giovedì, novembre 18, 2010

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Dreiser Cazzaniga e il macinino

Fin dalla piú tenera infanzia Dreiser Cazzaniga ebbe una percezione chiara di quelo che fosse l'immortalitá. Lui l'immortalitá la percepiva nelle cose, negli oggetti piú semplici che andava scoprendo in casa della Nonna Violante detta la Dama Azul. La casa della Dama Azul aveva due colori bellissimi, l'arancione della cucina e l'azzurro della stanzza da letto. Tutti i mobili dela cucina erano dipinti di un arancione solare e le gambe delle sedie e dei tavoli erano arancioni, il sole che entrava come a fiotti dalla finestra incorniciata di gerani esaltava il canto luminoso del colore, lo faceva esplodere negli occhi. La dama Azul, come era allora costume delle vecchie signore del Barrio aveva i capelli azzurri, e l'azzurro era l'altro colore della case, il colore che dominava nella stanza da letto freschissima in cui Dreiser Cazzaniga dormiva, leggeva e sognava. Dal soffitto pendeva una curiosa lampada che emanava una pallidissima luce azzurra che a Dreiser Cazzaniga faceva pensare alla morte. Non è che lui sapesse che cosa fosse la morte e che cosa avesse a che fare con quella fievole luce azzurra in cui ad osservala bene parevano predominare i toni verdi, un sottile verde cobalto, tuttavia le due immagini, la lucina e la morte era incatenate una all'altra. Molti anni dopo, la lucina azzurra avrebbe iluminato due grossi piedi pallidi e sporchi che spuntavano da una coperta troppo corta su di un letto troppo corto. Cosí sorgeva la morte agli occhi di Dreiser Cazzaniga, Gli oggetti della cucina immersi nela loro atmosfera di agrumi, invece, erano assolutamente immortali: erano immortali i piselli che egli aiutava a sgusciare traendol dal sacchetto di spessa carta marroncina, erano immortali gli stofinacci bianchi con l'impronta di qualche bruciatura, era immortale il macinino del caffe, era tutto di legno e quando si apriva il cassettino emanava un odore profondo che stordiva di piacere, era immortale il mortaio per fare il pesto di marmo grigio con le sue venuzze azzurre come i capelli della nonna Dama, era la grande radio di legno con le sue due pesanti porte di legno e tutte le colonnine che separavano gli altoparlanti, il vaso del basilico alla finestra la grattugia del parmigiano e quella ancora piú temibile del pecorino sardo che la nonna Dama Azul, la Violante benedetta ripuliva con infinita pazienza, con la lama di un colello per estrarne anche la piú piccola briciola di formaggio. Tutta questa meraviglia avvolgeva gli oggetti della cucina che sorgevano dal sempre, dall'evidenza, davanti a Dreiser Cazzaniga che li percepiva come meravigliosi proprio perché nel momente in ciu gli apparivano gli apparivano come rivelandosi sullo sfondo di una preeseistenza, un sempre che era l'evidenza stessa della loro permenenza. Dreiser Cazzaniga, bambino rabbrividiva di gratitudine per l'esistenza del mondo e per la sua indubitabile eternitá.

L'eccentrico

L'eccentrico

Questa volta non avevo vie d'uscita
La cosa migliore era fare
Come tutti gli altri
La gente del villaggio non avrebbe capito
Nemmeno gli artisti della capitale,
D'altra parte, nessuno avrebbe capito
Lo sapevo bene.
Sarebbe stato beffardo, elegante,
Ma anche un tenero dono di speranza
Se non fossi stato sicuro che sarebbe passato inavvertito
Non restava piú nulla da esaminare,
Il tempo per la riflessione era trascorso.
Avevo stabilito il tempo e il luogo.
La veritá è che avevo già da qualche tempo
Deciso di cominciare ad invecchiare,
Per non dare troppo nell'occhio.
Qualche pelo bianco nella barba,
Passeggiare con il bastone, e tanti altri piccoli dettagli
Per rendere il tutto piú credibile.
Bastava già.
La decisione l'avevo presa. Sarei morto come tutti gli altri
Non avevo ancora deciso di che
Ma sarei morto, che diamine.
Proprio come mio nonne, il tempo dell'immortalitá
Non era ancora maturo, la societá non era pronta
Tutti erano tanto abiuati a morire
Tutti erano troppo abituati a morire,
Ci sarebbero volute generazioni per cambiare questa abitudine,
Questo costume tanto radicato
Se non fossi morto avrebbero
Finito per ammazzarmi
Sarei morto allora, da solo. Dovevo cercarmi un assasino
Su Facebucco o goggole.
O un'assasina che mi istillase goccia a goccia
Un veleno tiepido
Un estratto di anime marcite e peli madidi
Sarebbe stato un po' come fare l'amore.
Dovevo ricordarmi di controllare i trigliceridi
Chi rinuncerebbe a morire sano,
Senza cirrosi o colesterolo?
Prima di morire dovevo smettere di fumare
Fare lunghe passeggiate e rinunciare alla pancetta fritta
Sarei morto senza cancro perbacco
Ma sarei morto, Lo avevo deciso.
Non avevo altra scelta.

*

genseki

Memorie di Dreiser Cazzaniga

La Gaviota di Solentiname

Gli amici di Dreiser Cazzaniga vivenano una doppia vita. Proprio tutti. Una era, appunto la loro vita. L'altra, meschina davvero, era quella che menavano nella scatola cranica di Dreiser Cazzaniga, sottomessi ai suoi bizzarri e cangianti paesaggi interiori. Condannati a lunghe e ripetitive conversazioni. A dire il vero questo destino Dreiser Cazzaniga non lo riservava solo agli amici, ma a parenti, amanti, nemici. Tutti condannati ad avere un doppio nella sua testa e a non poter saperlo.
Il piú condannato di tutti, comunque, era Dreiser Cazzaniga stesso. Egli non poteva, invero, godere, che so io, di una gita per le sierre autunnali che incoronavano dei loro fiammeggianti boschi e dei loro pascoli diamantini il barrio povero e infreddolito, senza dover convocare proprio a quella escursione uno dei suoi amici diletti. Si, certo uno dei tanti tenerissimi compagni che dovevano tradirlo, tutti o per l'abbraccio della Señora de las Aguas Verdes, o per un'avventura in compagnia di Jesús il Verde, una di quelle avventure che non hanno mai ritorno, o semplicemente pugnalarlo alle spalle con un pugnale intinto nel veleno, cosí, solo per vederlo contorcersi dal dolore.
Cosí Dreiser Cazzaniga peccatore cieco e meschinello abbandonato dalla Grazia era condannato a vivere qualsiasi esperienza estetica, amorosa, politica, o sportiva, soltando condividendola con questi doppi ignari. Erano i suoi prigionieri. Erano velieri in bottiglia. La sua mente era la bottiglia. Imprigionandoli, peró Dreiser Cazzaniga finiva per imprigionare soprattutto se stesso. Come vivere con una Dama Bunducchia nella testa che vi va sbavando tutto il parquet dell'anima con la sua bava di alcolista mentre voi le sputate addosso tutto il vostro furioso, inutile disprezo,? Come contemplare un dipinto di Paolo Veronese discutendone tutti i particolari con lo zio Cardinale, quasi catatonico e dallo sguardo a tratti misteriosamente indulgente, mentre gli si dimostrava con logica impeccabile quanto spregevole e straccione fosse il Profeta di Nazareth, per vederlo ridere soddisfatto, guardandosi le unghie pallide sulla veste rossissima macchiata di ragú? Era piú terribile essere la bottiglia che il veliero o il piccione che vi era restato imprigionato. Dreiser Cazzaniga viveva solo se poteva porre tra se e la vita la conversazione immaginale con un doppio. Uno strazio. Penitenza e preghiera avrebbero forse potuto salvarlo Ma questo non avvenne. La bottiglia si ruppe da sola. O meglio fu il doppio di una certa dolcissima bianca gabianella che semplicemente ruppe la bottiglia col piccolo becco crudele aduso a sventrare i piccioni e Dreiser Cazzaniga la vide volare via nel cielo immenso che era anche esso nella sua mente, intendendo cosí che la sua mente non era una bottiglia ma un universo. Rotta la bottiglia tutti furono liberi, felloni e leali, vivi e morti, tutti i doppi ritrovarono la loro libertá e Dreiser Cazzaniga ritrovó il silenzio, la Rosa Blanca, il perdono e respiró finalmente la bellezza del mondo e dell'essere mortali. Dolce Gabbianella. Forse ella fu, o meglio il suo doppio fu, un inconsapevole strumento della Vergine Pastora. Dreiser Cazzaniga amó la di lei libera rotta, la carena, la vena e il palpito per tutta la sua pigra vecchiezza.

Alejandra Pizarnik - Extracción de la piedra de la locura

Alejandra Pizarnik


Alejandra Pizarnik

Ceneri

Abbiamo detto parole
Parole adatte a risvegliare i morti
Parole per accendere un fuoco
Parole in cui poter sedersi
E sorridere.

Abbiamo creato il sermone
Dell'uccello e del mare,
Il sermone dell'acqua,
Il sermone dell'amore.

Ci siamo messi in ginocchio
E adorato lunghe frasi
Come sospiro di stella,
Come onde,
Come ali.

Abbiamo inventato nuovi nomi
Per il vino e per la risata,
Per gli sguardi e i loro terribili
Sentieri.

Ora sono sola
Come l'avara che delira
Su una montagna d'oro -
Scagliando parole verso il cielo,
Sono sola
Senza poter dire a chi amo
Quelle parole per cui vivo.

Da “Aventuras perdidas”

Trad, genseki

Slavoj Zizek

Il Sogno e la rivoluzione

In una rivoluzione davvero radicale il popolo non solo realizza il proprio sogno di emancipazione; quanto piuttosto reinventa completamente il suo modo di sognare.

Zizek

Heiner Müller


Messia

Un annuncio soleva risuonare. Il treno arriverá alle 18h15' e partirá alle 18h20' – il treno puntulamente non arrivava alle 18h15'. Si udiva, invece, un altro annuncio: il treno arriverá alle 20h10'. Questa era la situazione. Basicamente, uno stato di antipazione messianica. Era l'annncio costante dell'imminente arrivo del Messiah, e si sapeva perfettamente che il Messiah non sarebbe mai arrivato. E tutavia è così bello sentire anunciare la sua venuta ancora e poi di nuovo.

*
Heiner Müller
Trad. genseki

lunedì, novembre 08, 2010

Nana Mouskouri - Pauvre Rutebeuf

Povero Rutebeuf

Gli amici
Da Rutebeuf
trad genseki

De' miei amici cos'è avvenuto,
Quale destino avranno avuto?
Accanto a me s'erano stretti
Per tanto tempo, i miei diletti.
Guardali ora sono dispersi
Qua e la sbattuti da venti avversi
Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta
Una ventata li portó via!
L'amore è morto.

