mercoledì, novembre 04, 2009

I piedi

Dreiser Cazzaniga era un feticista al contrario, ci deve essere un termine tecnico per indicare qualche cosa del genere ma non lo conosco. Dreiser Cazzaniga detestava i piedi, in ispecie quelli femminili. I piedi sono inevitabilmente una parte del corpo, non hanno nessuna possibilitá di essere considerati altro che una parte del corpo, Questo era ció che Dreiser Cazzaniga non riusciva proprio ad accettare: i piedi come due animali dotati di vita propria appiccicati ad un corpo con pretese di bellezza. Due animaletti ben capaci di moine graziose e di espressioni accattivanti ma pur sempre due animaletti, due ciechi grumi di materia cioè di morte in un corpo che si pretende oggetto e soggetto di amore, coè di soggetto e oggetto dello spirito. I piedi non riescono mai a giungere alla fisionomia però ne sono spesso la caricatura. Naturalmente detestava ancor più le unghie dipinte, specialmente di blu o di verde. Dovettero passare molti anni perchè infine potesse accettare con una certa calma di avere anche lui due piedi. ma sol come poderosi supporti della corsa, prese dell'energia della terra, li accettava solo immaginandoli come radici. Nonostante tutto finì per esser un viandante in sandali, Anche in stagioni poco propizie come l'autunno.
genseki

lunedì, novembre 02, 2009

domenica, novembre 01, 2009

Corpo narrato, corpo salvato

Per l'uomo, che vive nel linguaggio e per il linguaggio, la sola maniera di accettare di possedere un corpo, di vivere in un corpo biologico con la sua fisiologia atroce è di sovrapporre ad esso un corpo simbolico. Un corpo simbolico che, in qualche modo, funzioni da intermediario tra la coscienza e il corpo fisiologico. la coscienza non può mai essere brutalmente e direttamente coscienza di un corpo biologico. Essa ha bisogno della mediazione del simbolo.

Credo che questa possa essere una delle ragioni del successo delle medicine alternative più eccentriche.

Normalmente esse fanno appello a potenti forme simboliche che si sovrappongono anche graficamente al corpo.

Questa è la funzione per esempio dei chakra che da elementi circondati da un qualche alone esoterico sono diventati parte del linguaggio e dell'immaginario di qualunque apprendista pettinatrice.

Il nostro corpo puó e debe essere letto grazie a strumenti di questo tipo. E la possibilitá di leggerlo è giá una garanzia di guarigione. Guarigione dal fatto di essere un corpo fisico. Nessuno può incontrarsi con il corpo fisico, con il reale corporale senza esserne annientato. Ammesso che sia possibile accedere al reale corporale senza l'intermediazione del linguaggio. Il corpo deve poter essere narrato perché si possa concepire che possa essere guarito. Apparentemente questa sembrerebbe anche la funzione dell'erotismo. Un corpo erotico è un corpo-linguaggio, un corpo-racconto, un corpo-parabola. Il corpo sessuato è il reale atroce che la pornografia cela facendo come se lo disvelasse. Perché la veritá del corpo è la morte e la sola certezza di immortalitá è il verbo.

genseki

sabato, ottobre 31, 2009

Apparizione

Fu in un negozio cinese
Uno di quelli che chiamano
“Tutto a un euro” fu in uno

Di questi negozi che lo avvicinò
Per la prima volta con le nocche
Pallide per la tensione
La fronte sudata e i lunghissimi capelli
Falsi come un film di Zeffirelli
Con una mano reggeva un cuore fiammeggiante
Pericolsamente vicino a tutte quelle tute di acrilico
Lo vide in mezzo ai portaincensi
Ai budda canini dai ventri dorati
Alle borsette della Pukka
Era vestito di velluto o di panno
Dapprima non udì la sua voce
Sommersa tra le grida dei guerrieri cinesi
Che si battevano su uno schermo piccolissimo
Davanti agli occhi della grassa bottegaia
Poi le sue parole si materializzarono proprio nel centro
Della sua fronte forzandola a corrugarsi:

  • Perché mi hai dimenticato?

