domenica, gennaio 22, 2012

Illuminazione e mercato

Rileggendo il libretto di Thaddeus Golas, che risulta essere sconosciuto in Italia ma che pare aver goduto di un discreto succeso negli USA, negli ani settanta, prima che la letteratura meditativa, illuminativa, gnostica, e acquariana diventasse un genere niosamente reiterativo, mi è capitato di riflettere su come questo tipo di testi, nel momento del loro sorgere, nel momento della loro origine possedessero una umiliante capacità di seduzione di cui i loro attuali epigoni, sfuocati, sono invece totalmente privi.
Chi mai si lascerebbe sedurre davvero dai manualetti di Giacobbe o di Celestino? Invece Golas, come Leary, si che seducevano.
Castaneda merita un discorso a parte anche se i suoi epigoni maya e toltechi sono davvero pallide melense banalità senza neppure un ricordo della sua capacità di affabulazione.
La forza di seduzione del testo di Golas, come di altri è la stessa di un supermercato nel periodo di Natale.
Quello che Golas chiama illuminazione altro non è che la percezione intuitiva dell'universo delle merci come totalità autarchica.

L'illuminazione è lo spazio che garantisce la possibilità di godere dell'universo della merce simultaneamente e in modo iterativo.
La merce è merce solo per il desiderio, il desiderio è figlio della scarsità. L'orizzonte dell'illuminazione di quegli anni è l'illusione della possibilità di un desiderio che si riproduca nell'abbondanza, che sorga dalla sazietà, un desiderio che sia realizzato nel momento stesso del suo sorgere. Anzi un desiderio che sia originariamente anche la sua realizzazione. In modo tale che fin dal principio non si abbia nulla da desiderare perché tutto quello che si può desiderare è già in nostro possesso ma senza che per questo il desiderio venga meno.

L'illuminazione è come un supermercato di cui si abbia la sicurezza di aver comprato tutte le mercj godendo infinitamente dell'atto di comprarle.
Uno degli aspetti più ironici del testo di Golas, oltre quello di situarsi in un mercato atemporale, sta nel fatto che la pretesa di esporre un insegamento eterno si realizza in un linguaggio che in pochi lustri è diventato opaco.

Mi riferisco qui al passepartout costituito dalla parola “vibrazione”. Tutto quanto è sempre in vibrazione, le vibrazioni possono essere positive o negative, la vibrazione spiega tutto, ogni questione può essere ricondotta alla vibrazione senza che mai si spieghi che cosa sia una vibrazione.
Credo che questa buffa idiosincrasia vibratoria sia dovuta al sistema educativo americano del tempo che probabilmente enfatizzava il conoscimento scientifico e al suo interno quello della regina delle scienze di allora: la Fisica. In fisica “vibrazione” ha un senso. In metafisica non, non ha nessun senso, ma svolge la funzione di dare alla metafisica un'illusione del prestigio di cui gode la fisica. “Tutti gli essseri vibrano” ci insegnava Golas. E questo ci produceva come un solletico, un prurito piacevole. Adesso nessuno potrebbe più capire che cosa diavolo vogia dire questa frase. Adesso le scienza di riferimento sono altre, sono neurologiche e genetiche e tutta la retorica dell'illuminazione ha riconvertito i suoi utensili introducendo reti neuronali e mappe anch'esse neuronali e catene di Dna ,Adn e altre scientificherie.
Resta la nostalgia di questa illuminazione vibrante, come dell'immaginario del comandante Kirk in cui il senso del progresso si concentra nel momento il cui lui e il sig. Spok, il vulcaniano si fermano un istante esitando davanti a una porta trasparente che con un lieve fruscio si aprirà da sola. Finalmente.

genseki


El puntarrón

La prossimitá della follia


L'incapacità di riconoscere la follia, non ha proprio nulla di singolare, e oserei dire, che è  piuttosto prossima a essere la norma,  non si tratta di un fenomeno relativo a individui isolati, ma a intere nazioni che, come la storia ben lo insegna, spesso, a causa di tale influenza (...), si lasciarono condurre verso l'abisso dalla strana capacità di persuasione che possiede la logica apparentemente senza difetti del delirio, sebbene in essa tutto sia in sé contraddizione.

Juan José Saer
da "Le nubi"
trad. genseki

venerdì, gennaio 20, 2012

La posizione della finitudine

In che cosa consiste situarsi in modo corretto nella coscienza compiutamente posseduta della propria finitudine?
In primo luogo va detto qualche cosa a proposito di questa finitudine in relazione con il noi o con l'io di cui costituisce il limite.
La finitudine non è esattamente la morte. Perché anche in una prospettiva cristiana o induista i resurrezione o di reincarnazione quello che risulta cancellata è la morte ma non la finitudine, posto che sia la reincarnazione sia la resurrezione sono innegabilmente discontinuità che si articolano in fine e principio.
Pensare la propria finitudine è un esercizio ben arduo posto che, in realtà quello che siamo stati educati a fare è cercare in tutti i modi di considerarla superata, di stabilirci nel terreno sicuro della durata, sul suolo stabile dell'eternità.
Siamo stati educati a credere in valori che non periscono, a lottare per fini eterni, a stabilire principi immutabili. A pregare Dio.
Tutte cose, queste, assolutamente incompatibili con la nostra lamentevole finitezza.
Questo vale per coloro che hanno ricevuto un'educazione religiosa come per coloro che sono stati tirati su nell'ateismo, nell'agnosticismo, nell'epicureismo o nell'indifferenza.
Pensare la propria finitudine a partire dalla propria finitudine significa inevitabilmente pensare a partire da un dove che ha da essere un quivi e che non può essere mai uno dei tanti altrove. Un quivi definito nel senso strettissimo della sua infima spazialità, mettiamo che sia non più di un tatami, non può certo essere un quivi maggiore di un tatami!

Vi sono due modi principali di stare nel quivi, due tra molti. Uno è quello di radicarsi nel quivi come se si dovesse resistere ai venti pugnaci dell'altrove e come se il quivi fosse superiore all'altrove; l'altro è quello di considerare il quivi uno dei possibili altrove, cioè un caso particolare dell'altrove che per la coscienza della finitudine ci contiene come un quivi e non come un ovunque.

La coscienza finita è coscienza di stare sempre qui. Non perché quivi siano contenuti tutti gli altrove ma perché quivi è il solo altrove possibile per una coscienza finita.

Bisogna che il quivi della coscienza finita non è la negazione dell'altrove, è la forma dell'altrove dal punto di vista della finitudine. Insomma un tatami. La vita quotidiana nelle condizioni attuali, quasi ci obbliga a situarci nell'altrove.
genseki



lunedì, novembre 28, 2011

Heirich Heine

Crepuscolo

Sulla pallida riva del mare
Sedevo solo coi miei pensieri cupi.
Il sole calava all'orizzonte spargendo
Raggi rossi, roventi sull'acqua,
Bianche ampissime onde
Spinte dalla mareggiata
Spumeggiando rompevano con intenso fragore -
Un raro brontolio, sibili, sussurri,
Risa, mormori, sospiri e ronzi
Si confondevano con una ninna nanna.
Mi pareva di udire l'eco delle antiche saghe
Delle care favole arcaiche
Che da bambino
Udivo dai figli dei vicini
Quando nelle sere d'estate
Sugli scalini di pietra del portone
Quieti in circolo accoccolati
Ascoltavamo
Con piccoli creduli cuori
Ed occhi furbi e curiosi,
Mentre le ragazzine,
Accanto ai vasi di fiori profumati
Sedevano di fronte alla finestra,
Con volti di rosa,
Sorridendo alla luce della luna.

trad. genseki

Ritratto di Lisi che conserva in uno scrigno

In picciol carcer tengo imprigionato
Con la famiglia intera d'oro ardente
Il cerchio della luce risplendente,
L'impero grande dell'amor serrato.

E meco porto il pascolo stellato
Dell'alte fiere dal pelo rilucente
E ben celato al cielo de all'Oriente.
Dì luminoso parto migliorato

Porto le Indie tutte nella mano,
Perle che, in un diamante, quai rubini,
Pronunciano con sdegno vocal gelo;

Van ragionando poi fuoco tiranno
Lampi d'un bel sorriso di carmino
Aurore e gale che son pompa al cielo.

*

Quevedo
Trad. genseki

Quevedo



Conto ormai cinquantadue anni e in essi conto altrettanti funerali di me stesso. Irrevocabilmente morì la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia gioventù, e anche la pienezza della mia matura etá. Allora come posso chiamare vita questa vechiezza che è sepolcro nel quale io stesso sono la salma di cinque defunti che ho vissuto?


Lettera a Miguel Serrano del Castillo del 16 Agosto 1653


Trad genseki



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venerdì, novembre 25, 2011

Enrique Morente canta a José Bergamín

José Bergamín



Il pensamento in sogno trasmutai.

Dante

Mi persi in un bosco oscuro
Sulla riva del mare
E non tornai a incontrare
Nessun cammino sicuro.

Come impossibile muro
Che non si può varcare
Sentii delle stelle il brillare
Nella notte così puro.

Come se il sentimento
Di verità si illuminasse
Simile al firmamento;

Come se si tramutasse
In sogno il mio pensamento
E il cielo lo rispecchiasse.

*
Sonetto inverso

Non so perché sto pensando
Che pur mi tocca morire
Ignorando come e quando.

Inorando come e quando
E dove, mi metto a vivere
Come se stessi aspettando.

Come se stessi aspettando
Di potermi addormentare
Ché non posso continuare
A senir che sto sognando.

A sentir che sto sognando
Per smettere di sentire
Che mi toccherà morire
Ignorando come e quando.

*

Trad genseki

Dussel



L'Altro non lo vedo come libero, come esteriorità; non lo posso pensare, è impensabile, perché l'Altro, lui si rivela a partire da sé, in modo che si trova oltre il logos; è quello che cercava Feuerbach, quello che cercava Heidegger. “Oltre la totalità si trova l'Altro nella sua lbertà, nella sua parola che irrompe sempre come ciò che interpella, perché sorge da oltre la totalità, come ciò che ancora non ha senso, perché appunto si trova oltre ogni senso. Se parla come ciò che già ha un senso vuol dire che è ontico, mondano.

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L'Altro parla e la sua parola trova in me, non un occhio, bensì un orecchio. Per i greci e i moderni, il mondo è l'ambito della luce, lumen, “l'intelletto agente” è luce che illumina. L'intellegibile è l'illuminato, La parola dell'Altro, tuttavia, si trova oltre, nell'oscurità; in modo che la sua parola irrompe da oltre la luce.


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Nell'esperienza del faccia-a-faccia riconosco l'Altro come ciò che si trova oltre il mio mondo. Per questo, sto esplrando il limite del mio mondo; mi sto riconoscendo come non unico, bensì finito.