Nella stagion ch'ogni albero si spoglia
Quando sui rami non resta foglia
Ma vanno a terra
Nel freddo inverno
La povertà ratto m'atterra
Da tutti i lati per me v'è guerra
L'amore è morto

Non voglio dire in qual maniera
Sono caduto in tale inferno
Con tanta onta
Per quale onda son naufragato.

De' miei amici cos'è avvenuto,
Quale destino avranno avuto?
Accanto a me s'erano stretti
Per tanto tempo, i miei diletti.
Guardali ora sono dispersi,
Qua e là sbattuti da venti avversi;
Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta:
Una ventata li portó via!
L'amore è morto.

Male non v`è che venga solo
A me toccava si amaro duolo
E peggior torto!

Povero senno e povera memoria
Dio mi concesse, il re di gloria,
Povera borsa!
E sul mio culo quando c'è vento
La tramontana ratta s'avventa
Vento a me viene, vento non svento
L'amore è morto

Erano amici che porta il vento
E c'era vento alla mia porta:
Una ventata li portó via!

Pauvre Rutebeuf Léo Ferré

Virgilio

Dall'Egloga I

Perché non resti a dormire da me stasera?
Ho un letto di frasche che ho appena tagliato
Nel bosco
E per colazione ci sonole castagne,
Quelle belle tenere e le mele le la toma di capra.
E poi, lo vedi? I camini fumano giá in paese
E l'ombra dei molti piú alti, guarda come cresce
Nella valle!

trad genseki

José Hierro

Beethoven davanti alla televisione

Tedesco, di Bonn, identificava
Tutti i suoni della natura:
Quello del mae, quello del fiume, quello del vento e la pioggia,
Il canto dell'usignolo, quello dell'upupa e del cuculo.
Un giorno un uccello cantó de egli non udiva il suo canto:
Fu il primo segnle di allarme.
Poi, implacabile, a poco a poco, la sorditá crebbe
Finché la notte sonora lo avvolse.
Da allora compose con il suono che solo immaginava.
Non poté mai ascoltare la sua Messa in Re,
I suoi ultime quartetti, la sua ultima sinfonia.

Ludovico Van Beethoven morí nel milleotocentoventisette
(è quello che pensano i disinformati),
Io, tuttavia lo vidi al Lincoln Center.
Fu negli anni novanta. Sedevamo in poltrone contigue.
Scrissi sul mio programma:
“Concerto eccelente”. Assentí:
“Non si prenda il disturbo di scrivere, ci sento perfettamente”.

Poi, nell'intervallo, parlammo della sua musica,
(Forse si rese conto
Che lo avevo appena riconosciuto.)
Avvisarono che era il momento di tornare in sala
Per ascoltare la Nona.
Van Beethoven si voltó e fece per andarsene.
“Perché proprio ora?” Gli chiesi.
“Torni in albergo. Ascolteró la Nona
In televisione, c'è la diretta”, rispose.
“Permette che l'accompagni?”, dissi.
Si strinse nelle spalle.

Tutto finiva cosí
Seduti davanti al televisore.
Ascoltammo il galoppo della battuta
Sul leggío: Silenzio. Ruggí l'orchestra.
Allora Ludwig Van Beethoven
Si alzó e tolse l'audio.
Il silenzio era allora assoluto.

A volte canticchiava, alzava la mano
Per indicare l'entrata dei timpani
Nello scherzo. Pianse con l'adagio,
Si riprese entusiasta quando il coro cantava
Le parole di Schiller.

Io non udró mai, nessuno potrá
Udire ció ch'egli udiva.
Il concerto terminó. Egli si alzó di nuovo,
Si avvicinó al televisore.
Le camere inquadravano adesso
Il pubblico entusiasta.
Van Beethoven udiva, nel millenovecentonovanta,
Quegli applausi che non poteva udire a Vienna,
Nel milleottocentoventiquattro.

José Hierro
Trad genseki

giovedì, novembre 04, 2010

Pasolini, Jara, Hernandez

Adesso che sappiamo con certezza che il loro sacrificio è stato inutile, che la brutalitá delle loro morti è abisso di abiezione, posto che i loro popoli hanno dimostrato di non essere degni di loro, di non voler percorrere il cammino della dignitá da loro indicato, anzi di volerlo piuttosto ostruire con la spazzatura dei loro consumi infantili, adesso ancora piú grande è l'affetto che vogliamo offrire alle loro ombre senza pace, quando i nostri occhi ancora una volta vedono seccarssi anche le lacrime della speranza e tutto è corruzione, intorno a noi, corruzione dei ricchi come dei poveri, prepotenza dei forti e ahimé anche dei deboli e persino l'odio è inaridito dall'aviditá, dall'usura che siede trionfante alle fonti della vita.

genseki

In memoria di Pier Paolo Pasolini, Victor Jara e Miguel Hernandez

Axion Esti Anigo To Stoma Mou Odysseas Elytis Mikis Theodorakis Grigori...

Odysseas Elytis

Odysseas Elytis

Traduzioni di genseki

“Orientamenti”

Marina delle rocce

Hai sapore di tempesta sulle labbra – Ma dove te ne andavi
Per intere giornate nella dura fanasia della pietra e del mare?
Il vento che porta le aquile spoglió le colline
Spoglió il tuo desiderio fino alle ossa
Le figlie dei tuoi occhi raccolsero la testimonianza della Chimera
Mentre la linea del ricordo rabbrividiva di schiuma!
Dove sta la costa ben nota del piccolo settembre?
Sulla terra rossa con cui giocavi con il capo basso
La macchia d’arbusti delle altre ragazze
Gli angoli dove le tue amiche abandonavano fasci di rosmarino.

Ma dov’era che te ne andavi
Tutta la notte con il duro incantesimo della pietra e del mare?
Ti diceva di misurare nell’acqua nuda i suoi giorni luminosi
Che supina godessi dell’alba delle cose
Che ancora andssi errando per i campi dorati
Col trifoglio della luna in petto eroina del giambo

Hai sulle labbra il sapor del temporale
E un vestito rosso come il sangue
Nell’oro piú profondo dell’estate
Nell’aroma dei giacinti – ma dov’era che te ne andavi?

Quando scendevi verso le spiagge, verso le baie, i ciottoli
V’era fresca erba marina, salubre
Ma sul fondo un’emozione umana sanguinava
Sorpesa spalancavi allora le braccia pronunciando il suo nome
Risalendo leggera fino alla trasparenza delle profonditá
Dove luceva la tua stella marina.

Ascolta, la parola è la sapienza degli ultimi
Il tempo un frenetico scultore di uomini
E sopra il sole ci mette una bestia di speranza,
E tu, ancora piú vicina a lui stringi un amore
Che sa di temporale sulle labbra

Azzurro fino al midollo non potrai contare su un’altra estate
Perché i fiumi invertano il corso
E ti portino indietro da tua madre,
Perché tu possa ribaciare altri ciliegi
O cavalcare il Mistral

Ferma sulla roccia senza oggi, senza domani
Tra i pericoli delle rocce con chioma di temporale
Prenderai congedo dal tuo enigma.

*** ^


Etá del glauco ricordo

Lontano viti e olivi fino al mare
Ancora piú lontano rosse barche di pescatori fino al ricordo
Elitre dorate di Agosto durante la siesta
Con alghe o conchiglie. E quella imbarcazione
Appena varata, verde che nella calma del seno delle acque
Ancora puó leggersi Dio provvede

Passarono gli anni come foglie o ciottoli
Ricordo i ragazzini, i marinai che partivano
Tinte le vele come i loro cuori
Cantavano ai punti cardinali
Portavano i venti del nord tatuati sul petto.

Che cosa cercavo quando giungesti tinta d’aurora
Negli occhi l’etá del mare
Il vigore del sole nel corpo – che cercava
Nel fondo delle grotte marine dei sogni spaziosi
Dove il vento faceva schiuma dei suoi sentimenti
Glauco e sconosciuto, incidendo sul mio petto il suo emblema marino

Con sabbia tra le dita chiudevo le dita
Con la sabbia negli occhi stringevo le dita
Era il dolore –
Era aprile ricordo quando sentii per la prima volta il tuo peso umano
Il tuo corpo umano fango e peccato
Come nel nostro primo giorno sulla terra
Facevan festa le amarillidi – Ricordo tuttavia che provasti dolore
Fu un profondo morso sulle labbra
Un graffio sulla pelle proprio dove resta inciso per sempre il tempo
Allora ti lasciai

E un alito rumoroso sollevó le candide case
I bianchi sentimenti appena lavati lassú
Nel cielo illuminato da un sorriso.

Lo avró allora vicino a me un otre d’acqua immortale
Un abbozzo della libertá dl vento che si agita
E quelle mani tue ove l’Amore si tormenterá
E quella tua conchiglia in cui risuonará l’Egeo.

*** ^


Trad. genseki

Il Fabbro

Era solo il vento che si udiva
Fischiare fuori dalle tapparelle verde oliva
Quel vento che adesso modellava le lenzuola
Le ginocchia si infiltrava tra braccia
E ombelico
Increspava il vino rosso nel bicchiere
Del Fabbro all'osteria del borgo
Conferendogli quel lieve gusto di prezzemolo
Perché era una gabbia non un prato
Una gabbia piena di scintille
Una voliera piena di schegge luminose
In cui si carbonizzava il suo dolore
Nelle infinite cerimonie dell'accoppiamento
Perché era solo in fondo, dentro di lei
Era sempre solo semre piú solo
In gabbia e le tapparelle che sbattevano
Alcuni isolati piú in la come nacchere
Gigantesche aprendosi e chiudendosi
Sulle gengive grige dei davanzali
Come valve di vongole sudate
Non potevano servire da messaggeri
Tra la sua fiamma e quelle ginocchia
Tra la pupilla del suo stupore
E l'affronto consumato dal vento al loro tepore
Quanto vento ha soffiato o Fabbro!
Da piazza Baracca al Kon tiki
Eppure quel ventre. Il suo:
Come ogni altro ventre è rimasto sterile
Vuoto come una bottiglia verde
Sul tavolo zoppo di un'osteria
Mentre il mattino trascina il suo guanciale
Tra i frassini e le farnie in cerca del vento
Che solo puó spegnere l'arsura
Di tutta questa inconsapevoe sterilitá.

