mercoledì, settembre 30, 2009
Enneade V
L'Uno è tutte le cose e non una sola. Ció significa che è il pincipio di tutte le realtá e non una di esse.
*
Come possono tutte le cose sorgere dall'uno se questo è semplice e non rivela in sé molteplicità, nè duplicità di nessun tipo?
*
Proprio perché nulla era in Lui tutto puó derivare da Lui affinché l'essere possa esistere. Lui stesso non è solo essere, semmai è il padre dell'essere, in quanto è, per coì diree, la prima emanazione. L'uno, infatti è perfetto perché non è in cerca di nulla, Non ha nulla e non ha nemmeno bisogno di qualche cosa. È la sua straripante abbondanza a produrre qualche cosa d'altro.
Plotino
Topa nuda
Coí ho deciso di fare qualche cosa. Se devo soffrile questa profanazione almeno la soffra a ragio veduta.
Quello che segue è un bellissimo teso erotico del grande Marot che non traduco perché la lingua italiana di cui oggi si puó disporre trasformerbbe questo lieve, grazioso erotismo in qualche cosa di degno dei cercatori di "Topa nuda".
Tetin refaict, plus blanc qu'un oeuf,
Tetin de satin blanc tout neuf,
Tetin qui fait honte à la rose,
Tetin plus beau que nulle chose ;
Tetin dur, non pas Tetin, voyre,
Mais petite boule d'Ivoire,
Au milieu duquel est assise
Une fraize ou une cerise,
Que nul ne voit, ne touche aussi,
Mais je gaige qu'il est ainsi.
Tetin donc au petit bout rouge
Tetin quijamais ne se bouge,
Soit pour venir, soit pour aller,
Soit pour courir, soit pour baller.
Tetin gauche, tetin mignon,
Tousjours loing de son compaignon,
Tetin qui porte temoignaige
Du demourant du personnage.
Quand on te voit il vient à mainctz
Une envie dedans les mains
De te taster, de te tenir ;
Mais il se faut bien contenir
D'en approcher, bon gré ma vie,
Car il viendroit une aultre envie.
O tetin ni grand ni petit,
Tetin meur, tetin d'appetit,
Tetin qui nuict et jour criez
Mariez moy tost, mariez !
Tetin qui t'enfles, et repoulses
Ton gorgerin de deux bons poulses,
A bon droict heureux on dira
Celluy qui de laict t'emplira,
Faisant d'un tetin de pucelle
Tetin de femme entiere et belle.
Blason di Clément Marot
martedì, settembre 29, 2009
Gaspard de la Nuit
Che di romano solo il nome serbate,
Voi monumenti, che ancora sostenete
L'onor tarlato d'anime divine;
O voi archi, voi guglie al ciel vicine,
Che il cielo che vi mira anco stupite,
A poco a poco cenere divenite,
Favola al volgo e pubbliche rapine!
E, benché al tempo gran tempo faccian guerra
I monumenti, è pur vero che il tempo
Opere e nome finalmente atterra.
Triste disio, orsú vivi contento:
Perché se il nulla infine tutto serra
Troverá presto fine il mio tormento.
trad. genseki
giovedì, settembre 24, 2009
Du Bellay
Che di vecchi trofei le spoglie porta
E leva ancora al ciel la testa morta
Mentre giá il pié fuor del terreno spicca.
Coi rami spogli ormai le zolle tocca
Drizzando al ciel la radice contorta
Ombra non da e il suo peso sopporta
Tronco nodoso sbrecciato come brocca
Al suolo crollerá col primo vento
Loco lasciando agli arboscelli attorno
Eppur culto le presta il volgo attento.
Chi tale quercia vide, sappia allora
Como tra le cittá prospere ora
Il piú lodato è l'onore ormai spento.
trad genseki
mercoledì, settembre 23, 2009
Ancora su Hugo
Una fanciulla che lascia pendere in disordine il suo nastro sullo schienale di una poltrona, disegna, senza volerlo, quasi tutti i sentieri di scogliera e di montagna.