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Il codice di Hamurabi, antico (una piccola lapide nera del Louvre) dice: “Ho fatto giutizia alla vedova, all'orfano e al povero”, queste paroel non le avrebbe mai scritte un greco e nemmeno un moderno. Vediamo che cosa significano. La vedova non è una donna qualsiai, è la donna senza casa e la donna senza casa nel mondo mesopotamico è l'Altro perché è colei che resta esposta alle intemperie. L'orfano non è come tutti i bambini è il bambino senza casa, quello che sta alle intemperie. Il povero, in questo caso è il nulla, senza città, senza città. La vedova, l'orfano e il povero, tutti e tre, sono l'esteriorità della totalità, chi sa far loro giustizia si apre all'esteriorità e ha una nuova esperienza dell'essere. Hamurabi era semita. Aristotele non disse mai nulla di simile nella Nicomachea, disse, invece: “l'amore è tra eguali” e quindi amore per quanti stanno nella totalità.

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Solo morendo alla quotidianità del mondo è come accade il pensiero filosofico, Chi non rinuncia mai alla quotidianità non può essere filosofo, chi si protegge nella sicurezza della totalità è morto

e non può pensare.


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La cosa più reale di tutto quanto è esteriore al mondo è proprio l'altro uomo in quanto è libertà.


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L'altro che si rivela sorge oltre quello che per me è l'essere.


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Un grande pensatore antihegeliano dice giustamente: “dall'ascoltare silenzioso sorge la comunià”. Chi è capace di ascoltare l'altro in quanto altro è capace di costituire una comunità e non una società totalizzata.
Trad genseki

Enrique Dussel



Abramo


Abramo
Ritorno ad Abramo. Era tanto tempo che non mi ricordavo di lui. Eppure improvvisamente ho sentito tutta la nostalgia di non appartenere più alla sua discendenza, di non fare parte dei suoi eredi. Sarebbe bello, quando sarà giunto il momento, sentire di reclinare il capo tra le braccia di Abramo.
Trovare la pace nell'essere parte della sua famiglia, nel sapere di essere foglia che si separa da quel vecchio albero che sempre rinnova in freschi polloni.
Ho spesso lasciato tutto quello che avevo per ricominciare altrove seguendo la voce del dio vanitoso del mio capriccio. Forse la voce, l'intenzione, la chiamata erano il frutto di superficialità, ma la partenza, l'abbandono stavano su di un altro piano, Nel movimento, non nelle se ragioni si nascondeva una qualche verità.
genseki

Murcia huerta

In fondo alla valle di latte

In fondo alla valle oscuro come un ragno
Il borgo aveva assassinato i suoi torrenti
I fiumiciattoli e i rigagnoli
Sibilando sgangherato da mille sirene
Chiamava all'appello dell'assenzio
Le biciclette sconquassate
Mentre gli assi e i fanti di coppe
Si accomodavano in terza classe.
L'erba si faceva amara e fredda
Il latte sceglieva di scorrere
Ora per le vene piú profonde della terra-

**

Barnagasso

Barnagasso soleva sedere di fronte al mare,
con il suo fascio di notizie fresche
Con il cartoccio di mitili stanchi
E il fez
I grossi piedi ben piantati nella sabbia
Respirava la frescura salina
Di ogni infrangersi di tutto quello che era schiuma
Signore dell'onda estrema, Barnagasso,
Dal gesto lento e unto
Conosceva per nome le alghe
Che si abbracciavano alle sue caviglie
Dietro il capo una corona di palme
Oscillava al ritmo di un salmo copto
Barnagasso era là quando le colonne del mare
Furono piegate dal firmamento
Ora traeva melodia dalla curva delle onde
Morte sulla rena bianca
A pochi millimetri dal suo alluce
Il fez macchiato di sudore.

venerdì, novembre 18, 2011

Reincarnazioni

Le chiese nere come ceppi carbonizzati
In tutto quel gemere d'oro crepuscolare
Nello scricchiolare senile delle roveri
E gli sbadigli sarcastici dei lupi
Ci chiamavamo ad una festa di campanili
Ad un'aurora di colombe tra i coppi e gli abbaini
Allora fu lo strepito degli zoccoli sul selciato
Che bruciò quella possibile reincarnazione
A farci restare da questo lato dello specchio
A contare le banconote del riscatto
Sull'erba troppo verde di un campo di golf
In saldo.

*
Non era possibile svegliarsi
Nella notte di bronzo dello specchio
Per vomitare tutto quello zinco
Sulle felci lavate dalla luna.
*

Murcia huerta

Leggende

Tutte quelle monete quei dobloni
Il mantello grigio del pellegrino cucito con steli di verbena
Il rovescio cupo della sorgente
E il sorriso di lucertola della vergine
Accoccolata sotto il frassino
Mentre non cessava di sgocciolare
dalle cortecce ricamate di lichene
Come stole del tempo d'avvento.
D'un avvento infatti restavamo in attesa
Ignari di misteri e di soteriologia
Consci come rospi della soffocante
Fecondità di tutta quella vita nell'estremità dell'autunno
Erano pozzi tra muschio e grandine
Gli occhi delle nostre anime
Bevevamo l'elisir di ortica
Con le mani nel tesoro del pellegrino
Il suo rosario sgranato nella tosse della sorgente
Ci rammemorava il prezzo del sangue versato.
*

sabato, ottobre 29, 2011

Xavier Zubiri


Sulla realtà


Non è sufficiente che le cose siano reali perché costituiscano un problema per noi, bisogna che si presentino in una certa forma perché si possa parlare di un problema. I vero problema consiste nel fatto che l'oggetto presente, cioè la realtà in quanto tale, non è un elemento su cui ricade liberamente il mio atto intellettivo. …
L'oggetto su cui ricade la domanda sulla realtà in quanto tale non è meramente estrinseco quanto piuttosto qualche cosa che, in una o in altra forma, mi si presenta a partire da me stesso. Ho un modo particolare di riferirmi alle cose in virtù del quale, inesorabilmente, la realtà in quanto tale mi si presenta come qualche cosa di intrinseco al mio atto di riferirmi alle cose e non semplicemente come qualche cosa di estrinseco, come qualche cosa che è un apporto delle cose.

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(L'impressione di realtà) è qualche cosa che ci presenta il carattere di realtà come qualcosa che l'oggetto possiede in sé, che rinvia a ciò che è suo proprio.

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L'intelligenza umana, in quanto intelligenza, è intrinsecamente volta alla sensibilità in quanto sensibilità, e reciprocamente, nel caso dell'uomo, … , al livello in cui sorgono nella coscienza le impressioni della sensibilità umana si trovano intrinsecamente assorbite in un atto intellettivo.

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Intorno all'essenza.


La funzione formale dell'intelligenza, non è quella di concepire, quanto piuttosto quella di percepire le cose reali proprio in quanto reali. Quella di formare concetti è una funzione ulteriore che riposa su questa funzione primaria e che da essa deriva. E questo vale tanto per l'intelligenza umana quanto per quella divina.
Dio non concepisce primariamente le cose reali in quanto reali in concetti obiettivi in quanto concetti, bensì in una visione di esse in quanto reali o realizzabili. L'intellegibile una volta fattp oggetto dell'intelletto è il reale in quanto reale.Per questo la relazione primaria e radicale delle cose con l'intelligenza non è relazione concettuale ma un essere afferrate in essa come reali. Pertanto prima di una verità ontologica (che io chiamerei del concetto) vi è una “verità reale” che ne è il fondamento.


Trad genseki

Huerta

Eidos

Da quanto tempo era steso sul divano
Pensando all'albero del pepe
Al suo modo di ritagliare la luce
Sullo sfondo viola di un temporale
All'evidenza della contingenza
Di questo corpo disteso che si sfrangia
Nelle direzioni che definiscono il suo spazio
E quelle piccole bacche rosa che devono
Essere acide acide e forse senza ossicini
Con un cuore come un astragalo
E che sembrano attrarre le gazze
Qui sul divano disteso lascio
Che la percezione della sua quiete
Disgreghi al vento della casualità
Il mio corpo e ecco l'albero dello pseudo pepe
O pseudo albero del pepe
Muovere le foglioline come unghie di cera
Come torvi rimasugli di pinne
Sullo sfondo di un incendio di garofani
Di zingarelle e di agrumi.
*
La poesia è un territorio rubato al sonno
Esteso tra la notte e l'alba
Ove le parole cercano a tastoni di diventare corpo
E il corpo di sentirsi finalmente reale
Nel formicolio silenzioso del suo farsi
E disfarsi sempre restando sulla sponda
Tra il sogno e il discorso.

gesneki

mercoledì, ottobre 26, 2011

Xavier Zubiri



Xavier Zubiri

Durante tutta la mia vita ho conosciuto solo una emozione che mi ha commosso, l'emozione della problematicitá pura.

Fin da giovane provavo dolore nel vedere come tutto si trasforma in problema. (...) Questo dolore, tuttavia, non era in sé doloroso. (...) Era piuttosto la fonte, in fondo e fino ad ora l'unica vera fonte, di autentica gioia.
Mi volli afferrare positivamente a questo carattere problematico dellèsistenza.

Lettera a Heidegger
trad genseki

sabato, ottobre 22, 2011

Puntarron

Nuove poesie di genseki

La pioggia ha lavato gli ultimi ciuffi
Delle speranze e delle illusioni.
Ora lo vediamo l'albero è proprio un albero
La luce un groviglio di vermi
Eppure la lepre che fugge ha un profumo
Pungente di incendio il suo alito affumicato
Ricorda la tua pelle rosa o la carne
E la nostra povera morte è questo accettare
La fatica di digiunare dalle apparenze
Di una gloria mai sopita.

*

Anche il sonno è soltanto vapore
Dormendo accanto al focolare
Quando tante perle si scheggiano
Sulle vetrate dell'apparire
Qualcuno ci lasciò qualche falange
Cercando di potare l'ombra
Tutto quello che seccava lo trascinava il vento
Nessuno ci soccorse quando decidemmo
Di svegliarci.

*

Entrare nella musica era come entrare nel bosco
Entrambe le selve ci avrebbero salvato
La musica era tutta dorata, come un liquore
Come un autunno nella sua armilla
Ora sappiamo che restare accoccolati
Sul pavimento di terracotta
Non ci permette di decifrare l'ombra
Come il ricamo dell'avventura
Lo scrosciare verdastro della gronda
Si confonde con la sfilata sfuocata
dei gatti delle loro code e i baffi e tante stelle
Nel bosco e nella musica è tutto il nostro morire.

lunedì, settembre 12, 2011

Avanguardia e narrazione

Parte I


Negli anni cinquanta e sessanta i teorici del "Nouveau Roman" affermavano con veemenza che il romanzo era l'unica arte che, nel corso del XX secolo, non aveva portato a compimento la propria rivoluzione avanguardista, a differenza delle arti plastiche, della musica e della poesia che la stavano sviluppando da tre quarti di secolo. Se il cubismo, il dodecafonismo, il surrealismo e altre scuole degli anni dieci, venti e trenta avevano, al loro apparire, suscitato scandalo, anatemi e polemiche, ma n ormai erano state accolte nel limbo sereno in cui gli andirivieni del gusto finiscono per collocare i classici. Al contrario, tuttavia, nel 1973, Jean Ricardou, in un suo libro sul "Nouveau Roman" scriveva: "Siamo ormai alle edizioni complete, ai premi letterari, ai grandi quotidiani, all'Universitá, sicuramente il "Nouveau Roman" ha potuto imporre alcune caratteri della sua attivitá, ma l'accoglienza che ha ottenuto presso gli ambienti culturali sembra singolarmente concessa controvoglia". Oggi, trent'anni dopo, si può comprovare come questa resistenza sia ancora viva e che, nonostante una ricezione parialmente positiva nelle istanze culturale ufficiali come l'edizione della Pléiade di Nathalie Sarraute e il Premio Nobel a Claude Simon che puó essere interpretato come un riconoscimento a tutta la scuola, il rifiuto, in molti casi, continua ad essere cocciuto e violento.