  • Perché mi fuggi?

E non c'era dolore in quella voce
Ma uno sfrigolio come di mosche
Incenerite da una di quelle macchine azzurre

  • Non ti ho dimenticato – rispose,

  • Tu sei dentro di me come il dolore e la pace,
    Tu sei l'Unico che mi consola ma non torneró
    Sono condannato alla gnosi islamica e buddista
    É lo stesso, il tuo amore mi lava nel sangue
    Il tuo cuore è la lampada che rende lebbrosa la mia pelle
    Tra i denti ti serro mia manna, ostia mia
    Ma non posso tornare!

Continuava sfrigolando un po' sfuocato
E lui vide allora che tutti gli oggetti del negozio
Erano tumori, groppi di dolore, nodi di oppressione
E il Nemico rideva dei bambini e degli storpi
Ma era tardi anche solo per prendere un caffé con lui
Il Tram per il suburbio stava per arrivare
Comprò una bic per giustificarsi
La cassiera aveva le unghie dei piedi
Dipinte di rosa e un violoncello tatuato
Sulla caviglia appena sopra la ciabatta a forma di coniglio.

giovedì, ottobre 29, 2009

Dreiser Cazzaniga e la gioventù

La gioventù è sempre vergogna. Certo è una vergogna assolutamente inespiabile quella di essere stati giovani, E nessuno la puó evitare. Dreiser Cazzaniga ebbe la sventura di dover sopportare alla soglia del suo tramonto una doppia vergogna: quella di essere stato giovame, che, appunto è un peccato ineludibile e quella di esserlo stato vergognosamente. Essere stato cioè un giovane idealista, bavoso e predicatore come un vecchio parroco di periferia. Non si può espiare la gioventù, certo, ma si può viverla con gradi diversi di ignominia. Dreiser Cazzaniga visse la sua gioventù strisciando coscienziosamente sul fondo del pantano. La gioventù dovrebbe almeno essere spietata, carnivora, ambiziosa, brutale, rapida, egoista. La gioventú di Dreiser Cazzaniga fu tutta un rivoltarsi nel fango dell'idealismo, del "vogliamo cambiare il mondo, vogliamo un mondo migliore", dell'altruismo e della militanza (si, quella di sinistra). Insomma, uno schifo! Uno schifo la cui più immediata conseguenza negativa fu una vita sessuale all'insegna della masturbazione. Dreiser Cazzaniga non riusciva a venire a patti con la sua gioventù. I ricordi del suo corpo e della sua mente degli anni di universitá gli provocavano un sudore freddo sotto le ascelle. Dreiser Cazzaniga non fu mai innamorato se non di qualche eroina dei fumetti.

genseki

mercoledì, ottobre 28, 2009

La luna

La luna soleva chiamarla Tiresia
Terso serpente all'ora del caffé
Nel candore della tazzina andava
Cercando il rifugio del suo ventre amaro
Macchia, latte condensato, seme
Quel giallo di luna disciolta sulle lenzuola
Stingeva sull'estate dell'infanzia
Tiresia soleva chiamare Tersilla accorreva
Con la sua voce da opera buffa e le scarpine di velluto
Farfalletta da minuetto e baffi di crema
La luna soleva chiamarla
Tiresia accorreva
L'alone era di sangue rosa
Sul lenzuolo di altre infanzie.

genseki

Agalma

A J.L.

Era un gioiello musicale
Una perla di gesso, quella che teneva
Nella mano come un cristallo
Sonoro mentre andava screpolandosi
Tutto il guano depositato da eoni di invidia
Sulla pelle della sua dolcezza
Era un gioiello sonoro
Lo si sarebbe detto alato, Tiresia
Stesso lo trasse dal ventre
Della sua temporale femminilitá
Un gioello incrinato come il fischio
Della luna, come il fruscio della nebbia
Come la catastrofe del mare
Un gioiello
Tutto interiore
Interiore alla sua stessa interioritá
Risuonando in diversi firmamenti di silenzio
Per infiniti silenzi avvolgendosi
Fino a sparire nella sua assenza
Un gioello così,
Meraviglioso
Era quello che teneva, ora,
Nelle mani giunte per sempre ...

