lunedì, novembre 24, 2008

Melchisedec


I testi delle visioni mistiche di Anne-Catherine Emmerich sono di una straordinaria qualitá pittorica. Sembrano nascere dal ricordo che anima i quadri biblici degli antichi maestri fiammighi. Da un'immaginazione che accarezza e gode del colore e delle pennellate piuttosto che dalla commozione mistica.

Anne-Catherine pare aver il dono di rendere viva la pittura di convertire lo spazio in successione e movimento.

Tutte le sue visioni hanno una prospettiva sola. Sono riprese aeree, a volo d'uccello. Come se un falco osservasse i quadri, che so di Rembrandt e ce ne trasmetttesse magicamente le immagini reinterpretate nella sua vertiginosa prospettiva.

I testi della Emmerich sono pura vertigine del volo, dell'altezza avi di Gaspard de la Nuit.

genseki


***



Colpo d’occhio su Melchisedech



Quando Nostro Signore Gesù Cristo prese il calice durante l’istituzione della Santa Eucarestia io ebbi un’altra visione che si riferiva all’Antico Testamento. Vidi Abramo in ginocchio davanti ad un altare; in lontananza vi erano dei guerrieri con bestie da soma e cammelli: un uomo maestoso si avvicinò ad Abramo e depose sull’altare lo stesso calice di cui Gesù si servì più tardi. Io vidi che quest’uomo aveva come delle ali sulle spalle; non le aveva realmente; era come un segno per indicarmi che davanti ai miei occhi vi era un angelo. Questo personaggio era Melchisedech. Dietro l’altare di Abramo salivano tre nuvole di fumo quella di mezzo si innalzava abbastanza in alto; le altre erano più basse.
Vidi in seguito due file di figure che terminavano con Gesù. Vi si trovavano Davide e Salomone (era il corteo dei possessori del calice, dei sacrificatori, o degli antenati di Gesù? La Suora ha dimenticato di dirlo.) Vidi alcuni nomi sopra Melchisedech (1) Abramo e alcuni Re. Poi ritornai al calice.
Melchisedech aveva già il calice. Vidi che Abramo doveva sapere in anticipo ch’egli avrebbe offerto il sacrificio; egli, infatti aveva elevato un bel altare, al di sopra del quale vi era come una tenda di foglie. C’era anche una specie di tabernacolo ove Melchisedech depose il calice. I vasi da cui si beveva parevano essere di pietre preziose. C’era un foro sull’altare, probabilmente per il sacrificio. Abramo aveva condotto una mandria superba. Quando questo patriarca aveva ricevuto il mistero della promessa, gli era stato rivelato che il sacerdote dell'altissimo avrebbe celebrato davanti a lui il sacrificio che sarebbe stato stabilito dal Messia per durare eternamente. Per questo, quando Melchisedeche fece annunciare il suo arrivo da due messi di cui soleva servirsi sovente, Abramo lo attese con rispettoso timore, e innalzò l’altare e la tenda di foglie.
Vidi che Abramo pose sull’alatre, come sempre faceva quando offriva sacrifici, alcune ossa di Adamo; Noé le aveva conservate nell’arca. L’uno e l’altro pregarono Dio di adempiere la promessa fatta a quelle ossa, e che altro non era che il Messia. Abramo desiderava intensamente la benedizione di Melchisedech.
La pianura era coperta di uomini, di bestie da soma e di bagagli. Il re di Sodoma era con Abramo sotto la tenda. Melchisedech veniva da un luogo che divenne poi Gerusalemme; aveva abbattuto una foresta e gettato le fondamenta di alcuni edifici; un edificio circolare era finito a metà e un palazzo era appena cominciato. Giunse con una bestia da soma grigia, non era un cammello, non era nemmeno il nostro asino; questo animale aveva un collo largo e corto, era leggero nella corsa, su un fianco portava un grande vaso pieno di vino e sull’altro una cassa in cui si trovavano pani schiacciati e diversi vasi. I vasi, che avevano la forma di botticelle, erano trasparenti come pietre preziose. Abramo si fece incontro a Melchisedech. Lo vidi entrare nella tenda dietro l’altare, offrire il pane e il vino elevandoli nelle mani, benedirli e distribuirli: c’era, in questa cerimonia qualche cosa della Santa Messa. Abramo ricevette un pane più bianco di quello degli altri e bevve dal calice che servì, in seguito alla Cena di Gesù, e che ancora non aveva il piede. I più importanti tra coloro che assistevano distribuirono anche al popolo che li circondava vino e pezzettini di pane.
Non ci fu consacrazione: gli angeli non possono consacrare. Le oblazioni furono però benedette e le vidi risplendere. Tutti coloro che ne mangiarono furono fortificati e elevati verso Dio, Abramo fu anche benedetto da Melchisedech e vidi che era una figura dell’ordinazione sacerdotale. Abramo aveva già ricevuto la promessa che il Messia sarebbe uscito dalla sua carne e dal suo sangue. Mi fu spiegato che Melchisedech gli aveva fatto conoscere queste parole profetiche sul Messia e sul suo sacrificio: - Il Signore ha detto al mio Signore, siedi alla mia destra (2) fino a che io riduca i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. Il Signore l’ha giurato e non si pente. Sarai sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech -. Vidi anche che Davide, quando scrisse queste parole ebbe una visione della benedizione data da Melchisedech ad Abramo. Abramo, avendo ricevuto il pane profetizzò e parlò di Mosé, dei Leviti e di ciò che il primo diede loro come eredità.
Non so se fosse Abramo ad offrire il sacrificio. Lo vidi poi donare la decima delle sue mandrie e dei suoi tesori; ignoro cosa ne fece Melchisedech; credo che la distribuisse. Melchisedech non sembrava vecchio; era agile, alto, pieno di una dolce maestà; aveva una lunga veste, più bianca di quante mai ne vidi; la veste bianca di Abramo sembrava opaca al paragone. Durante il sacrificio egli indossò una cintura sulla quale erano ricamati alcuni caratteri, e un copricapo bianco simile a quello che poi indossarono i sacerdoti. I suoi lunghi capelli erano di un biondo chiaro e brillavano come seta; aveva una barba bianca, corta e appuntta, il suo volto risplendeva. Tutti lo trattavano con rispetto; la sua presenza diffondeva ovunque la venerazione e una calma maestosa. Mi fu detto che era un angelo sacerdotale e un messaggero di Dio. Era stato inviato per stabilire diverse istituzioni religiose. Conduceva i popoli, trasferiva le razze, fondava città. L’ho visto in diversi luoghi prima del tempo di Abramo. Poi non l’ho più rivisto.


Note
1. Il 3 aprile 1821, ella disse, nell’estasi: - Il sacrificio di Melchisdech ebbe luogo nella valle di Josaphat, su di un luogo elevato. Ora non posso ritrovare il luogo -.
Il 5 Luglio 1821 ella disse: - Ciò ebbe luogo nella valle delle Uve, che si prolunga in direzione di Gaza. Ora Bachiene Hammelsteld e altri considerano una valle di questa contrada come la valle di Josaphat, perché i nemici di Giosaphat vi si distrussero da soli con un Giudizio di Dio e Giosaphat vuol dire: Dio giudicherà. La valle in cui Giosaphat rese grazie per la sua vittoria si chiamava la valle di Benedizione. Un giorno Anne Catherine designava diversi percorsi che il Signore doveva seguire, il 13 ottobre del terzo anno della sua predicazione, ella disse: egli passerà nel luogo in cui Melchisedech offerse il pane e il vino: c’è ancora una specie di cappella costruita in pietra nuda, credo che ancora, talvolta, vi si offici. Ora, il percorso seguito allora da Gesù si avvicinava alla contrada di Gaza.
2. A proposito di queste parole: “siedi alla mia destra”, ella così si esprimeva: - Il lato destro ha un significato grande e misterioso. L’eterna generazione del Figlio mi è stata mostrata talvolta in figure della Santa Trinità che il linguaggio non sarebbe in grado di rendere. Allora io vedo il Figlio nel lato destro del Padre, poi vedo la figura che Mosé vide nel roveto ardente, mi appare in un triangolo luminoso, alla sommità del qual c’è lo Spirito Santo. Questo può essere espresso in modo preciso, ma, in queste figure, messe alla portata di un semplice essere umano, il Figlio è sempre alla destra. Eva fu tratta dal fianco destro di Adamo. Senza la caduta gli uomini sarebbero usciti dal fianco destro. Ed è al fianco destro che i patriarchi portavano la benedizione della promessa, ed essi ponevano i loro figli alla destra quando li benedicevano. Il fianco destro del Cristo fu aperto dalla lancia del soldato. Nelle visioni si vede la Chiesa uscire da questa ferita.. Entrando nella Chiesa, si entra nel fianco destro del Salvatore e attraverso di lui e in lui si giunge al Padre.
Anne-Catherine Emmerich
Clemens Brentano
Trad. genseki
4 maggio 2002

domenica, novembre 23, 2008

Léo Ferré chantant les poètes

Pauvre Rutebeuf

Dei vecchi amici che n'è stato
Che mi erano cosí vicini
E tanto ho amato
Come si sono diradati
Credo che il vento l'abbia spazzati
L'amor è morto
Erano amici che che il vento porta
E c'era vento alla mia porta
Li portó via

Al tempo ch'arbol si spoglia
Quando sui rami non resta foglia
Che non ne cada
E povertá mi schiaccia a terra
E d'ogni dove mi fa guerra
L'amor è morto
Che vi racconti non bisogna
Come giunsi a questa vergogna
O in che maniera

Dei vecchi amici che n'è stato
Che mi erano cosí vicini
E tanto ho amato
Come si sono diradadti
Credo che il vento li abbia spazzati
L'amor è morto

Male non suole venir solo
Così che colsemi ogni duolo
Ben meritato
Povero senno e misera memoria
Diemmi il Signore Re della gloria
E picciol bene
La tramontana su me si avventa
Vento che soffia
Ratto mi schiant

