L’unione eterosessuale è pervasa dal senso che la natura
sessuale del partner ci sia estranea, un territorio nel quale si entra
senza una conoscenza
a priori e dove l’altro, e non il Sé, è
l’unica guida attendibile. Questa esperienza ha ripercussioni profonde
sul nostro senso del pericolo e del mistero dell’unione sessuale, e tali
ripercussioni fanno sicuramente parte di ciò che la gente aveva in
mente quando ha dato al matrimonio la sua veste di sacramento e
attribuito alla cerimonia il ruolo di rito di passaggio da una forma di
sicurezza a un’altra. Il matrimonio tradizionale non era solo un rito di
passaggio dall’adolescenza all’età adulta, né l’unico modo di approvare
e garantire l’allevamento dei figli. Era anche una drammatizzazione
della differenza sessuale: la distanza che il matrimonio manteneva tra i
sessi era tale che il loro congiungersi diventava un balzo esistenziale
più che un esperimento transitorio. L’intenzionalità del desiderio ne
era plasmata e anche se questo modellamento era – a qualche livello
profondo – un universale culturale e non umano, donava al desiderio la
sua nuzialità intrinseca e al matrimonio il suo fine di passaggio da uno
status a un altro. Considerare il matrimonio gay semplicemente come
un’altra opzione all’interno dell’istituzione significa ignorare che è
proprio l’istituzione a dare forma alla motivazione per entrarvi. Il
matrimonio si è sviluppato sull’idea della differenza sessuale e su
tutto ciò che essa significa: rendere questa caratteristica incidentale
invece che essenziale significa cambiare il matrimonio fino a non
riconoscerlo più. I gay vogliono il matrimonio perché vogliono l’avallo
sociale che comporta; ma se accettiamo questo tipo di unione, lo
priviamo del suo significato sociale, come la benedizione conferita ai
vivi da chi non è ancora nato. Pertanto, la pressione esercitata per
l’accettazione dei matrimoni gay è, in una certa misura,
controproducente. Assomiglia a ciò che ha fatto Enrico VIII per ottenere
l’approvazione ecclesiastica al suo divorzio, nominandosi capo della
Chiesa: la Chiesa che ha accettato il suo divorzio non era più la Chiesa
di cui egli cercava l’avallo.
Questo non altera il fatto che il
matrimonio gay alimenti la propensione occulta dello Stato postmoderno a
riscrivere tutti i vincoli come fossero contratti tra i vivi. È
praticamente una certezza che lo Stato americano, agendo attraverso la
Corte Suprema, “scoprirà” un diritto legale per il matrimonio gay,
esattamente come ha scoperto diritti costituzionali per l’aborto e la
pornografia, e come – quando gli sarà chiesto – scoprirà il diritto a un
divorzio “senza colpevoli” così da non avere, in pratica, alcuna
motivazione.
Chi si angustia per tutto ciò e vuole esprimere la
sua protesta dovrà lottare contro potenti forme di censura. La gente che
dissente da ciò che sta rapidamente diventando un’ortodossia nella
questione dei “diritti dei gay” è regolarmente accusata di “omofobia”.
In tutta l’America ci sono comitati, preposti alle nomine di candidati,
che li esaminano attentamente per sospetta omofobia, e certuni vengono
sommariamente liquidati una volta che sia stata formulata l’accusa: “No,
non si può accettare la richiesta di quella donna di fare parte di una
giuria in un processo, è una cristiana fondamentalista e omofobica”;
“No, anche se è un’autorità mondiale in materia di geroglifici della 11
Dinastia, non si può farlo entrare di ruolo all’università dopo quella
sua filippica omofobica di venerdì scorso”. Questa censura promuoverà la
causa di chi si è impegnato a “normalizzare” l’idea dell’unione
omosessuale: non sarà possibile opporsi, non più di quanto sia stato
possibile opporsi alla censura femminista sulla verità della differenza
sessuale. Forse, fra adulti consenzienti, solo in privato, sarà
possibile coltivare il pensiero che il matrimonio omosessuale non sia
affatto un matrimonio.
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