genseki

Incontri precoci con la poesia di Dreiser Cazzaniga

Quando si sforza di ricordare Dreiser Cazzaniga si inoltra in una macchia mediterranea atrocemente spinosa, si sente come durante un'escursione in Gallura, coi pantaloni corti. Si riposa guardando con una certa sodisfazione le piaghe che decorano i suoi polpacci mentali. Non perde occcasione per ricordarsi che i suoi polpacci fisici, quelli si, sono un prestito che sta per scadere e non si puó riavere dalla sopresa della certezza che sono destinati a restare piantati nella terra come gli steli dei carciofi in Ottobre o quelle canne che sostennero i filari dei piselli, piantati così, inutili, fino alla polvere. Comunque ricorda. Ricorda i suoi incontri precoci con la poesia. Il primo libro lo lesse nel dicembre del 67, forse era il 26. Il libro era il gatto con gli stivali, non erano versi. Il ricordo stenta ad avviarsi. I primi versi, invece, gli udì, forse alla radio, ed erano di Juan Ramón Jimenez e parlavano delle felci rosse nell'autunno, dell'anima e forse di una noria, o la noria era di Machado, va a sapere. Quando ricorda questi versi Dreiser Cazzaniga è proiettato sulla strada campestre che passava al lato della scuola, una lieta stradina bianca ad una svolta della quale si scorgeva appena un po' sotto il borgo odoroso e fumante. C'era una festa, nel borgo, durante la quale le viuzze, le crose e i vichi erano pavesati con fronde fresche di castagno.
Comunque quei versi se li ripeteva, bambino, durante tutte le passeggiate autunnali con il suo papá. Poi venne l'infinito di Leopardi, ossessivamente rivissuto sdraiato nell'erba marcia di novembre osservando tra la nebbia il mare lontanissimo o il cielo di ardesia. Venne poi Quasimodo: quel figlio crocifisso al palo del telegrafo gli provvocava una dolcezza torbida per essere così sonoramente amato da una madre. Anche lui avrebbe voluto essere crocifisso a un palo del telegrafo per godere di una simile manifestazione di affetto. La madre di Dreiser Cazzaniga apparirá in altri ricordi e probailmente in questi rappresenta una oscura minaccia fortunosamente disinnescata. La voce di Ungaretti quella sì, era come un torrente recitando: "M'illumino di immenso" con tutte le consonanti della parola mamma così lattosamente suzionate. Che invidia! La poesia gli si faceva latte e mamma e gli apriva una possibilità di attesa.

genseki

martedì, ottobre 27, 2009

Mellin de saint-Gelais (1490-1538)

Canzone Prima

Quando verrà chiarezza
Dall'amorosa fiamma
Che liberi gli amanti
Come le loro donne
Che volga in riso i pianti
E gli invidiosi schianti.

Piaccia a Dio che quel giorno
I seguaci d'amore
Godano di piú stima
Presso le loro donne
Che i severi mariti
E i gelosi puniti

Che compilar si possa
Un apposito modulo
Per sposare colui
Che s'ama e si desidera,
Saremo allor guariti
E i gelosi puniti.

E se alcuni ostinati
Interpongono appello
dalla dama più bella
Che si trova in Parigi
Siano alfin convocati
E i gelosi umiliati.

trad genseki

lunedì, ottobre 26, 2009

Dreiser Cazzaniga

Inizia con questo "post" la pubblicazione delle memorie di Dreiser Cazzaniga a cura di genseki

Dreiser Cazzaniga si confessa

Giunto al confine della vecchiezza Dreiser Cazzaniga sapeva alcune cose con una commendevole precisione. Una era che il suo io si faceva sempre più sfuggente. Il suo sfozo di unificare tutte le percezioni, i pensieri e le sensazioni era giunto quasi a sfinirlo, il racconto, la storia il filo conduttore che doveva unire ogni passo di lui alla luce, al pane che aveva appena comperato, alle notizie del giornale, ai ricordi suoi o di altri era degradante. Avrebbe voluto che questo barzakh mentale seguisse il suo corso, montasse e smontasse il tendone del suo barnum, senza coinvolgerlo più in nessun modo. Non essere più in nessun altro modo che una lieve sensazione di solletico, una sottile consapevolezza del fluire da qui al nulla di tutta questa luce appena civettuola, frastornata di quando in quando al movimento delle foglie scure dei bagolari. Dreiser Cazzaniga letteralmente si lasciava andare, e una delle cose cui si lasciava andare era appunto la corrente dei ricordi.

