mercoledì, ottobre 28, 2009

Incontri precoci con la poesia di Dreiser Cazzaniga

Quando si sforza di ricordare Dreiser Cazzaniga si inoltra in una macchia mediterranea atrocemente spinosa, si sente come durante un'escursione in Gallura, coi pantaloni corti. Si riposa guardando con una certa sodisfazione le piaghe che decorano i suoi polpacci mentali. Non perde occcasione per ricordarsi che i suoi polpacci fisici, quelli si, sono un prestito che sta per scadere e non si puó riavere dalla sopresa della certezza che sono destinati a restare piantati nella terra come gli steli dei carciofi in Ottobre o quelle canne che sostennero i filari dei piselli, piantati così, inutili, fino alla polvere. Comunque ricorda. Ricorda i suoi incontri precoci con la poesia. Il primo libro lo lesse nel dicembre del 67, forse era il 26. Il libro era il gatto con gli stivali, non erano versi. Il ricordo stenta ad avviarsi. I primi versi, invece, gli udì, forse alla radio, ed erano di Juan Ramón Jimenez e parlavano delle felci rosse nell'autunno, dell'anima e forse di una noria, o la noria era di Machado, va a sapere. Quando ricorda questi versi Dreiser Cazzaniga è proiettato sulla strada campestre che passava al lato della scuola, una lieta stradina bianca ad una svolta della quale si scorgeva appena un po' sotto il borgo odoroso e fumante. C'era una festa, nel borgo, durante la quale le viuzze, le crose e i vichi erano pavesati con fronde fresche di castagno.
Comunque quei versi se li ripeteva, bambino, durante tutte le passeggiate autunnali con il suo papá. Poi venne l'infinito di Leopardi, ossessivamente rivissuto sdraiato nell'erba marcia di novembre osservando tra la nebbia il mare lontanissimo o il cielo di ardesia. Venne poi Quasimodo: quel figlio crocifisso al palo del telegrafo gli provvocava una dolcezza torbida per essere così sonoramente amato da una madre. Anche lui avrebbe voluto essere crocifisso a un palo del telegrafo per godere di una simile manifestazione di affetto. La madre di Dreiser Cazzaniga apparirá in altri ricordi e probailmente in questi rappresenta una oscura minaccia fortunosamente disinnescata. La voce di Ungaretti quella sì, era come un torrente recitando: "M'illumino di immenso" con tutte le consonanti della parola mamma così lattosamente suzionate. Che invidia! La poesia gli si faceva latte e mamma e gli apriva una possibilità di attesa.

genseki

martedì, ottobre 27, 2009

Mellin de saint-Gelais (1490-1538)

Canzone Prima

Quando verrà chiarezza
Dall'amorosa fiamma
Che liberi gli amanti
Come le loro donne
Che volga in riso i pianti
E gli invidiosi schianti.

Piaccia a Dio che quel giorno
I seguaci d'amore
Godano di piú stima
Presso le loro donne
Che i severi mariti
E i gelosi puniti

Che compilar si possa
Un apposito modulo
Per sposare colui
Che s'ama e si desidera,
Saremo allor guariti
E i gelosi puniti.

E se alcuni ostinati
Interpongono appello
dalla dama più bella
Che si trova in Parigi
Siano alfin convocati
E i gelosi umiliati.

trad genseki

lunedì, ottobre 26, 2009

Dreiser Cazzaniga

Inizia con questo "post" la pubblicazione delle memorie di Dreiser Cazzaniga a cura di genseki

Dreiser Cazzaniga si confessa

Giunto al confine della vecchiezza Dreiser Cazzaniga sapeva alcune cose con una commendevole precisione. Una era che il suo io si faceva sempre più sfuggente. Il suo sfozo di unificare tutte le percezioni, i pensieri e le sensazioni era giunto quasi a sfinirlo, il racconto, la storia il filo conduttore che doveva unire ogni passo di lui alla luce, al pane che aveva appena comperato, alle notizie del giornale, ai ricordi suoi o di altri era degradante. Avrebbe voluto che questo barzakh mentale seguisse il suo corso, montasse e smontasse il tendone del suo barnum, senza coinvolgerlo più in nessun modo. Non essere più in nessun altro modo che una lieve sensazione di solletico, una sottile consapevolezza del fluire da qui al nulla di tutta questa luce appena civettuola, frastornata di quando in quando al movimento delle foglie scure dei bagolari. Dreiser Cazzaniga letteralmente si lasciava andare, e una delle cose cui si lasciava andare era appunto la corrente dei ricordi.