L'amor è morto
Erano amici che il vento porta
E c'era vento alla mia porta
Li portó via

trad genseki

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venerdì, novembre 21, 2008

Gilles de Rais

da Huysmans
traduzione e montaggio del testo di genseki

Come si può penetrare negli avvenimenti del Medioevo, quando nessuno è nemmeno capace di spiegare gli episodi più recenti, i sotterranei della Rivoluzione, della Comune, per esempio? Non resta dunque che fabbricare la propria visione, immaginarsi da sé le creature di un altro tempo, incarnarsi in esse, rivestire, se si può gli stracci delle loro apparenze, forgiarsi, infine, con dettagli abilmente scelti dei quadri d’insieme fallaci.
Gilles de Rais, formidabile satanista fu, nel XV° secolo, il più artista, il più squisito, il più crudele e il più scellerato degli uomini.
Il nome di Gilles resiste da quattro secoli soltanto grazie all’immensità dei vizi di cui è il simbolo. Tuttavia la difficoltà maggiore è quella di spiegare in che modo quest’uomo, che fu un capitano coraggioso e un buon cristiano, divenne improvisamente sacrilego e sadico, vile e crudele. Non c’è nessun esempio, che si sappia di un così repentino cambiamento di un’anima, per questo tutti i suoi biografie si stupiscono di una tale magia spirituale, di questa metamorfosi dell’anima operata con un colpo di bacchetta, come in teatro; i vizi di certo dovettero infiltrarsi in lui in modi di cui sono perdute le tracce attraverso peccati invisibili ignorati dalle cronache.
Gilles de Rais, la cui infanzia ci è ignota, nacque intorno al 1404 sui confini tra la Bretagna e l’Anjou, nel castello di Machecoul. Suo padre muore alla fine di ottobre del 1415; sua madre si risposa quasi subito con un Sire d’Estouville e lo abbandona insieme a suo fratello René; passa quindi sotto la tutela di suo nonno, Jean de Craon, Signore di Champtocé e di La Suze, “Uomo vecchio e anziano e di età molto avanzata” come riporrtano le cronache. Egli non è sorvegliato né diretto da questo vecchio bonario e distratto che si sbarazza di lui sposandolo con Catherine de Thouars, il 30 di Novembre del 1420.
La sua presenza alla corte del Delfino è attestata 5 anni dopo; i suoi contemporanei ce lo presentano come un uomo robusto e nervoso, d’una bellezza inebriante, di rara eleganza. Non abbiamo informazioni sul ruolo da lui svolto presso questa corte, ma si può supplire facilmente, immaginandosi l’arrivo di Gilles, il più ricco dei baroni francesi presso un re molto povero. In questo momento, infatti, Carlo VII° è ridotto allo stremo, non ha denaro, ed è privo di ogni prestigio e autorità è già molto se le città della Loira gli obbediscono; la situazione della Francia estenuata dai massacri, già devastata, qualche anno prima, dalla peste è spaventosa. Essa è scarificata fino a sanguinare, vuotata fino al midollo dall’Inghilterra che simile alla piovra leggendaria, il kraken, emerge dal mare e lancia oltre lo stretto, sulla Bretagna, la Normandia, una parte della Piccardia, l’Ile de France, tutto il Nord e il Centro fino a Orléans, i suoi tentacoli che non lasciano quando si sollevano che città inaridite, campagne morte. Gli appelli di Carlo che reclama sussidi, inventa esazioni, sollecita il pagamento delle tasse sono inutili. Le città sacheggiate, i campi abbandonati e ripopolati dai lupi, non possono soccorrere un Re di dubbia legittimità. Egli mendica vanamente qualche spicciolo. A Chinon, la sua piccola corte è una rete di intrighi che talvolta terminano con egli omicidi. Stanco d’essere braccato, vagamente al sicuro ddietro la Loira, Carlo e i suoi partigiani finiscono per consolarsi con orge esuberanti, dei disastri che continuano ad avvicinarsi; in questo regnare alla giornata, mentre i prestiti e le razzie rendono i banchetti opulenti e lunghe le sbronze, si finisce per dimenticarsi dell’allarme permanente e dei soprassalti e si soffaca il pensiero del domani annegandolo nel vino e palpando le puttane. Che cosa ci si poteva aspettare d’altra parte da un Re sonnolento e già sfiorito, di madre infame e padre folle. Foucquet, nel ritratto che si può vedere al Louvre lo dipinge, con un grugno da maiale, occhi da usuraio di campagna, labbra dolenti e lardose, colorito da castrato, sembra che Foucquet abbia voluto dipingere un prete cattivo raffreddato e dalla sbronza triste. Egli era l’uomo che aveva fatto assassinare Giovanni senza paura e cabbandonerà Giovanna D’Arco; e questo basta per giudicarlo. E’ chiaro che Gilles de Rais che aveva arruolato delle truppe a proprie spese fosse accolto a braccia aperte in questa corte. Certamente egli vi organizzò tornei, fu dai cortigiani e prestò ingenti somme al Re. Tuttavia, nonostante il suo successo non sembra ch’egli sia mai sprofondato come Carlo VII nell’egosmo ansioso e nel vizio; lo ritorviamo infatti, ben presto nell’Anjou e nel Maine che difende dagli Inglesi. Qua egli si dimostrò “Valente e ardito capitano”, come affermano le cronache, anche se schiacciato dalla superiorità numerica del nemico dovette fuggire.

Montaigne

Questa frase l'ho rubata al blog stanzas, senza permesso;´era irresistibile.
genseki

"Qui ne voit que j'ai pris une route par laquelle, sans cesse et sans travail, j'ira iautant qu'il y aura d'encre et de papier au monde?"
(Essais III,9, "De la vanité")

Mercedes Sosa - Alfonsina y el Mar

Sugestiones vegetales

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Alfonsina Storni

Suggestione di un salice

Eppure esiste una cittá di muschio
Dal cielo grigio che angeli verdi
Percorrono volando nel tramonto
Con ali chiuse di cristalli infranti
E freddi specchi nell'erba ai cui bordi
Chinate piangono le vedove lunghe
Del vento che di giallo va tingendosi
E il vetro rende vaghe al dondolarsi.
E un punto nello spazio di pendenti
Gerbidi d'acqua ed una bimba morta
Che va pensando su piedi di trifoglio
E una grotta che piove dolcemente
Batraci vegetali che si schiantano,
Foglie nascenti sopra il dolce limo.

trad. genseki

mercoledì, novembre 19, 2008

Odi come bramisce

Resta il fatto che le ultimissime parole di Rimbaud furono un'invocazione ad Allah. Il fatto. Da cui trarre le conseguenze che si vuole che siano. Quali? Quelle che furono e quelle che saranno.


Odi come bramisce
Accanto alle robinie
In aprile la fronda
Dei viridi legumi.

Netta nel suo vapore,
A Febo! Ora la scorgi
Che s'agita la testa
Dei santi d'altre ere...

Lungi da biche chiare
Da soglie e da bei tetti
I cari Antichi vogliono
Il filtro menzognero...

Ora non è feriale
Non è neppure astrale
La bruma che s'esala
Dall'effetto notturno.

Eppur, eppure restano
E Sicilia e Germania
In questa nebbia triste
E giustamente pallida.

*

trad genseki

Mamma da fidanzata

Mamma da fidanzata
Dai grandi occhi scontrosi
Dai capelli corvini
Dalla pelle brunita
Mamma da fidanzata
Restava cosí sola
Sicura di non valere
Il prezzo di uno sguardo
Nel suo dialetto raro
Nel dialetto perduto
Negli occhi le restava
Il riflesso del grano
Dei prati di lavanda
E della cittá rossa
Mamma da fidanzata
Non aveva illusioni
O forse le perdeva
Allo scender le scale
Mamma da fidanzata
Quantoquanto piangeva
Nessuno lo sapeva
Con le sue calze nuove
E tutte le carezze
Perdute per sfiducia
Mamma da fidanzata
Non l'ho mai conosciuta
Non l'ho piú ritrovata
Nel tempo s'é smarrita
Di un abbraccio negato.

genseki

martedì, novembre 18, 2008

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La madre

Sul trono del mare siede
Tra scrosci cromatici code di cavallo azzurre
Nodi verdi e porporini di ali sciolte
Trombe spente e chiavi del paradiso
Di rame e filamenti di quelli che furono intenti
Avventi forse a perdersi nell'attesa fastosa
Sul trono del mare siede
Che ha forma di conchiglia
Che ha forma di orecchia sveglia
Che ha forma di orecchia di madreperla
Che ascolta gli schiocchi delle lingue
Delle cime delle onde, delle dita dei morti scarni
Che i flutti limano e levigano
E che qualche bambino raccoglierá sulla spiaggia
Sotto forma di ciottolo liscio liscio lievemente iridato
Un frammento osseo, insomma -
Siede su un trono di fili elettrici celesti
Su un trono di zucchero filato scintillante
Siede su un trono di piume di pavone bianco
Di sogni di vergine che abbia divorato una crostata al limone
Siede su questo e su tutti i troni con tutte le mani che reggono tutti gli oggetti
Che stringono tutti i simboli
Che aprono tutte le credenze, tutte le madie, tutti i comó con il loro odore
Stagionati di lavanda
Siede su un trono vertiginosamente alto
Vertiginosamente altissimo una torre proboscide e fagiolo magico
Una torre da illustrazione di gulliver
Siede sul mare sui polmoni, siede, color carrubo
Schiantato dal fulmine
Siede
Sola con occhi dolci di rapace ubriaco di ampi cerchi
Su un campo di orzo
Con occhi di giovenca alimentata con foglie di artemisia
Siede
La Madre.
Da sempre a sempre

Lucian Blaga


Paradossi cinesi

Da: “L'eone dogmatico”

Menzionammo, in relazione con i commentari monisti di Sankara, i paradossi del concreto visti dal punto di vista dell'acategoriale metafisico. Nello stesso ordine di idee citiamo, inoltre, per la curiositá che presentano, i paradossi del pensatore cinese Hui Shi (IV sec a. C.) Eccone alcuni: “Una freccia in volo no è né in movimento né in rioposo”; “Il sole tramonta quando è allo zenit”. “Se qualcuno parte oggi per Yue, arriverá ieri”. “Una tartaruga è piú lunga di un serpente”, etc. In realtá Zenone aveva tentato di pensare logicamente il movimento, e, non potendolo fare se non in modo antinomico, negó la sua esistenza. La tesi di Zenone è l'espressione suprema del dominio della logica. Non cosí per Hui Shi. Egli si situa nel fondo trascendente delle cose, nel Tao. Dal trascendente, poi, apre una finestra sul nostro mondo concreto. Come il Tao la nicchia trascendente del fenomeno è senza spazio e senza tempo. Hui Shi sostiene con ragione, che il piano della trascendenza comporta che: “una freccia in volo non si trovi né in movimento né in riposo”, perché nel trascendente questi stati e questi modi di esistenza non si danno. Cosí nel trascendente senza lo spazio “il sole tramonta quando è allo zenit”, perché lá non vi è né occaso né zenit e le cose partecipano dell'onnipresenza del Tao. Una tartaruga è piú lunga di un serpente” perché sotto la specie del trascendente tutte le dimensioni sono illusorie. Tutte queste cineserie, rare e fragili, diventano comprensibili grazie alla trasposizione che divora le dimensioni nel Tao, nell'acategoriale.
Trad. genseki