Per Dreiser Cazzaniga quasi da vecchio non aveva più nessuna importanza di chi fossero i ricordi, poteva seguire il filo di ricordi multipli come quelli della bambina caduta nel pozzo seguendo l'aquilone, o quello del guerriero dago che sentiva il freso dell'erba sulle gonadi mente accoccolato aspettava il passaggio del cervo. Legata ai ricordi era la sua seconda convinzione: l'errore, il suo grande errore di stile era stato quello di cercare la libertá tentando di fuggire alle regole più soffocanti del conformismo sociale. Questo proprio non poteva perdonarlo a quello che restava di lui. E non c'era piú rimedio, fino all'agonia. La libertá stava nel conformismo, nell'adeguamento, nel pensare con la “massa”, nel com-pensare collettivo. Insomma per essere libero avrebbe dovuto cercare di diventare un cardinale o almeno un banchiere e non un poveraccio, eccentrico con la pensione minima e un sorriso da brava persona.

Ariel Ramírez - Giuseppe Ungaretti- Sanctus

Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l'uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell'amore non vano.

Cristo, pensoso palpito,
Astro, incarnato nelle umane tenebre,
Fratello che t'immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l'uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D'un pianto solo mio non piamgo piú,
Ecco, Ti chiamo Santo,
Santo, Santo che soffri.

Ungarettii
da: "Mio fiume anche tu".
Il Dolore

domenica, ottobre 25, 2009

Terra maiala II

Nessuna classe è mai stata o è piú cosciente della sua posizione economica di quanto lo siano i contadini. L'economia determina o influenza in modo cosciente ogni decisione che il contadino prende nel corso di una giornata. La sua peró non è l'economia del commerciant e nemmeno l'economia politica borghese o marxista. L'autore che ha scritto con maggior conoscenza di causa, basandosi sulla sua esperienza personale, fu un agronomo russo Chayanov. (...).
Il contadino non giunse mai ad immaginarsi che quello che si estraeva al suo lavoro era plusvalore. Si puó dire che nemmeno il proletariato privo di coscienza politica è cosciente di creare plusvalore per i suoi padroni; tuttavia questo paragone è equivoco, siccome l'operaio che vive in un'economia monetaria può essere facilmente ingannato rispetto al valore di quello che produce, mentre la relazione economica del contadino con il resto della societá è sempre stata trasparente. Da un lato la sua famiglia produceva o cercava di produrre quello di cui aveva bisogno per vivere, dall'altro, vedeva che chi non aveva lavorato si approriava di una parte del suo prodotto, del risultato del lavoro della sua famiglia. Il contadino sapeva perfettamente quell che gli si toglieva ma non lo considerava plusvalore e questo per due ragioni una materiale e l'altra epistemologica.
- Non era plusvalore perchè le necessitá della sua famiglia non erano ancora garantite;
- Un plusvalore è un prodotto finale, il risultato di un processo finito di lavoro e del compimento di certi requisiti.
Per il contadino, invece, gli obblighi imposti dalla società prendevano la forma di un ostacolo preliminare che a volte era insuperabile ma era all'altro lato rispetto a questo che operava l'altra metá dell'economia del contadino quella per cui la sua famiglia lavorava la terra per garantire le sue proprie necessitá.
Il contadino poteva pensare che le imposizini erano un dovere naturale o una ingiustizia inevitabile, ma comunque erano qualche cosa che gli toccava subire prima di iniziare la lotta per la sopravvivvenza. Se era mezzadro, la porzione del raccolto del padrone si anteponeva alle necessitá basiche della sua famiglia. Se non fosse un termine troppo soave per il lavora inimmaginabile che pesa sulle spalle del contadino, si potrebbe dire che i suoi obblighi prendono la forma di un handicap permanente. Era "nonostante" questo che la famiglia doveva iniziare la lotta contro la natura per guadagnarsi la propria sussistenza mediante il lavoro.