Sembra una definizione della scrittura: il nastro come filo di inchiostro, l'incoscienza dell'atto creativo, il suo essere frutto di una forma del caso, come piú tardi canterá Mallarmé ma anche un cammino, un proceso una vicenda.
O forse l'emozione rara e confusa che ci afferra leggendo queste righe e la stessa che proviamo guardando una roccia vertiginosa e le sue venature profonde o un panneggio di Rubens. La bellezza come segno. Come segno senza significante ne significato.
genseki
martedì, settembre 22, 2009
Antonio Moresco e Plotino
Lo scrittore Antonio Moresco ha recentemente pubblicato sulla rivista “Il Primo Amore” tre articoli su Plotino.
Antonio Moresco ci informa del suo interesse e passione per le Enneadi di Plotino sorti nel corso di una recente lettura estiva.
Da questa sua escursione nel continente delle Enneadi egli pare aver tratto le seguenti convinzioni:
l'opera di Plotino è anticipatrice;
La sua forza anticipatorie è stata occultata dalla “scolastica storicistica” dei manuali di filosofia;
L'occhio e la mente aperti e liberi da preconcetti di Antonio Moresco hanno permesso di rivelare la forza anticipatrice di questo antico testo.
Ora io mi domando che senso possa avere applicare una categoria giornalistica come quella di anticipazione a un'opera come quella di Plotino che si muove in un universo di assoluti, Le Enneadi hanno per oggetto l'investigazine di leggi eterne, anzi la loro contemplazione in un'estasi che non puó essere che atemporale.
In che senso si puó dire che Plotino avrebbe avuto l'intenzione di anticipare qualche cosa?
Plotino non aveva nemmeno idea del fatto che la contemplazione del Bene potesse servire ad anticpare qualche cosa. Dubito che possa aver nutrito alcun interesse per un concetto tanto fuori dalllo spirito e dall'ambiente culturale in cui si svolse la sua riflessione filosofica.
C'è qualche cosa di osceno nel voler piegare Plotino, molti secoli dopo l'elaborazione della sua opera ad anticipare qualche cosa.
Non vale dire che Plotino avrebbe anticipato “malgré soi”, inconsciamente. Bisognerebbe dimostrare che cosa posa significare anticipare qualche cosa che non si è voluto anticipare. La qual cosa è naturalmente impossibile.
Anticipare vuol dire mettersi a pensare il futuro o almeno mettersi a pensare nel tempo. L'orizzonte della filosofia plotiniana è invece l'eterno.
Cosí Moresco dovrebbe dimostrare in qualche modo che Plotino pensa il tempo nei termini in cui lo pensa Moresco.
Il concetto di anticipazione è un tipico concetto da quarta di copertina o da fascicoletto dell'Euroclub.
E poi, che cosa avrebbe anticpato Plotino? Sembrerebbe che, per Moresco avrebbe anticipato qualche cosa che avrebbe a che fare con la genetica e con la teoria fisica delle stringhe.ni
Questa intuizione moreschiana o moresca sembrerebbe basarsi sull'identificazione tra il concetto di forma presente nelle Enneadi e il concetto di forma delle scienze sperimentali.
Il fatto è che questi due concetti non sono sovrapponibili. la materia di Plotino non è quella della fisica che ha un peso e una massa. La materia di Plotino è qualche cosa che si oppone alla forma. È l'assenza di forma, e conteporaneamente ció che accogli la forma nella sua attivitá formante.
Quindi, come ognuno vede, la materia di Plotino non si oppone allo spirito ma alla forma. tanto è vero che per Plotino e per Porfirio esiste una materia spirituale ovvero uno spirito suscettibile di forma.
Moresco poi non spiega in che modo l'emanazionismo Plotiniano che serve per spiegare la dialettica tra uno e molteplice abbia qualche cosa a che fare con la genetica.
Moresco sembra non rendersi conto della struttura dialettica delle Enneadi in cui le singole parti hanno un valore solo nella totalitá e in cui proprio per questo molte frasi sono affermate per essere poi negate ad un altro livello.