*

genseki

Feu de joie

Camera ad ore

Alla locanda dell'Universo alla locanda dell'Aveyron
La metropolitana passa dalla finestra
La ragazza dagli occhi in sol forse verrá da me
Cuor mio
Che mai le diremo quando infine la vedremo
Conta i fiori cara mia
Conta i fiori del muro
Un gerbido è il mio cuore
Attenzione la scala è instabile, salire non è sicuro
Dove sei bella cow-girls
Che pascoli gli amanti lungo il Tigri.

Louis Aragon
Feu de Joie
trad genseki

American String Quartet - Shostakovich String Quartet No. 3 in F Major -...

Feu de joie

Giovedí puro

Strade, campagne, dove correvo? Gl specchi mi cacciavano alle svolte, verso altre paludi.
I viali verdeggianti! Un tempo, ammiravo senza sbattere le palpebre, ma il sole non è piú un'ortensia. La victoria rappresenta un carro allegorico: Flora e quella sgualdrina dalle labbra esangui. Troppo lusso per un prato senza tante pretese: ai pavesi, le bandiere! Tutte le morose saranno alla finestra. In mio onore? Che granchio state pigliando. Il giorno va penetrandomi. Che cosa vogliono da me gli specchi bianchi e le donne incrociate? Gioco o menzogna? Ad ogni modo non è questo il colore del mio sangue.
Sul fiammeggiante bitume di Marte, o bucaneve! Tutti mi hanno letto nel cuore.
Che vergogna! Che vergogna!
L. Aragon
Feu de joie
Trad. genseki

La morte dei castagni

La morte dei castagni era una morte che scorreva
Scorreva nelle vene del latte
Nel grigio di tutti i muschi era una morte
Senza scheletro una morte falena
Una morte di feltro tra le pagine di una morta poesia
Una morte di pane tra mani empie
Una morte di farina avvolta in banconote
Una morte scabbiosa in un letto di rame
La morte dei castagni era anche la mia polvere
Il bruco bianco, quello di gelo sul manto azzurro
Della Vergine Maria la ruggine roca del suo seno
Il dolore dell'assenza del bambino
La morte dei castagni era luce azzurra
Era parrucca di mosche voraci
Era la cipria della vecchia dimenticata
Nella sua stanza dal napalm
Di guerre scadute era il siero sul mio palmo
Il flusso dei tuoi occhi non di lacrime
Non di sale dolce come una candela spenta
Prima del sipario voluttuoso dei profumi
Incenso felci amarezza
Un vescovo verde decapita i piselli
Il loro sangue colloso schizza sui paramenti
La morte era solo quella dei castagni
Nelle mani troppo nodose dei vescovi ortolani.

6 ottobre 2010

genseki

Odysseas Elytis

mercoledì, novembre 03, 2010

Il sole soliarca

Odysseas Elytis

Il battello impazzito

Il battello impazzito che salpa verso il monte
Alzando il gran pavese inizia la manovra.

Ecco l'ancora affonda tra i pini da pinoli
Carica aria fresca per casi di emergenza

Fatta di pietra nera, fatta di sogni tenui
Un capitano ingenuo astuti marinai

Raggiunge il tempo andato attraverso l'abisso
Scarica delusioni e gemiti e sospiri

Vieni Cristo Signore esclamo con stupore
Che battello impazzito proprio un battello folle

Per anni ci ha portato non abbiam naufragato
Con mille capitani tutti li sostituimmo

I cataclismi mai li abbiamo messi in conto
Siam penetrati ovunque sempre ne siamo usciti

Sull'albero maestro sta la vedetta attenta
Eternamente vigile il Sole Soliarca

trad genseki

lunedì, novembre 01, 2010

Nel mio sogno morivi

Nel mio sogno morivi
Finalmente eri vinto
Che non c'era paura
Ormai capivi
Nel mio sogno morivi
Ed era la tua morte
Anche la mia
Nel sogno a me
Infine tu morivi
Libero ormai
Da quanto ti sconfisse
Dolce sconfitta
Ora sapevi accogliere
Ora sapevi accettare l'abbraccio
E del mondo sereno
Nella pioggia
Ascoltare il tepore
Nel sogno a me morivi
Dal tuo sogno fuggivi.

*

genseki

lunedì, ottobre 25, 2010

Marina

Odysseas Elytis

Marina

La menta mi devi donare
Verbena e basilico aspetto
Perché ti possa baciare
Che mai dovró ricordare?

Fonte di vaghe colombe
La sciabola degli Arcangeli
Giardino di bianche stelle
La sotto il pozzo insondabile

Quando di notte ti portavo
All'altro estremo del cielo
Ascendere ti contemplavo
Di Vespero come sorella

Marina verde stella mia
Marina luce vespertina
marina tu colomba mia
E giglio della calura

Trad. genseki

Mikis Theodorakis- Maria Farantouri: MARINA - ΜΑΡΙΝΑ

sabato, ottobre 23, 2010

José Coronel Urtecho

José Coronel Urtecho

Questo è come la luce
Questo è luce
Utile come la luce
Così adorabile
Incantevole

La poesia è di sicuro
Pú interessante e più apprezzata
E certamente piú incantevole
Delle cascate del Niagara, del Gran Canyon
l'Oceano Atlantico
E altri ancora piú ammirevoli fenomeni naturali.
È utile almeno come la luce e altrettanto meravigliosa.
Stravagante
Precisamente perché rende possibile dire
Che non è possibile far muovere una montagna ma una poesia
Puó
Essere mossa ovunque.

Gratamente mostruosa
Perché puó dire sul serio o per scherzo:
"La poesia è migliore della speranza,
Perché la poesia è la pazienza della speranza,
E tutte le immagini vive della speranza,
La poesia è meglio dell'eccitazione, piú deliziosa,
La poesia è superiore al successo e alla vittoria.
La sua serena benedizione persiste
Molto dopo che la piú favolosa prodeza
È decollata come un bengala ed è caduta
La poesia è un animale molto piú afascinante e potente
Di quanti bosco, giungla, arca, circo, o zoo
Possano contenere".

Perché la poesia ingrandice e sublima la realtá:
La poesia dice della realtá che se è magnifica
È pure stupida:
Perché in certo modo la poesia è onnipotente,
Perché la realtá è varia, ricca, potente e viva,
Ma non basta,
Perché è stupida e disodinata o solo a tratti
In modo erratico, intelligente:
Perché senza la poesia la realtá è muta
O incoerente:
È incipiente, come la pompa e la magniloquenza del tuono
I suoi sermoni confinano conl'incessante orazione dell'oceano:
Perché lo splendore e la gloria della realtá
Senza la poesia,
Impallidiscono, come le rosse recite del crepuscol
I fiumi blu, le finestre matutine.
L'arte della poesia rende possibile dire
Pandemonium.
Perché la poesia è allegra e esatta. E dice:
"Il tramonto sembra una corrida.
Un braccio addormentato si sente come soda,
Effervescente".

La poesia risuscita il passato, come Lazzaro,
Trasforma un leone in sfinge e ragazzina.
Conferisce a una ragazzina lo splendore del latino
Converte acqua in vino in tutte le nozze di Cana in Galilea.
Insomma è un fatto che la poesia inventó
L'unicorno, il centauro e la fenice.
Eppoi! La poesia è un'arca perenne,
Un autobus che custodisce, trasporta e partorisce tutti
Gli animali della mente.
Per questo la poesia diede e da la parola al perdono
Per questo una storia della poesia sará una
Storia dell'allegria e una storia
Del mistero d'amore,
Perché la poesia fornisce spontanemene
Abbonantemente e liberamente
Tutti quei vezzeggiativi e diminutivi di cui
L'amore ha bisogno e senza i quali il mistero dell'amore non si domina.
La poesia è come luce è luce.
Risplende su tutte le cose come il cielo azzurro
Con eguale azzurra giustizia.
La poesia, infatti, è la luce del sole del conscio.
È la terra dei frutti del sapere
Negli orti dell'essere:
Ci insegna i piaceri della cittá
Illumna le strutture della reatá.
È una delle cause del sapere e del ridere:
Affila i fischi degli intelligenti:
È come il mattino e i flauti della
Mattina che cantano incantatori.
È come nascita e rinascita della
Prima mattina per sempre.
La poesia è rapida come le tigri, abile come
I gatti, piena di vita come le arance.
E tuttavia è immortale: sempre-verde e
Sempre-in-fiore; molto dopo che i faraoni e i cesari sono crollati,
Continua a brillare e dura piú che diamante,
Perché la poesia è la attualitá della
Posibilitá. È
Realtá dell'immaginazione
Garanzia di esaltazione
Processione di possesso
Attivitá di significazione e
Significazione del mattino e
Maestria di significazione.

La lode della poesia è come la chiaritá delle
Cime dei monti,
Le cime della poesia sono come l'esaltazione delle montagne.
È la consumazione della coscienza nel paese del domani!

Da Pol-la d'anánta, katánta, paránta .... 1970

Memorie di Dreiser Cazzaniga

Il mio Comunismo

Riporto qui queste poche linee di Dreiser Cazzaniga che ho trovato in un taccuino omaggio delle supposte UNIPLUS. Il comunismo cui Dreiser Cazzaniga si riferisce è quello che nei Barrios del Norte si esprimeva soprattutto nelle grandi feste della Salciccia, con la rumba e le ragazzone grassone con le gonne di cotorne a fiori. Qualcuno di questi militanti diventava Alguazile di un barrio, talvolta e ingrassava, la faccia si copriva di rughe sagge con le lacrime agli occhi raccontgava ai giovani della bellezza del grande paese della steppa in cui era stato in torpedone per una visita coatta e oobligata di 4 giorni ai mausolei dei suoi dirigente assassinati da quegli stessi che, una volta mummmificati, affermavano di venerarli.
genseki

Sul mio Comunismo

In realtá io non ho avuto mai un incontro, o un'esperienza di quello che fu davvero il comunismo. Quel comunismo per cui milioni di persone furono disposti a sacrificare tutto anche la vita e ad affrontare morte e disperazione, Quello che ho conosciuto era una pallida immagine dell'originale o, peggio ancora, una tossica contraffazione. I comunisti che ho conosciuto io non erano in grado di sacrificarsi per niente e per nessuno il loro orizzonte mentale era limitato al consumo, nei confini del quartiere o del paese. Comunismo era per loro, al massimo il nome di una rivalsa individuale, di un'individuale promozione sociale, o piú semplicemente, nel caso di quelli che avevano meno capacitá, pura e semplice invidia e risentimento. Il comunismo era generositá e amore. In tutti coloro che ho conosciuto e che si chiamavano comunisti non ho mai visto né generositá né amore. Forse la parola che meglio descrive il tono fondamentale del loro carattere è risentimento. Risentimento che si mescolava di volta in volta con la paura, l'invidia, la grettezza, la rabbia. Il comunismo era passione per la giustizia. Tra i comunisti che mi è toccato in sorte di incontrare non vi era, davvero, passione per l'ingiustizia. Rabbia per l'ingiustizia subita e anche dolore si, certo, ma non passione per la giustiizia da fare (che la giustizia è fare) agli altri.
Così il mio comunismo fu sempre libresco, passione cartacea, pergamenaceo, astratto. Fu, insomma, un equivoco in piú di una vita fondatata sul vuoto e appunto sull'equivoco.
Dreiser Cazzaniga

martedì, ottobre 19, 2010

Febbre

L'abbraccio delle felci cancellava
Il felice ricordo degli accordi,
Che risuonavano tra l'erica e i miei passi,
Quanto ho bevuto dalla fonte ove
Piú non bevo: purezza fin da giovane
Fuggendo, occulto educavo la vergogna
Nel sentiero selvoso nascondendo
L'amore che negavo, la rampogna
Che mi fece nemico del mio bene
Al mio gene ribelle, al candore inetto
Poi finalmente rinnegai giovinezza
Come la serpe che cambia di pelle
Vissi di stizza ora riposo in febbre.

