo

Dove l'alghe, le nubi e le vele scompaiono,

Muori allor su di un cuore abisso senza fondo

Appassisci sul seno ove palpita un mondo

Il ciel che t'ha creato per sfogliarti sull'onda,

Ti fece per l'Oceano, all'amore ti dono

Solo un vago chiarore rimaneva del giorno

Morente mentre il vento scompigliava le onde

O quanto ero triste nel fondo del pensiero

Mentre fantasticavo ed un vortice nero

Nell'anima m'entrava con brivido notturno.


Isola di Serk Agosto 1855

Victor Hugo

Les Contemplations


trad. genseki



martedì, dicembre 01, 2009

Pietre

Pensiero

Il vero nerbo è la veritá del pensiero, Solo se il pensiero è vero lo è anche il sentimento.

Hegel
Lezioni sulla filosofia della religione
Parte II cap.1 Sez. prima