Perché tanto furore? Varie possono esserne le cause, la piú evidente è che la complessitá di un'opera d'arte che la allontana dall'abitudine, non solo sconcerta, ma a volte, quando non si ha la preparazione per affrontarla, delude e offende. La ricezione tumultuosa delle novitá, a volte radicali, che sono una costante nella storia delle avanguardie, suole essere composta di razionalizzazione ma anche di risentimento. Nel caso del "Nouveau Roman" questo persistente ripudioincuriosisce posto che ha cessato da tempo di essere una novitá e ha il suo posto nella letteratura francese.

Un rifiuto cosí ottuso deve avere qualche causa che sarebbe interessante indagare e che non dipende dal carattere singolare del "Nouveau Roman" ma, piuttosto dalla funzione che la societá attribuisce al genere narrativo.

Si sa che la poesia lirica godette sempre di uno statuto piú libero della poesia epica perché la lirica atta esprimera la personalitá e l'intimitá del poeta poteva permettersi (dal punto di vista del pubblico, assolutamente non da quello dei poeti!) una maggiore irresponsabilitá dell'epica che spesso era utilizzata per eprimere il punto di vista di una intera societá. Quando, a partire dalla prima metá del secolo XIX la poesia si scriverá anche in prosa, l'uso che i poeti faranno di questo nuovo strumento finirá per dare un contributo decisivo alle avanguardie, proprio come, quando il genere epico adottó la prosa dando luogo al nuovo genere del romanzo, si produssero contemporaneamente, nei molti tentativi di ques'arte singolare, fenomeni contradditori e persino conflittuali.
La rappresentativitá sociale ereditata dall'epica sembra obbligare il romanzo a privilegiare la linearitá, l'azione, la trasparenza ( nel senso che Sartre da a questa parola come quello di un linguaggio non utilizzato nella sua opaca materialitá come nella poesia, bensí come un intermediario invisibile tra il lettore e il signficato). Anche se l'epica, a partire per lo meno da Don Chisciotte, ha cessato di essere preminente nell'evoluzione delle forme narrative ( e si potrebbe anche dire che il racconto in occidente evolve verso una retorica anti-epica), i procedimenti che veicolavano i suoi valori sociali e letterari continuano ad essere onnipresentied è evidente che l'esercizio di ogni narrativa valida ha consistito nell'opporsi ad essi. È questa opposizione che spiega la ricezione conflittuale di ogni opera narrativa dalla seconda metá del XIX secolo.

Juan José Saer

Trad genseki

venerdì, settembre 09, 2011

Drop Box

José Ortega y Gasset

La filosofia del pieno mezzogiorno di Ortega y Gasset impedisce alla nottola di levarsi in volo.


Preferisco concepire la filosofia come un fluido succedersi di luce e di ombra, nella radura, anche a mezzogiorno, la luce del sole filtra tremula tra le fronde si tinge di sfumature di verde e ocra, oppure è nebbia leggera del mattino che sfuma i contorni dei concetti e ci rimanda al loro discreto svelarsi come velati.


genseki




L'uomo vive abitualemente sommerso nella sua vita, come un naufrago nel suo mare, trascinato istante dopo istante dal torbido torrente del suo destino, vive, cioè. in uno stato di sonnambulismo interrotto soltanto da lampi intermittenti di luciditá nel corso dei quali scopre confusamente come è strano il fatto di vivere, allo stesso modo in cui il fumlmine, in un battito diciglia, rivela le anse profonde della nera nube dal cui seno scaturí. Aveva proprio ragione Calderón, e in un senso piú banale e terra terra di quanto pensasse: la vita è sogno come è sogno ogni realtá che non abbraccia se stessa, che non prende pieno possesso di sé,che resta dentro di sé e non riesce a fuoruscire da sé posizionandso sopra di sé. In questo sono eguali l'incolto el'uomodi scienza; anche il fisico èun sonnambulo e non solo nella vita quotidiana ma anche quando fa fisica sonnambulizza. La fisica è un sogno. Un sogno matematico.La sola possibilitá che l'uomo possiede per svegliarsi, per ricordare e vivere in pienaluciditá consiste precisamente nel filosafare.Insomma, la nostra vita o è sonnambulismo o filosofia. Lo dico chiaro come avvertenza preliminare: La filosofia non èun sogno - è insonnia - attenzione infinita,volontá di perpetuo mezzogiorno esasperata vocazione alla veglia e alla luciditá.

Ortega y Gasset
La ragione storica


Trad genseki

giovedì, luglio 07, 2011

La radura

Alla radura si giungeva
Seguendo i solchi paralleli
Tracciati dalle ruote dei carri
Furono queste le tracce ultime
Da pochi ancora ricordate
Che permettevano di entrare nel mondo
Perché nella radura il mondo parlava
Il linguaggio delle cose si esprimeva
In forma visibile e udibile
Come un pullulare di ronzio e scintilla
Di voli luminosi, batttiti d'elitra diamantina
Scrosciare lieve di piume viscido sibilare
Inerme dei ciotoli. Il linguaggio si faceva intensità
Significato libero dalla prigionia della relazione
Dalle catene del dare e dell'avere.
Entrava nella radura come in un tempio
Si sarebbe tolte le scarpe e le calze
Ma i suoi piedi avevano vergogna di lui
Tremando ubriaco di rose canine e ranuncoli.

La cittá

La città

La città si apriva come un urlo cavo
Sulla sommità della scala immensa
Se guardavo in alto era vertigine
Dissolversi sotto le ciglia di ogni sogno
Cercavo rifugio in tutti gli angoli
Nelle edicole ritagliate negli antichi muri
Nelle finestre che velavano appena il pudore delle candele
Ma i focomelici minacciavano,
I mendichi, la bottega dove vendevano le trippe
Lavate nel latte, bianche come le cuffie delle suore
Tornavo al borgo come in una bara di vetro
Le luci degli altri fari erano anime psicopompe
L'urlo della città mi aveva lavato tutto vuoto
Eppure non fu il borgo fu la radura
Che mi donò infine le parole e la pazienza.

Moteagudos y otoños

Il borgo II

Non era il borgo coscienza
Infine scoperta delle relazioni
Piuttosto misura dell'estraneità
Di chi osservava e sapeva osservare
La rumorosa fermentazione della pianura
Dei prati prima della fienagione
Del grano prima del rossore del papavero
E in tutto questo riconosceva le stelle
E alzava lo sguardo come in altri tempi
Alla volta celeste vaste fronti
Volgevano il loro stupore
Il borgo erano vecchie vene
Grige percorse dalle diramazioni del muschio
Ricami di salnitro
Ogni tanto un albero di cachi scoppiava rosso
Fradicio trai denti
I cani randagi allora pullulavano
Nelle osterie il vino puzzava di fenolo
Sulla costa in fondo alla radura
Espero delineava pianure di cobalto
Nel borgo battevano i denti le febbri e le fami
Arturo beffardo un giorno mi prese per mano
Non osavo alzare lo sguardo alla mia fronte
Nella radura riposai i piedi accanto alle orecchie
I fauni arrostivano le castagne trincavano barbera
Arturo era un bugiardo e un monello
Ma anch'io mi lavavo poco
Fuggivo dove nessuna carne potesse turbare il mio freddo.

febbraio 2009

Il borgo

Non aveva parole il borgo
Perso nella forma della sua distanza
Trasfigurato in acqua e in estranea trasparenza
Affondava nella sola palude
Da cui il sole
Non avrebbe potuto redimerlo.
Erano nebbie, fiori di castagno,
Rune sciolte, canti di levrieri nell'alba del biancospino
Una casa di pietra
Fuliggine.
Il borgo si apriva oltre la finestra
Sovente una tenda di pioggia
Garantiva la permanenza di questo limbo
Il suo odore di muschio
La morte, però, si sa, è sempre più forte
Della pioggia, delle macchie di umido,
Delle travi sconnesse del soffitto
Dei fantasmi degli interrutori a forma di chiave.
Così non smettiamo di scorrere
Dentro e fuori da noi stessi
Dimentichi di ogni patria o borgo
Che non sia radura.




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gendronniere

Memoria

Succede che nella memoria restino fissate, in modo invariabile le distanze temporali come si rivelarono all'immaginazione per la prima volta. Il trascorrere del tempo, poi, non ha il potere di aggiungere o ti togliere niente. Si tratta di distanze temporali vissute nella mente come immagini, non come dati, o misure, anni, decenni secoli. Il fenomeno è più forte quando la distanza è remota quel tanto che basta perché nel momento della sua rivelazione fossero ancora vive persone che potevano testimoniarne l'estensione.
È difficile descrivere in termini astratti questa curiosa irregolarità prospettica nella percezione del tempo nella memoria, la si può meglio intuire attraverso un esempio.
Per me la distanza che mi separa dal 1920 è sempre quella che percepii come sensazione quando qualcuno mi raccontò un episodio relativo a quella data cui io potei dare, per la prima volta una forma rappresentativa concreta. Se questo avvenne, poniamo nel 1960 la distanza che intercorre, nella mia memoria tra me e il 1920 è e resta sempre di quarant'anni. Anche se adesso gli anni sono novanta e per un fanciullo di oggi la distanza dal 1960, anno della mia rivelazione dell'esitenza concreta del 1920 è più o meno della stesso ordine. Quest'ultima considerazione non cessa mai di stupirmi. Nel mondo della memoria le distanze temporali obbediscono a leggi diverse da quelle del mondo dell'esperienza. Vale la pena esplorare
genseki

Fenomeni della memoria

Succede che nella memoria restino fissate, in modo invariabile le distanze temporali come si rivelarono all'immaginazione per la prima volta. Il trascorrere del tempo, poi, non ha il potere di aggiungere o ti togliere niente. Si tratta di distanze temporali vissute nella mente come immagini, non come dati, o misure, anni, decenni secoli. Il fenomeno è più forte quando la distanza è remota quel tanto che basta perché nel momento della sua rivelazione fossero ancora vive persone che potevano testimoniarne l'estensione.
È difficile descrivere in termini astratti questa curiosa irregolarità prospettica nella percezione del tempo nella memoria, la si può meglio intuire attraverso un esempio.
Per me la distanza che mi separa dal 1920 è sempre quella che percepii come sensazione quando qualcuno mi raccontò un episodio relativo a quella data cui io potei dare, per la prima volta una forma rappresentativa concreta. Se questo avvenne, poniamo nel 1960 la distanza che intercorre, nella mia memoria tra me e il 1920 è e resta sempre di quarant'anni. Anche se adesso gli anni sono novanta e per un fanciullo di oggi la distanza dal 1960, anno della mia rivelazione dell'esitenza concreta del 1920 è più o meno della stesso ordine. Quest'ultima considerazione non cessa mai di stupirmi. Nel mondo della memoria le distanze temporali obbediscono a leggi diverse da quelle del mondo dell'esperienza. Vale la pena esplorarle.
03/07/11