genseki

Messiaen: "Un vitrail et des oiseaux"

lunedì, ottobre 18, 2010

Luigi Nono : Prometeo, I. (Prologo) --- 1/2

2 Ottobre

Fu nel momento in cui l'ora si apriva
Che la lasciai filtrare tra le mani
Nell'equilibrio sobrio della schiuma
Alla soglia del culmine del getto
Il battito fu allora una cascata
Di gemiti, di ritornelli, di intarsi
Luce d'abete: schizzi di conifere
Che in spirale si svincolano dal rosso
Abbraccio del granito a scaturire
In flusso di purezza verticale.

genseki

Le contemplazioni

XIV

Domani allora in cui imbianca la campagna
partiró, come vedi, so bene che mi aspetti
Andró per la foresta, andró per la montagna.
Troppo a lungo da te lontano ho dimorato.

Andró con gli occhi bassi fissi sui miei pensieri,
Solo, ignorato, curvo e con le mani in croce,
Senza vedere nulla, sordo ad ogni rumore,
Triste sará il mio giorno, e la mia notte atroce.

Non guarderò il tramonto che si colora d'oro,
Né le vele lontane in rotta in rotta verso Honfleur,
E quando giungeró poseró sul tuo avello
Un mazzetto di vischio e di erica in fiore.

giovedì, settembre 30, 2010

Morire

Ah! Tutto questo è proprio un gran morire
Un morire di morte che ci muore
CHe ci muore a morire d'ogni morte
Che ci tonde la chioma foglia a foglia
Che ci spoglia e disgrega in muta argilla
Come si sfoglia ora la parola
E ne resta la pala che si affonda
La dove a morte ognun ognora muore.

genseki

Decostruendo Lutero

Come potevamo smontare Lutero
Considerare la sua mascella come un edificio
Fare degli occhi una cavitá urbana
Una grotta metropolitana
Come stanare i topi della sua incoscienza
Installati, noi peccatori
Sotto la pioggia detergente
Di sangue ossidato, di origano e grano
Grano cosí biondo spighe su spighe immense biche?
Tutto tutto dipendeva dai suoi occhi
Maturati come vecchie prugne e il calamaio di Worms
Statico il suo passo, dipanava il sentiero
Con il suo incedere retto
Per furibonde diagonali, strabica rotta
Senza collo: capitello troppo rigido
Nella fotografia con il saio - colpa dell'amido -
La corda del mugnaio cingendo: l'orribile latrato
Del cavallo che scivola sull'argilla - finalmente -
Sull'argilla? No non era Guernica!
Fu gesucristo che parló con i suoi tomi
Che svolazzavano come pipistrelli
Sotto le volte della biblioteca,
Il tessuto delle sue mele, il moccolo
Mentre lui strillava parole scheggiate
all'immensa vetrata della Fede.

genseki

léo ferré - Rimbaud - le bateau ivre
Cargado por bisonravi1987. - Videos de música, entrevistas a los artistas, conciertos y más.

Rimbaud - Le bateau ivre (Gerard Philipe)

Il battello ebbro

Dedicato alla Gaviota de Solentiname


Mentre andavo scendendo per i fiumi impassibili
Notai che i battellieri non mi guidavan piú:
Pelle rossa chiassosi gli avevan bersagliati
Per inchiodarli nudi a pali colorati.

Io che non sopportavo di avere un equipaggio.
Carico di frumento e cotone britannico
Perduti i battellieri con il loro baccano,
I fiumi mi permisero di scendere a mio arbitrio.

Nello sciabordio furioso dei marosi,
Per un inverno intero, piú sordo dei cervelli
Dei lattanti io corsi! E salpate penisole
Non subirono mai un simile saccheggio.

Tempeste benedissero i risvegli marini.
Più leggero d'un tappo ho danzato sui flutti,
Che eternamente portano le salme delle vittime
Dieci notti lontano da ogni faro sciocco!

Piú dolce che ai bambini polpa aspra di pomi
Penetró l'acqua verde il mio guscio d'abete
Lavando macchie azzurre di vino vomitato,
Trascinando con se il timone e gli uncini.

Da allora mi bagnai nel poema del mare
il mare lattescente come infuso di astri.
Che azzuri verdi inghiotte; ove discende a volte
Un pallido annegato dall'aspetto pensoso

Ove di colpo vanno colorando gli azzurri,
Deliri e ritmi lenti nel rutilante giorno,
Piú forti che lo spirito piú vasti che le lire
I rossori d'amore in amaro fermento!

So i cieli crepati in lampi, e le trombe
E risacche e correnti: e poi la sera e l'alba,
Come se di colombe fosse un popolo in volo,
E qualche volta ho visto ció che l'uomo ha creduto!

Ho visto soli bassi, macchie d'orrori mistici,
Illuminare lunghi coaguli violetti,
Simili ad attori di drammi antichissimi
Flutti che allontanavano brividi di persiane!

Sognai la notte verde delle nevi abbaglianti,
Salir fottendo agli occhi dei mari con lentezza,
E la circolazione delle linfe inaudite,
Giallo risveglio azzurro di fosfori cantori!

Ho seguito, per mesi le transumanze isteriche
Delle onde che andavano assaltando i frangenti,
Non pensando che i piedi splendenti delle Vergini
Possan forzare il muso degli oceani ormai bolsi!

Ho urtato, credetemi! Le Floride incredibili
Che mescolano ai fiori gli occhi delle pantere
Dalla pelle di uomo! Gli arcobaleni tesi
A glauche mandrie sotto l'orizzonte marino!

Ho visto fermentare maree enormi, nasse
Ove un Leviatano marcisce tra le canne!
E franare le acque in mezzo alla bonaccia,
Le lontananze ai vortici cadendo in catarratta!

Ghiacciai, soli d'argento, onde madreperlacee
Cieli in fiamme e relitti in fondo ai golfi bruni
Ove le pulci rodono giganteschi serpenti
Che in profumi si disfano sugli alberi contorti!

O quanto avrei voluto far vedere ai bambini
Dorate in flutti azzurri, canori pesci d'oro!
In secca mi cullai tra le schiume fiorite,
Ed i venti ineffabili mi prestaron le ali.

A volte, stanco martire dei poli e delle zone
Il singhiozzo del mare m'addolciva il rullío
Fiori d'ombra innalzando dalle gialle ventose
Che in ginocchio accettavo come se fossi donna...

Penisola scotendo ai miei bordi le liti,
Escrementi d'uccelli stentorei d'occhi biondi.
Vogavo e nell'intrico del cordame allentato
Scendevan come gamberi gli affogati a dormire!

Or io battello perso nelle chiomate cale
Nell'etra senza voli gettato dal tifone,
Che i velieri anseatici e gli esploratori
Avrebbero sdegnato carcassa ebbra di acqua;

Libero, fumigante carco di brume viole
Che perforavo il cielo rossastro come un muro
Portando, confetture che adorano i poeti,
I licheni del sole e le muffe del cielo;

Che correvo, macchiato di lunule elettriche
Folla plancia, scortato dagli ippocampi neri,
Quando luglio abbatteva a secche scudisciate
I cieli ultramarini dai vortici infuocati;

Io che tremavo, udendo il gemito remoto
Della foia dei Behemot e degli spessi Maelstrom,
D'immobilitá azzurre eterno seguitore,
Io rimpiango l'Europa dai parapetti antichi!

Ho visto gli arcipelaghi siderali! Le isole
Dai cieli deliranti aperti al rematore:
In notti senza fondo forse dormi e ti esili,
O milione d'uccelli d'oro, o futuro vigore?

Davvero ho troppo pianto, mi straziano le albe
Atroce m'è ogni luna ed ogni sole amaro:
Mi gonfió l'acre amore di sonni inebrianti.
Che scoppi la mia chiglia! Voglio colare a picco!

Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
Algida, oscura, ove, nel vespro profumato
Un bimbo ,accoccolato, tristemente abbandona
Come farfalla in maggio un fragile battello.

Non posso piú bagnato dai languidi marosi,
Succhiare ancor la scia ai carghi del cotone,
Né attraversar l'orgoglio delle bandiere in fiamme,
Né nuotar sotto gli occhi orribili dei moli.