Insomma non si capisce che cosa abbia anticipato Plotino né perché debba aver per forza anticipato qualche cosa.
Sorge il sospetto che Moresco pensi che Plotino abbia anticipato proprio Moresco. Ovvero che le Enneadi siano rimaste pura materia fino a quando Moresco le abbia dato attualitá, cioè forma. Cioè che il senso del pensiero di Plotino sia quello di Moresco.
genseki
lunedì, settembre 21, 2009
La torre e le vele
Nel luce dorata del tramonto si stagliano i profili di alcune navi dalle vele ripiegate al lato di una torre massiccia una torre di avvistamento posta a guardia del porto, probabilmente, ma che sembra vagamente fuori posto per la sua forma architettonica piú consona, a mio parere a una pingue pianura di verdi praterie e di pacifiche vacche. Chissá dove puó averla copiata Lorrain!
Le navi nere sembrano stanche di molti viaggi, consumate da molti altri tramonti dall'aver assorbito nel fasciame e nelle carene il sale unto di molti altri porti, non parlano di partenze ma di arrivi.
Quello che unisce navi e torre è l'essere presenti insieme nello spazio dorato del tramonto.
Neppure questa cortina di luce ci parla di orizzonti aperti, è appunto cortina destinata a proteggere lo sguardo e non ad aprire lo spazio.
È un porto questo da cui non si parte, e un porto cui solo si giunge. È una meta. In realtá ogni porto è anche una meta. Questo è un porto rappresentato solo come meta.
La fagilitá della nave sta accanto alla mole massiccia della torre, la cui materialitá in parte sfuma sull'agonica luce dell'occaso. Gli alberi inclinati dai rollii, le bandiere rosse appena scosse dal vento si giustappongono all'immobilitá della torre tanto antica che sulla sua sommitá pare intravedersi come un bosco, o un giardino pensile. Sembra di udire i cigolii delle tavole usurate dei battelli delle corde e delle pulegge e il fremere di ali che sfiorano le pietra possenti della torre.
Dalla sommitá della torre antica si gode certamente di una vista amplia sul mare e sulla costa abitata che si intravede sulla destra; salire vuol dire ampiare il raggio dello sguardo, conoscere, proprio come viaggiare sui fragili gusci dei velieri. Viaggio e ascesa sono due forme di liberazione della mente, due modi di andare oltre il limite che noi stessi diventiamo per noi. Una forma orizzontale e una verticale. Una croce, insomma.
Nello spazio metaforico della luce vespertina la torre e i velieri appaiono ancora una volta come il simbolo della Croce che è il punto di arrivo il porto della pace.
genseki
domenica, settembre 20, 2009
Hugo, Io, Dio
Con una applicazione accurata delle funzioni di copia e incolla si puó creare un nuovo Hugo. Trasformare cioé il fluviale romanziere in un acuto, formidabile aforismatico visionario. Naturalmente quello che si otterrá cosí non è un Hugo verosimile, certamente, invece è un Hugo possibile. Uno dei tanti Hugo che avrebbero essere e che non furono nella oceanica molteplicità hugoliana.
La caratteristica principale dell'Hugo aforismatico e virtuale è la forza immaginativa che rompe la forma della razionalitá e dell'argomentazione.
Gli aforismi di Hugo non convincono, terrorizzano, trascinano al bordo di un abisso e spingono a guardarvi dentro.
Creano le condizioni all'apertra di un senso che va oltre il linguaggio, oltre il significato e la pura suggestone dei significanti.