Dawkins contro Dio

Considerazioni sull'esistenza di Dio

La negazione del'esistenza di Dio, nella forma in cui è esposta e propagandata dalle associazioni di atei e agnostici che si ispirano a Dawkins affronta un primo ostacolo del tutto insormontabile, un ostacolo semantico, sembrerebbe, per cui è indubitabile che esiste un significante DIO con una costellazione, uno sviluppo, una estesione di significati. L'esistenza del concetto di Dio non può essere ragionevomente negata.
Non si tratta quindi da parte degli atei di negare l'esistenza del concetto di Dio, quanto piuttosto di affermare la volontà di distruggere questo concetto, di cancellarlo.
A questo livello gli atei non sono coloro che negano Dio, essi sono, più correttamente coloro che vogliono distruggere il concetto di Dio.
L'affermazione: “Dio non esiste” può essere razionalmente sostenuta su molti piani ma non sul piano semantico, sul piano del segno, sul piano del significato e neppure su quello del concetto. È evidente a tutti che esiste un segno dio con la sua copia di significato e sigificante, esiste un concetto di dio. Come negarlo? Negarlo non si può, si deve distruggerlo. Ora, se si distrugge il segno dio, o il concetto, tutto il sistema dei significati e dei concetti debe essere completamente riorganizzato. Come dicevano i vecchi strutturalisti, un sistema è, appunto una rete di elementi in relazione di interdipendenza oppositiva. Se un elemento della rete si toglie, tutte le relazioni della rete vanno ridefinite, o si ridefiniscono automaticamente. È un po' quella famosa transvalutazione di tutti i valori del Zarathustra.
L'ateismo, comunque non può essere negazione, è obbligato a essere distruzione e poi riforma, ridefinizione.
Certo, è facile obiettare che questo ragionamento è tutto interno al linguaggio e al pensiero e che quello che gli atei vogliono fare è dimostrare è che nella realtà non vi è nessun dio, che Dio non ha un'esistenza reale fuori dal pensiero e dal linguaggio e che la necesità di abolire il segno e il concetto di dio dal linguaggio e dal pensiero altro non è che adeguare il linguaggio e il pensiero alla realtà.
Questa obiezione ha il difetto di considerare il pensiero e il linguaggio come elementi che non appartengono alla realtà. Eppure, il pensiero e il linguaggio una qualche realtà sembrano proprio averla. Un realtà tanto reale che è in grado spesso di modificare il reale.
L'ateismo sarebbe allora una negazione dell'esistenza di Dio al di fuori del pensiero e del linguaggio.
Fu detto ai tempi della grande filosofia che dio è una creazione degli uomini, se è una creazione degli uomini in forma di segno o di concetto non è possibile che non esista. Un prodotto è qualche cosa che esiste in seguito ad una azione,una attività.
genseki

lunedì, giugno 27, 2011

Il Tungsteno

Parte II


Di César Vallejo


Pochi giorni dopo videro lo stesso sora aiutare una ragazza a lavare il grano.
Poi si offrì per portare la punta di una fune negli smottamenti. Piú tardi, quando si cominciò a caricare il minerale e a trasportarlo alla officina di analisi, proprio quel sora spingeva il carretto. Il commerciante Marino, caporale di manodopera, gli disse un bel giorno:

- Vedo che anche tu stai lavorando. Bene, cholito, bene. Vuoi che ti aiui? Quanto vuoi?

Il sora non ci capiva niente in questo linguaggio di “aiuti” e di “quanto vuoi”. Voleva solo darsi da fare per passare il tempo, nient'altro. Perché i sora proprio non potevano starsene tranquilli, andavano e venivano allegri, con le vene gonfie e i muscoli tesi nell'azione, al pascolo, alla semina, a sarchiare a caccia di vigogne e lama guanacoe selvatici, scalando rocce e precipizi, in un lavoro incessante e a prima vista, disinteressato. Mancava loro completamente il senso dell'utilitá. Senza calcolare e senza preoccuparsi del risultato economico delle loro azioni, sembravano vivere la vita come un gioco espansivo e generoso. Dimostravano una tale fiducia negli altri che in certi momenti facevano pena, non conoscevano lo scambio commerciale e quindi capitava di assistere a scene divertenti a questo proposito:

- Vendimi un lama per fare carne affumicata.

L'animale era consegnato, senza che lo si pagasse e senza che il pagamento fosse nemmeno reclamato. A volte in cambio davano loro una o due monete che accettavano per poi ridarle subito al primo venuto alla minima richiesta.

*

Una volta stabilitasi nella zona la gente della miniera, impiegati e operai cominciarono a pensare a circondarsi di cose necessarie alla vita, a parte di quelle che facevano venire da fuori, che si potevano trovare in loco, come animali da soma, lama per la carne, cereali e altro ancora. Tuttavia bisognava portare avanti un lavoro paziente di esplorazione e poi dissodare le terre incolte, per convertirle in campi da arare ben fertili. Il primo ad operare sulla terra con l'intenzione, non solo di ottenere prodotti per la propria sussistenza, ma anche di arricchirsi a base di allevamento e di coltivazione, fu il proprietario del bazar e caporale esclusivo che, a questo fine, formò una societá segreta con l'ingegner Rubio e l'agronomo Benites. Marino prese su di sé la gestione di questa societá, dato che lui dal bazar poteva dedicarsi all'affare con facilità e con vantaggi particolari. Inoltre Marino aveva uno straordinario istinto commerciale. Grasso e piccolino, furbo e molto avaro, il commerciante sapeva coinvolgere la gente nei suoi affari come una volpe con le galline. Al contrario Baldomero Rubio era un tipo tranquillo, nonostante la sua alta statura e il fatto di essere un po' curvo di spalle, il che conferiva alla sua persona uno stupefacente aspetto di avvoltoio sul punto di aggredire un agnello. In quanto a Leónidas Benites non era altro che un timidissimo studente della facoltá di ingegneria de Lima, debole e bigotto, qualitá del tutto inutili e persino controproducenti in materia commericale.
José Marino mise gli occhi, fin dal primo istante, sui terreni, già seminati dei Sora e decise di appropriarene. Dovette però vedersela con Machuca, Baldazari e altri che anche loro si misero a spogliare i sora dei loro beni, e alla fine fu lui, Marino che vinse la pugna. Due armi gli permisero il successo: il bazar e il suo eccezionale cinismo.
I sora erano sedotti dalle cose, ben strane per le loro menti rozze e selvagge, che vedevano nel bazar: flanella colorata, bottiglie pittoresche, pacchetti multicolori, fiammifferi, caramelle, “baldes” brillanti, vasi trasparenti. José Marino fece il resto con la sua malizia da usuraio.


- Vendimi il pascolo delle oche al lato della tua capanna – disse loro un giorno nel bazar, approffitando della fascinazione che esercitavano le sue merci sui sora.


- Cosa dici, taita?
- Dico che mi dia il terreno dove tieni le oche e in cambio io ti darò quello che vuoi del mio negozio.

- Va bene, taita!


La vendita, o meglio il baratto, fu stipulata. A cambio del valore del terreno delle oche José Marino diede al sora una piccola caraffa di vetro azzurro con fiori rossi.
- Attento che la rompi! - disse paterno Marino.
Poi mostrò al sora come doveva portarla, con grande delicatezza, per non romperla. L'indio, accompagnato da altri due sora, portò l'oggetto fino alla sua capanna, a passettini come una cosa sacra. Percorsero la distanza, che era circa di un kilometro, in due ore e mezza. La gente usciva a guardarli e moriva dal ridere. Il sora non si era reso conto del fatto che l'operazione non fosse equa. Tutto quello che sapeva era che Marino voleva il suo terreno e così lo cedette. L'altra parte dell'operazione, la cessione della caraffa, era per il sora del tutto separata e indipendente dalla prima, per lui Marino aveva ceduto l'oggetto per il semplice fatto che la caraffa era piaciuta a lui, al sora.
Con questo metodo il commerciante continuò ad appropriarsi dei terreni coltivabili dei sora, che essi continuavano a cedere in cambio di piccoli oggetti pittoreschi de bazar con la maggiore innocenza possibile come bambini che non sanno quello che stanno facendo. I sora, mentre da un lato si lasciavano espropriare delle loro terre e dei loro armenti da Marino, Machucha, Baldazari e dagli altri impiegati della “Mining Society” non cessavano, dall'altro di lottare con la vasta natura vergine, assaltando i versanti e le valli, le selve e le pareti per arare e seminare e cercando nuovi animali da addomesticare e allevare. Il fatto di essere spogliati delle loro proprietà non sembrava causare loro il minimo danno. Anzi offriva loro occasione per essere ancora più espansivi e dinamici, visto che la loro congenita mobilitá trovava un impiego allegro e utile. La coscienza economica dei sora era molto semplice: finché potevano lavorare in qualche posto e in qualche modo per vivere, il resto non aveva importanza. Solo il giorno che fosse venuto loro a mancare dove e come lavorare per sopravvivere, solo allora avrebbero aperto gli occhi e si sarebbero opposti ai loro sfruttatori con una resistenza sicuramente accanita. La loro lotta con i minatori sarebbe allora stata per la vita o per la morte. Sarebbe mai giunto quel giorno? Per il momento i sora vivevano in una specie di ritirata davanti all'invasione, astuta e irresistibile di Marino e degli altri.
I braccianti, da parte loro condannavano i furti ai sora, con compasione.

- Che sfacciatagine! - Esclamavano facendosi il segno della croce – Togliere loro i campi e persino le baracche! Sbatterli fuori dalle loro proprietà! Che furto!


Alcuni operai osservavano:


- Sono i sora che fanno male. Sono stupidi, se pagano loro il giusto prezzo, va bene; se no, va bene lo stesso. Se chiedono loro le scarpe ridono come fosse uno scherzo e le cedono subito, son bestie, son scemi! Peggio per loro! Che vadano al diavolo!


I braccianti consideravano i sora come fossero matti o fuori dalla realtà. Una vecchietta, madre di un carbonaio, tirò un sora per la giacchetta, borbottando rabbiosa:

Pezzo di animale! Perché regali le tue cose? Non ti costano lavoro? Che fai? Ti metti a ridere? Ma guardalo! Si mette a ridere?...

La vecchietta era rossa per l'ira, e quasi lo prende per le oreccchie. Il sora per tutta risposta, le portò un mucchio di olluco, che la vecchietta rifiutò dicendo:

- ma non te l'ho detto per farmi regalare qualche cosa. Riprenditi i tuoi olluco. Poi le venne un rimorso improvviso come avesse accettato olluco, e guardò il sora con tenerezza e compassione.
Un'altra volta, la moglie di un cavatore di pietra si mise a piangere, vedendoli tanto indifesi e incapaci di calcolo e malizia. Aveva comprato alcuni zucchini e invece del prezzo pattuito aveva detto , all'ultimo momento mettendo in mano a uno di loro quattro reali:

- Ecco quattro reali. Non ho altro. Va bene?
- Va bene mamma . Disse il sora

trad genseki

giovedì, giugno 23, 2011

gendronniere

Il paradosso del marxismo

C'è un paradosso nel marxismo, ed è che questa dottrina che si autodefinisce materialista appare, nei fatti come un ardito idealismo. Fino a che non si sappia superare la contraddizione, cioè farla passare all'opposizione, la qual cosa è la correlazione, non si va avanti. I molti lettori di Lucrezio sanno che cosa significhi salvare lo spirito negandolo; io ho spesso notato il contrasto tra i materialisti, che sono spiriti risoluti, e gli spiritualisti che sono spiriti stanchi. Ma qui bisogna vederci chiaro; tutta la difficoltá è riassunta in questa frase di Bacon, tanto conosciuta: “L'uomo trionfa sulla natura obbedendole”. Di cui il timoniere piú inesperto mostra l'applicazione; il timoniere, infatti non è uomo che neghi la potenza del mare; non è nemmeno il tipo che si metterebbe a pregare perché l'onda lo voglia cogliere a poppa e non sul fianco; ben al contrario, davanti alla forza spietata, me che egli sa essere fedele e senza malizia, egli agisce, cioè passa appoggiandosi su ció che resiste.
La stessa cosa vale per tutti i mestieri.