Arthur Rimbaud
Trad, genseki

lunedì, settembre 27, 2010

Quello che restava di te

Di te non restava pietra di denti
Moneta di articolazione né sale
Scalza l'avevi scesa vertebra a vertebra
La divinazione dell'esoscheletro
E la spirale piú non era che polvere
Secco marcire asiutto compatire
La cuspide di bronzo, l'intelaiatura
Scricchiola pericolosamente
La cavitá oculare delle stelle
Lontana da qualunque vegetale-

genseki

Hans Werner Henze: Prison Song

Diana e il cardinale

Scostavi dall'assalto l'ampio volo
Con l'elitra, con l'altra mano
Con quello appena che restava della sguardo
Mandorla! Calmo come il lago
Lo sciame delle speranze, la fedeltá,
Latrano - dicevi con l'arco lunare
Minacciando cecitá ai discepoli,
Il cacciatore andava marcando
I suoi tarocchi uno per uno.
L'arco - dicevi non vedrá il mio seno
Costellazione della prima caduta
O cardinale sacro al sicomoro,
L'albero dalle bianche camicie
Macchia di sangue alla radice della neve
Al gelido fusto di screpolato candore
Scostavi con la mano il fragore degli occhi
Il coagulo del volo nel fantasma del tempo
L'abito cardinalizio rende impura la luna
Per il parto dell'albero che videro i tarocchi.

genseki

La morte di Dreiser Cazzaniga

Tra gli appunti del compianto Durfai acronico o ucronico amico di Dreiser Cazzaniga è stato trovato un foglietto che, in forza di un'annotazione sul retro, pare riferirsi agli ultimi minuti di vita del nostro Dreiser. Sono poche righe nel francese lievemente arcaico del Durfai che non oso tradurre per non rovinarne la bellezza appassita:

"Il avait les yeux hâvres et enfermés, la mâchoire inférieure couverte seulement d'un peu de peau paraissait s'être retirée, la barbe hérissée, le teint jaune, les regards lents, les souffles abattus. De sa bouche il ne sortait déjà plus de paroles humaines mais des oracles".

a cura di genseki

giovedì, settembre 23, 2010

Crocifissione

Da quando lo crocifissero il mare
Sulle ali viola, sugli spalti delle nubi
Sulle splendide visioni delle diatomee
Cominciarono a gocciolare furibondi
Estremi e cauti glauchi come fuchi
Da quelle mille ferite, dalle screpolature
Dagli iati come sbadiglio gli scampoli
Di tutti quei significati Era il simbolo
Finito di quell'infinito autunno in cui aggrapparsi
Al sonno marino, alla sera all'ocra dei boschi
Allo scorrere azzurro della selvaggina
Sui sentieri di muschio
Da quando lo crocifissero: il mare era tutto un calare
Di speranze dal nord di brandelli di lupi
Di zanne e ocarine e tutti quei ciondoli
come una ripida trina di schiuma laddove
Sfrangiata si spreca ogni altra possibile spiegazione
Che cosa spiegare? La solitudine
Il margine che confonde il nulla con l'altare?
Interrogare punteggiando le frasi con il sangue del mare
Mare incoronato di spine, una per ogni goccia
Flagellato di iodio e ferroso come qualsiasi altro deserto
Mare che crocifissero altri ad altre ali
Ancora piú in la di ogni possibile me stesso.

Figlio unico (Yasujiro Ozu, 1936). Una scena / 1

Digital Music Ensemble - Helicopter String Quartet

mercoledì, settembre 22, 2010

La croce

Dopo le tante assurditá che hanno careatterizzato il già inattuale dibattito sulla presenza del crocifisso nelle aule italiane queste considerazioni sono una fresca, aurorale meraviglia, Riflessioni laiche, elegantemente epicuree, dell'epicureismo ancora possibile all'aurora del passato secolo dell'annientamento e dell'ariditá dei cuori e pure profondamente rispettose della croce di cui negano la favola e affermano la lezione.
La croce
Di George Santayana
Trad. genseki

Il piede della croce – non oso dire la croce stessa – è un buon posto da cui contemplare la vita. Nei piú grandi dolori vi è una calma tragica: si esaurisce la furia della volontá e i nostri pensieri si elevano a un altro livello; come la gioia fracassona e le oscure pene della prima infanzia che sono impossibile nella vecchiaia. Spesso la gente fa croci di fiori o di oro, a me piace vedere il crocifisso smaltato circondato riccamente di volute e incrostato di gioielli, senza questo elemento di istinto pagano la religione della croce non sarebbe né sana né giusta. Alle falde del Monte Calvario si trova il giardino della resurrezione: non mi rifersico a nessuna resurrezione melodrammatica come quelle rappresentate nella letteratura giudaica e in quella cristiana, bensí a quella che succede tutti i giorni davvero, tranquilla dolcemente, alla luce del piú chiaro giorno, nel chiostro, in casa, nella mente rigenerata. Dopo aver rinunciato al mondo l'anima puó tornare a trovarlo piú amabile, puó viverci con un sorriso, con qualche mistico dubbio e con un piede nell'eternitá. La vanitá è innocente quando si riconosce che è vana e non è piú una disgrazia per lo spirito. La feliecitá della sapienza, al principio puó sembrare autunnale, e l'ombra della croce, l'ombra della morte; si tratta tuttavia di un'ombra curativa; e, dopo poco tempo, dalll'edicola in cui abbiamo collocato la croce ci sorpende il profumo della violetta e la rosa dello zafferano si sporge tra le spine. Lo sfondo scuro che apporta la morte sottolinea i colori delicati della vita in tutta la loro purezza. Lungi da me il voler suggerire che l'esistenza sia buona in quanto preceduta e seguita dalla non esistenza; è tuttavia certo che se l'uomo fosse immortale non ci sarebbero nella sua esperienza, la tradizione, il linguaggio, l'infanzia, l'amore e neppure la vecchiaia …. posto che, di fatto. La nascita e la morte accadono effettivamente e il nostro breve cammino è circondato dal vuoto, molto meglio è vivere alla luce del tragico fatto che dimenticarlo o negarlo e costruire su di una menzogna fondamentale.




lunedì, settembre 20, 2010

George Santayana


George Santayana

Sull'impermanenza

Da: "Soliloqui in Inghilterra"

Siamo avvertiti che il Giorno del Giudizio sará pieno di sorprese: una di queste, forse, è che nel Cielo le cose saranno piú instabili che sulla terra e che le dimore che lassú sono state preparate per noi non soltanto saranno vaste ma anche insicure.

*

I Castelli di Nuvole sono segni cje l'eternitá non ha nulla da spartire con la durata, né la bellezza con l'esistenza sostanziale e che persino in Cielo la nostra felicitá deve essere fondata su di una sorridente rinuncia,

*

Sull'amicizia

L'amicizia è sempre l'unione di una parte di un'anima con una parte di un'altra, La gente è amica a compartimenti stagni. L'amicizia a volte si basa sulla condivisione di ricordi precoci come fanno i fratelli o i compagni di scuola, i quali, spesso, salvo per questa antica e affettuosa familiaritá si considerano mutuamente antipatici ed estremamente noiosi. Altre volte dipende da piaceri o divertimenti passeggeri o da obiettivi comuni particolati e altre ancora dalla mera convivenza e dall'assenza di virtú nel vivere insieme.

*

L'amore tra amici in gioventú, quando d'amore si tratta piuttosto che di amicizia, possiede una tendanza mistica. RIcorda pel suo carattere anche se raramante per la sua intensitá, il dardo che, in estatica visione, attraversava il cuore di Santa Teresa e faceva esplodere l'involucro ordinario in cui si preserva il flusso del sangue di generazione in generazione, nello stretto canale dell'esistenza umana dell'umana schiavitú.

trad genseki

venerdì, settembre 17, 2010

Tristan Tzara


Sul sentiero delle stelle marine

Tristan Tzara

Sul sentiero delle stelle marine

A Federico Garcia Lorca

Che vento soffia sulla solitudine del mondo
Che mi sovvengo degli esseri cari
Fragili desolazioni aspirate dalla morte
Oltre le cacce gravi del tempo
Godeva il temporale della sua prossima fine
Che sabbia non arrotondava giá la dura anca
Ma sulla montagna sacche di fuoco
Vuotavano a colpi sicuri la luce di preda
Pallida e corta come l'amico che si spegne
Di cui nessuno piú sa dire il contorno a parole
Nessuna chiamata all'orizzonte ha il tempo di soccorrere
La forma misurabile solo quando scompare

E così da un lampo all'altro
L'animale sempre tende la groppa amara
Lungo i secoli nemici
Attraverso i campi sicuri di parata d'altra avarizia
E nella sua rottura si profila il ricordo
Come la legna che scricchiola segno della presenza
Della necessitá disperata.

Ecco anchei frutti

Non dimentico i frumenti
E il sudore che li ha fatti crescere sale alla gola
Eppure conosciamo il prezzo del dolore
Le ali dell'oblio e i foraggi infiniti
A fior di vita
Le parole che non giungono ad afferrare i fatti
Nemmeno per usarle per ridere

Il cavallo della notte ha galoppato dagli alberi al mare
E riunito le redini di mille oscuritá caritatevoli
Si è trascinato lungo le siepi
Dove petti di uomini trattenevano l'assalto
Con ogni mormorio aggrappato ai fianchi
Tra immensi ruggiti che si acchiappavano
Sfuggendo la forza dell'acqua
Incommensurabili si susseguivano mentre micromormorii
Non erano deglutiti e galleggiavano
Nell'inesporimibile solitudine solcata dai tunnel
Le foreste di mandrie delle cittá i mari aggiogati
Un uomo solo al soffio di molti paesi
Riuniti a cascata scivolando su una lama liscia
Di fuoco sconosciuto che s'insinua a volte la notte
A perdere coloro che il sonno assembla
Nel ricordo profondo

No non parliamo piú di quelli che si sono avvinti
Ai fragili rami, al mal umore della natura
Gli stessi che subiscono i rudi colpi
Tendono la nuca e sul tappeto dei loro corpi
Quando gli uccelli non piangono piú i chicchi del sole
Suonano i rigidi stivali dei conquistatori
Mi sono usciti dalla memoria
Gli uccelli cercano altri impieghi di primavera
Al loro calcolo delle sinecure
Per greggi affascinanti di sgomento
Il vento sulla nuca
Che metttano loro in conto il deserto
Al diavolo i sottili avvertimanti
I divertimenti coquelicot e compagnia bella
Raschia il freddo
La paura cresce

L'albero secca
L'uomo si screpola
Sbattono le persiane
Cresce la paura
Nessuna parola è abbastanza dolce
Per ricondurre il bimbo delle strade
Sperduto nella testa
Di un uomo sull'orlo della stagione
Guarda la volta
E l'abisso
Pareti stagne
Fumo nella gola
Il tetto si sgretola
Ma l'animale famoso impennato
Nell'attenzione muscolare distorto dallo spasmo
Della fuga vertiginosa del lampo di roccia in roccia
Si scatena all'appetito della gioia
Il mattino rifá il mondo
Alla misura del suo giogo

Predone dei mari
Ti sporgi per l'attesa
E ti alzi e ogni volta che saluti il mare ai tuo piedi
Sul sentiero delle stelle marine
Deposte da colonne d'incertezza
Ti sporgi ti sollevi
Saluti smazzati a strisce
E nel mucchio devi muoverti
Anche evitando le piú belle devi muoverti
Ti sporgi
Sul sentiero delle stelle di mare
I miei fratelli gridano di dolore dall'altra parte
Bisogna prenderli intatti
Sono le mani del mare
Offerte a uomini da nulla
Sentiero glorioso sul sentiero delle stelle marine
“Alcachofas alcachofas” la mia bella Madrid
Dagli occhi di stagno dalla voce di frutta
Aperto ai quattro venti
Vapor di ferro ondate di ferro
Sono gli splendori del mare
Bisogna prenderle intatte
Quelle sui rami spezzati rovesciati
Sui sentieri delle stelle di mare
Dove porta tal sentiero al dolore porta
Gli uomini cadono quando vogliono rialzarsi
Gli uomini cantano perché hanno assaporato la morte
Eppur bisogna andare
Calpestare
Il sentiero delle stalle marine con colonne di incertezza
Ma ci si impiglia nella voce delle liane
“Alcachofas alcachofas” la mia bella Madrid dalle luci basse
Aperta ai quattro venti
Che mi chiama – lunghi anni – d'ortiche
Testa di figlia del re figlia di puttana
Ê una testa è l'onda che si spezza
Comunque è il sentiero delle stelle marine
Che si sono aperte le mani
E non parlano della bellezza dello splendore
Null'altro che riflessi di minuscoli cieli
E impecettibili strizzate d'occhio tutt'intorno
Onde spezzate
Predone marino
Ma è Madrid aperta ai quattro venti
Che calpesta le parole nella mia testa
“Alcachofas alcachofas”
Capitelli di grida irrigidite