Natura morta con rosa, limone aghi di pino e datteri

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lunedì, novembre 17, 2008

Al di lá della vita e della morte II

César Vallejo

Mi pare ancora di vederla – continuai singhiozzando – che non sapeva che cosa fare per il regalo cercando di tirarmi fuori un parere: - Ti ho visto, bugiardo; vuoi far credere che piangi mentre di nascosto ridi! E mi baciava piú che tutti voi, perché ero il piú piccino!
Al termine della veglia dolorosa Angelo mi parve di nuovo sfinito e come prima del lampo straordinariamente magro. Certo, dovevo aver sofferto una difficoltá visiva, motivata dal bagliore improvviso per trovare il suo aspetto risollevato e fresco come, naturalmente non poteva essere stato.
Ancora non dava segno di voler apparire l'aurora del giorno seguente, quando mi montai e partii per la fattorua, congedandomi da Angelo che restava ancora qualche giorno per gli affari che avevano motivato il suo arrivo a Santiago.
Finita la prima giornata di viaggio, mi accadde qualche cosa di inaudito. Nella locanda mi trovai piegato su un banco, riposando, e un'anziana della baracca che guardandomi, improvvisamente spaventata mi chiese compassionevolmente:
Che cosa si è fatto Signore? Ha la faccia insanguinata. Mio Dio!...
Saltai in piedi. E lo specchio mi confermó in effetti il volto macchiato di piccole chiazze di sangue secca. Un forte brivido mi scosse. Sangue? Da dove? Mi ero accostato al volto di Angelo mentre piangeva ... Ma ... No. No. Da dove veniva questo sangue? È facile comprendere il terrore e l'allarme che sorsero nel mioanimo con mille presentimenti. Nulla si puó paragonare con quella scossa del mio cuore. Mai troverò le parole adeguate ad esprimerla. Oggi stesso, mentrte scrivo nella mia stanza solitaria è presente quel vecchio sangue e la mia faccia unta con esso e quella vecchia e il viaggio e mio fratello che piange e che mia madre morta non bació e...
Ho dovuto interrompere la scrittura di queste righe, sono fuggito disperatamente verso il balcone. Tanto forte e sapventoso è il ricordo di quel mosteriososcarlatto ..,
O notte di incubo indimenticabile in quella capanna in cui l'immagine di mia madre, tra le spinte di fili strani, senza capo, che si rompevano solo a guardarli, si alternava a quella di mia Angelo che piangeva lacrime di rubino, per sempre!
Continuai il viaggio, Infine, dopo una settimana di trotto per cordigliere e terrecalde di montagna dopo aver attraversato il Marañon, una mattina, entrai nei tereni della fattoria. Lo spazio nuvoloso riverberava irregolarmente di lontani tuoni e fugaci schiarite.
Smontai proprio davanti al palo per ferrare i cavalli del portone della casa che da sulla strada. Cani latrarono nella calma fuliginosa della montagna triste e pacificata. Dopo quanto tempo ritornavo a questa casa solitaria, piantata nel ventre profondissimo del bosco!
Una voce che da dentro chiamava i mastini per contenerli, tra il garrulo allarme degli uccelli domestici sembró essere stranamente fiutata dallo stanco e timoroso solipede che starnutó piú volte, piego le orecchie quasi in orizzontale in avanti, e, impennandosi, cercó di togliermi le redini dalle mani per fuggire via. L'enorme portone era chiuso. Si sarebbe detto che la toccai in modo quasi meccanico. Poi quella stessa voce continuó a vibrare dall'altro lato del muro, e venne un momento in cui al separarsi, con forza esplosiva spaventevole, dei duie battenti del portale, questo timbro boccale venne a pararsi propio nei miei ventisei anni totali e mi lasció alla punta del'eternitá. Le porte si spalancarono.
Meditate brevemente s questo incredibile avvenimento, che spezza le leggi della vita e della morte, che supera ogni possibilitá; parola di speranza e di fede tra l'assurdo e l'infinito, innegabile sconnessione di luogo e di tempo; nebulosa che fa piangere di disarmoniche, inconoscibili armonie.
Mia mi si fece incontro per accogliermi!
Figlio mio – escamó stupefatta -Tu vivo? Sei resuscitato? Che cosa vedo, Signore dei cieli?
Mia madre! Mia madre in anima e corpo! Viva! Con tanta vita che oggi penso che sentii, alla sua presenza, affacciarsi al mio naso due desolati granelli di decrepitezza che poi finirono per cadere e pesare sul mio cuore fino a curvarmi senilmente, come se per un baratto fantastico del destino mia madre fosse appena nata e io, invece provenissi da tempi tanto antichi, che mi davano un senso di paternitá relativamente a lei.
Si. Mia madre stava li. Vestita di nero unanime. Viva. Non morta. Era possibile? No. Non loera. In nessun modo. Quella signora non era mia madre. Non poteva esserlo. E poi che che cosa aveva detto quando mi aveva visto? Mi credeva morto?
Figlio dell'anima mia – scoppió a singhiozzare mia madre e corse a stringermi contro il suo seno, con quella frenesia e quel pianto di gioia con i quali sempre mi protesse in tutti i miei ritorni e in tutte le mie partenze.
Io mi ero fatto come di pietra. La vidi gettarmi al collo le braccia adorate, baciarmi avidamente e come se volesse divorarmi e singhiozzare le sue coccole e quelle carezze che giammai torneranno a piovere nelle mie viscere. Poi con entrambe le mani afferró il mio volto impassibile e mi fissó cosí faccia a faccia, sfinendomi di domande. Io, dopo alcuni secondi, scoppiai a piangere ma senza cambiare di espressione e neppure di atteggiamento: le mie lacrime parevano acqua pura che sgorgasse dalle pupille di una statua.
Infine raccolsi tuute le luci disperse del mio spirito. Mi ritiri di alcuni passi. E lasciai comparire, Mio Dio! Questa maternitá che non volevo ricevere nel cuore e disconoscevo e temevo; la feci comparire davanti a non so che di sacro, sconosciuto per me fino a questo momento, e lanciai un grido silenzioso di due fili a tutta la sua presenza, con lo stesso ritmi del martello che si avvicina e si allontana dall'incudine, con cui il figlio lancia il suo primo gemito, all'essere strappato dal ventre della madre, econ cui pare indicarle che è vivo e darle allo stesso tempo un segnale con il quale riconoscersi entrambi per i secoli dei secoli. Gemetti fuori di me:
Mai! Mai! Mia madre è morta da tempo, non puó essere...
Ella si alzó spaventata davanti alle mie parole e come se dubitasse che fossi proprio io. Poi riprese a stringermi tra le braccia e tutti e due continuammo a piangere un pianto quale mai pianse e neppure piangerá nessun essere vivente.
Certo – ripetevo – Mia madre morí. Anche mio fratello Angelo lo sa.
E a questo punto le macchie di sangue che avvertivo sul mio volto, mi attraversarono la mente come segni di un altro mondo.
-Ma figlio del mio cuore! - sussurrava lei quasi senza forze – Sei mio figlio morto, quello che io stessa ho visto nella bara? Sei tu! Credo in Dio! Vieni tra le mie braccia! Ma che? ... Non vedi che sono tua madre? Guardami! Guardami! Toccami! Non ci credi, forse?
La contemplai ancora. Toccai la sua adorabile testolina imbancata. Nulla. Non credevo nulla.
Certo, ti vedo – le risposi – ti tocco – Ma non credo. Non puó capitare una cosa tanto impossibile.
E scoppiai a ridere con tutte le mie forze!

trad. genseki

Escrituras

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Perché Rimbaud?


Perché Rimbaud, dunque? Perché egli ci ha trascinato su quell'alta torre dove risuonano come bronzi sonori gli inni di Ambrogio, da dove il prato e le sue erbe si svolgono come filamenti di incensi luminosi su su fino alle stelle invisibili in pieno giorno.
E la tristezza della radura, ci insegnó, e l'allegria del volo dei corvi, il loro richiamo che ci saluta come vecchi amici che si incontrano inaspettatamente alla porta di una locanda. Non ci sono piú locande. Si puó ancora trovare la campagna di Novembre con i grandi, misteriosi cappelli delle Lepiote, archetipi di ombrelli sacredotali. E la sete che sale dal mormorio delle acque verdi dei torrentelli, una sete che nessun uragano di foglie potrá mai placare.
Cosí Rimbaud ha sigillato la nostra vita in uno scrigno di cuoio fulbé con un fiore appassito di jacarandá.
E con stupore la ritroviamo adesso in questa forma inaspettata. Pur sempre fedele. Tanto piú fedele quanto piú dimenticata.

Eccola! Ritrovata
Che? - L'eternitá:
Il mare che si mescola
Col sole.

Anima sentinella
Il credo mormoriamo
Del nulla della notte
E del giorno infiammato.

Da tutti i voti umani
Dagli slanci comuni
Eccoti svincolata
Volando via alla guisa.

Perché da voi soltanto
O braci vellutate
Il Dovere s'esala
Senza mai dire basta.

É morta la speranza
Nessuna epifania
la scienza e la pazienza
Son supplizio sicuro.

Eccola ritrovata
Che? - L'eternitá
Ove il mare
Si mescola col sole.
genseki

giovedì, novembre 13, 2008

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Cerco una malattia che non mi uccida

Carilda Oliver Labra

Cerco una malattia che non mi uccida
Ma il dolore costante della vita;
Giusto per fare finta di dormire
Sotto il tremore greve della brina

Ricerco un'acqua cosmica che lavi
La terribile lacrima che ossida;
Cerco morir distinto e vo' ferita
Da una pena volgare a tutti ignota

Congedando mi vo' con un sorriso
Di grazia e di sventura luminosa
Con l'orrore segreto nel midollo

Resto in silenzio nel verso e nella prosa
Perché s'incida nella pietra dura
Questa donna morí d'esser gioiosa.

Trad. genseki

Ruben Dario

Il testo seguente è la traduzione di Tutecotzimí di Ruben Dario


Ê il mattino magico dellìnfiammato tropico
Come un grasso serpente avanza il fiume idropico
Nelle cui acque glauche le foglie secche vanno
Giunto alla pozza verde sopra le pietre fosche
Rubin, cristallo zaffiro, le susuranti mosche
del vapor della terra van perforando il tulle
E intatta nel vestito d'elegante velluto
movendo l'aria al fango con duplice ventaglio
l'estatica farfalla sta in preda di un'abbaglio
Le selve fosche vibrano con il calor del giorno
Il dindo nero lancia il suo richiamo intorno
e il grillo assorda il verde canneto fitto fitto
un uccello del bosco intona un suon di corno
prolunga la cigala il suo frinire eterno
Il suo sibilo acuto ripete il picchio verde.
I maestosi avogado invade lo scoiattolo
la sua coda è piumosa e l'cchiolino brilla
rode coi denti i frutti dellalbero materno
e con un volo rapido che le vespe scompiglia
passa monello e oscuro il gracchio ben caudato
Chiamando il suo compagno con un aspro concerto
Respirano ampiamente i boschi primitivi
al piú sottil rumore fuggono i quetzal schivi
sopra l'aristolochi volteggia il colibrí
e presso il parassita lussuoso sta l'iguana
la misteriosa figlia della montagna indiana
che anida il teutl occulto del sacro teocalí.
Trad. genseki

mercoledì, novembre 12, 2008

Omaggio a Yma Sumac

Ruben Dario

Tutecotzimi

Es la mñanana magica del encendido trópico
Como una gran serpiente camina el rio hidrópico
En cuyas aguas glaucas las hojas secas van.
...
Junto al verdoso charco , sobre las piedras toscas.
Rubí, cristal, zafiro, las susurrantes moscas
Del vaho de la tierra pasan criblando el tul
E intacta con su veste de terciopelo rico,
Abanicando el lodo con su doble abanico,
Está como extasiada la mariposa azul.
Las selvas foscas vibran con el calor del día;
Al viento el pavo negro su grito agudo fía,
Y el grillo aturde el verde, túpido carrizal;
Un pájaro del bosque remeda un son de cuerno;
Prolonga la cigarra su chincharrar eterno
Y el grito de su pito repite el pito-real.
Los altos aguacates invade ágil la ardilla,
Su cola es un plumero, su ojo pequeño brilla,
Sus dientes llueven frutas del árbol productor;
con su vuelo rápido que espanta el avispero,
pasa el bribón y ocuro sante-clarinero
Llamndo al compañero con áspero clamor.
Su vasto aliento lanzan los bosques primitivos,
Vuelan al menor ruido los quetzales esquivos,
Sobre la aristoloquia revuela el colibrí;
Y junto ala parasita lujosa está la iguana,
Como hija misteriosa de la montaña indiana
Que anida el teutl oculto del sacro teocalí.