«L'infinito esiste. È là. Se l'infinito non avesse un io, l'io sarebbe il suo limite; non sarebbe infinito; in altri termini, non esisterebbe. E invece esiste. Dunque ha un io. L'io dell'infinito è Dio”
La forza di queste righe, per esempio, consiste nella sorpresa continua che induce la forma della relazione introdotta successivamente tra i termini Infinio, Io e Dio. L'Io è qui il termine la cui esistenza permette all'infinito di essere tale. Un abisso si apre dentro dell'Io nel momento in cui scopre di essere la condizione di esistenza dell'Infinito, niente di meno! E dentro questo abisso ecco spalancarsene un altro, quando il medesimo Io si accorge di essere codizione dell'Infinito in quanto Dio. L'equazione Dio = Io è introdotta a bruciapelo! E ecccci precipitati nella spirale: Dio e l'infinito sono due cose diverse; Dio è una parte dell'Infinit ma en è una parte essenziale, necessaria per la sua esistenza, ma è tale in proprio in quanto Io.
L'aforismo di Hugo si regge perché trascina in questa vertiginosa prospettiva “en abîme” appunto. Una cosa alla Esher, insomma. E la porta che si spalanca di colpo su questo universo di angustia è proprio la parola Io.
Io sono io, si ha un bel metterci l'apostrofo, il mio io di lettore si sente ugualemte quell'Io che è condizione di esistenza dell'Infinito e che come tale si converte in Dio e per questo si afferra all'aforisma con tutte le forze di un naufrago disperato e da pedate alla logica perché affoghi una buona volta e gli permetta di deificarsi.
Il lettore molto malevolo, invece, puó divertirsi a considerare questo aforisma come la descrizione dell'autodeificazione di Hugo, che non puó fare a meno di considerarsi Dio.
Nelle foto Hugo ha sempre qualcosa che ricorda l'iconografia del Padre Sommo barbuto ma senza triangoli sulla testa.
Quello che resta è lo splendore di questa frase nascosta nell'oceano di parole di un romanzo immenso come una perla perduta.
sabato, settembre 19, 2009
Nicola Cusano
Parte I
Mi sembra che tu sia stato rapito un profonda meditazione per alcuni giorni sicché temetti di esserti molesto se ti avessi domandato qualcosa su quello che ti succedeva. Ora, siccome ti vedo meno concentrato e quasi lieto come se avessi scoperto qualche cosa di importante, mi perdonerai, spero, se ti farò più domande del solito.
Il Cardinale
Ne sarò lieto. Infatti mi sono speso meravigliato del tuo silenzio, soprattutto perché mi hai udito parlare molto, in quattordici anni, sia in pubblico che in privato di quello che ho trovato con lo studio e hai raccolto in opuscoli le molte cose che scrissi.
E così ora che per dono di Dioe per il mio ministero sei giunto allo sato sacerdotale, è giunto il tempo per te di cominciare a parlare e ad interrogare.
Pietro
Mi vergogno della mia goffagine. Tuttavia chiedo alla tua pietà di essere edotto di che cosa di nuovo ti giunse in questa meditazione pasquale. Credevo che tu perfezionassi tutta tua speculazione ce hai illustrato in tanti diversi tuoi manoscritti.
Il Cardinale
Se l’apostolo Paolo nonostante sia stato rapito fino al terzo Cielo non comprese tuttavia l’incomprensibile, nessuno mai, neppure il più grande, sarà saziato di tutta la comprensione anche se sempre insista per meglio compredere.
Pietro
Che cosa cerchi?
Il Cardinale
Dici bene.
Pietro
Ti interrogo e tu mi deridi. Quando ti domando che cosa cerchi, tu dici “dici bene”, e io non dico niente, ma chiedo.
Il Cardinale
Quando hai detto “che cosa cerchi” hai detto bene, perché il che cosa io cerco. Chiunque cerca ciò che cerca. Se infatti non cercasse qualche cosa o ciò sarebbe come se non cercasse. Io dunque, come tutti gli studiosi, cerco ciò, perché ben voglio sapere che cosa sia ciò ovvero la quiddità che tanto è cercata.
Pietro
Pensi che si possa trovarla?
Il Cardinale
Senz’altro. Infatti lo sforzo che compete a tutti gli studiosi non è vano.
Pietro
Se fino ad ora nessuno ha trovato ciò, tu cercherai di superare tutti?