Apriti cuor infinito
Per penetrare il sentiero delle stelle
Nella vita innumerevole come la sabbia
E la gioia dei mari
Che contenga il sole
Nel petto dove brilla l'uomo di domani
L'uomo d'oggi sul sentiero delle stelle di mare
Ha piantato il segno avanzato della vita
Come va vissuta
Il volo liberamente scelto dall'uccello fino alla morte
Fino alla fine delle pietre e delle etá
Gli occhi fissi sulla sola certezza del mondo
Da cui scorre la luce spazzola a fil di suolo

Tristan Tzara
Trad. genseki

mercoledì, settembre 15, 2010

Merli e limoni

Tutti avevano un limone nel giardino
E tutti i merli che lo perforavano
Di fitte e punture ancora piú gialle
Tutti avevano un merlo nel giardino
O nel fondo del mare o di se stessi
Frondoso lasciava cadere le sue note
Come monete nude tra i limoni
Alcuni poi avevano merli e limoni
Nel giardino in casa nel cuore
Si scambiavano nome e cognome
Limoni e merli amari e verdi
E aspettavano la morte come una mandorla
Adagiando il capo dissetato
Sul candido frescore del cuscino.

genseki

Tristan Tzara

Le porte si sono aperte senza rumore sono ali
Di gravose lande dalle braccia distese
Steppe di ferro scavalcano i canali
Ove si sparsero le ossa delle carovane perdute
I corpi tesi delle strade pensili
Bruciano il gargarozzo delle folle fredde
Selvaggia luce dorme nel letto del fiume
La vitrea prora dell'aria fende
Occhi maturano nel carcere del mare
Dormono nei numeri
Ciottoli piatti tra i raggi nutrienti
Nessun dolore tenta onde di labbra
Noia naufragata sulla spiaggia dei selvaggi tessuti
Le clessidre dei corpi del sole
Fissano l'ora e l'aratro
Fumo
Linea
Boa
Nube di fiumi impetuosi riempie la bocca arida
L'uomo ni incontra l'uomo
Non incontra la barriera di pietra e i ghiacciai di uomini nudi
Nudi non hanno visitato questi luoghi sono ali
Le porte si sono aperte senza rumore
Nessuno tremerá – un grido tormenta la lana
L'esistenza stessa
Le pessime tracce delle tormbe
Perforatrici di tempeste sono ancora ali
Sotto scaglie radicali si crogiola un sole di millenari avvoltoi
Suonano lampi nella spossatezza delle acque.

Da: Ove bevono i lupi
1932

trad genseki

martedì, settembre 14, 2010

Fado Menor

Stephan Hermlin

Come sorge la poesia


Stephan Hermlin

A undici, dodici anni avevo scritto qualche poesia, Per lo piú dipendevano abbastanza fedelmente da altre poesie che mi piacevano o da un pensiero che vi avevo incontrato.
Mi interessavano le fome poetiche e mi esercitavo nell'ottava e nel sonetto, Tuttavia, mentre mi sforzavo in questi esercizi, giá avevo coscienza che le mie poesie non erano buone. Sentivo che i miei pensieri non meritavano di essere comunicati, e che io non ero in condizione di dare la forma che avevo scelto alle mie idee e ai mei sentimenti. Ogni tanto distruggevo il materiale che era venuto poco a poco accumulandosi ma nella mia vanitá giovanile non volevo comunque rinunziare a mostrarne qualche frammento ai miei genitori oppure ai loro conoscenti, Le lodi che mi aspettavo e che mi venivano concesse copiose in molte occasione mi facevano vergognare appena le avevo ricevute.
Quella sera a Ferch non avevo una intenzione particolare, non avevo pensato al metro o alla strofa. La sera era sempre piú profonda. Immobile fissavo i versi che avevo appena finito di scrivere. Non sapevo se fossero buoni, ma sentivo che era la mia prima vera poesia. Avevo allora quindici anni. Per un caso fortunato posseggo ancora quella poesia. Essa fu pubblicata un anno dopo in una antologia che molto tempo dopo la guerra ho ritrovato in una librería antiquaria. All'imbarcadero di Fech appresi per la prima volta come sorge una poesia. Non avevo nessun piano, nessuna meta, non avevo preparato nessuno schema di rime, venne la sera, percepii un lievissimo movimento che doveva durare da prima che io me ne accorgessi, gradualmente ma sensibilmente come i colpi lievissimi delle onde, contro i pali dell'imbarcadero, un fluttuare in me, un ritmico martellare e una stanchezza del respiro come delle acque che andavano facendosi scure. Da questa vibrante base sorsero due o tre parole senza relazioni tra di loro. Da quel momento cominciai a prendere sul serio le mie poesie anche se non troppo sul serio, me lo impediva la convinzione che in Germania, per quanto riguarda la poesia e la musica era impossibile superare ció che giá era stato fatto. Avevo in mente la frase di un poeta secondo il quale un uomo avrebbe potuto, nel corso della vita, scrivere sei righe decenti. Questa affermazione era contraddetta da quella di un altro poeta che che vedeva ciascuna delle sue parole, e non ne era certo avaro, come scolpite nel marmo davanti a sé. Questa seconda affermazione non ebbe un effetto significativo su di me. Mi sembrava molto piú importante la frase del primo poeta il quale non mi toglieva tutta la speranza.
Scrivere poesie divenne per me un'abitudine. Sembrava che le poesie stessero in attesa e dovessi solo chiamarle quando ne avevo bisogno. Quello che producevo risentiva delle circostanze della mia vita, degli obiettivi politici che, con altri, mi prefiggevo di raggiungere, la societá che mi pareva degna di sforzo. Tutto mi era facile tra ventidue e trenta anni – quando finí la guerra; qualche mese prima a Zurigo era uscita la mia prima raccolta di poesie. Ricordo che un giorno andai di librería in librería lungo la Bahnhofstrasse per poter vedere il mio libro esposto. Ero gioiosamente eccitato, come se avessi finalmente portato a destinazione un dispaccio, che per lungo tempo avevo portato come un gravame. Questa ingenua soddisfazione non si è poi piú manifestata. Potevo leggere molte cose amichevoli su di me, presto, peró ascoltai anche alcuni critici affermare che ero un adepto inguaribile del formalismo e di metodi inutilmente difficili. Attraversavamo un periodo in cui, per caratterizzare, molti usavano la parola “complicato”. Io
cercai di cambiare la mia poesia in conformitá con alcune di quelle opinioni. Il desiderio di essere utile divenne dominante. Un'amica straniera a cui mi confidai mi contraddissi con foga: nesuna poesia poteva essere utile nel senso da me indicato almeno per i lettori più avanzati. La sola utilitá possibile della poesia se si voleva usare questo concetto assurdo, consisteva nel suo costante rinominare l'apparentemente banale, nella sua funzione di ringiovanimento, nel suo richiamare alla coscienza ciò che era andato perduto. Mentre ella ancora parlava io mi sentivo sempre meno convinto dalle sue parole. Non potevo darle completamente torto, ma io vedevo la poesia, anche la mia costretta in obblighi e relazioni, non potevo restare fuori del tempo in cui vivevo e io perseguivo la poesia impura, non quella pura. Nel corso della mia vita ho incontrato in molti paesi, molti poeti del tipo puro di cui sono anche diventato amico. Mentre le parole della mia amica andavano affievolendosi, io vedevo la linea rossa di sangue della poesia dal tempo di Ch'ü Yüan e di Ovidio fino a Andrea Chénier e Hölderlin e dalle terre aride dell'Harrar fino ai nostri giorni passare attraverso il carcere, l'esilio e la morte. Io stavo nella fossa dove era confluito questo sangue prima che io emergessi dall'ombra. Pensavo anche a quei giorni in cui la poesia mi aveva impedito di spegnermi di ridurmi alla semplice esistenza, a quei giorni in cui mi obbligavo a leggere giornalmente tre volumetti che portavo nello zaino tra le lettere, attraverso la guerra: un Hölderlin, uno Shelley, un Baudelaire, tutta la mia biblioteca.
Dopo un certo tempo a poco a poco i versi che che avevo scritto scomparivano dalla mia vita. Si perdevano come un leggero dolore al quale si è fatta l'abitudine e che una mattina con sorpresa e non senza un senso di vuoto scopriamo che non proviamo piú. Nessun ebbe la colpa, tranne me. Qualche cosa che aveva parlato tacque …
trad. genseki