Per Dreiser Cazzaniga quasi da vecchio non aveva più nessuna importanza di chi fossero i ricordi, poteva seguire il filo di ricordi multipli come quelli della bambina caduta nel pozzo seguendo l'aquilone, o quello del guerriero dago che sentiva il freso dell'erba sulle gonadi mente accoccolato aspettava il passaggio del cervo. Legata ai ricordi era la sua seconda convinzione: l'errore, il suo grande errore di stile era stato quello di cercare la libertá tentando di fuggire alle regole più soffocanti del conformismo sociale. Questo proprio non poteva perdonarlo a quello che restava di lui. E non c'era piú rimedio, fino all'agonia. La libertá stava nel conformismo, nell'adeguamento, nel pensare con la “massa”, nel com-pensare collettivo. Insomma per essere libero avrebbe dovuto cercare di diventare un cardinale o almeno un banchiere e non un poveraccio, eccentrico con la pensione minima e un sorriso da brava persona.

Ariel Ramírez - Giuseppe Ungaretti- Sanctus

Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l'uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell'amore non vano.

Cristo, pensoso palpito,
Astro, incarnato nelle umane tenebre,
Fratello che t'immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l'uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D'un pianto solo mio non piamgo piú,
Ecco, Ti chiamo Santo,
Santo, Santo che soffri.

Ungarettii
da: "Mio fiume anche tu".
Il Dolore

domenica, ottobre 25, 2009

Terra maiala II

Nessuna classe è mai stata o è piú cosciente della sua posizione economica di quanto lo siano i contadini. L'economia determina o influenza in modo cosciente ogni decisione che il contadino prende nel corso di una giornata. La sua peró non è l'economia del commerciant e nemmeno l'economia politica borghese o marxista. L'autore che ha scritto con maggior conoscenza di causa, basandosi sulla sua esperienza personale, fu un agronomo russo Chayanov. (...).
Il contadino non giunse mai ad immaginarsi che quello che si estraeva al suo lavoro era plusvalore. Si puó dire che nemmeno il proletariato privo di coscienza politica è cosciente di creare plusvalore per i suoi padroni; tuttavia questo paragone è equivoco, siccome l'operaio che vive in un'economia monetaria può essere facilmente ingannato rispetto al valore di quello che produce, mentre la relazione economica del contadino con il resto della societá è sempre stata trasparente. Da un lato la sua famiglia produceva o cercava di produrre quello di cui aveva bisogno per vivere, dall'altro, vedeva che chi non aveva lavorato si approriava di una parte del suo prodotto, del risultato del lavoro della sua famiglia. Il contadino sapeva perfettamente quell che gli si toglieva ma non lo considerava plusvalore e questo per due ragioni una materiale e l'altra epistemologica.
- Non era plusvalore perchè le necessitá della sua famiglia non erano ancora garantite;
- Un plusvalore è un prodotto finale, il risultato di un processo finito di lavoro e del compimento di certi requisiti.
Per il contadino, invece, gli obblighi imposti dalla società prendevano la forma di un ostacolo preliminare che a volte era insuperabile ma era all'altro lato rispetto a questo che operava l'altra metá dell'economia del contadino quella per cui la sua famiglia lavorava la terra per garantire le sue proprie necessitá.
Il contadino poteva pensare che le imposizini erano un dovere naturale o una ingiustizia inevitabile, ma comunque erano qualche cosa che gli toccava subire prima di iniziare la lotta per la sopravvivvenza. Se era mezzadro, la porzione del raccolto del padrone si anteponeva alle necessitá basiche della sua famiglia. Se non fosse un termine troppo soave per il lavora inimmaginabile che pesa sulle spalle del contadino, si potrebbe dire che i suoi obblighi prendono la forma di un handicap permanente. Era "nonostante" questo che la famiglia doveva iniziare la lotta contro la natura per guadagnarsi la propria sussistenza mediante il lavoro.