Così il contadino una volta superato l'handicap permanente degli obbighi sociali doveva vincere, nella metá dell'economia dedicata alla sua sussistenza tutti i rischi dell'agricoltura: cattivi raccolti, tormente, siccitá, inondazioni, piaghe, incidenti, impoverimento del suolo, pestilenze e sopratutto, stando alla base, alla frontiera, con una protezione minima, doveva sopravvivere alle catastrofi sociali, politiche e naturali: guerre, piaghe, incendi, scorrerie, etc.

La parola "sopravvissuto" ha due significati. Denota qualcuno che ha vissuto e superato momenti molto duri. Denota anche la persona che ha continuato a vivere quando altri erano morti. Quest'ultimo è il senso in cui impigo questa parola in relazione al mondo contadino. I contadini erano coloro che continuavano a lavorare, a differenza dei molti che morivano giovani, emigravano o finivano nella più totale povertá. In certi periodi i sopravvissuti erano una minoranza. Le statistiche demografiche ci danno un'idea della dimensione dei disastri. La popolazione francese nel 1320 era di diciassette milioni, poco più di un secolo dopo era di otto milioni, verso il 1550 era di nuovo di venti milioni. Quarant'anni dopo era d nuovo scesa a diciotto milioni,

John Berger
Trad genseki

venerdì, ottobre 23, 2009

Tora san II

Tora san è il personaggio principale di una serie di film giapponesi, più di quaranta dal titolo: "Otokowa tsura yo" che in italiano si potrebbe tradurre come
"Mannaggia quant'è duro essere un uomo!" o qualche cosa del genere. Tora san è un venditore ambulante che viaggia per tutto il Giappone con una valigia piena delle sue merci, è goffo, imbranato e buono, nei piú remoti angoli della provincia si innamora sempre di una bella signora che non lo corrisponde mai. Tora san non ha famiglia, la sua parente più prossima è la sorella Sakura che vive a Katsushita Shibamaka con il marito e che possiede una piccola bottega tradizionale. L'amore melanconico e infelice è il tema del tenero Tora san, che può molto vagamente essere paragonato a Totò ma solo per quel sorriso di trasognata bontá, per quell'appartenere al popolo con tutto il corpo e tutta l'anima rappresentandone la parte migliore e serenamente rasegnata.
Ho incontrato Tora san durante il mio primo viaggio in Giappone. Il mio arrivo a Tokyo coincise con la morte dell'attore che lo interpretava Atsumi Kiyoshi. In realtá i morti erano due Kiyoshi e Tora san.
Tokyo era immensa e rovente nel mese di Luglio, non capivo quasi una parola di giapponese e avevo i soldi per nutrirmi solo delle bevande energetiche che si compravano nei distribitori automatici delle sazioni ferroviarie. Viggiavo sui tren delle linee suburbane nella tarda mattinata, quando sono semivuoti dai finestrini vedevo le silhouttes di cartone di Tora san alle finestre degli appartamenti, sulle porte dei caffé e dei ristoranti, agli incroci. I treni erano limpidi e puliti, avevano qualche cosa di erotico e di freddo. Non mangiavo abbastanza ma avevo abbastanza soldi per comprare una bicicletta di seconda mano. Le strade erano bordate di Ginko Biloba, passavo giorni senza parlare con nessuno, i fumetti l leggevo recuperandoli dai bidoni della raccolta differenziata alle stazioni del bus. Il caffé lo bevevo gratis nella hall di qualche grande centro commerciale, agli angoli delle strade all'ombra dei pali stracarichi di cavi di tutti i tipi mi apparivano le silhouettes funebri di Tora san. La sera tutte le televisioni trasmettevano film di Tora san di cui non capivo quasi niente ma che non era difficile seguire. Erano storie universali. La storia del vagabondo dal cuore spezzato, della Madonna e della solitudine. Tora san era il mio unico amico.
Un santo forse a cui rivolgermi quando la solitudine mi provvocava una specie di strana narcolessia.
Mia moglie e il suo amante se la spassavano su di una qualche isola greca, non sapevo ovviamente quale, e io cercavo il sorriso di Tora san nello spietato calore estivo di Tokyo in mezzo a onde di uomini di affare dalle camicie inspiegabilmente bianche e profumate, alla svolta di ogni strada.
genseki