Chi non ha pesato come su una bilancia l'universo inflessibile, cosí ben coordinato in tutti i suoi movimenti, senza nessun pensiero, questi non è un uomo. L'infanzia consiste nel credere che, a forza di pregare e di sperare, le cosa andranno meglio. L'audace cerca soltanto una fenditura in cui appoggiare il piede, sicuro, prima di tutto che l'universo non bara. Questa posizione severa è propria di Descartes che avendo tolto ogni pensiero anche dal corpo biologico e dal proprio corpo e non vedendo in esso che particelle spinte e che esercitano una spinta, concluse che si poteva vivere a lungo se si giocava forte. Di fronte al corpo politico, tuttavia, che è il piú complicato di tutti non aveva progetti; si fidava della natura, cioè dei costumi, delle passioni, delle amicizie.Viveva come un Leviatano, come vive il selvaggio nella natura delle cose, togliendosi il cappello davanti a tutte.

Ora, chi vuole agire in questo campo è come il timoniere in mare: deve dapprima cogliere la legge meccanica, ció che resiste, che offre un punto di appoggio, che non inganna. Si tratta di leggere la politica come un gorgo complesso ma privo di spirito. Quando si presuppone lo spirito si debe ricorrere alla preghiera. Quindi nel mondo degli uomini bisogna cercare ció che non cede mai alla preghiera, cioè bisogna ritrovare nel mondo umano la necessitá naturale, dei bisogni, del lavoro, delle risorse.
Cosí come il muschio non spunta che nei luoghi umidi, l'uomo si estende come un vegetale. Negozi, fabbriche, banche, trasporto, immagazinamento, tutto si espande sulla terra secondo la stessa necessitá che una macchia di umiditá sul soffitto. Chi dimentica questa necessitá, muore: tutti i pensieri che hanno avuto una vita dipendono da questo tipo di necessitá inferiori. Ecco qua come finiscono tutte le nostre belle ambizioni: le ambizioni del guaritore, sono fatte a pezzi dall'avvento del chirurgo: ecco una riflessione virile che tiene finalmente conto della realtá esteriore, non uccide l'azione, ma le apre il cammino. Dal momento che l'acqua e il vento sono forze cieche, ecco che io posso navigare. Da cui segue la navigazione politica, che si basa sui bisogni, sugli utensili, sul lavoro, elementi ciechi, privi di intenzionalitá propria, che non barano. Attraverso questa nuova separazione dello spirito e del corpo, la volontá ritrova le proprie armi e mette a prova il suo potere. Uno dei termini illumina l'altro, come si dice, e come si dimostra in astratto: mentre, in ogni ordine di azione, quello che bisogna trovare è l'oggetto puro se si vuol salvare lo spirito puro. Da cui si evince che i nostri sociologi mistici sono dei maghi della pioggia. Invece, il minimo cambiamento nelle condizioni inferiori è come un colpo di remo nell'acqua; puó essere buono o cattivo; tuttavia una buona traversata dipende dalle stesse leggi di un naufragio, non vi è differenza, per quanto riguarda l'azione dell'uomo che relativamente a piccolissimi movimenti o lavori, diretti da uno spirito lucido e senza paura.

Alain
Propos sur des philophes
1961

trad genseki

martedì, giugno 21, 2011

La gazzetta del borgo

Paul-Louis Courier de Méré.

Parte Prima


Gazzetta del paese

Questo giornale non è letterario e neppure scientifico, è rustico. Per questo deve interessare a tutti coloro che la terra mantiene, che si nutrono di pane, magari con un po' d'aglio, e forse di qualche cibo piú elaborato. I redattori sono brava gente, vivono quasi tutti tra Pont Clouet e la Quercia schiantata, coltivatori, vignaioli, boscaioli, lavoratori delle segherie e mietitori le cui opinioni e i cui principi non cambiano mai, incapaci di fingere di avere altro in testa che il proprio interesse che , come ognun sa, è anche quello dello stato; tutto il resto, a loro, non importa convinti come sono che una volta saziati i loro stomaci tutti quanti hanno pranzato. Paul-Louis che ha studiato un po', ascolta i loro racconti, raccoglie i loro discorsi, quelli piú interessanti, e le loro sentenze e mette tutto nero su bianco, insomma scrive qualche articolo senza sottintesi, qui nessuno è tanto raffinato. Qui le cose e le persone siamo soliti chiamarle con il loro nome. Quando diciamo cavolo, cetriolo o zucchino, non stiamomica parlando della corte e dei principi. Se Pierone picchia sua moglie noi non scriveremo : “si è diffusa ieri la voce che Il Sig. G*P*”; oppure: “in certi salotti, ci si sussurra …" Noi raccontiamo alla buona, come si fa qui da noi, e proviamo compassione per i nostri poveri colleghi che devono soddisfare contemporaneamtei lettori che chiedono il vero e il governo che pretende che nulla di vero debba essere detto.

Il Signor Sindaco ha ascoltato la messa nella sua tribuna. Dopo il servizio divino, il Signor Sindaco si è messo al lavoro nel suo ufficio con il brigadiere della gendarmeria; poi i due hanno inviato il loro fattorino, il Gobbo, con un pacchetto per il Signor Prefetto da consegnare nelle sue mani. Lo sappiamo da fonte degna di fiducia, il fattorino è atteso con la risposta e la ricevuta; lo hanno visto passare accanto alla “Ville aux Dames”, dove si è bevuto un bicchiere. Quanto al contenuto del messaggio, nulla è trapelato. Si suppone che si tratti di qualche balordo che vuol ballare la domenica e lavorare la festa di San Gilles.

La Signora consorte del Signor Sindaco ha dato alla luce un signorino, al suono delle campane della parrocchia.

Cantano gli usignoli, arrivano le rondini: queste sono le notizie che giungono dai campi. Dopo un duro inverno e tre mesi di mal tempo in cui non si è potuto muovere la terra e arare, ecco che incomincia l'annata, i lavori riprendono il loro corso.

Charles Avenet è in prigione per aver parlato ai soldati. Tornando ieri da Saint-Maure, incontró alcuni soldati e li invitó all'osteria. In un attimo si fecero amici per la pelle; Avenet è stato a lungo sotto le armi; è membro, non cavaliere, della Legion d'onore, bevendo dalla bottiglia: - compagni, disse, per favore, dove andate col sacco affardellato? - Alla leva, risposero quei giovani -Bene! E afferrando un'altra bottiglia: - Che cosa ci andate a fare? - La guerra, chiaro. - Benissimo, rispose Avenet alla sua terza bottiglia: - dite un po', per chi andate in guerra? Scoppiarono a ridere, si misero a parlare di affari. Due gendarmi si trovavano nei pressi, conoscendo Avenet lo chiamano e gli domandano: - È meglio che te ne vada Avenet. Egli obbedisce e se ne va: i gendarmi pure. Ma poi torna, raggiunge i suoi ospiti e riprende il suo discorso. Allora lo arrestano. Non erano gli stessi, i gendarmi. L'hanno sbattuto in galera. Caso grave: ha detto quello che si dice tra soldati dopo essersi scolati tre bottiglie.

Non c'è verso di vendere una vacca. Le fanciulle erano care all'assemblea di Veretz. Tutti e tutte corrono a sposarsi per evitare la leva. Duecento franchi un giovanotto, senza una palanca, camicia e cappello per un anno. Una ragazza venticnque scudi. La piccola Maddalena non li accetta da Jean Bedout; lei non sa nemmeno fare il pane e mungere.

Si vedono nelle nostre campagne persone che, senza entrate, spendono e spandono, non sono dei nostri. Uno vende fiammifferi, l'altro, è venuto a vendere un cavallo, scendono alla locanda e si mangiano dieci franchi al giorno: stringono amicizia, giocano, pagano da bere la domenica, i giorni di festa o di assemblea. Parlano dei Borboni, della guerra di Spana, chiacchierano e fanno chiacchierare: è il loro lavoro. In cittá sono chiamati infami, nell'esercito spie, alla corte agenti segreti; in campagna ancora non hanno un nome, sono arrivati da poco: vanno aumentando e diffondendosi mano a mano che si organizza la morale pubblica.

Il Signor Sindaco è il telegrafo del comune; basta vederlo per sapere tutte le notizie. Se ci saluta vuol dire che l'esercito della fede ha subito qualche disfatta. Un saluto qua significa una sconfitta laggiú. Se passa impettito e fiero, una battaglia è stata vinta; marcia su Madrid, si calca il cappello bene in testa per entrare nella capitale spagnola. Se domani lo cacciano furoi, eccolo che ci abbraccia, ci da la mano, amico come prima. Da un giorno all'altro è affabile o brutale. Non puó mica durare; si aspettano notizie, e, secondo il giro che prendono le cose si ingrandiranno o le prigioni o il numero dei prigionieri.

Pierre Moreau e sua moglie sono morti, all'etá di venticinque anni. Il troppo lavoro li ha uccisi. Si dice: lavorare come un negro, come un forzato; si dovrebbe lavorare come un uomo libero.

Milon si è fatto quattro anni di prigione per le sue opinioni, nel 1815; sua moglie e sua figlia morirono di stenti: uscì distrutto. Ma non corretto. Le sue opinioni sono le stesse di prima, forse anche peggiori di prima. Quello che non amava adesso lo aborre. Nel comune ci sono dieci mal pensanti, che il sindaco fece arrestare un bel giorno e che soffrirono a lungo; per ricordare questo fatto, tutti gli anni il due di maggio si incontrano e vanno a pranzo insieme. Non bevono alla salute del sindaco e nemmeno a quella del governo. Quest'anno, il due di maggio, erano da Bourdon, alla locanda del cigno, finito il banchetto, mentre si alzavano da tavola, ecco passare il sindaco. Milon lo vede e lo indica agli altri; ognuno si morde la punta del dito. Poco dopo, per caso o a posta, ecco apparire il guardaboschi. Milon, senza dire una parola, si getta su di lui, lo getta fuori a pugni e a calci dandogli dell'infame, il poveretto fugge ben pesto. Arriva Mezzadra, il Signor Mezzadra, che possiede terra e vigna. Milon lo affronta: - Lei è monarchico? - Si, risponde Mezzadra, Milon con uno sganassone lo sbatte contro la porta. È proprio un grosso guaio, Milon si nasconde e fa bene. I pestati non lo hanno mica denunciato si tengono per sé i calci e i ceffoni. Il sindaco sta zitto. Come finirá? Chi lo sa! Bisogna vedere come andranno le cose mi Ispagna per il nostro esercito di soccorso ai reverendi padri gesuiti.