I corvi

Signore quando cala il freddo sui prati
E nei borghi sgomenti
I lunghi angelus si sono spenti
Lascia che si gettino dal cielo
Sulla natura sfiorita
I cari corvi delizia della vita.

Armata rara di strida severe
I venti freddi vi assaltano il nido
Lungo il corso dei fiumi ingialliti
Sulle strade dai vecchi calvari
Sui fossati e le buche scendete,
Ora dispersi, ora a schiere.

A migliaia sui campi di Francia
Dove dormono i morti recenti,
Volteggiate, vi prego, nell'inverno
Perché a loro pensi il viandante
Sii banditore del dovere
Funereo uccello dalle piume nere!

Santi del cielo sulla quercia piú alta
Pennone sperso nel vespro incantato
Concedete le capinere di maggio
Solo a coloro che il bosco incatena,
Nell'erba e che non posono fuggire,
La sconfitta senza avvenire.

trad genseki

martedì, novembre 11, 2008

Natura morta con legno, rami, ciottoli e una rosa appassita

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Lucian Blaga

Paradossi nella metafisica

I piú istruttivi paradossi metafisici li troviamo nella filosofia indiana. L'inno arcaico della creazione (Rgveda) da al trascendente attributi escludenti: ma si tratta in questo caso, piuttosto, di un uso metaforico delle parole, di antinomie nel senso figurato, ...
Nei testi Brahmana (cronologicamente posteriori ai Veda) e poi nelle Upanishad appaiono le prime formule metafisiche che possono, senza dubbio, essere considerate tali. Si riferiscono all'esistenza divina, all'anima, e alla relazione tra questi termini.
I “grandi sistemi” e i “commenti” si sforzano di stabilire, con tutto l'apparato richiesto dalle difficoltá del tema, in che modo si deve intendere questa relazione vagamente enunciata nei testi Brahmana e Upanishad, in modo impreciso e confuso. (I pensatori indiani si considerano niente di piú che interpreti di un patrimonio anonimo di idee). Specialmente l'ultimo gruppo di Sutra causó molte discussioni e molte divergenze di opinione. In questi testi si afferma che “Jiva”, l'anima individuale è una “parte” (amsa) del Brahma (Dio). Gli stessi scritti sostengono che il Brahma “non prova piacere e non soffre”. Si stabilisce cosí, insieme a una identitá (Jiva, che prova piacere e soffre, è una parte del Brahma) anche una differenza (Il Brahma non prova piacere e non soffre). L'equivoco suscitó esegesi appasionanti. A partire da qui sorgono in un modo o nell'altro le differenze fondamentali tra i principali sistemi metafisici dell'India. Sankara, il piú conosciuto di questi interpreti, crede che la relazione tra l'anima individuale e il Brahma debba essere intesa nel modo seguente: c´è un Brahma acategoriale, cioè superiore a qualunque attributo, e questo Brahma- Dio acategoriale è tuttoo quello che esiste. L'anima individuale è una semplice illusione, un semplice riflesso del Brahma, e quindi non è identico a questo e neppure differente da questo. Tra i metafisici di tutti i tempi Sankara è, con Plotino, colui che afferma nel modo piú forte che Dio è acategoriale (indeterminabile per concetti). Sembra, tuttavia, che proprio il commento di Sankara, cosí nitido e in fondo così logico, è quello meno fedele ai testi che discute. Altri autori meno conosciuti in Europa come Ramanuya, Nimbarka, Vallabha si opponqgono decisamente a questa maniera di vedere la relazione tra Dio e l'anima individuale. Cercano, quindi, di caratterizzare Brahma non solo attraverso le negazioni, ma anche attraverso affermazioni. Vallabha,per esempio, sostiene il “carattere duplice” di Brahma; il che significa: relativamente a Brahma si puó dire allo stesso tempo che possiede tutti gli attributi, come anche che non li possiede. Commenti analoghi cercano anche una relazione di carattere duplice tra Brahma e Jiva. Si giunge così ad affremare, che l'anima individuale, senza essere un'illusione, è e non è identico a Brahma.
Dobbiamo analizzare piú da vicino queste affermazioni.
Dobbiamo analizzare piú da vicino questi paradossi.
Dal punto di vista di Sankara, possiamo esprimere il seguente paradosso: “Io sono tu”. Il paradosso di questa identitá si risolve logicamente con l'affermazione di Brahma come sostrato unico di tutte le cose. Io sono Brahma, tu sei Brahma. Poi io sono tu (peró siccome Brahma è il solo esistente, io e te siamo solo riflrssi illusori di lui). Il trascendnete acategoriale di Sankara non è e non vuol essere paradossale; tuttavia considerato dal punto di vista dal punto di vista del trascendente considerato come l'unicoesistente, sorgono alcuni paradossi; “Io sono tu” è uno di questi. Questi paradossi sono perfettamente ntellegibili e si risolvono in maniera logica se aderiamo alla tresi monista di Sankara, se affermiamo l'idea di un Brahma acategoriale e il carattere illusorio di tutte le cose concrete.
Villabha parla del Brahma in modo paradossale, lo definisce antiteticamente (Brahma possiede e non possiede tutti gli attributi). Tuttavia Villabha puó annunciare il suo paradosso solo facendo scivolare il senso che da all'idea di Brahma. Egli si rappresenta Brahma ora come ultima espressione astratta del'esistenza, ora come totalitá dell'esistenza. Come la piú alta astrazione tratta dall'esperienza cosmica Brahma è il recipiente esistenziale vuotato di ogni contenuto. Come totalitá dell'esperienza cosmica, Brahma è il recipiente esistenziale ripieno di tutti i fatti del mondo. Come suprema astrazione Brhama si riduce all'acategoriale; come totalitá dell'esistenza Brahma acquisisce tutti gli attributi. In modo che anche il paradosso di Vallabha si risolve logicamente
Su Brahma (acategoriale, trascendente) si puó parlare antinomicamente anche nel senso che gli si danno attributi contrari, ugualmente insufficienti (per esepmio grande e piccolo, oscuro e luminoso,buono e cattivo, etc.). Il procedimento suppone, prima di tutto che nessun concetto tratto dal mondo sensibile è abbastanza capace di caratterizzare l'acategoriale. L'antinomia ha in questo caso una funzione preponderantemente metaforica.
Tutti i commentatori si sono affannati, come si è visto, per risolvere logicamente le affermazioni euivoche e paradossali sul Brahma contenute nei Sutra e in altri testi, che non sono mai stati presi in considerazione dogmaticamente. I Sutra sostengono che l'anima individuale è una parte di Brahma, e nello stesso tempo è diversa da lui. Per risolvere l'equivoco ci sono due soluzioni logiche possibili, insistentemente proposte da autori diversi:
a) L'anima individuale è illusoria (semplice riflessodi Brahma).
b) L'anima non è identica a Brahma. Lo è nel senso astratto, (Brahma è il principio dell'anima individuale; l'anima individuale quanto piú si spoglia di tutto ciò che è accidentale, di tutti i tratti che non costituiscono la sua essenza, tanto piú si identifica con Brahma, perché lui è Brahma), non lo è in quello concreto. (L'anima individuale nella sua pienezza concreta, cioè, l'anima identificata con tutte le sue caratteristiche essenziali, supera il suo proprio principio).
I testi dei Sutra avrebbero accettato anche una genuina formula dogmatica come: le anime individuali sono reali, emanano da Brahma, ma restano unite e sostanzialmente identiche a Brahma.
Nessun pensatore indiano osó la formulazione dogmatica, anche quando avevano in mano tutti gli elementi necessari per questa avventura spirituale. Gli interpreti indiani, dando prova di una certa prudenza, coltivano al massimo la antinomia di alcuni termini insufficienti per l'espressione dell'acategoriale (punto 3), o il paradosso che risulta dalla ambiguitá o dall'elasticitá di senso del termine “Brahma” (punto 2).
trad. genseki

giovedì, novembre 06, 2008

Non accennava a placarsi

Non accennava a placarsi nemmeno dopo il diluvio
Di accenti e di sdrucciole
Il grande poema del mare e delle lacrime
Al nostro udito cantato come da cava conchiglia
Prudentemente applicata al padiglione aureo
Non accennava a dissipare il suo scrosciante patrimonio
Nelle fauci fameliche del silenzio
Anzi lacrime sfreriche e iridate correvano
Scivolavano rotolavano in tutte le direzioni
e su tutti i corpi
Facevano rabbrividire tutte le cuti
Come il vento una foresta di mimose nel mese di gennaio
Cuti scosse dal vapore caldo del mare
Dalla carezza puntuale delle lacrime
O mare gran cavitá palato di tutti i silenzi
O mare scrigno di tutte le voci
O mare ragnatela cangiante di tutte le relazioni
O mare
Mare lacrimarum
Mare delle nostre stoviglie sbattute freneticamente
Le une contro le altre
Mare primordiale forgia del metallo
Mare di mercurio
Lacrima delle vergini verdi
Della luna oscena delle vergini
Mare delle lune verginali
Mare cavo
Mare cavo
Grotta di profondo bramire

Le lacrime ci separano dal mare

Lacrime ci separano dal mare
Lacrime amare rotolano sul mare
Lacrime perle tramano reti da mare a mare
Trascinano schiuma e cuori
Onde e ricami, bianchezza e lenzuola
Sul mare
Lo avvolgono come un immenso corpo morto
Convulso azzurro verde bronzeo sonoro
Come un corpo cavo che freme nel profondo
Dentro di se, ma infinitamente dentro trema e ronza
Apparentemente immobile nel suo lenzuolo
Nella bianchezza nel vapore tessuto da voli
Filmati e cantati mille volte
Di Albatros per esempio, i voli
Corpo che non si disfa ma si fa sempre piú cavo
Si amplia all'interno del proprio interno
S'azzurra di lacrime dimentiche della propria pelle
Da mare a mare piante
D'occhio in occhio asciugate
Come sempre come oggi
come quando come mai amare
Proprio come lacrimate goccia a goccia
Sul mare.

mercoledì, novembre 05, 2008

Perché Rimbaud?