mercoledì, ottobre 21, 2009

Tora-san Meets the Songstress Again

John Berger

John Berger

Terra maiala

La vita contadina è una vita dedicata per intero allas sopravvivenza. Questa è forse l'unica caratteristica totalmente condivisa da tutti i contadini in lungo e in largo nel mondo. Le loro capanne, i raccolti, laterra, i padroni possono essere differenti, tuttavia, indipendentemente dal fatto che lavorini in una societá capitalista, feudale, o in qualche altra piú difficile da classificare, indipendentemente dal fatto che coltivino riso a Java, grano in Scandinavia o mais in Sudamerica, dappertutto si puó definire la classe contadina come una classe di sopravvissuti. Nel corso dell'ultimo secolo e mezzo la testarda capacitá dei contadini di sopravvivere ha confuso le classi dirigenti e i teorici. Ancora oggi si puó dire che i contadini costituiscono la maggioranza degli abitanti del globo. Questo fatto, peró, ne nascnde un altro ancra più importante. Per la prima volta nella storia la possibilitá che questa classe di sopravvissuti possa cesare di esistere è concreta. Forse fra un secolo non ci sranno piú contadini. In Europa occidentale, si le cose andranno come prevedono gli economisti in venticinque anno non ci saranno piú contadini.
Fino a poco tempo fa l'economia contadina era contenuta dentro un'atra economia. Questo rese possibile la sua sopravvivenza nel vortice delle trasformazioni globali che accaddero nel cuore dela macroeconmia in cui era inserita: feudale, capitalista, e persino socialista. Cn queste trasformazioni il metodo di lotta per la sopravvivenza fu modificato, ma i cambiamenti definitivi si forgiarono attraverso i metodi impiegati al fine di estrarre da esso plusvalore: lavori obbligatori. decime, mezzadria, imposte, mutui, interessi sui mutui, norme di produzione, etc.
A differenza di qualunque altra classe laavoratrice e sfruttata, la classe contadina si è sempre manenuta da sé, e questo la convertí in una classe a parte. In quanto produceva plusvalore si integrava nel sistema economico-culturale storico. In quanto si manteneva da sé ne stava ai margini e questo, mi pare è vallido anche per quelle epoche e per qui luoghi in cui i contadini rappresentavano la maggior parte della popolazione.
Se pensiamo che la stuttura gerarchica delle societá feudali o asiatiche era piú o meno piramidale, i contadini ne formavano la base. Questo sgnificava, come nel caso di tutti i popoli di frontiera che godevano di una protezione minima. Per questo dovevano arrangiarsi da soli; nel seno della comunitá o della famiglia allargata. Mantenevao e sviluppavano le proprie leggi e codici di comportamento taciti, i propri riti, le proprie credenze, le proprie conoscenze e una saggezza propria trasmesa oralmente, la propria medicina, le proprie tecniche e in certi casi lingue proprie. Sarebbe un erore pensare che tutto questo costituisse una vita indipendente non toccata dalle trasformazioni tecniche, sociali, economiche della cultura dominante. Nel corso dei secoli la vita contadina ha sofferto cambiamenti, ma le prioritá e i valori contadini (la loro srategia per sopravvivere) costituirono una tradizione che sopravvisse a qualunque altra nel seno della societá. La relazione di questa tradizione contadina con la cultura delle classi dominanti è sempre stata, in generale, sovverisiva e eretica. "Non fuggire nulla" - dice un proverbio russo "ma non fare nulla". La fama di furbi che si attribuisce universalmente al contadino è un riconoscimento di questa riservatezza sovversiva.

trad. genseki