Il Cardinale
Ritengo che molti in qualche modo lo abbiano visto e descrtto in parole. Infatti la quiddità che sempre è cercata, è stata e sarà cercata, se fosse del tutto ignota, in che modo potrebbe essere conosciuta, se anche una volta trovata rimanesse sconosciuta? Infatti diceva un certo sapiente che essa è vista da tutti anche dai più lontani.
Quindi essendomi sembrato per molti anni che sia necessario cercarla oltre ogni potenza cognitiva, oltre ogni varietà e opposizione non considerai che la quiddità è in sé sussistente, sussistenza invariabile di tutte le sostanze; e perciò non moltiplicabile, moltilicabile e non altra e altra quiddità degli altri enti, ma la medesima ipostasi di tutti. Poi vidi che era necessario che dicessi che la stessa possa essere l’ipostasi o la sussistenza di tutte le cose. E poiché può essere senza lo stesso potere non potrebbe essere. Come potrebbe infatti senza potere? Quindi lo stesso potere, senza il quale nulla può essere qualche cosa è ciò di cui non può esservi nulla di più sussistente. Perciò è esso ciò che si cerca. Proprio a questa teoria mi sono dedicato in queste festività con grande diletto.
Pietro
Mi sembra, in verità, che tu dica che senza potere nulla possa essere, e che senza quiddità non vi è alcunché, quindi parmi che la quiddità sia il potere stesso. Ma mi meraviglio, poiché già prima hai detto molte cose del potere e le hai spiegate nel trialogo, che questo non basti.
Vedrai che al di sotto dello stesso potere, di cui nulla può essere più potente né prima né migliore, è di gran lunga meglio nominare quello, senza il quale nulla può essere, né vivere, ne comprendere piuttosto che qualche altro vocabolo. Se infatti può essere nominato in ogni modo il potere stesso, del quale nulla può essere più perfetto, esso stesso lo nominerà nel modo migliore. Infatti non credo che si possa dargli un nome più chiaro, più vero o più facile.
Pietro
Come puoi chiamarlo facile, quando credo che non vi sia nulla di più difficile di quello che sempre è cercato e mai trovato completamente?
Il Cardinale
La verità quanto più è chiara tanto più è facile. Io ritenevo che la si trovasse meglio in un poco di oscurità. Grande è la potenza della verità nella quale brilla intensamente lo stesso potere. Essa infatti grida nelle piazze, come hai letto nel libretto “De Idiota”. Certamente essa è ben facile da trovarsi.
Quale bambino o adolescente ignora lo stesso potere, quando dice che può mangiare, correre o parlare? E non vi è nessuno dotato di una mente che sia a tal punto ignaro da non sapere anche senza maestro che nulla e se non può essere e che senza potere nulla può essere, avere, fare o subire. Quale adolescente, interrogato se possa portare una pietra, avendo risposto che lo può, ulteriormente interrogato se lo potrebbe senza poterlo non risponderebbe giammai? Egli giudicherebbe assurda e superflua tale domanda, come se nessuno sano di mente potesse dubitare di aver fatto o di fare qualche cosa senza poterlo. Ogni potente presuppone il potere come necessario e nulla può essere senza che esso sia presupposto e che cosa diresti se ancora ti domandassi, essendo il potere di tutte queste origini quasi inesplicabile, da dove tale potere tragga la sua virtù? Non risponderesti forse, che le trae da quel potere assoluto e non contratto, quasi onnipotente, di cui nulla havvi che di più potente possa essere percepito o immaginato o compreso, essendo
Se infatti qualche cosa può essere nota nulla è più noto proprio del potere. Se qualche cosa può essere facile, nulla è più facile proprio del potere, se qualche cosa può essere certo nulla è più certo dello stesso potere. Così nulla è più primo, né glorioso, né forte, né solido né sostanziale e così di tutte le cose. Mancando infatti il potere stesso nulla vi può essere di buono né di qualunque altra cosa che possa essere.