Trad. genseki

sabato, giugno 18, 2011

José Bergamín

In patria fui pellegrino
Fin dal giorno che vi nacqui
E lo fui tutte le volte
Che a viverci son tornato.

Ora che vi dimoro
Non cesso di rimanere
Pellegrino di una Spagna
Che in me piú non si trova.

Per questo non voglio morire
Adesso in questo luogo
Per non dare alle mie ossa
Riposo in terra spagnola.

*

Tremore di foglie non è,
D'albero che, nel vento
Quando scuote le sue fronde
Sembra che stia ridendo:

È musica senza parole
D'aria luminoso abbaglio
È rumore e mormorío
Di sfolgorante sussurro.

*

Chiunque meglio di me
Sa bene che sto morendo.

Io no

Lo sanno, quanti lo sanno
Come se fosse un segreto.
Lo sa se mi guarda un bimbo
Lo sa il cane che mi latra.

Io no

Lo sa nella notte scura
La fiammella tremolante.
Lo sa il fumo nel cielo
E la cenere ne fuoco.

Io no

Lo sa l'albero, l'uccello
L'acqua quieta che si increspa
Lo sa chi a me si avvicina
E se ne va sorridendo.

Io no

Anche il tuo cuore lo sa
Perché non vuole saperlo
E quando si rompa il mio
Lo sapranno tutti i morti.

Io no

trad genseki

venerdì, giugno 17, 2011

José Bergamín



José Bergamín

Lo scheletro di un uomo
Non è l'ombra del suo corpo
Solo è balocco della mente
Perché alla fine lo rompa.

La mia mente era ben viva
Come rideva tra le ossa
Adesso che è proprio morta
Ha spezzato anche lo scheletro.

Come il balocco di un bimbo
È lo scheletro di un vecchio
Non fantasma di una mente
Soltanto ombra di un sogno.

***

Io sto dicendo parole
Che voce non hanno né eco
Parole che non so nemmeno
Perché mai vado dicendole

Parole che non hanno suono
Parole senza pensiero
Parole che non capite
E che io neppure intendo.

Parole mute che sono
Messaggere del silenzio
Parole che ode soltanto
Chi sa ascoltare la morte.

***

Mai ho avuto nella vita
Ove distendermi stanco morto
Perché mai dovrei volerlo
Quando infine saró morto?

Avello non voglio né tomba
Non cassa di marcimento.
Trovate una fossa comune
Buttateci il corpo dentro:

o in mare, o nel mezzo del campo
Disteso sulla nuda terra
Perché lo consuma il sole
O se lo mangino i corvi.

***

Tutto è maschera di silenzio
Unamuno


Tutto quello che mi dici
E tutto quello che taci
Lo dice il rumor del vento
E l'acqua chiara scorrendo

Nella notte silenziosa
Nella stanza ove riposi,
Lo dice nel focolare
Il crepitar della fiamma.

Sottile in tanto silenzio
Oscuro che la confonde
Lo dice una campanella
Perduta nella mattina.

***

Tutte le porte del sogno
Per me si sono serrate:
A tutte vado bussando,
Ahimé nessuna si apre.

Che faró la notte intera
Notte che non ha mai fine
Sentendo che anche da morto
Non mi riuscirá di dormire?

Trad genseki
trad genseki

Rubén Darío

Ama il tuo ritmo

Ama il tuo ritmo e ritma le tue azioni
Secondo la sua legge, come i versi,
Tu sei un universo di universi,
La tua anima fonte di canzoni.

La celeste unitá che presupponi
Fará sbocciare in te mondi diversi,
E l'eco dei tuoi numeri dispersi
Pitagorizza le tue costellazioni.

Ascolta la retorica divina
Dell'uccello dell'aria e la notturna
Irradiazione geometrica indovina;

Uccidi l'indifferenza taciturna
E unisci perla e perla cristallina
Dove la veritá rovescia l'urna.

trad. genseki

Da "Prosas profanas y otros poemas"

sabato, giugno 11, 2011

Metempsicosi

Fui quel soldato che dormí nel letto
Di Cleopatra divina. Che bianchezza!
Ed il suo sguardo astrale, onnipotente.
Questo fu tutto

O sguardo! O corpo bianco! O letto
In cui stava radiante di bianchezza!
Quale rosa marmorea onnipotente!
Questo fu tutto

Tra le mie braccia scricchioló il suo collo;
E io, liberto, feci obliare Antonio.
(Il letto, quello sguardo, la bianchezza!)
Questo fu tutto

Io, Rufo Gallo fui soldato e sangue
Ebbi di Gallia, la giovenca imperiale
Un minuto mi dié del suo capriccio.
Questo fu tutto

Perché nell'istante spasmodico tenaglie
Non furono le mie dita di bronzo
Al collo bianco della reina in foia?
Questo fu tutto

Fui portato in Egitto. Ferrea catena
Mi pesó sulla nuca. Fui pasto un giorno
Della muta dei cani. Rufo Gallo il mio nome.
Questo fu tutto


Rubén Darío
Da: El canto errante
trad genseki

Véretz



Paul Louis Courier De Méré


Petizione alla Camera dei Deputati per dei paesani ai quali si impedisce di ballare
Parte II




Il disappunto fu grande per tutta la gioventú, grande per i commercianti delle botteghe, e per quelli tra di loro che avevano venduto qualche cosaa credito. Che cosa avvenne? La festa ebbe luogo triste, senza brio, senza forza; si tenne l¡assemblea poco numerosa, a gruppetti. A dispetto dell'ordinanza si balló lo stesso fuori dal villaggio, sulla riva del Cher, sull'erbetta, sotto le fronde dei noccioli; certo tutto questo è molto piú arcadico che i banchi del mercato, sta meglio in una egloga, è piú poetico, insomma. Noi lavoratori, peró non siamo interessati all'Arcadia, a noi fa piacere, dopo il ballo una frittata con lardo nell'osteria piú vicina che il lieto mormorio dell'onda e lo smalto dei prati.

Le nostre domeniche ad Azai, da allora, non si trengono piú. Pochi vengono da fuori e nessuno si ferma.Si va tutti a Veretz, ove il concorso è grande perché nessuna ordinanza ha ancora impedito il ballo: il parroco di Veretz, infatti, è un uomo di buon senso, istruito, di quasi ottantanni, amico dei giovani, troppo ragionevole per volerli cambiare prendendo a modello quelli del passato, e per guidarli con le bolle di Bonifacio e di Ildebrando. È davanti alla sua porta che si balla, e spesso in sua presenza. Lungi dal biasimare questi svaghi che in sé son ben innocenti, vi assiste, convinto di fare bene, aggiungendo con la sua presenza e grazie al rispetto che tutti gli portano, un piú altro grado di decenza e di onestá. Saggio pastore, davvero devoto, che Dio volgia conservarlo con noi, per il sollievo del povero, l'edificazione del prossimo e la tranquilitá dei questo comune, in cui la sua prudenza garantisce la pace, la calma, l'unione e la concordia!

Il parroco di Azai, invece, è un giovanotto ardente di zelo, appena uscito dal seminario, recluta della Chiesa militante, impaziente di distinguersi. Dal momento in cui prese possesso della parrocchia attaccó il ballo, sembra che abbia promesso a Dio di farlo sparire dalla sua parrocchia, e per far questo dispone di molti mezzi di cui il piú efficace fino ad oggi è stata l'autoritá del prefetto. Ch ha fatto vietare di ballare dal prefetto e presto ci impedirá anche di cantare e di ridere. Presto! Ma che dico? Alcuni dei nostri giovani sono giá stati, fatti chiamare, minacciati, ammoniti per aver cantato, per aver riso. Non è cosa di oggi, come si sa, che i ministri della chiesa abbiano pensato di usare il braccio secolare per convertire i peccatori, mentre gli apostoli si servivano soltanto dell'esempio e della parola, seguendo il precetto del lor maestro. Gesú, infatti, aveva detto: “Andate e insegnate!”, non aveva detto: “Andate con i gendarmi e insegnate con il prefetto!”; in seguito il dottor Angelico, San Tommaso, dichiaró chiaramente che non si puó costringere nessuno a fare del bene. Non ci obbligano, è ben vero; ci impediscono di ballare. Ê solo il principio, peró; con gli stessi mezzi che vanno bene per allontanarci dal peccato, possono servire e serviranno par convincerci a fare opere buone. Digiuneremo per un ordinanza, non del medico, del prefetto.

Quello che sto dicendo non capita solo da noi. Succede lo stesso, negli altri comuni di questo dipartimento n cui i parroci sono giovani. A qualche lega da qui, per eempio a Fondettes, oltre i fiumi Loira e Cher, una zona ricca, industriosa, ove si ama il lavoro e la gioia proprio come da queste parti, il ballo è ugulamente proibito per un decreto del prefetto. Voglio dire ogni ballo in piazza, dove le feste attiravano alcune migliaia di persone dai paesi vicini e da Tours, che dista appena due leghe. I sobborghi di Parigi, i bastioni di Marsiglia, secondo quanto dicono i viaggiatori sono piú frequentati ma non altrettanto piacevoli per rustica gaiezza. Cessate la gelosia, balli campestri di Sceaux e di Pré Saint-Gervais: queste feste sono finite, perché il parroco di Fondettes, è anche lui un giovanotto appena uscito dal seminario di Tours, i cui alunni, una volta al lavoro nella vigna del Signore vogliono per prima cosa estirpare ogni piacere, ogni svago, e fare di un ridente paesello un cupo monastero trappista. Questo si spiega: oggi come oggi tutto si spiega; mai come oggi si è discusso tanto di cause e di effetti: Si dice che questi pretini, in seminario, siano educati da un monaco di Picpus, Fra Isidoro è il suo nome; inviato dal firmamento della monarchia, per formare i nostri dottori, istruire i maestri che devono riformare i nostri costumi. Il monaco fa i parroci, i parroci, i parroci faranno di noi dei monaci. Cosí l'orrore di questo giovanotti per gli svaghi piú innocenti è trasmesso loro dal triste Picpus, che, dal canto suo ha una morale selvaggia. Ecco come risalendo di causa in causa si arriva a Dio, causa di tutto, Dio ci abbandona nelle mani del Picpus. Sia fatta la tua volontá, Signore! Chi l'avrebbe mai detto a Austerlitz?

Un altro strumento che usano i nostri giovani seminaristi nella guerra al ballo è la confesione. Confessano le fanciulle, senza che nessuno vi veda niente di male, e le assolvono soltanto se promettono di rinunciare al ballo; poche consentono, qualunque sia l'ascendente che devono avere su di loro, per sesso e per etá, questi confessori di venticinque anni cui le confessioni con il segreto e l'intimitá che en deriva mettono a disposizione tanti mezzi di persuasione: le penitenti, tuttavia amano il ballo. Anzi, nella maggior parte dei casi amano un ballerino che, dopo qualche mese di corteggiammento e di amore, diviene il loro marito: tutto questo accade in pubblico: tutto questo è bene, de è molto piú decente che gli incontri particolari con dei giovanotti vestiti di nero. Stupisce che l'affetto vinca sull'assoluzione e che il numero di fanciulle che fanno la comunione sia diminuito, in un anno, di tre quarti a quanto dicono? La colpa è tutta del pastore, che le mette nella situzaione di dover scegliere tra i doveri della religione e gli affetti piú cari della vita quotidiana, dimostrando che lo zelo, anche se unito alla caritá, non basta per guidare le anime. Ci vuole anche la discrezione, dice San Paolo, necessaria oggi, come ai tempi dell'Apostolo in questo mistero della devozione.