Così il contadino una volta superato l'handicap permanente degli obbighi sociali doveva vincere, nella metá dell'economia dedicata alla sua sussistenza tutti i rischi dell'agricoltura: cattivi raccolti, tormente, siccitá, inondazioni, piaghe, incidenti, impoverimento del suolo, pestilenze e sopratutto, stando alla base, alla frontiera, con una protezione minima, doveva sopravvivere alle catastrofi sociali, politiche e naturali: guerre, piaghe, incendi, scorrerie, etc.

La parola "sopravvissuto" ha due significati. Denota qualcuno che ha vissuto e superato momenti molto duri. Denota anche la persona che ha continuato a vivere quando altri erano morti. Quest'ultimo è il senso in cui impigo questa parola in relazione al mondo contadino. I contadini erano coloro che continuavano a lavorare, a differenza dei molti che morivano giovani, emigravano o finivano nella più totale povertá. In certi periodi i sopravvissuti erano una minoranza. Le statistiche demografiche ci danno un'idea della dimensione dei disastri. La popolazione francese nel 1320 era di diciassette milioni, poco più di un secolo dopo era di otto milioni, verso il 1550 era di nuovo di venti milioni. Quarant'anni dopo era d nuovo scesa a diciotto milioni,

John Berger
Trad genseki

venerdì, ottobre 23, 2009

Tora san II

Tora san è il personaggio principale di una serie di film giapponesi, più di quaranta dal titolo: "Otokowa tsura yo" che in italiano si potrebbe tradurre come
"Mannaggia quant'è duro essere un uomo!" o qualche cosa del genere. Tora san è un venditore ambulante che viaggia per tutto il Giappone con una valigia piena delle sue merci, è goffo, imbranato e buono, nei piú remoti angoli della provincia si innamora sempre di una bella signora che non lo corrisponde mai. Tora san non ha famiglia, la sua parente più prossima è la sorella Sakura che vive a Katsushita Shibamaka con il marito e che possiede una piccola bottega tradizionale. L'amore melanconico e infelice è il tema del tenero Tora san, che può molto vagamente essere paragonato a Totò ma solo per quel sorriso di trasognata bontá, per quell'appartenere al popolo con tutto il corpo e tutta l'anima rappresentandone la parte migliore e serenamente rasegnata.
Ho incontrato Tora san durante il mio primo viaggio in Giappone. Il mio arrivo a Tokyo coincise con la morte dell'attore che lo interpretava Atsumi Kiyoshi. In realtá i morti erano due Kiyoshi e Tora san.
Tokyo era immensa e rovente nel mese di Luglio, non capivo quasi una parola di giapponese e avevo i soldi per nutrirmi solo delle bevande energetiche che si compravano nei distribitori automatici delle sazioni ferroviarie. Viggiavo sui tren delle linee suburbane nella tarda mattinata, quando sono semivuoti dai finestrini vedevo le silhouttes di cartone di Tora san alle finestre degli appartamenti, sulle porte dei caffé e dei ristoranti, agli incroci. I treni erano limpidi e puliti, avevano qualche cosa di erotico e di freddo. Non mangiavo abbastanza ma avevo abbastanza soldi per comprare una bicicletta di seconda mano. Le strade erano bordate di Ginko Biloba, passavo giorni senza parlare con nessuno, i fumetti l leggevo recuperandoli dai bidoni della raccolta differenziata alle stazioni del bus. Il caffé lo bevevo gratis nella hall di qualche grande centro commerciale, agli angoli delle strade all'ombra dei pali stracarichi di cavi di tutti i tipi mi apparivano le silhouettes funebri di Tora san. La sera tutte le televisioni trasmettevano film di Tora san di cui non capivo quasi niente ma che non era difficile seguire. Erano storie universali. La storia del vagabondo dal cuore spezzato, della Madonna e della solitudine. Tora san era il mio unico amico.
Un santo forse a cui rivolgermi quando la solitudine mi provvocava una specie di strana narcolessia.
Mia moglie e il suo amante se la spassavano su di una qualche isola greca, non sapevo ovviamente quale, e io cercavo il sorriso di Tora san nello spietato calore estivo di Tokyo in mezzo a onde di uomini di affare dalle camicie inspiegabilmente bianche e profumate, alla svolta di ogni strada.
genseki