giovedì, settembre 09, 2010

Dreiser Cazzaniga e la lettera di M.Beaumont



M. Beaumont fu una delle relazioni che Dreiser Cazzaniga stabilí nel fior della prima giovinezza e nelle quali perduró per voluttá di vergogna. Giovane solitario, dallo sguardo perennemente sfuggente, intento per gran parte del tempo di qualunque converasione a mordersi metodicamente quello che restava delle sue unghie, lento anche quando tale non pareva, di una lentezza indizio di timore e menzogna profondamente sepolti nell'anima sua, fu considerato da tutti nell'umido e nebbioso Barrio come l'amico del cuore di Dreiser Cazzaniga. Tale fu la convinzione popolare che quasi si fece ovvietá, e alcuni giunsero a tal segno che immemori della realtá affermavano convinti che i due fossero fratelli o quantomeno cugini. Io stesso, il vostro servitore, Genseki, ho udito tale affermazione da Papillon il maricón ufficiale del Barrio non piú di due anni fa.
In realtá M. Beaumont odiava Dreiser Cazzaniga. Lo tormentava con piccole, continue meschinitá, ripicche, brutalitá, rivalitá e menzogne. La vita vera di M. Beaumont era quasi completamente celata allo sguardo di Dreiser Cazzaniga. Questi soleva rinnegare l'amico suo con qualunque persona mostrasse disprezzo o avversione per lui.
Ora nel nebbioso Barrio di Briggio e nella luminosa Villareal quasi non v'era chi amasse Dreiser Cazzaniga. Dreiser Cazzaniga era suo malgrado un testimone della libertá e un certo indomabile amore, ancora oscuro e minacciato da altri istinti misti al peccato lo rendevano eccentrico e minaccioso, Come tale cioè era percepito. Non vi fu occulto nemico di Dreiser Cazzaniga che non ricevesse occulta solidarietá dall'oscuro Beaumont la cui culla stava nel Barrio di Briggio. Al Barrio di Briggio egli apparteneva nebbioso e torbido come la valle di Briggio come il suo antico fiume ignorato come le sue sporche, trascurate, industriali rovine. Dreiser Cazzaniga non apparteneva a Briggio, solo il caso volle ch'egli vi trascorresse la prima infanzia, per Dreiser Cazzaniga sempre Briggio restó un orizzonte geografico e architettonico, luce, autunno, nebbia, castagne, mosto, cinghiali, I suoi abitanti erano come ombre, come grigi profili sudici e opachi, Beaumont apparteneva a Briggio in corpo e anima e per questo doveva costantemente tradire Dreiser Cazzaniga. Dreiser Cazzaniga viveva nella vergogna e nell'ignominia e per questo tali tradimenti soleva perdonare.
Molti anni sono passati da allora, Dreiser Cazzaniga trovó infine la dignitá di allontanare da sé la querula ombra minacciosa di Beaumont. Questi, d'altra parte volse i suoi passi alle lontane sierre e lande patagoniche e qui si sarebbe potuto porre il punto finale alla molesta storia di un altro fallimento di Dreiser Cazzaniga sul piano delle relazioni umane. Il fato volle, peró che Dreiser Cazzaniga fosse avvertito dall'amico suo Spadaro di una lettera che Beaumont aveva intenzione di inviargli nella sua Andalusia. Lettera che aveva per scopo di riannodare una amistá che invero Beaumont non aveva mai considerato finita. Voleva continuare a infierire sul groppone del povero Dreiser Cazzaniga! Dreiser Cazzaniga aspettó a lungo la lettera con la ferma intenzione di bruciarla senza leggerla. La lettera noin giungeva, Il sogno di Dreiser si faceva ogni giorno piú fermo e ardente, arricchivasi di nuovi cavallereschi particolari. La lettera non giungeva. Dreiser giounse, invece al punto di desiderarer che la lettera non desiderata giungesse per poter provare a se stesso che si era liberato di Beaumont e di Briggio e di Villareal. Non giungendo bruciava dentro di sé di ossessiva aspettativa. A tanto giunse l'ansia dell'attesa che si accorse infine con orrore di essere ancora in potere di Beaumont e della propria miseria. Non gli passó per la mente giá indebolita il pensiero di gettarsi scalzo ai piedi della Vergine Della Fuensanta nella sua salita al Monte Sacro avvolta nelle mantiglie, d'oro ricoperta tra le carole e le odi dei gitani per impetrare il suo aiuto. Soffrí e arse tutto quell'autunno penetrato dal sentimento della sua inconsistenza. Dreiser meschino. La lettera non giunse. Egli morto dorme nella sierra dove ancora aleggia lo spirito dei puri sufi. La lettera continua il suo viaggio. Non giungerá a colui cui era destinata. Beaumont sempre vive, ora nella lieta Campania spensierato bove pascola le sue insicurezze.
Se la sua missiva giungerá saró io, genseki, l'umile servo a bruciarla nell'inecenso come Dreiser lo volle.

A cura di genseki

Fede e dubbio

Credo che Sainte-Beuve abbia scritto da qualche parte che Chateaubriand era un libertino epicureo con una immaginazione cattolica. Certo doveva essere un arrogante. Tuttavia l'accusa di incoerenza che sembra suggerire Sainte-Beuve o chi per lui è tristemente fuori luogo. Esagerando come si suole fare nello stile aforismatico si potrebbe dire che solo chi possiede un vero, profondo e coerente immaginario cattolico puó essere un vero libertino. Chateaubriand ha un compagno piú cosciente anche se altrettanto arrogante nel Marchese Di Bradomín che come tutti sanno si autodefiniva un “Don Juan feo cátolico y sentimental” dove la molteplicitá delle relazioni contradditorie possibili tra i termini costituisce un vero e proprio tessuto d'una insospettabile coerenza.
La fede non è morale. La fede è immorale. La fede non è certezza, piuttosto dubbio. La fede è inseparabile dal dubbio piú disperato.
Queste righe di Chateaubriand dalle “Mémoires d'Outre-Tombe” sono il Dostoyeskij possibile nello stile impero:

“Siccome ho parlato delle cerimonie funebri che si ripeterono con tanta frequenza, vi descriveró l'incubo che mi opprimeva, quando, la sera, alla fine della cerimonia, passeggiavo nella penombra della basilica, che io pensassi alla vanitá delle cose umane tra quelle tombe in rovina è cosa del tutto normale: morale volgare, inseparabile dallo scenario di un tale spettacolo. Il mio spirito, tuttavia, andava oltre. Penetravo nella natura umana. Tutto è vuoto e assenza nella regione dei sepolcri? Non vi è nulla in tale nulla? Non vi è esistenza nel niente dei pensieri della polvere? Queste ossa forse non hanno una vita ignota? Chi conosce le passioni, i piaceri, gli amplessi dei morti? Le cose che hanno sognato, creduto, sperato sono forse come loro pure idee, naufragate con loro? Sogni, futuro, gioie, dolori, libertá e schiavitú, potere e debolezza, crimini e virtú, onori e infamie, ricchezze e miserie, talenti, genio, intelligenze, glorie, illusioni, amori, non siete che percezioni di un momento, trascorse con i crani spezzati in cui nacquero, con il petto annientato ove un tempo pulsó un cuore? Nel vostro silenzio, o tombe, se tombe, invero, siete solo s'ode un riso sardonico de eterno? Questo riso è Dio stesso, la sola ironica realtá destinata a sopravvivere all'intero universo? Chiudiamo gli occhi; riempiamo l'anima che dispera della vita con queste grandi parole del martire: “Sono cristiano”.
Mémoire d'outre-tombe
Terza parte – Libro III
Trad. genseki

La certezza pare piuttosto cemento del dubbio che della fede

genseki

giovedì, settembre 02, 2010

Il tempo e lo spirito

Certo ora che l'orizzonte sembra tanto oscuro da non permettere la percezione della prospettiva, da far dubitare che prospettiva ci sia, che un futuro sia possibile al di fuori della menzogna, dell'odio, della meschinitá della democrazia, delle sue guerre, dei suoi stermini, dello sfruttamento della cancellazione della memoria, della natura, della negativitá e deli divenire il testo di Hegel tratto dall'Introduzione alla storia della filosofia ci ricorda come la nostra prospettiva. la prospettiva possibile dal balconcino della nostra vita individuale sia tanto ristretta da non giustificare la disperazione.
La dialettica gramsciana tra pessimismo, ragione, volontá e ottimismo è qui sciolta, semplicemente tolta nell'assunzione della pazienza.


Il punto di vista attuale è il risultato di tutto il corso e di tutto il lavoro di 2300 anni: è ciò che lo spirito dal mondo ha raggiunto nella coscienza pensante. Non dobbiamo stupirci per la sua lentezza. Lo spirito universale pensante ha tempo, nulla lo induce alla fretta, dispone di una moltitudine di popoli, di nazioni il cui sviluppo o evoluzione è appunto un mezzo per la produzione della sua coscienza. … Nella storiauniversale i progressi sono lenti. La comprensione della necessitá di questo lungo tempo è un mezzo contro la nostra propria impazienza.
Hegel
Introduzione allo storia della filosofia
Trad. genseki

venerdì, agosto 27, 2010

Memorie di Dreiser Cazzaniga


Dreiser Cazzaniga e la sembianza

Dreiser Cazzniga sempre ebbe in uggia ogni adesione a una forma codificata dell'essere persona nel mondo. Dreiser Cazzaniga detestava i ruoli e le parti che la societá sembra cosringere con dura necessitá noi tutti mortali a rivestire. Era un rifiuto il suo quasi istintivo, incosciente, potremmo dire, che precedeva qualsiasi considerazione e analisi intellettuale o filosofica.
La possibilitá che questo rifiuto potesse avere una sua dimensione filosofica, che potesse rispondere a ragioni piú profonde di quelle che sembravano mosse dai capricci dell'istinto, Dreiser Cazzaniga cominció a intuirla quando già le prime canizie gli innevarono il capo.
La prima forma riflessa che questo rifiuto prese in lui fu quella dell'umorismo:Dreiser Cazzaniga trovava immensamente ridicolo, che so, un professore che recitava la sua parte di professore con la perfezione consumata di un attore di mestiere in ogni momento della vita quotidiana o di un cattolico che recitava quella del cattolico, un cameriere quella del cameriere e così via,
In realtá gli pareva che ciascuno esagerasse la sua parte, en accentuasse en accentuasse, comicamente appunto i caratte più marcati, come per l'orrore di poter scoprire di non essere nulla, un frammento fangoso di coscienza sottratto per un momento infinitesimale al nulla.
Il terrore di essere così pateticamente comico, ridicolo, inerme di fronte al personaggio che di volta in volta gli si offriva di recitare spinse Dreiser Cazzaniga allo sforzo costante di apparire sempre altro da quello che era. Allo sforzo di controinterpretare, anche se è pur vero che per un periodo vergognosamente troppo lungo della sua breve vita accetta di dar vita alla maschera dell'estremista di sinistra.
Grazie alla sua curiosa parlata e alla foggia peregrina di vestire Dreises Cazzaniga riuscí a sembrare. Non fu piú quello che era, ma agli occhi dell'orribile borgehesia alpina e pedemontana sembró sempre qualcun'altro.
Dreiser Cazzaniga fu la sembianza dell'altro. Si rivestí dell'interinitá come di una lorica. Quando appariva in pubblico la prima frase che gli era rivolta era: “sembri un gaucho”, “un pittore del XIX secolo” , “un marinaio danese” e così via, Dreiser Cazzaniga sembrava quello che non era, l'altro che era possibile che fosse e cosí difendeva la sua libertá interiore di essere nel vuoto come il vuoto e difendendola la negava consegnandola inerme all'odio della piccola borghesia alpina e pedemontana.
Tra tutte le cose che Dreiser Cazzaniga sembrava sembrare quella che piú frequentemente sembrava era un ebreo.
Quante volte gli dissero; - sembri un ebreo! -
Dreiser Cazzaniga stava malissimo nella pelle dell'ebreo, ma l'ebreo era l'altro assoluto per la miserabile comunitá che lo circondava, l'oggetto più elementare dell'odio e del disprezzo.