Rimbaud

Il Lupo gridava

Gridava il lupo tra il fogliame
Sputando le belle piume
Del banchetto di pollame:
Come lui mi consumo

La frutta, l'insalata
Son per il raccolto perfette
Ma il ragno della siepe
Mangia solo violette

Ah dormire! Bollire
Sull'ara di Salomone
Scorre il brodo sulla salsa
Si confonde col Cedrone.

trad genseki

martedì, novembre 04, 2008

Gaspard de la nuit



Louis Bertrand


Il Muratore


Guardate questi bastioni, questi contrafforti: si direbbero costruiti per l'eternitá
Schiller
Guglielmo Tell


Il muratore Abraham Knupfer canta, la cazzuola in mano, tra le impalcature aeree, cosí in alto che leggendo i versi gotici del bordone egli ha sotto i piedi la chiesa dalle trenta arcate a sesto acuto e la cittá dalle trenta chiese.


Vede la tarasche di pietra vomitare l'acqua delle ardesie nell'abisso confuso delle gallerie, delle finestre, dei pinnacoli, dei pennacchi, delle torrette, dei tetti, delle torrette, dei muri che macchia d'un punto grigio l'ala distesa e immobile del falchetto.


Vede le fortificazioni intagliate come stelle, la cittadella che si abbuffa come una gallina in un mastello, i cortili dei palazzi ove il sole prosciuga le fontane e i chiostri dei monasteri ove l'ombra ruota attorno ai pilastri.


Le truppe imperiali sono alloggiate nei sobborghi. Laggiú un cavalleggero batte il tamburo. Abraham Knupfer distingue il suo tricorno con le cordelline di lana rossa, la coccarda attraversata da una spighetta e il codino trattenuto da un nastro.


E vede anche, la soldataglia che nel parco imbandierato con frasche enormi, su ampli prati smeraldini crivella a pallettoni d'archibugio un uccello di legno fissato alla punta
d'un albero di calendimaggio.


E la sera, quando la navata armoniosa della cattedrale dorme con le braccia crocifisse, dall'alto della scala vide un villaggio bruciato da uomini d'arme ardere come una cometa nel firmamento.


Trad. genseki

Natura morta con rose rosmarino e limoni

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Chaumont

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lunedì, novembre 03, 2008

La comandante


Racconto di Stephan Hermlin


Il 17 giugno del 1953, subito dopo mezzogiorno due uomini entrarono nella cella di una certa Hedwig Weber, nella prigione di stato di Saalstedt. E, dopo che ella ebbe chiarito che scontava una pena di 15 anni per crimini contro l'umanità, le comunicarono con queste parole: "E' di gente come lei che abbiamo bisogno", che era di nuovo libera.
La sera precedente, la prostituta e infanticida Rallmann, che occupava la cella di sopra, la chiamò alla finestra con il segnale concordato. La Weber si era arrampicata fino alla finestra e aveva udito sussurrare che in città si scioperava. Volle domandare maggiori informazioni ma la Rallmann era già saltata via. La mattina, durante l'ora d'aria, le erano giunti per la prima volta echi di canti e di grida. Pigramente, controvoglia, aveva cercato di ricordare di che ricorrenza si potesse trattare, ma non le venne in mente nulla, e per forza! Quelli non facevano che inventare nuove feste. Mentre stava in piedi davanti ai due uomini le sembrò che l'ora d'aria, quel giorno, fosse stata più breve del solito. Un paio di ore dopo aveva di nuovo udito il suono di molte voci, molto più vicine del solito, più penetranti, determinate, senza tuttavia che le parole fossero chiare. La Weber aveva già scontato, un paio di anni prima quattro mesi di prigione per furto. Ora, secondo il calendario che stava sulla parete era cominciata la sua ventottesima settimana. Abbastanza per essere abituata ai rumori del carcere.
L'ala dell'istitituto di pena riservata alle donne si trovava abbastanza lontana dalla strada. Ciò che occasionalmente vi penetrava dall'esterno, non poteva riconoscerlo con chiarezza, in sé la cosa non aveva importanza, era solo la causa che faceva saltare, nel suo pensiero qualche immagine, così come si salta su di un treno in corsa: non c'era ragione di muoversi, quando si era dentro, erano le cose a saltarti addosso. Poi sognava, sogni selvaggi pieni di desideri, ma senza scopo, senza fede. Anche quella mattina non era cambiato niente, finché la Rallmann non l'aveva di nuovo chiamata alla finestra: vedeva del fumo. La Weber non poteva vedere quel fumo. Tirava un caldo e leggero vento da sud, il sole ricacciava indietro il fumo dalla fabbrica di pompe. Il fumo era in lei, era una nebbia che si espandeva, si espandeva in lei, udiva passi affrettati nei corridoi e colpi soffocati da sotto, tra il rumore della folla. Poi da lontano giunse un grido, che la Weber registrò freddamente, un grido inumano, quale solo un uomo può lanciare.
Fino a quel momento le celle erano rimaste in silenzio. Poi cominciò un vocìo, forte, affrettato, con risa squillanti; si faceva più vicino con i passi e l'aprirsi delle porte. Poi fu lo stridore dei catenacci, la Weber vide quei due uomini. Quello che si era informato dei motivi della sua pena era giovane, carino, robusto. Dell'altro, che era appena un po' più vecchio, notò appena lo sguardo che aveva incrociato il suo, fuggevolmente, mentre rispondeva. Di solito, lo sguardo vagava sempre intorno al taglio dei capelli, ma con gente con quello sguardo lì c'era poco da fidarsi.
I due stavano sulla soglia; portavano berretti baschi e occhiali da sole, dietro di loro si vedevano alcune prigioniere allontanarsi di corsa scendendo per il corridoio. Riconobbe la Inge Gruetzner del piano di sopra, che le strizzò allegramente l'occhio sopra le spalle dei due uomini per poi scomparire. Nella Weber iniziò la corsa folle dei vorrei crederci ma non posso.. La nebbia che in lei si espandeva e si gonfiava era una selvaggia, disordinata voglia di urlare, di impazzare, di rompere qualche cosa. Quegli uomini dicevano che a Berlino e dappertutto stavano succedendo cose grosse, il governo era rovesciato, si andava creando una amministrazione insurrezionale, gli amici erano già in movimento.
E i russi? -
I russi non vogliono fare la guerra per Ulbricht -, disse quello carino e osservava, fischiettando la parete, come se ci fosse uin essa qualche cosa da scoprire.
Se ne ritornano indietro, alla Vistola.
Potremo aver bisogno di gente come lei -, disse quello più anziano.
Lei deve entrare nella squadra di comando di Saalstedt, mi par già di vedere che cercheranno di strozzarci. Abbiamo bisogno di gente con esperienza e con convinzione -.
La Weber disse attraverso la sua nebbia: - Dite la verità, davvero sono libera? - I due scoppiarono a ridere.
La Weber udiva il rumore nei corridoi e sulla strada, ed era come se di colpo udisse una musica quasi dimenticata, richiami di fischi sul crepitio dei tamburi che dirigevano la marcia successiva, e questa musica era sommersa nel tonante Heil che rimbalzava di strada in strada e che la traeva in quel momento fuori dalla sua nebbia. Rivedeva chiaramente e con indifferenza i sette mesi in quella cella in cui avrebbe dovuto trascorrere quindici anni e i sette anni prima di quei sette mesi, gonfi di paura, di dissimulazioni, di disperazione, di inesprimibile odio verso tutti quelli che aveva ritenuto inferiori e che ora vedeva sopra di sé, per tutta quella gente nuova nell'amministrazione e nei giornali, per le loro bandiere, manifestazioni e striscioni. Tutto quel tempo era stato un incubo con minacce sconfinate, non delimitabili, dalle quali non si poteva fuggire perché qualche cosa nel profondo non credeva alla possibilità di una fuga, di un mutamento. Non aveva più frequentato le vecchie conoscenze. Udiva soltanto, presso un conoscente, i bollettini di ricerca del gruppo di lotta. Aveva udito uno o due nomi che conosceva da prima. Un giorno aveva udito il proprio: - Ricercata la funzionaria Hedwig Weber, vista per l'ultima volta nel marzo 1945 a Fuerstemberg - . Si era quasi tradita. Erano anche astuti, dicevano infatti Fuerstenberg che è vicino a Ravensbrueck.
Un paio di volte aveva anche cercato di lavorare in fabbrica, ne aveva subito avuto abbastanza, però, della gente e anche del lavoro. I documenti falsi, che portatvano il nome di Helga Shmidt, la legavano a un passato fatto di migliaia di piccole cose che ignorava del tutto. Aveva avuto storie con uomini, per passare il tempo. A Magdeburgo aveva conosciuto uno che le ricordava l'Obersharfuhrer Worringer, con cui aveva avuto una relazione a Ravensbrueck.
Quando, dopo il furto di un rotolo di filo di rame fu condannata a quattro mesi, fu tranquilla per la prima volta, nessuno poteva più farle domande, non doveva più temere di essere riconosciuta da qualcuno per strada. Dopo questo suo padre le aveva scritto una lettera da Hannover - là nessuno si preoccupava del passato di uno, al contrario, l'aver lavorato nell'apparato di sicurezza del Reich, era per la giustizia adirittura una referenza, lui non poteva lamentarsi, ma lei non doveva ancora raggiungerlo, aveva ancora difficoltà con una casa di nuova costruzione.
Ne aveva abbastanza di questa vita, con le camicie azzurre e tutto il meccanismo delle liste di sottoscrizione e la cultura e le facoltà e le case per le ferie e la polizia popolare sui suoi camion e tutto il traffico per uno straccio di biancheria che risultava proprio introvabile, e soprattutto non ne poteva più di andare per la strada e sedere nei caffè dove doveva stare sempre attenta a non dare nell'occhio, a motrarsi soprattutto di profilo, ne era così esacerbata che pensò seriamente, di partire, semplicemente, per Hannover, se non avesse temuto di essere cercata là ancor prima che qua dove nessuno più sospettava che si trovasse. Poi era accaduto quello che lei avave mille volte visto scorrere davanti agli occhi e che proprio per questo aveva finito per ritenere impossibile: un ex-prigioniero l'aveva riconosciuta a Saalstedt, per la strada, mentre usciva da un negozio, era stata arrestata e condannata a 15 anni di prigione.
In quel momento la Weber comprese che l'incubo non sarebbe durato eternamente e che quelli che stavano in alto sarebbero ritornati in alto. Era così che doveva andare a finire. Dovette sorridere quando si accorse che, involontariamente, la sua mano, forse da un po' di tempo, compiva un gesto abituale, che le dava fiducia: sferzava con un frustino invisibile il gambale di un invisibile stivale.
Può fare pieno affidamento su Fiorellino. Lui sa che cosa ci giochiamo -, disse quello carino, - era ieri a Zehlendorf. E' in grado di sentir crescere l'erba, per questo lo chiamiamo Fiorellino -. Sorrise lievemente.
Mi sembra che ognuno di noi possa fidarsi di tutti gli altri -, disse l'uomo chiamato Fiorellino con modestia.
Soprattutto deve mettersi addosso qualcosa d'altro, così da troppo nell'occhio. Possiamo cercarle qualche cosa in una boutique. Oggi è gratis -. Si scostò dalla porta per lasciare passare la Weber.
Sulla prima rampa di scale giaceva la sorvegliante Helmke con il volto massacrato. Respirava ancora.
Doveva essere una delle peggiori torturatrici -, disse quello carino passandole davanti.
La Weber non era mai stata torturata, nessuno lo era mai stato a Saalstedt. Questo la Weber non era mai riuscito a capirlo e proprio per questo disse: - Boh, e se… - ma subito notó che Fiorellino le aveva lanciato uno sguardo obliquo. Quel uomo poteva ridere senza contrare il volto. Lo sguardo diceva: noi due ci capiamo già… La Weber sentì come un senso di protezione. Il carcere era quasi vuoto, ora. Da qualche parte qualcuno aveva alzato al massimo una radio.
Verrebbe voglia di stare tutto il giorno accanto alla radio -, disse Fiorellino, - c'è un'edizione speciale dopo l'altra -.
La Weber si ricordava di come avevano festeggiatola presa di Parigi e poi quella di Smolensk e di Simferopol e di come tutti la chiamassero Nester… Non devo pensare a queste cose, pensò.
Sentiva l'urgenza di dire a qualcuno che cosa le era capitato. Non le venne in mente nessuno. Forse Worringer, ma era scomparso come un miraggio; qualcuno le aveva detto che si trovava in Argentina. Pensò a suo padre ad Hannover.
- Aspettate un attimo, devo scrivere una lettera -. Entrarono in un'osteria che aveva la porta aperta. C'era una macchina da scrivare accanto a una sedia rovesciata, senza spalliera.