mercoledì, ottobre 21, 2009

Tora-san Meets the Songstress Again

John Berger

John Berger

Terra maiala

La vita contadina è una vita dedicata per intero allas sopravvivenza. Questa è forse l'unica caratteristica totalmente condivisa da tutti i contadini in lungo e in largo nel mondo. Le loro capanne, i raccolti, laterra, i padroni possono essere differenti, tuttavia, indipendentemente dal fatto che lavorini in una societá capitalista, feudale, o in qualche altra piú difficile da classificare, indipendentemente dal fatto che coltivino riso a Java, grano in Scandinavia o mais in Sudamerica, dappertutto si puó definire la classe contadina come una classe di sopravvissuti. Nel corso dell'ultimo secolo e mezzo la testarda capacitá dei contadini di sopravvivere ha confuso le classi dirigenti e i teorici. Ancora oggi si puó dire che i contadini costituiscono la maggioranza degli abitanti del globo. Questo fatto, peró, ne nascnde un altro ancra più importante. Per la prima volta nella storia la possibilitá che questa classe di sopravvissuti possa cesare di esistere è concreta. Forse fra un secolo non ci sranno piú contadini. In Europa occidentale, si le cose andranno come prevedono gli economisti in venticinque anno non ci saranno piú contadini.
Fino a poco tempo fa l'economia contadina era contenuta dentro un'atra economia. Questo rese possibile la sua sopravvivenza nel vortice delle trasformazioni globali che accaddero nel cuore dela macroeconmia in cui era inserita: feudale, capitalista, e persino socialista. Cn queste trasformazioni il metodo di lotta per la sopravvivenza fu modificato, ma i cambiamenti definitivi si forgiarono attraverso i metodi impiegati al fine di estrarre da esso plusvalore: lavori obbligatori. decime, mezzadria, imposte, mutui, interessi sui mutui, norme di produzione, etc.
A differenza di qualunque altra classe laavoratrice e sfruttata, la classe contadina si è sempre manenuta da sé, e questo la convertí in una classe a parte. In quanto produceva plusvalore si integrava nel sistema economico-culturale storico. In quanto si manteneva da sé ne stava ai margini e questo, mi pare è vallido anche per quelle epoche e per qui luoghi in cui i contadini rappresentavano la maggior parte della popolazione.
Se pensiamo che la stuttura gerarchica delle societá feudali o asiatiche era piú o meno piramidale, i contadini ne formavano la base. Questo sgnificava, come nel caso di tutti i popoli di frontiera che godevano di una protezione minima. Per questo dovevano arrangiarsi da soli; nel seno della comunitá o della famiglia allargata. Mantenevao e sviluppavano le proprie leggi e codici di comportamento taciti, i propri riti, le proprie credenze, le proprie conoscenze e una saggezza propria trasmesa oralmente, la propria medicina, le proprie tecniche e in certi casi lingue proprie. Sarebbe un erore pensare che tutto questo costituisse una vita indipendente non toccata dalle trasformazioni tecniche, sociali, economiche della cultura dominante. Nel corso dei secoli la vita contadina ha sofferto cambiamenti, ma le prioritá e i valori contadini (la loro srategia per sopravvivere) costituirono una tradizione che sopravvisse a qualunque altra nel seno della societá. La relazione di questa tradizione contadina con la cultura delle classi dominanti è sempre stata, in generale, sovverisiva e eretica. "Non fuggire nulla" - dice un proverbio russo "ma non fare nulla". La fama di furbi che si attribuisce universalmente al contadino è un riconoscimento di questa riservatezza sovversiva.