A cura di genseki

giovedì, agosto 19, 2010

Joe Bousquet


JOE BOUSQUET "entretien"
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Joe Bousquet


Joe Bousquet

Bisogna che ogni nuovo giorno sia sepolto nella persona di un uomo poterb risvegliarsi nel suo volto.
*
Non si torna alla luce sena attraversare la poesia.
La poesia non è piú un attributo del poema, ma l'attributo nascosto di ciò che esiste, il suo orizzonte nell'anima degli uomini, cioè l'orizzonte, in ciò che aspira all'essere, di ció che aspira alla morte.
*
Nulla ci accade che non sia rivestito della nostra anima: solo dopo molto tempo finiamo per riconoscrevi ció che abbiamo evocato. Il presente secolo è condannato se non puó controbilanciare la sua immensa notte con la sicurezza di alcuni individui che per la loro volontá hanno il privilegio di vedere e di dichiarare, Faró quello che posso per lui, ma non credo che si sia qualche cosa da fare, non riuscirá mai a comprendere che l'uomo o è un cuore o non è nulla: Voglio dire coraggio. Amore.
*
La paura di vivere resta nascosta nell'amore. Dissimulata cosí, non si chiama piú paura di vivere, ma piuttosto amore per la vita.
*
Poeta, ció che tu ami ti porterá via il cuore, di te non resterá che polvere, ma la tua sofferenza sará allora la tua persona.
*
Il corpo è il firmamento di ogni reale immaginabile. Siamo la carta di questo firmamento rianimata nell'angole ove fu nascosta.
*
Il miracolo è la sofferenza che ti rivela che tu non sei che te stesso.
Siamo tutti così, la notte ci mette al mondo, ma non vi trasporta che la nostra immagine e i nostri occhi, dove tutte le luci vengono a fecondarla. La notte che portiamo in noi è il focolare di ció che avremmo preferito di noi stessi,
*
Trad genseki

giovedì, giugno 17, 2010

Hishiryo

Ecco uno dei testi di Dogen relativi a Hishiryo, si tratta del primo paragrafo del ZazenshiN:

"Quando il maestro Yakusan Kôdô meditava in posizione seduta, un monaco venne a porgli una domanda: "Che cosa pensa Maestro restandosene cosí seduto per terra?" Il Maestro disse: "Penso il non pensiero" Domandó allora il monaco: "Come si fa a pensare il non pensiero?" Ripose il Maestro: "Con hishiryo".

La traduttrice dell'edizione francese dello Shôbôgenzô da cui è tratto questo brano del Zazenshin scrive in nota:

"... La parola shiryô è composta di due caratteri: Shi: pensiero e Ryô: misura e designa il pensiero analitico e discriminante. Ora, nel termine fushiryô (non pensiero) la parola shiryô è preceduta dal prefisso privativo fu-, in hishiryô dal prefisso privativo hi-. L'essenziale di questo dialogo dipende, effettivamente dalla sottile differenza semantica tra i due prefissi privativi: fu- e hi-.
Il primo indica l'assenza della cosa negata mentre il secondo indica la differenza di livello, di ordine."
Yoko Orimo
Shôbôgenzô Vol I
Pag 23
Nota 2
Trad genseki

La parola shiryô sembrerebbe poter essere fatta coincidere con il concetto hegeliano di "intelletto" mentre il prefisso hi- sembra poter svolgere la funzione del verbo "Aufheben". Coincidenze linguistiche e teoriche davvero sorprendenti che meriterebbero di essere approfondite e asseverate.
genseki

mercoledì, giugno 16, 2010

Hishiryo

Hishiryo di Dogen è un concetto che puó essere letto in modo fecondo sulla base della dialettica hegeliana? Ovvero è possibile un'ermeneutica dialettica di hishiryo.
Certo hishiryo è enunciato non come una legge ma descritto come una pratica, come un modo di funzionare della coscienza.
Questo modo della coscienza hishiryo non è l'enunciazione universale della dialettica? In che misura hishiryo è la forma della coscienza che aderisce all'imperamenenza, al divenire?
Il non pensiero in questo tipo di coscienza ha una struttura a prima vista lineare, è all'origine del pensiero ed è il punto o il momento del suo estinguersi: dal non pensiero sorge il pensiero e nel non pennsiero il pensiero si dissolve. Non vi puó essere pensiero senza non pensiero perché il pensiero non avrebbe né inizio né fine e quindi non avrebbe movimento interno. Un pensiero coagulato non lo si puó proprio concepire. Hishiryo sarebbe allora proprio questa forma: l'unitá inscindibile di pensiero e non pensiero non in sé ma in quanto oggetto della coscienza. La coscienza si identifica normalmente con il pensiero, la coscienza che si identifica con l'unitá di pensiero e non pensiero è la coscienza hishiryo, la coscienza dialettica.
genseki

1000

Quella precedente era la millessima entrata del blog che mi permetto di celebrare con Saint-john Perse in una mia non molto felice traduzione.
Perse forse il piú rigoroso seguace di Rimbaud, l'autentico continuatore anche se con una sottile vena imperialista coloniale e archeologica che la freschezza dell'ira rimbaldiana non prevedeva tra i suoi registri.
Perse, un Rimbaud piegato da molti anni di Africa, reso esatto e tagliente dai tropici e dal dominio.
Non potro mai dimenticare la bellezza cui si aprí il mio cuore alla prima lettura di Anabase!
Ora i cavalli della pioggia mi portano fino in fondo al verbo, prima di addormentarmi mentre le gocce crepitano sullo zinco del "poyo" e le bacche amare del giardino avvelenano lentamente il mio vecchio pastore belga.

martedì, giugno 15, 2010

Saint-john Perse


Piogge

Piogge

Il banano della pioggia getta le sue radici sulla cittá
Un polipo frettoloso raggiunge le sue nozze di corallo nel latte d'acqua viva
L'idea nuda come un reziario pettina nei giardini del villaggio la sua chioma di bambina.
Canta, poema, nel tumulto delle acque l'imminenza del tema:
Canta, poema, nel vortice delle acque l''evasione del tema:
Alta licenza nel fianco delle Vergini profetiche,
Sbocciare di ovuli d'oro nella notte screziato del limo
E il mio letto, pronto, inganno! Alla frontiera di un tale sogno-
Proprio ove si avviva e crersce e comincia a girare la rosa oscena del poema.

Terribile Signore del mio riso, ecco la terra fumante del tanfo della selvaggina.
Vedova argilla sotto l'acqua vergine, terra lavata al passo d'uomini insonni,
E, fiutata, piú da vicino come un vino davvero rende smemorati?
Signore, terribile Signore del mio riso! Ecco il rovescio del sogno sulla terra.
Come la risposta delle alte dune alla progressione marina, ecco, ecco
La terra usata, l'ora nueva nei suoi scialli e il mio cuore visitato da una strana vocale.

II

Nutrici piene di sospetto, corteggiatori dagli occhi velati di maturitá. O piogge! Per le quali
L'uomo insolito mantiene il suo contegno che diremo questa notte a chi renda altezzosa la nostra candela?
Su quale nuovo letto, a che testa tetragona rapiremo mai la scintilla che ci vale?

Mute Ande sul mio trettp, ho una acclamazione scrosciante
Dentro di me, per voi o Piogge!
Porteró la mia causa davanti a voi: sulla punta delle vostre lance il mio bene piú certo!
La spuma delle labbra del poema come latte corallino!

E colei che danza come un incantatore di serpenti alla soglia delle mie frasi.
L'Idea, piú nuda che un coltello nel gioco dei volti.
Mi insegnerá il rito e la misura contro l'impazienza del poema.

Terribile Signore del mio riso, liberami dalla confessione, dall'accoglienza e da canto
Terribile Signore del mio riso, che offesa nelle labbra dello scroscio!
Quante frodi sotto le nostre piú alte migrazioni!
Nella notte chiara del mezzogiorna, anticipiamo piú di una proposizione
Nuova sull'essenza dell'essere.... o fumi presenti sull'altare del lare!
Tiepida allora la pioggia sui nostri tetti finí ugualmente per spengere
Le lampade nelle nostre mani.

III

Sorelle dei guerrieri di Assur furono le alte piogge in marcia sulla terra;
Con caschi piumati ben dritte, con speroni d'argento e cristallo
Come Didone premendo l'avorio alle porte di Cartagine.

Come la sposa di Cortés, ebbra d'argilla, tatuata tra le sue alte piante apocrife...
Ravvivavano di notte l'azzurro nelle culatte delle nostre armi.
Popoleranno Aprile nel fondo degli specchi dei nostri alloggi!
Non mi curo di obliare il loro scalpiccio alla soglia delle aule d'abluzione;
Guerriere, o gueriere per lancia e freccia fino a noi appuntite!
Moltiplicate ballareni di danza e d'attrazione terrestre!
Son armi a bracciate, ragazze a carrettate, ditribuzioni di aquile alle legioni
Un levarsi di picche nei suburbi per i popoli piú giovani della terra fasci rotti
Di vergini dissolute
O grandi manipoli scatenati! Ampi, vivi raccolti in braccia virili investiti!
… E la cittá è di vetro sul piedistallo di ebano, la scienza allo sbocco delle fonti,
Legge lo straniero, sui nostri muri i grandi manifesti annonari,
Nei nostri muri la freschezza, dove l'indiana questa notte riparerá a casa del nativo.

Saint-John Perse
Piogge 1946
trad. genseki

lunedì, giugno 14, 2010

La giustizia

... penso alla frase di Samuel Beckett, una frase un po' strana "veniamo al mondo nella giustizia ma non ho mai sentito dire il contrario", è una frase strana, la possiamo comprendere a partire dal momento in cui comprendiamo che la giustizia è un presente, il presente di una trasformazione e conseguentemente stiamo nella giustizia quando condividiamo un tale presente, quando mi trovo in una riunione con i miei amici africani, sto nella giustizia e nessuno puó dire il contrario, non stiamo soltanto a favore della giustizia o a causa della giustizia, stiamo dentro la giustizia, e questa dimensione è, credo fondamentake, la giustizia sta sempre nel presente e io la definirei come un presente attivo,
Alain Badiou
L'Idea di giustizia
Rosario Argentina
2 Giugno 2004
trad genseki

venerdì, giugno 11, 2010




Stupidaggine

Ecco un esempio di stupidaggine zen che indurrebbe a pensare che il pensiero di Dogen è condannato dai suoi seguaci a restare confinato nell'ambito di una subcultura:


"René Descartes comincia la sua riflessione filosofica con il detto: "Cogito ergo sum" - penso dunque sono. Anche i filosofi tedeschi Kant e Hegel mettono l'esistenza di uno spirito alla base della loro riflessione filosofica. Nel buddismo invece, quando parliamo di spirito, ci riferiamo a qualche cosa che supera la dimensione del pensare e della coscienza, perché lo spirito comprende l'universo intero."

Michel Bovay
trad. genseki