trad genseki

Eminescu

Il lago

Il Lago celeste tra i boschi
Ricoprono gialle ninfee
S’increspa in anelli d’argento
E culla una piccola barca

Ne vo’ percorrendo le sponde
Con passi impazienti in attesa
Ch'ella apparsa dal canneto
Mi si getti tra le braccia

Poi montiamo sulla barca
E ci inebria il suon dell’acqua
Il timone lascio andare
E mi sfuggono via i remi

Nell’incanto navighiamo
Alla luce della luna
Il canneto trema al vento
Ondeggiando canta l’acqua

Ma non giunge, solitario
Io sospiro, soffro invano
Lungo il bel lago celeste
Ricoperto di ninfee.

Trad. genseki

Botanica

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Botanica

Orobanche carbone
Mozzicone di primavera
perfora la terra rossa
il tuo stelo bruciato
fossile di altre rugiade
di una carezza
delle dita di ragno della pioggia.

*

Artritici steli del cappero
graffiano la sabbia
Un fiore su un una pianta-scorpione
Come un diadema indecifrabile
sigilla la sete.

giovedì, ottobre 30, 2008

Al di lá della vita e della morte


Le righe che seguono sono la prima parte della sola traduzione italiana, credo, di Al di là della vita e della morte di César Vallejo.

ganseki
Brughiere di jara immobili, vento legato a ogni picciolo amputato della bacca pulita che in lui gravita. Lussuria morta sulle colline onfaloidi del monte d'estate. Aspetta. No, non deve essere cosí. Cantiamo un'altra volta.

Il mio cavallo avanzava proprio da quelle parti. Dopo undici anni di assenza mi avvicinavo finalmente a Santiago, il mio paese natale. Il povero irrazionale avanzava, e, io, dal piú profondo del mio essere fino alle mie dita esauste, passando forse per quelle stesse redini ben strette, per le orecchie da quadrupede attente, e ritornando indietro attraverso l'acciottolio degli zoccoli che sembravano danzare sul posto, in misteriose evoluzioni como misurando a tentoni la strada e l'incognito, piangevo mia madre morta due anni prima che non avrebbe dovuto attendere ora il ritorno del figliolo traviato e vagabondo. Tutta la regione, il bel tempo, il color di mietura della sera di limone, e anche qualche casa colonica che la mia anima cominciava a riconoscere, tutto contribuiva ad un'incipiente estasi filiale, e quasi potevano corrugarmisi le labbra per urgare il capezzolo eternamente sempre latteo di mia madre, si sempre latteo, anche oltre la morte.
Con lei, di certo, erao passato di li da bambino. Si, certo. Ma no. Non fu con me ch'ella viaggió per queste lande. Ero troppo piccolo allora. Fu con mio padre e quanti anni fa! Ufff... Era luglio anche allora, intorno alla festa di Santiago, papá e mamma andavano sulle loro cavalcature, lui stava davanti. Il sentiero reale. Poi di colpo mio padre che aveva appena evitato un urto contro un agave inopinato da una curva:

- Attenzione! ... Signora.

Ma la mamma non ebbe tempo e fu disarcionata e cadde sulle pietre del sentiero. La riportarono in paese in barella. Io piangevo molto per mia madre e non mi dicevano che cosa le era successo. Guarí. La veglia della festa era allegra e rideva. Aveva lasciato il letto e tutto era cosí bello. E io non piangevo piú per mia madre.
Ma adesso si, adesso piangevo anche di piú ricordandola cosí, malata, prostrata, che mi voleva ancora piú bene e mi coccolava di piú e mi dava biscotti tirandoli fuori da sotto il cuscino o dal comó. Si, piangevo ancora di piú, ora, avvicinandomi a Santiago, dove solo la avrei trovata morta, seppelita sotto le brassicacee mature e rumorose di un povero cimitero.
Mia madre era morta due anni fa. La prima notizia della sua morte la ricevetti a Lima, dove seppi anche che mio padre e i miei fratelli si erano messi in viaggio verso la fattoria lontana di proprietá di uno zio, per cercare di mitigare il loro dolore per una perdita cosí orribile. Il fondo si trovava in una remotissima regione montana all'altro lato del Fiume Marañon. Da Santiago mi sarei poi recato anch'io fin lassú divorando infiniti sentieri per elevati altopiani e selve ardenti e sconosciute.
Di colpó il mio animale soffió. Un brezza leggera portava la polvere della trebbiatura di una piantagione di orzo. Poi, in prospettiva, ecco Santiago, sulla sua ripida meseta con i suoi tetti ridipinti e il sole giá orizzontale. Si vedeva ancora, verso oriente, al limite di un promontorio giallo brasile il panteon intagliato a quell'ora dalla sesta tintura pomeridiana; ma io, ormai non ce la facevo piú soffocato da atroce inconsolabile angoscia.
Giunsi al paese di notte. Svoltai l'angolo, e, entrando nella strada in cui stava casa mia, mi imbattei in una persona seduta su un banco di pietra davanti alla porta. Sola. Molto sola, tanto sola che soffocando il mistico lutto della mia anima, mi fece paura. Forse anche per la pace quasi inerte con la quale, ingommata dalla mezza forza della penombra il suo profilo si appoggiava al paramento imbiancato del muro. Una scossa perticolare dei nervi mi asciugó le lacrime. Mi feci avanti e mio fratello maggiore saltó giú dal banco, Angelo, mi accolse tra le braccia. Era tornato da pochi giorni dalla fattoria per alcuni suoi affari.
Quella notte. Dopo una cena frugale facemmo veglia fino all'alba. Visitai le stanze, i corridoi e le stalle della casa; e Angelo, anche quando faceva forzi evidenti per controllare questo mio affanno di percorrere la vecchia casona, sembrava anche godere di un tale supplizio, proprio di chi vaga per gli allucinanti domini del piú puro passato della vita.
Durante i pochi giorni del suo passaggio per Santiago, Angelo abitava da solo in casa, dove, secondo lui, tutto era restato tal quale nel momento della morte della mamma. Mi riferí anche come furono i giorni di salute che precedettero la malattia mortale e come fu la sua agonia. Quante volte un abbraccio fraterno ci fece fremere le viscere e mosse nuove gocce di tenerezza congelata e di pianto.

Ah, la dispensa dove chiedevano il pane alla mamma piangendo ipocritamente -

e aprii una porticina di semplici pannelli sconquassati.

Come in tutte le costruzioni rustiche delle montagne peruviane in cui a ogni porta corrisponde un banco di pietra, sulla soglia di quella che avevo appena varcato ve ne era uno, lo stesso della mia infanzia immemoriale, certo riparato e imbiancato molte volte da allora. Aprimmo l'umile porticina e ci sedenmmo portando con noi la lanterna occhitriste. La sua luce diede in pieno sul volto di Angelo, che si estenuava di momento in momento, col trascorrere della notte, mentre andavamo riaprendo la ferita, fino a sembrarmi quasi trasparente. Quando me en resi conto, lo accarezzai e mi misi a coprire di baci le sua guance barbute e severe che di nuovo si bagnarono di lacrime.
Un lampo di quelli che vengono da lontano, in estate , sui monti vuotó le viscere della notte. Tornai a massaggiarmi alle palpebre su Angelo. Né lui, né la lanterna, né il banco di pietra, nulla c'era piú. Nulla potevo udire. Ero come rinchiuso in una tomba...
Poi tornai a vedere mio fratello, la lanterna, il banco. Ma mi sembró di notare che l'aspetto di Angelo era come rinfrancato, rappacificato e, forse mi sbagliavo, si sarebbe detto ristabilito dal suo dolore e debolezza anteriori. Ma forse si tratta di un'illusione del mio sguardo poiché un tale cambiamento sarebbe inconcepibile.
trad genseki

martedì, ottobre 28, 2008

Rimbaud




Canzone della Torre piú alta




Giovinezza oziosa
A tutto asservita,
Per delicatezza
Perdetti la mia vita.
Ben venga l'ora
Che il cuor s'innamora.
Lascia mi sono detto
Che nessuno ti veda:
E senza la promessa
D'una gioia piú eletta
Che nulla ti fletta,
Augusto disdegno.
Tanta fu la pazienza
Che piú non v'è oblio
paure e sofferenza
al cielo son volate
Mille seti oscene
oscurano le vene
Così la prateria
Arresa all'oblio
piú ampia e fiorita
Di incenso e di loglio
Nel ronzio accanito
di cento mosche luride.
Ah quante vedovanze
Per l'anima cattiva
Cui sol giova l'icona
Della Nostra Signora
Si può forse pregare

La Vergine Maria?
O giovinezza oziosa
A tutto asservita,
Per delicatezza
Perdetti la mia vita
Ben venga l'ora
Che il cuor s'innamora!
*


trad. genseki

Gaspard de la nuit




Louis Bertrand
Gasparo della notte



Fantasie notturne alla maniera d Rembrandt e di Caillot
Scuola Fiamminga





Quando di Amsterdam il gallo d'oro canterá
La chioccia d'oro di Harlem fará l'uovo.
Nostradamus




***




Haarlem questa ammirevole “bambochade” che riassume la scuola fiamminga, Harlem dipinta da Jean Breughel, Peeter Neef, David Téniers e Paul Rembrandt,