trad. genseki

martedì, ottobre 20, 2009

La sfera e le galassie

Ciò che io chiamo Schwarmerei di Platone, è l'aver proiettato su ciò che io chiamo il vuoto impenetrabile, l'idea del sommo bene. Diciamo che si tratta solo di indicare il cammino giá percorso, quello che con alti e bassi, e con una intenzione dichiarata ho cercato di sviluppare; IO HO CERCATO DI SVILUPPARE IL RISULTATO DEL RIFIUTO DELLA NOZIONE PLATOICA DEL SOMMO BENE CHE OCCUPA IL CENTRO DEL NOSTRO ESSERE. Può essere che per ritorvare la nostra esperienza, ma questa volta in forma critica, ho preso le mosse in parte da quella che si puó chiamare la svolta aristotelica in rapporto a Platone che per noi, sul piano etico è qualche cosa di ormai sorpassato per noi; ma a questo punto, dovendo spiegare la sorte storica delle nozioni etiche a partire da Platone (certo il riferimento aristotelico) l'Etica Nicomachea è essenziale. Ho dimostrato che è difficile seguire quanto questa opera costituisca un passo in avanti decisiva nell'edificazione di una riflessione etica, e nello stesso tempo non vedere che comunque essa ha mantenuto la nozione di sommo bene pur cambiandone profondamente il senso. Con un movimento di riflessione inversa esssa fa consistere il sommo bene nella contemplazione degli astri, la sfera più esterna del mondo esistente, assoluta, increta, incorruttibile. È proprio perché per noi la sfera si è proprio volatilizzata nella polvere cosmica delle galassie che costituisce l'ultimo orizzonte della nostra ricerca cosmologica, che si puó prendere il punto di riferimento aristotelico come il momento critico di quello che nella tradiione antica è la nozione del sommo bene alla quale siamo infine giunti.
Questo passo in avanti ci ha messo con le spalle al muro, quello stesso muro contro cui si sbatte da quando si cerca di elaborare una riflessione etica; il fatto è che dobbiamo assumere proprio quello che la riflessione etica non ha mai saputo sbrogliare, cioè che vi è bene (good, gut) che a partire da qui. Dobbiamo proprio, insomma cercare qual è il principio del Wohl tat, il principio ell'agire bene. Per inferenza è permesso dire che non si tratta della B.A., la buona azione, anche portata alla potenza kantiana della massima universale. Se dobbiamo prendere sul serio la denuncia freudiana della fallacia delle soddisfazioni dette morali, dal momento che vi si nasconde una agressivitá che compie l'impresa di strappare a quello che la esercita il suo godimento, mentre il suo errore si ripercuote infinitamente sui suoi partners sociali (quello che indicano queste lunghe condizionali circostanziali è l'equivalente esatto del Disagio della civiltá nell'opera di Freud) allora dobbiamo domandarci come dobiamo fare per operare onestamente con il desiderio; cioè come preservare il desiderio in relazione a una azione nella quale egli piuttosto che realizzarsi colassa e che al massimo gli si presenta come un'impresa, come un eroismo, come preserva il desiderio cme preservare una relazione sana tra il desiderio e questa azione.

Lacan
Transfert
Trad. genseki

lunedì, ottobre 19, 2009

È finita per sempre

Le grandi filosofie romantiche hanno cercato di dare ragione, di articolare la relazione tra finito e infinito. In realtà l'espressione piú esatta di questa relazione è una frase tipica per esempio dei fotoromanzi Lancio che leggevano le giovani "pettinatrici" dell mia prima adolescenza, quelle che facevano le "messe in piega" con quegli incredibili caschi sorreti da un palo. Chi non ha sognato una fidanzata parrucchiera che leggesse un fotoromanzo Lancio per vivere con lei un amara storia Lancio?
Comunque la frase è, è appunto quella del titolo: "È finita per sempre". Si, perchè è proprio qui, è proprio così che il finito incontra l'infinito, nell'evidenza dell'essere infinito del finito; dell'essere per sempre del finito.
Certo è il fatto che il finito sia finito infinitamente è quello che produce l'angoscia nella coscienza, La coscienza forse puó essere considerata proprio come la coscienza dell'infinitá del finito. del suo essere per sempre finito. La coscienza si staglia sullo sfondo dell'infinito della sua finitezza, della sua imposssibilitá di essere infinita se non proprio in quanto finita. Essere finito per sempre è la forma con la quale il finito si fonde nell'infinito e in questo fondersi rende possibile che l'infinito stesso sia infinito, Senza il finito l'infinito non sarebbe pensabile come tale per mancanza del termine di paragone. Il finito e l'infinito sono i modi, le modalitá l'uno dell'altro.
la coscienza è coscienza di una sola di queste modalitá, quella per cui il finito è infinitamente tale, per questo si percepisce come infinitamente finita, come finita per sempre, Se la coscienza potesse percepirsi come finitamente infinita scomparirebbe come tale, si dissolverebbe nella grande rosa luminosa. Quale ne sarebbe la formula?: "'È infinita adesso!", forse. "È infinita qui, proprio ora, per sempre mai piú".