Pietro
Nulla vedo di più sicuro e ritengo che nessuno possa ignorare la verità di queste.
Il Cardinale
C’è solo attenzione tra te e me. Infatti, se ti interrogassi su che cosa scorgi in tutti i posteri di Adamo che furono, che sono e che saranno, anche se fossero infiniti, non risponderesti forse subito che non vi scorgi altro che il potere paterno del primo genitore?
Pietro
E’ certamente così
Il Cardinale
E se vi aggiungessi, che cosa scorgi nei leoni, e aquile e ogni specie di animali, non risponderesti forse allo stesso modo?
Pietro
Di sicuro non in modo diverso.
Trad. genseki
giovedì, settembre 17, 2009
Non c'è nulla d trovare
A partire dal'istante in cui Buddha trasmise il metodo spirituale a Mahakasyapa, lo spirito ricevette il sigillo dello spirito senza piú nessuna differenza tra spirito e spirito. Questo sigillo si stampiglia nel vuoto, cioè non ha nulla a che vedere con i testi, perché se fosse stampigliato su qualche cosa di concreto allora non avrebbe piú niente a che fare con il metodo spirituale. Per questo quando lo spirito pone il sigillo allo spirito lo spirito che sigilla e quello che è sigillato non sono piú distinti. Sccome, peró il soggetto che sigilla e l'oggetto che è sigillato si incontrano con difficltá la loro coincidenza è estremamente rara. Tutttavia, dal momento che lo spirito equivale al non-spirito, trovarlo equivale a non trovare nulla.
Il Buddha ha tre corpi: il corpo assoluto insegna la vacuità e la libertá della nostra essenza; il corpo della fruizione insegna il metodo della purezza universale; il corpo di appaizione insegna le sei trascendenze e tutte le altre pratiche infinite.
Non si puó cercare il metodo insegnato dal corpo assoluto in linguaggio, suono, forma o testo: nulla è attestato.
La nostra essenza è aperta come lo spazio. Questo è tutto. In questo senso è stato detto: "Nel fatto che il vero metodo non puó essere insegnato si trova il vero metodo".
Il corpo di fruizione e quello di apparzione si fanno sentire e si manifestano secondo le circostanze.
I metodi che insegnano dipendono dalle circostanze e dalle situazioni. Per attirare e convertire impiegano un metodo che non è quello reale, si puó dire quindi che: "il corpo di fruizione e quello di apparizione non sono il Buddha reale
e non insegnano il metodo corretto".
Tutto ció si puó riassumere in una sola luminosa chiarezza sottile che si articola in sei tipi di relazioni armoniose.
I sei tipi di relazioni corispondono alle sei facoltá sensoriali. Ognuna di queste facoltá si unisce al suo oggetto: l'occhio alla forma, l'orecchio al suono, il naso agli odori, la lingua ai sapori, il tatto ai tangibili, l'intelletto agli intellegibili.
Nel mezo emergono le sei coscienze così che in tutto si hanno diciotto sfere. Comprendendo che queste diciotto sfere non hanno esistenza indipendente le sei relazioni sono concentrate in una sola chiara luminositá sottile che altro non è che lo spirito, I discepoli sanno tutto questo ma si sforzano di spiegare concettualmente l'unica chiara luminositá sottile e le sei relazioni, cosí che si ritovano legati dal metodo senza coincidere piú con il proprio spirito.
Huangpo
Dialoghi
Trad a cura di genseki
mercoledì, settembre 16, 2009
Aforismi
Questo primo assaggio contiene brani dei miserabili. Il primo di essi non corrisponde che molto vagamente alle parole che ho scrito qui sopra, in parte ne è una fragrante negazione esemplare posa umilmente in limine.