E il canale ove tremola l'acqua azzurra, e la chiesa la cui vetrata arde e la lobbia ove si asciuga al sole il bucato e i tetti verdi di luppolo;




E le cicogne che battono le ali attorni all'orologio della cittá, allungano il collo nell'aria e raccolgono nel becco le gocce di pioggia;




Il borgomastro tranquillo che si accarezza il doppio mento, e il fiorista innamorato che dimagrisce senza poter distogliere l'occhio da un tulipano;




E la zingara che si sfinisce al mandolino e il vecchio che suona la caccavella, il bambino che gonfia una vescica;




I bevitori che fumano nelle taverne losche, e la sguattera della locanda che appende alla finestra un fagiano morto.




trad. genseki

lunedì, ottobre 27, 2008

Giustificazione

Raissa Maritain

Da i grandi amici

Quand’anche non ci fosse che un solo cuore al mondo a soffrire certe sofferenze, un solo corpo a conoscere l’agonia della morte, tutto ciò esigerebbe una giustificazione. E quand’anche non vi fosse che la sofferenza di un solo bambino, se anche soltanto gli animali soffrissero sulla terra, questo, tutto questo, esigerebbe una soddisfazione.

a cura di genseki

Germain Nouveau (1851-1920)

Le Musulmane

Nascondete i capelli come un vello impudico,
Le vostre sopracciglia, questi baffi degli occhi;
Celate i vostri occhi, quei globi preoccupati
Specchi d'ombra ove resta un sadico riflesso.
E l'orlo dell'orecchio: un abisso, la smorfia
Delle labbra, la ferita scarlatta, l'incavo
Della guancia, la rosa della lingua gioiosa
Insieme le celate al naso senza eguali.
Vi custodisce il velo custode della casa
La casa vi rinserra: è la vostra prigione;
Vi comprendo: l'amore vuole un'immensa scena.
Fratello non è questa la donna che tu brami?
Avvolta nel pudore, completamente oscena
Dalle piante dei piedi, su, su fino ai capelli.

*

Il Bacio

"Tutto quanto fa l'amore" -
Tu mi dici. Ed io commento
Anche i passi con la strada
Col tamburo la bacchetta.
Lo fa il dito con l'anello
E la rima con il senso
Anche l'onda con il vento
Con lo sguardo l'orizzonte.
Lo fa il riso con la bocca
Con il vimine il coltello
Lo fa il corpo con il letto
Con l'incudine il martello.
Ogni filo con la tela
E la terra con il verme
Il battello con la stella
Con il sole lo fa il mare.
Come l'albero ed il fiore
Con la E lo fa l'accento
Con il marmo l'epitaffio
Col passato la memoria.

Gabriel de Tarde


Frammenti di storia futura II - La catastrofe -


Non erano piu’ milioni, erano miliardi quelli che guadagnava l’invetore dell’ultima innovazione industriale, perche’ nulla poteva piu’ arrestare, nella sua irradiante espansione la voga di un’idea qualunque nata in qualsiasi posto. Non a centinaia, ma a migliaia si contavano le edizioni di un libro che fosse piaciuto un poco al pubblico e le rappresentazioni di una piece moderadamente di successo. La rivalità degli autori era quindo salita a un diapason acutissimo. La loro verve, inoltre, aveva un ampio spazio di manovra, giacche’ tra i primi effeti del neo-ellenismo dilagante ci fu quello di sommergere tutte le pretese letterature deli avi, divenute inintellegibili, e di cancellare persino i titoli di quelli che erano chiamati capolavori classici, persino i nomi barbari di Shakespeare, di Goethe, di Hugo, di cui solo gli eruditi decifravano con grande fatica i versi pietrosi. Saccheggiare quella gente che quasi nessuno poteva piu’ leggere era far loro un piacere e un onore persino esagerato. Non si manco’di cogliere l’occasione; e fu prodigioso il successo di queste ardite compilazioni vendute come creazioni. La materia da sfruttare in quel modo era quasi inesauribile.
Per disgrazia dei giovanni autori, gli antichi poeti morti da secoli erano tornati alla luce, Omero, Sofocle, Euripide, erano risuscitati, cento volte piu’ fiorenti di salute che ai tempi di Pericle; e questa concorrenza inaspettata disturbava seriamente i nuovi arrivati. I geni originali avevano un bel rappresentare novita’ sensazionali come Athalias, Hemanias, Macbethes, il pubblico spesso le trascurava per correre alle rappresentazioni di Edipo Re o degli Uccelli. Nanais, affresco vigoroso di un romanziere innovatore falli’ míseramente di fronte al suceso frenetico di un’edizine popolare dell’Odissea. Alle orecchie sature di alessandrini classici, romantici o altro, nauseate dai giochi infantili della cesura e della rima, a volte giocando all’altalena aricchendosi e impoverendosi a vicenda, a volte a nascondino scomparendo per farsi ritrovare, il bel esametro libero e abbondante di Omero, la strofa di Saffo, il giambo di Sofocle, vennero a procurare delizie ineffabili che fecero il maggior torto alla musica di un certo Wagner. La musica in generale ricadde in un posto secundario nella gerarchia delle belle arti e ci fu, invece, in questo rinascimento filologico dello spirito umano, l’occasione di una fioritura letteraria insperata che permise alla poesia di riprendere il suo posto legittimo, cioe’ il primo. Essa non manca mai di rifoirire, quando la lingua cambia completamente si prova piacere a esprimere di nuovo le eterne banalita’.
Non era un semplice passatempo di persone delicate. Il popolo vi prendeva parte con passione. Certo, allora, aveva l’agio di leggere e gustare le opere d’arte. La trasmissione della forza a distanza per mezzo dell’elettricita’ e la sua mobilita’ sotto mille forme, per esempio in bombote d’aria compressa fácilmente trsportabili, aveva ridotto a nulla la mano d’opera. Le cascate, i venti, le maree erano diventati i servitori dell’uomo, come nelle epoche antiche, e in proporzioni infinitamente minori, lo era stato il vapore. Distribuita e utilizzata intelligentemente da macchine perfezionate semplici e ingeniose, questa inmensa energia gratuita della natura aveva reso da tempo superflui tutti i domestici e la maggior parte degli operai. I lavoratori volontari che ancora esistevano passavano tre ore scarse nelle fabbriche nazionali, grandiosi falansteri dove la potenza della produzione del lavoro umano, decuplicta, centuplicata, oltrepassava tutte le speranze dei loro fondatori.
Oviamente la questione sociale fu risolta; in mancanza di miseria, e’ vero, non ci si disputava piu’ la ricchezza o il benessere, di cui tutti godevano, e che quasi nessuno ormai apprezzava piu’, per la mancanza della bruttezza anche l’amore non era piu’ desiderato, visto che l’abbondanza di belle donne e begli uomini lo rendeva cosi agevole e comune, almeno in apparenza. Cacciato cosi’ dai suoi grande percorsi precedenti, il desiderio umano si precipito’ tutto intero verso il solo campo che gli restasse e che si ampiava ogni giorno in virtù della centralizzazione socialista, il potere politico da conquistare e, l’ambizione debordante, crebbe di colpo con tutte le brame confluenti in essa soltanto, con tutte le cupidigie e le invidie dell'età precedente, e si elevó, infine, ad altezze spaventose. Era una gara a chi si impadroniva di questo bene supremo, lo Stato; si trattava di porre l’onnipotenza e l’onniscienza dello Stato universale al servizio del proprio programma personale o del prorio sogno umanitario. Non fu, come era stato tanto previsto, una vasta repubblica democratica quella che sorse da questa situazione. Tanto orgoglio in ebollizione non poteva non sollevare un nuovo trono, il piu’ alto, il piu’ forte, il piu’ radioso che mai fosse stato. D’altra parte da quando la popolazione dello Stato unico si contava a miliardi il suffragio universale era diventato illusorio e impraticabile, per ovviare all’inconveniente molto grave di assemblee deliberanti si erano dovuti ampliare a tal punto i collegi elettorali che ogni deputato rapresentava almeno dieci milioni di elettori. Questo non e’ affatto sorprendente se si pensa che allora si ebbe l’idea semplicissima di estendere il diritto di voto alle donne e ai bambini, esercitato a nome loro, ovviamente, dal padre o dal marito legittimo o naturale. Tra parentesi questa riforma necessaria e salutare, conforme al buon senso e alla logica, reclamata contemporaneamente dal principio della sovranità nazionale e dal bisogno di stabilità sociale, quasi fallì, cosa che ha dell’incredibile, a causa della coalizioane degli scapoli.
La tradizione racconta che la proposta di legge relativa a questa estensione indispensabile del suffragio sarebbe stata sicuramente respinta se, per fortuna, l’elezione recente di un miliardario sospettato di cesarismo non avesse spaventato l’assemblea. Essa credette di nuocere alla popolarita’ di questo ambizioso affrettandosi ad accogliere questo progetto in cui non vide che una cosa e cioe’ che i padri e i mariti, allarmati dalle galanterie del nuovo Cesare, sarebbero stati piu’ forti per ostacolare la sua marcia trionfale. Ma questa attesa fu a quanto pare delusa. Qualunque sia il greado di veritá di questa leggenda, è certo che a causa dell’allargamento delle circoscrizioni elettorali, combinato con la soppressione del privilegio elettorale, l’elezione di un deputato era una vera e propria incoronazione e dava di solito all’eletto la vertigine della grandezza. Questa feudalita’ ricostituita doveva fatalmente condurre alla ricostruzione della Monarchia. Alcuni scienziati, cinsero per un istante questa corona universale, secondo la profezia di un antico filosofo ma non la conservarono. La scienza volgarizzata da scuole innumerevoli, era diventata un patrimonio tanto comune come una bella donna o un arredamento elegante; e, estremamente semplificata dalla sua stessa perfezioe, compiuta in grandi linee immutabili, in cornici rigide, ormai, e piene di fatti, progredendo solo impercettibilmente, occupava un piccolo posto soltanto, in fondo ai cervelli dove sostituiva il catechismo di una volta. La maggior parte della forza intellettuale andava quindi in tutt’altra direzione, cosi’ come la gloria e il prestigio. Già i corpi scientifici, resi venerabili dall’antichità loro, cominciavano, ahimè a tingersi di una leggera patina di ridicolo, che faceva sorridere e pensare ai sinodi dei bonzi o alle conferenze ecclesiastiche come erano rappresentate in vecchi disegni.
Non è dunque in nessun modo sorpendente che a questa prima dinastia di imperatori fisici e geometri, miscuglio bonario di Antonini, sia rapidamente succeduta una dinastia di artisti evasi dall’arte che maneggiavano lo scettro come un tempo l’archetto, lo scalpello o il pennello. Il piu’ glorioso di costoro, uomo dallimmaginazione esuberante dominata e servita da un’energia ineguagliabile, fu un architetto che, oltre altri progetti giganteschi, immagino’ di radere al suolo la sua capitale, Costantinopoli, per ricostruirla altrove, sul sito, deserto da piu’ di tremila anni, dell’antica Babilonia. Idea davvero luminosa. In questa pianura incomparabile della Caldea, bagnata da un altro Nilo, c’era un altro Egitto, ancora piu’ fertile e piu’ bello da resuscitare, da transfigurare, una distesa orizzontale infinita da coprire di arditi monumentisi, di popolazioni dense e febbrili, di messi dorate sotto un cielo sempre azzurro, di ferrovie irradianti dalla citta’ di Nabucodonosor alle estremità dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia, attraverso l’Himalaya, il Caucaso e il Sahara. Tutto questo fu fatto in qualche anno. La forza immagazzinata e trasmessa elettricamente di cento cascate abissine e di non so quanti cicloni bastò senza sforzo a trasportare dai monti d’Armenia la pietra, il legno e il ferro necessari a tante costruzioni. Un giorno, un treno di piacere composto da mille e un vagoni, essendo passato troppo vicino a un cavo trasmettitore nel momento della sua maggior carica, fu folgorato e polverizzato in un batter d’occhio. Ma anche Babilonia la fastosa citta’ di fango, dallo splendore miserabile di mattoni crudi e dipinti, si trovo’ ricostruita in marmo e granito, per la maggior umiliazione dei Nabopolassar e dei Baldassarre, dei Ciro e degli Alessandri. Inutile aggiungere che gli archeologi fecero, in questa occasione, scoperte inestimabili, in molti strati sovrapposti di antichità babilonesi e assire. La mania assiriologica andò tanto in là che tutti gli ateliers di scultura, i palazzi e persino gli armadi dei sovrani si riempirono di tori alati dalla testa umana, come un tempo i musei erano pieni di cherubini avvolti nelle proprie ali, e si giunse a far stampare alcuni manuali della scuola elementare in cueniforme per dare autorità a questi testi sulle giovani immaginazioni.
Questa orgia imperiale di edilizia avendo causato disgraziatamente la settima, ottava e nona bancarotta dello Stato, e innumerevoli inondazioni consecutive di carta moneta, ci si rallegrò, in generale, di vedere, dopo questo regno brillante, la corona portata da un finanziere filosofo. Una volta ristabilito l’ordine nelle finanze egli si impegno’ ad applicare su vasta scala il suo ideale di governo che era di una natura molto singolare. Non si tardò a notare, in effetti, dopo la sua entrata in carica, che tutte le dame d’onore appena scelte, intelligentissime ma prive di spirito, brillavano per la loro evidente bruttezza; che le livree di corte erano di un colore grigio e opaco; che i balli di corte, riprodotti dalla cinematografia istantanea in milioni di esemplari, fornivano la collezione dei volti più onesti e più insipidi e delle forme meno attraenti che si potessero vedere; che i candidati appena nominati, dopo invio di ritratti, alle piu’ alte cariche dell’Impero, si distinguevano essenzialmente per la volgarità dei loro tratti; infine che le corse e le feste publiche (il cui giorno era stato stabilto in anticipo sulla base dei dispacci segreti segnalanti l’arrivo di un ciclone americano) si svolgevano nove volte su dieci sotto una pioggia battente o in una nebbia spessissima che le trasormava in un’immensa esposizione di ombrelli e impermeabili. Nel caso dei progetti, come in quello delle persone, la scelta del principe era sempre la stessa, il piu’ utile o il migliore tra i più brutti. Una monocromia insopportabile, una soffocante monotonia, una insipidita’ nauseabonda, era il tratto distintivo di tutte le opere del governo. Se ne rideva, ci si ribellava, ci si indignava, ci si abituava. Il risultato fu che dopo un certo tempo, non si poteva più trovare un artista o un letterato declassato che non abbandonasse la ricerca delle cariche per rimettersi a rimare, scolpire e dipingere ; e in seguito si diffuse e consolidò questo aforisma, che la superiorità degli uomini di Stato non è che la mediocrità elevata alla massima potenza.
Grande vantaggi si dovettero a questa mente eminente. L’alto pensiero del suo regno ci è stato rivelato dalla pubblicazione postuma delle sue memorie. Di questo scritto che tanto ci manca, non ci resta che qualche frammento che basta a farsi rimpiangere tutto il resto:
“Chi è il ver fondatore della sociología? Auguste Comte? No, Menenio Agrippa. Questo grand’uomo ha compreso che il governo era lo stomaco, non la testa del corpo sociale. Ora, il merito di uno stomaco, è di essere buono e brutto, utile e repugnante da vedere, perchè se questo organo indispensabile fosse piacevole da vedersi, ci sarebbe da temere che si finisse per porvi mano e la natura ha preso tutte le sue precauzioni per nasconderlo e per defenderlo. Quale uomo sensato si picca di avere un bel apparato digestivo, un fegato grazioso, dei polmoni eleganti? Questa pretesa non sarebbe, tuttavia, più ridicola della mania della grandezza e della beltà in politica. Bisogna che la politica sia solida e piatta. I miei poveri predecessori...”, una lacuna. Un po’ piu’ avanti, si legge: “Il miglior governo e’ quello che si dedica a essere cosi’ perfettamente borghese, corretto, neutro e castrato, che nessuno si potrebbe più appassionare pro o contro”. Tale era quest’ultimo successore di Semiramide. Sul sito ritrovato dei giardini pensili, aveva fatto erigere a spese dello stato, una statua di Ligi-Flippo in alluminio battuto, nel mezzo di un giardino pubblico di alloro e cavolfiore.
L’universo respirava, sbadigliava un po’, forse, ma si apriva per la prima volta alla pienezza della pace, all’abbondanza quasi gratuita di tutti i beni, e e questo nella piu’ abbondante fioritura o piuttosto esposizione di poesia e di arte, ma soprattutto di lusso che si fosse mai vista sulla terra. Fu allora che un allarme straordinario e di nuovo genere, provvocato a giusto titolo da osservazioni astronomiche fatte sulla torre di Babele, ricostruita come Torre Eiffel, molto piu’ grande, comincio’ a difforndersi tra le popolazioni spaventate.