genseki

domenica, ottobre 18, 2009

Gilles de Rais

Gilles erra nelle foreste che circondano Tiffauges, foreste oscure e fitte, come se ne trovano ancora in Bretagna, per esempio a Carnoët.
Singhiozza mentre cammina, disperde, smarrito, i fantasmi che si avvicinano, guarda e di colpo si rende conto del'oscenitá degli alberi piú antichi.
Sembra che la natura diventi perversa davanti ai suoi occhi e che la sua sola presenza basti a depravarla; per la prima volta comprende, l'immutabile lussuria dei boschi, scopre priapo tra i cdui.
Qui, l'albero gli appare come un essere vivente, in piedi, la tesa in giú, nascosta tra la capigliatura delle radici, con le gambe all'aria, spalacate, che poi si dividono in altre cosce ancora ce si aprono a loro volta e diventano sempre piú piccole mano a mano che si allontanano dal tronco; proprio li, tra quelle gambe, si tprva piantato un altro ramo ancora in un coito immobile che si ripete sempre piú miniscolo i ramoscello in ramocello, fino alla cima; e lassù, ecco che il fusto sembra un fallo che cresce e scompare sotto una sottana di foglie o se ne esce all'inverso da un ciuffetto verde e di muschio per penetrare il ventre di velluto della terra. Vi sono immagini che lo terrorizzano. Rivede la pelle degli adoloscenti. la pelle lucida delle pergamene, nelle scorze lisce e pallide degli alti frassini; ritrova l'epidermide elefantiaca dei mendicanti nell'involtorio nero e rugoso delle querce piú antiche; poi, dopo la biforcazione dei rami, dei buchi spalancati, degli orifizi ove la scorza si rigonfia in fenditure ovali, iati pieghettati che simulamo immomde cloache o spalancati sessi bestiali. ai gomiti dei rami altre visioni, fosse brachiali, ascelle pelute di licheni grigi; ecco, persino i tronchi degli alberi hanno ferite che si allungano in grandi labbra, sotto ciuffi di velluto rosso e mazzetti di muschi!
Ovunque le forme oscene sorgono dalla terra, sgorgano verso il firmamento che si satanizza, le nuvole si gonfiano in capezzoli, si fondono in natiche, si arroondano in ventri fecondati, si disperdono in zampilli lattei; si accordano con la cavità cupa della macchia dove non vi sono piú che immagini di cosce gigantesche o nane, triangoli femminili, grandi V, bocche di Sodoma, cicatrici che si slabbrano, umide perdite! - L'abominevole paesaggio muta, ecco che Gille vede sui tronchi inquietanti polipi, sanguisughe orribili. Constata tumori e ulcere, piage taglate nette, tubercoli cancerosi, carie atroci; è per gli alberi una clinica venerea per gli alberi in cui sorge alla svolta di un viale un frassino rosso.
Davanti a queste foglie porporini che cadono, si crede bagnato da una pioggia di sangue; diventa rabbioso, sogna che sotto la scorza abita una ninfa forestiea, e vorrebbe impastare la carne della dea, trucidare la Driade, violentarla in un organo sconosciuto alle follie degli uomini.
Invidia il boscaiolo che potrá ferire, massacrare questo albero, si spaventa, si agita, ascolta, selvaggio, la foresta che risponde alle grida dei suoi desideri con i sibili stridenti dei venti; si abbatte, pinage, riprende il suo cammino fino a che giunge al castello e crolla sul suo letto come un tronco caduto. Ora che dorme, i fantasmi si definiscono con piú precisione. I lubrichi abbraci dei rami, il coito delle essenze differenti dei bosci, i crepacci che si dilatano, le forre che si dischiudono spariscono; le lacrime delle foglie frustate dalla tramontana, si seccano; gli ascessi bianchi delle nuvole si riassorbono nel grigio del cielo; e - in un grande silenzio - sono gli incubi e i succubi che passano.
I corpi che egli ha massacrato e di di cui ha fatto gettare le ceneri nei fossati risuscitano allo stato di larve e lo attaccano nelle parti basse. Si dibatte, si schizza di sangue, si sveglia di colpo e acoccolato si trascina a quattro zampe, come un lupo, fino al crocifisso di cui morde i piedi, ruggendo.
Poi uno sconvolgimento immediato lo travolge, trema davanti a questo Cristo il cui volto convulso lo contempla. Lo scongiura che abbia pietá, lo supplica di risparmiarlo, singhiozza, piamge e quando non ne può più geme sottovoce, ascolta, terrificato piangere nella sua stessa voce le lacrime dei bambini che chiamavano le loro madri e chiedere pietá!