Il popolo, effettivamente, è saggio, come ho giá detto, molto piú saggio e felice di quanto lo fosse prima della Rivoluzione; bisogna peró ammettere che è molto meno devoto. Noi andiamo a messa la domenica in parrocchia per le nostre commissioni, per incontrare gli amici o i debitori; certo ci andiamo: quanti peró ritornano (ho vergogna a dirlo) senza averla ascoltata, se en vanno una volta fatte le loro commissioni senza nemmeno entrare in chiesa! Il parroco di Azai, che aveva bisogno, l'anno passato a Pasqua, di quattro uomini che avessero fatto la comunione per portare il baldacchino, non poté trovarli in paese e dovette andare a cercarli fuori, tanto rara e ridotta è da noi la devozione.
E questa è la causa, da poco il popolo è proprietario, ebbro ancora, innamorato della sua proprietá, non vede che quella, non pensa ad altro, en è posseduto e da poco libero anche relativamente all'artigianato, si getta nel lavoro, si dimenticsa il resto e la religione. Un tempo, schiavo, se la prendeva comoda, poteva ascoltare e meditare la parola di Dio, pensare al cielo, ove metteva ogni sua speranza, ogni consolazione, Oggi pensa alla terra che possiede e che lommantiene, il suo presente e il suo futuro è un campo, la casa che possiede o che vuol comprare, per la quale lavora, risparmia, senza riposo, senza mangiare. Ha solo questo in testa; e si perde il tempo se si vuole distoglierlo parlando d'altro. Ecco da dove viene l'indifferenza in materia di religione che Lamennais ci rimprovera giustamente. Lo dice bene: noi no siamo quei tiepidi che Dio vomita di cui parla San Paolo; noi siamo freddi, che è la cosa peggiore. È il vero male del secolo. Per rimediare e ricondurci al fervore che si desidera, bisogna andarci cauti, usare abili mezzi, dolci e attrattivi, se non si ottiene l'effetto opposto. Ci vuol prudenza, e questo non lo capiscono i giovani preti il cui zelo non è accompagnato dall'esperienza. L'etá loro non lo consente.
Per dire tutto il mio pensiero, io non presto orecchio alle decalamzioni contro i giovani di oggi, e sospetto delle critiche che fanno alcun che mi ricordano il detto: “vendicarsi calunniando” (e non si limitano alla calunnia!), tuttavia qualche cosa di vero ci debe pur essere e comincio a credere che i giovani di oggi anche se non meritano le cariche dei Dragoni o la fucilazione, certo non valgono molto se persino i giovani preti, nelle loro funzioni si comportano in modo cosí lontano dalla seggezza e dal contegno dei vecchi. Ho gia citato, Signori, il nostro buon parroco di Véretz che è come un padre per noi; ma anche quello di Azai, sostituito dal seminarista, non era meno moderato e considerava i parrocchiani come una famiglia di cui condivideva gioe e dolori e anche gli svaghi in cui non vi era niente diu riprovevole: e prendeva piacere nel veder ballare le fanciulle e i giovanotti proprio sulla piazza, perché diceva che in pubblico è difficile comportarsi male. Pensava che era una cosa molto buona che gli appuntamenti tra le fanciulle e i giovanotti fossero in piazza piuttosto che nella macchia o nel campo, lontano dagli sguardi come succederá quando le nostre feste saranno vietate. Non avrebbe mai immaginato di chiedere che fossero proibite, non avrebbe mai considerato il ballo un peccato mortale, non avrebbe mai chiamato i gendarmi per impedire uno svago innocente. Perché, insomma, i giovani devono ben potersi conoscere e frequentare prima di sposarsi; e dove meglio ch sotto gli occhi dei loro amici, dei genitori della gente che giudica quello che è conveniente e onesto?

Cosí ragionava il buon parroco, rimpianto da tutti, uomo probo se ve en furono mai, di costumi impeccabili come, d'altra parte, a dire il vero, anche questi giovani preti che vanno sostituendo i vecchi e che menano una vita delle piú esemplari. Il clero ormai non vive come prima, ma mostra in tutto una temperanza degna dei tempi degli Apostoli. Fortunata conseguenza della povertá! Beati frutti delle persecuzioni sofferte durante quella grande epoca nella quale Dio visitó la sua chiesa! È un lascito positivo importante della riivoluzione che si possano vedere non solo parroci, che sempre sono stati rispettabilie, ma persino vescovi condurre una vita morigerate.

Tuttavia, si debe temere che esempi di tale eccellenza, che contribuscono a stabilire la religione, non risultino alla fine inutili, per l'imprudenza dei nuovi preti, che la rendono invisa al popolo, facendola apparire nemica dello svago, triste, cupe, severa, piena di penitenze da fare e di meritati castighi, invece di predicare su testi che oggi sono piú adeguati come: “Il mio giogo è leggero”; o “Sono mite e umile di cuore”, ritornerebbero allora le pecorelle smarrite che troppa severitá rende scontrose. Per quanto grandi siano i nostri peccati, ora non abbiamo tempo per fare penitenza: dobbiamo seminare e arare. Non sappiamo vivere come monaci o devoti di professione rivolgendo tutti i nostri pensieri al cielo. Le regole che vamgono per loro, separati dal mondo, “che tutto considerano come letame”, non vanno bene per noi che abbiamo famiglia e roba, come diceva quel tale, e ci teniamo. Che facciamo di male quando non facciamo del bene, quando non lavoriamo? I nostri svaghi, i giochi dei dì festivi non sono in modo alcuno biasimevoli in sé, in nessuna circostanza. Ci dicono a proposito della piazza di Azai, per proibirci di ballare; la piazza è davanti alla chiesa; ballarvi è ballare davanti a Dio, è offenderlo; da quando? I nostri padri che erano piú devoti di noi, ci ballavano a quanto ci dicono: e noi dopo di loro. Il santo Re Davide balló davanti all'Arca del Signore, il Signore lo trovó una cosa buona, di suo gusto, dice la Scrittura; e noi che non siamo santi né re, ma comunque brava gente, non possiamo danzare davanti alla nostra chiesa che non è l'Arca ma la sua figura, secondo i teologi! Qullo che Dio ama nei santi lo offende in noi; lo stesso gestó che santificó l'Arca e il tempio di Gerusalemme profanerá la chiesa di Azai! I nostri parroci fino ad oggi erano miscredenti de eretici, empi o piuttosto preti cattolici, tanto saggi per lo meno come seminaristi? Hanno approvato tali svaghi e preso parte a divertimenti che potevano scandalizzare soltanto gli alunni del Picpus. Queste sono le ragioni che opponiamo all'ecesso di zelo dei nostri giovani riformatori.

Pertanto, deciderete Voi, Signori, se non sia meglio che ci permettiate di ballare come prima sulla piazza di Azai, la domenica e le feste comandate; potrete cosí ponderare se sia oggi il tempo di obbedire ai monaci e apprendere delle orazioni, mentre ci prendono di mira a bruciapelo; mentre tutta l'Europa in armi si esercita nel tiro, nell'artiglieria, e accende le micce.

Véretz, 13 Luglio 1822.

trad genseki

martedì, giugno 07, 2011

Paul Louis Courier De Méré

Petizione alla Camera dei Deputati per dei paesani ai quali si impediscedi ballare

I parte

L'oggetto della mia petizione è piú importante di quello che sembra; posto che, pur trattandosi effettivamente solo di ballo e di divertimento, da una parte queto divertimento è del polpolo, e nulla di ció che lo riguarda puó esserVi indifferente; dall'altra la religione è coinvolta, o compromessa, per dirla megli, a causa di uno zelo malinteso, penso, nonostante le divergenze che possono esserci tra di noi, che Voi tutti considerete la mia richiesta degna di attenzione.

Chiedo che sia permesso, come nel passsato, agli abitanti di Azai di ballare la domenica sulla piazza del loro comune, e che ogni divieto, fatto, in questo sesno, dal prefetto sia annullato.

Noi, abitanti di Veretz siamo interessati alla questione, perché andiamo alle feste di Azai, cosí come quelli di Azai vengono alle nostre. La distanza dei due campanili è piú o meno una mezza lega: noi non abbiamo vicini migliori. Loro a casa nostra, noi a casa loro, ci si invita a turno, ci si diverte la domenica, si balla sulla piazza, dopo mezzogiorno, d'estate..
Dopo mezzogiorno giungono il violini e i gendarmi contemporaneamente; a questo proposito devo fare due osservazioni.

Noi danziamo al suono del violino, ma questo a datare da una certa epoca. Il violino era riservato, un tempo, ai balli delle classi elevate; in Francia si trovavano pochi violini, Il gran Re li fece venire dall'Italia e formó un'orchestra perché la corte ballasse con gravitá, i cavalieri in parrucca nera le dame col guardinfante, Il popolo pagava i violini ma non poteva servirsene: ballava poco, a volte al suono della piva o cornamusa come indica il ritornello: “Arriva il pellegrino che suona la cornamusa: balla Guillot, salta Perrette.” Noi nipoti di Gullot e Perrette abbiamo abbandonato i modi dei nostri padri e balliamo al suono dei violini come la corte di Luigi il Grande. Quando dico come dico per dire. Infatti noi non andiamo al ballo con le nostre mogli, le amanti e i nostri bastardi. Questa è la prima osservazione; la seconda eccola qua:

I gendarmi si sono moltiplicati in Francia, piú ancora dei violini, anche se sono meno utili al ballo. Noi en faremmo volentieri a meno nelle feste del paese, e a dire il vero nopn siamo noi che li mandiamo a chiamare: il governo è dovunque oggi e questa ubiquitá arriva anche ai nostri balli, ove non si fa un passo senza che il prefetto voglia esserne informato per renderne conto al ministro.
Sapere chi trova simili attenzioni piú spiacevoli e maggiormente fastidiose, chi en soffre di piú, se i sorvegliati o il governpo, è una questione ben curiosa e difficile, che tuttavia mi vedo costretto a trascurare, per paura di complicarmi la vita con le classi elevate o di dire qualche parola che possa essere considerata tendenziosa.