II La catastrofe

A più riprese gia’ il sole aveva dato segni manifesti di indebolimento. Di anno in anno, le sue macchie moltiplicate si ingrandivano, il suo calore diminuiva sensibilmente. Ci si perdeva in congetture: mancava il combustibile?. Stava attraversando, nel suo esodo attraverso lo spazio, una regione estremamente fredda ? Chissà. Comunque l’opinione pubblica non si preocupava molto della cosa come di tutto quello che è graduale e non imprevisto. L’anemia solare, che ridava qualche interesse all’astronomia trascurata, era diventata solo il tema di articlo piccanti nelle riviste. In generale, gli scienziati, nei loro laboratori ben scaldati, mostravano di non credere all’abbassamento della temperatura, e, malgrado le indicazioni formali dei termometri, ripetevano senza sosta che il dogma dell’evoluzione lenta e della conservazione dell’energia, combinati con l’ipotesi classica della nebulosa, impediva di ammettere un raffreddamento della massa del sole, abbastanza rapido da farsi sentire nel corso di appena un secolo, e quinde a maggior ragione di un lustro o di un anno. Alcuni dissidenti di temperamento eretico e pesimista facevano notare, e’ vero, che in diverse epoche, a credere agli astronomi del passato, certe stelle si erano gradualmente spente nel cielo, o erano passate dal più intenso splendore all’oscurità quasi assoluta, nel corso di un anno scarso. Concludevano che il caso del sole non aveva nulla di eccezionale, che la teoria dell’evoluzione tardigrada non era, forse, universalmente applicabile, e che, come lo aveva profetizzato, in tempi favolosi, un antico visionario mistico chiamato Cuvier, accadevano vere rivoluzioni nel cielo come sulla terra. Ma la scienza ortodossa lottava indignata contro simili arditezze.
Tuttavia l’inverno del 2489 fu cosi’ disastroso che si dovettero ben prendere sul serio le minacce degli allarmisti. Si giunse a temere ad ogni istante “l’apoplessia solare”. Era il titolo di una brochure sensazionalista che ebbe ventimila edizioni. Si aspettavaa ansiosamente il ritorno della primavera.
Tornò, infine la primavera e il re degli astri riapparve, ma quanto degradato e irriconoscibile! Era rosso. I prati non erano piu’ verdi, il cielo non era piu’ azzurro, i cinesi non erano piu’ gialli, tutto aveva cambiato colore di colpo come in un incantesimo. Poi, poco a poco, da rosso che era si fece arancio, sembrava, allora, una mela d’oro nel cielo, e, per qualche anno lo si vide passare con tutta la natura attraverso mille sfumature magnifiche oppure terribili, da arancione a giallo, da giallo a verde e, infine, dal verde all’indaco chiaro e all’azzurro pallidi. I metereologi si ricordarono, allora che, nel 1883, il 2 settembre, il sole era apparso un giorno intero, azzurro come la luna. Tanti colori, altrettanti paesaggi nuovi dell’universo proteiforme, che meravigliavano lo sguardo spaventato, che ravvivavano, riconducevano alla sua acutezza primitiva l’impressione rinnovata delle bellezze naturali e commuovevano in modo strano il profundo dell’anima rinnovando il volto delle cose.
trad genseki

giovedì, ottobre 23, 2008

Malvina

Malvina aveva occhi cattivi
Quando passeggiava nel viale dei gelsi
Quando sedeva su sedie di raffia
Quando provava i suoi vestiti di fustagno
Malvina aveva occhi cattivi
Quando fregava i piedi sui mattoni del suolo
Facendo convergere gli alluci
Mentre i talloni facevano da perno
Le mani si scaldavano nel suo grembo nero
Malvina apparteneva a Jacob
Io potevo vederla di rado
Attraverso le grate della finestra
O del cancello
Passeggiare tra le foglie morte
O indossare i suoi mantelli neri
Jacob possedeva il suo corpo bianco
Goffo come la carena di un relitto
Come il fossile di un gigantesco airone del giurassico
Così gettata bianca sulla schiena le braccia
ad abbracciare la luna
Come un gabbiano morto
Malvina non mi apparteneva
Non era mio il suo odore di muffa
Le sue parole stantie
Non corrispondevano alle mie esclamazioni
Jacob possedeva Malvina
Con i suoi occhi cattivi
Jacob la possedeva con avarizia meschina
Come si possiede una pelliccia di topi albini
E io li guardavo giocare
Il loro gioco cattivo
Dal fondo del parco reale
Dietro le grate del cancello
O dalla finestra della cucina
Scaricando la farina di castagne
O quanto avrei voluto sgranare
Il mio povero rosario
Sulle pupille dei suoi occhi crudeli!

genseki

Georgette de Vallejo



Settanta anni fa il 15 di aprile 1938 a Parigi moriva César Vallejo, sulla sua tomba nel cimitero di Montparnasse Georgette sua moglie fece incidere questi versi:

Mia vita
Mia disgrazia

Culla ogni donna
Eternamente un bimbo

Ho tanto nevicato
Perché ti addormentassi

Ho pianto tante lacrime
Per scioglierti la bara.

*
trad. genseki

Huerta

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