genseki

mercoledì, ottobre 14, 2009

Altre poesie di genseki

No, non era quando cominció a disfarsi
Che apparvero tutti quei problemi
E le farfalle direttamente dai grumi di terra
Accoccolati seguivano vegliando
Coperti di fango ocraceo con gli occhi
Fluidi come i fiumi e la pelle increspata
Come l'erba di altri soggiorni
Dammi la mano diceva, proprio allora
Notammo che cominciava a disfarsi
Dapprima solo in voli di insetti
Poi in molti riflessi neri a volte come mosche
Il cui volo non seguiva le leggi di una geometria
A tre dimensioni.
No, non fu allora
Ma io ero già per due terzi scomparso
Con lui e con altri meno avvinti
E quello che ero stato, che era stato
Giaceva in qualche luogo più solo
Di una promessa spuntata
Alla fiera degli ultimi crepuscoli.
*
Sputa! sputalo adesso!
Lo sai che hai fallito, quanto sforzo
Per conseguire la vette dell'insuccesso
Il limone in bocca, sputalo!
Le sanguisughe sotto il gomito
Le lenzuola sporche di povertá
Le croste di formaggio che di nascosto
Ti passava la nonna del droghiere di Via Istria,
Quella con il pappagallo dall'ala bruciata
Le unghie degli alluci conservate per anni
In barattoli giallastri e i biglietti ordinari
Dei treni come reliquie.
Sputa! Sputalo via!
Il suo odore il suo sesso, il mercuriocromo
I microsolchi di Petrolini
Lo strazio di jeanvaljean
Le mutande di lana con i ponpon.
Sputa! Sputalo via!
Tutto!
È della tua vita che si tratta.

genseki

martedì, ottobre 13, 2009

Garcilaso de la Vega

La poesia petrarchista offrì per piú di un secolo un modello di forma poetica a tutta l'Europa. Pochi temi stilizzati poch parole ammesse, quasi tutte tratte dall'ambito dell'anatomia e della botanica, un numero limitato di colori e una serie di regole che stabilivano le relazioni tra questi elementi costiuirono un gioco sublime, cangiante, segreto e raffinato.
Molte lingue furono poeticamente di nuovo fuse nel crogiolo del petrarchismo: il francese, il castigliano, il catalano, l'inglese, il portoghese.
Gacilaso d la Vega fu uno dei primi e più grandi petrarchisti spagnoli e quello che segue uno dei suoi testi piú noti.
Tradurre un poeta petrarchista all'italiano pone di fronte a un'alternativa: si puó cercare di riprodurre i suoi stilemi nel lessico proprio dl petrarchismo italiano coevo, ricostruendo il testo dell'imitatore con il lessico e la sintassi che egli volle imitare. L'interesse di questa operazione sta nel gioco di riflessi e di rimando che ci permetta di istituire. Si tratta di una specie di traduzione "en abîme". Oppure si può tentare di confrontare questa voce poetica con un lessico e una forma più attuale e di ascoltare come la sua eco risuona in un nuovo scrigno.

A Dafne giá crescevano le braccia
Ed in rami nodosi si torcevano
Vidi la chioma più tersa dell'oro
Volgersi in verdi foglioline tenere

Scorza rugosa le membra ricopriva
Molli che ancora appena palpitavano
Teneri piedi la terra penetravano
In ritorte radici trasformati.

E chi di tanta pena fu la causa
Con la forza del pianto alimentava
Quell'albero che di lacrime bagnava

Che triste condizione! Estremo male!
Che grazie al pianto suo cresceva tanto
La causa e la ragione del suo pianto.

trad genseki