Oltre i balli ordinari della domenica e dei giorni festivi, vi è quella che è chiamata l'assemblea, una volta all'anno, in ogni comune che riceve tutti gli altri a turno. Grande è l'affluenza e grande la gioia dei giovani. I violini non mancano, come potete immaginare. Al primo colpo d'archetto ci si mette in posizione e ognuno conduce la sua promessa. Altrove si gioca a bocce o a birilli o al paletto. Molti sono coloro che, invece, discutono di affari; si concludono atti di compravendita, varie vacche passano di mano in mano tra quelle che non si erano potute vendere alla fiera, insomma queste assemblee non sono soltanto appuntamenti di svago ma anche di interesse per il popolo e per i singoli e il luogo in cui si tengono non puó essere indifferente. La piazza di Azai sembra essere fatta apposta per questo situata al centro del comune, in terra battuta, senza pavé, è adatta a ogni sorta di gioco e di esercizio; circondata da negozi, prossima alle locande, alle osterie, dato che pochi sono gli affari che si negoziano senza bere, poche contraddanze finiscono senza vuotare qualche boccale di birra; nessun disordine, mai nemmeno l'ombra di una rissa. È oggetto d'ammirazione per gli Inglesi, che ogni tanto ci vengono a vedere e quasi non possono capire che le nostre feste popolari trascorrano con tanta tranquillitá, senza pugilato come da loro, senza assassinii come in Italia, senza sbronze come in Germania.

Il popolo è saggio, malgrado i rapporti segreti. Lavoriamo troppo per avere tempo di pensare a fare il male, e, se è vero questo antico proverbio: pigrizia madre di ogni vizio, occupati come siamo, sei giorni alla settimana senza tregua e buona parte del settimo, cosa che taluni criticano e a ragione. Io vorrei che in quel giorno ogni fatica cessasse; la domenica e nei giorni di festa, in tutti i paesi del contado si dovrebbe fare esercizio di tiro, di maneggio delle armi, pensando alle potenze straniere che pensano a noi tutti i santi giorni. Cosí fanno gli Svizzeri, nostri vicini, e cosí dovremmo fare noi per essere atti a difenderci nel caso che i forti volessero attacar briga. Infatti è meglio imparare la carica in dodici tempi e sapersi sbarazzare di un cosacco piuttosto che raccomandarsi al cielo e confidare nel proprio buon diritto. Lo dico e lo ripeto: arare, seminare a tempo debito, stare nel campo fin dal mattino, non basta, bisogna difendere il raccolto. Cura le tue viti, vendemmierai l'anno prossimo e un giorno, se Dio vuole, farai del buon vino, ma chi se lo berrá? Rotopshin, se non sei pronto a difenderlo. Signori, pensateci un po' su, e vedete un po' voi se non sarebbe il caso, considerate le presenti circostanze e le imminnenti, di darsi, nel santo giorno della domenica, dopo la messa, naturalmente, a quegli esercizi tanto graditi al Signore degli eserciti qualli sono il passo di carica e il fuoco di battaglione. Sarebbe una profittevole maniera di impiegare, con grande vantaggio per lo stato, il tempo che si perde ballando.

Ma i nostri devoti la vedono in un altro modo. Loro vorrebbero che la domenica non si facesse niente altro che pregare e recitare le Ore, Certo la salvezza eterna è l'interesse principale. Ecco peró l'esattore; bisogna pagar e lavorare anche per quelli che non lavorano. E quanti credete che siano quelli che pesano sulle nostre braccia? Bambini, vecchi, mendicanti, frati, lacché, cortigiani; quanta gente da mantenere! E lussuosamente in certi casi! E poi c'è il lustro del trono, poi la Santa alleanza; che costi, che spese! E per far fronte, avanza ancora tempo libero? Voi lo sapete e lo vedete bene, Signori; coloro che odiano tanto il lavoro domenicale vogliono emolumenti, mandano le pittime, aumentano il budget. Secondo loro, noi dovremmo lavorare meno e pagare di piú ogni anno.

Come spiegarlo? La lettera uccide e lo spirito vivica, quando la Chiesa diede il precetto di astenersi dal lavoro servile in certi giorni, vi erano servi della gleba, fu per loro, in loro favore che fu istituito il riposo. Allora non vi era santo che i braccianti non festeggiassero con entusiasmo, a perderci era solo il padrone; doveva nutrirli, e senza i santi li avrebbe massacrati di lavoro. Saggio fu il precetto, salutare la legge nei tempi dell'oppressione. Ora, peró, non vi sono piú feudi, non si veste piú la cotta di maglia; siamo liberati dall'antica servitú e, una volta pagate le tasse, lavoriamo per noi stessi e se non lavorassimo, sarebbe a nostre spese; obbligarci a riposare è peggio che la decima, perché almeno la decima serve ai cortigiani, il nostro ozio non serve a nessuno. Il lavoro che ci viene sottratto, il cibo e i vestiti che ci sono totli non lo sono a vantaggio di nessuno, non producono emoluementi, benefici, pensioni. E nuocere in per nuocere.

Gli Inglesi che vengono alle nostre feste si stupiscono tutti alla stessa maniera, pensano tutti la stessa cosa; ma tra loro alcuni si stupiscono un po' di piú: sono i piú anziani, che venuti in Francaia in tempi anteriori, si ricordano ancora come fosse la vecchia Turenna e il popoli dei buoni sovrani. Anch'io me en sovvengo: giovane allora, vidi, prima della grande epoca, in cui soldato volontario della Rivoluzione abbandonai i luoghi tanto cari della mia infanzia, vidi i contadini affamati, cenciosi, tendere ovunque la mano alle porte e sulle strade, nei viali delle cittá, presso i conventi, i castelli, ove la loro inevitavile apparizione era il tormento proprio di coloro che la comune prosperitá rende oggi indignati e desolati. Rinasce la mendicitá, lo so bene, e fará, se è vero quel che si dice, rapidi progressi, ma per molto tempo ancora non raggiungerá quel grado di miseria. La descrizione che potrei darne sarebbe debole per quelli che lo hanno conosciuto, come me, e per gli altri sembrerebbe inventata: ascoltate allora un testimone, un uomo del Grand Siècle, osservatore esatto e disinteressato; il suo discorso non puó essere sospetto, si tratta di La Bruyère.

“Si vedono, dice, certi animali selvatici, maschi e femmine, sparsi per le campagne, neri, lividi, arsi dal sole, legati alla terra che frugano e rimuovono con una invincibile testardaggine. Possiedono una sorta di voce articolata, e quando si drizzano in piedi mostrano fattezze umane, e, infatti, sono proprio uomini; di notte si ricoverano in una sorta di tane dove vivono di pane nero, acqua e radici. Essi risparmiano agli altri uomini lo sforzo di seminare, di arare e di raccogliere per vivere emaeritano che non manchi loro quel pane che hanno seminato”.

Ecco le sue autentiche parole; parla di quelli fortunati, di quelli che avevano pane e lavoro; erano una minoranza, allora.

Se La Bruyère potesse tornare sulla terra, come soleva accadere nel passato, e presentarsi a una delle nostre assemblee vi troverebbe non solo volti umani, ma visetti femminili di fanciulle piú belle e soprattutto piú modeste di quelle della sua corte tanto vantata, sono vestite con piú gusto, non vi é dubbio, agghindate con piú grazia, con decenza; che ballano meglio, che parlano la stessa lingua (propria del paese) ma con una voce tanto graziosamente e dolcemente articolata che credo en sarebbe soddisfatto. Le vedrebbe rientrare la sera, non nelle loro tane ma in case ben costruite e ammobiliate. Se si mettesse a cercare gli animali di cui aveva parlato non li troverebbe da nessuna parte e forse benedirebbe la causa, qualunque fosse, d'un tanto grande e felice cambiamento.

La festa di Azai era celebre tra tutte quelle dei nostri borghi, attirava il concorso di una folla dai campi e dai comuni dei dintorni. In effetti, da quando i giovanotti fanno ballare le fanciulle, cioè da quando noi contadini delle sponde del Cher siamo padroni di noi stessi, la piazza di Azai fu sempre il nostro punto di incontro preferito per il ballo e per gli affari. Vi ballavamo come vi avevano ballato i nostri padri e le nostre madri, senza che mai scoppiasse uno scandalo, senza che vi fossero denunce, per quanto si ricordi, e non pensavamo essendo cosí tranquilli, non avendo mai causato molestia alcuna, di poter essere, noi, molestati nell'esercizio di questo diritto antico, fondato sulle primitive leggi della ragione e del buon senso; è chiaro che ognuno ha diritto di ballare a casa sua e il pubblico dove starebbe di casa se non sulla pubblica piazza? Eppure ci cacciano via. Una nota firmata de prefetto che egli chiama ordinanza, recentemente pubblicata, proclamata al suono del tamburo, “Considerando, etc” vieta di ballare nel futuro, di giocare a bocce o ai birilli su detta piazza e questo con la minaccia di castigo. Dove andremo a ballare? Da nessuna parte; non si debe ballare e punto. Questo non sta scritto nellordinanza del Signor Prefetto ma è un articolo tra lui e altri poteri, come poi si è visto. Ci comunicarono questo divieto pochi giorni prima della nostra festa, la nostra assemblea di San Giovanni.

trad genseki

mercoledì, giugno 01, 2011

Joseph Joubert



Joseph Joubert

Joseph Joubert, il saggio di Villeneuve sur Yonne, fu defininto da qualcuno: autore senza opera, scrittore senza scritti.

Chateubriand pubblicó postumi i pensieri e le note raccolte nei suoi quaderni.


Il capitalismo non sfamerá mai l'uomo (Bordiga)


La naura ci ha dato un muso per frugare nella terra o piuttosto mani per ararla? Seminare e raccogliere ecco la relazione essenziale che intercorre tra questo globo e noi.


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Il capitalismo come puro spirito


L'orologio. Idea che se ne fa un selvaggio. Il suo errore non è completo, Effettivamente ogni macchina è stata messa in moto da uno spirito che poi si è ritirato.


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Internet come protesi


La mente è per la'nima una specie di organo, una sorta di occhio, di lingua, di udito, di vista e persino di cervello, una specie di portavoce, di telescopio, di compasso. A volte tale organo agisce da solo. BISOGNA AVERE UN'ANIMA POETICA E UNA MENTE GEOMETRICA.


*


L'educazione non consiste soltanto nell'adornare la memoria e illustrare l'intelletto: deve occuparsi soprattutto di illuminare la volontá.


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Sessi


Uno sembra una ferita, l'altro uno scorticato.


*


Il velo?


Solo per il volto siamo noi stessi, il corpo nudo di una donna mostra il suo sesso piuttosto che la sua persona. Non si pensa al volto della donna di cui si vede il corpo nudo. Per questo il vestito mette in mostra il volto. La persona è tutta nel volto, solo la specie nel resto.


*


Strauss Kahn


Alle donne piacciono le avventure, gli incontri, il sesso, proprio perché a loro piace concedersi e non essere concesse. Per questo sesso fare un dolce uso del proprio corpo significa disporre liberamente di esso. Una volta compiuto questo atto di libertá dipende solo dagli uomini che siano costanti. A parte questo lo sono solo in un caso, quando sono state prese di forza; e parlo di forza fisica e non sociale.

Tale violenza fa loro sperare di poter esercitare un grande potere su quell'uomo che hanno dominato fino a farlo uscire di senno. Cosí come sperano una grande condiscendenza dall'uomo al quale hanno sacrificato tutto.

N.B. Bisogna che si tratti della violenza di un uomo non di un uomo brutale.


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Chi non è mai stato ingannato non è mai stato amico.


*


Ogni anima è un occhio, proprio come il corpo è interamente tatto, l'uno percepisce molte veritá di cui non puó impadronirsi, l'altra raggiunge molte cose che non puó maneggiare.


trad genseki