genseki
>
I MISERABILI
Si può considerare con indifferenza la pena di morte, si può non pronunciarsi, dire di sì e di no, finché non si è vista con i propri occhi una ghigliottina; ma quando se ne vede una, la scossa è violenta e bisogna decidersi a prender partito pro o contro. Alcuni ammirano, come il De Maistre, altri esecrano come il Beccaria. La ghigliottina è il concretizzarsi della legge; essa si chiama punizione, non è neutra e non vi permette di rimaner neutrali. Chi la scorge freme del più misterioso dei fremiti. Tutte le questioni sociali drizzano attorno alla mannaia i loro punti interrogativi. Il patibolo non è visione. Il patibolo non è un'impalcatura, non è una macchina, non è un meccanismo inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra che sia, in qualche modo, un essere dotato di chissà quali cupe iniziative. Si direbbe che quella impalcatura veda, che quella macchina intenda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria in cui getta l'anima con la sua presenza, il patibolo appare terribile e partecipe di quello che fa. Il patibolo è complice del carnefice: divora, mangia della carne, beve del sangue. Il patibolo è una specie di mostro, fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere d'una vita spaventosa, fatta di tutta la morte che ha procurato.
La morte appartiene solo a Dio. Con quale diritto gli uomini si servono di una cosa sconosciuta?».
«L'infinito esiste. È là. Se l'infinito non avesse un io, l'io sarebbe il suo limite; non sarebbe infinito; in altri termini, non esisterebbe. E invece esiste. Dunque ha un io. L'io dell'infinito è Dio».
Ma ciò che apprezziamo nei confronti di coloro che salgono, ci piace assai meno di fronte a coloro che cadono. Amiamo il combattimento fintanto che c'è pericolo; e, in ogni caso, sono soltanto gli oppositori della prima ora che hanno il diritto di essere gli sterminatori dell'ultima. Chi non è stato nei giorni della prosperità accusatore ostinato, al momento del crollo deve tacere. Solo il denunciatore del successo sarà il legittimo giustiziere della caduta.
Ogni zucchetto può sognare la tiara. Il prete, ai giorni nostri, è il solo uomo che possa di diritto diventare re; e che re! Il re supremo! Per questo il seminario è un semenzaio d'aspirazioni.
I geni, nelle inaudite profondità dell'astrazione e della speculazione pura, posti per così dire al di sopra dei dogmi, propongono a Dio le loro idee. La loro preghiera offre audacemente la discussione. La loro adorazione interroga. Questa è la religione diretta, piena d'ansietà e di responsabilità per chi ne tenta la scalata.
La meditazione umana non ha limiti. Ha i suoi pericoli, i suoi rischi, analizza e scava il proprio abbaglio. Si potrebbe quasi dire che, con una specie di splendida reazione, ella ne abbagli la natura; il mondo misterioso che ci circonda rende ciò che riceve; è probabile che i contemplatori siano a loro volta contemplati. Comunque, ci sono sulla terra uomini - ma sono uomini, poi? - che scorgono in fondo all'orizzonte del sogno le altezze dell'assoluto e che hanno la terribile visione della montagna infinita.
***
martedì, settembre 15, 2009
I Pitocchi
La traduzione è cosí cosí ma è quello che mi è riuscito di fare.
genseki
di Saint-Amant
Con un lenzuolo in tre senza luce né fuoco,
Nel piú profondo inverno, dormir nella legnaia
Ove i gatti borbottano in oscuro ostrogoto
Rischiarando la notte con le pupile d'oro;
Usar come cuscino un pezzo di sgabello,
Digiunare due anni al modo di lumache,
Sognar con mille smorfie come macachi al sole
Che con grandi sbadigli si grattano le ascelle;
Con un vecchio cappello a guisa di berretto,
Con le trine di un manto poteggersi dal freddo
E fasciarsi la pancia con un frusta fodera;
Soffrire mille ingiurie da un vecchio oste irato
Che appena puó fornire una minima spesa
È questo il risultato d'una vita sbandata.
trad. genseki
lunedì, settembre 14, 2009
Filosofia e sapienza
Comunque proprio in una delle ultime stazioni sul cammino del grande santuario fenomenologico incontriamo una formula apparentemente mistica.
La fine della filososfia è anche fine della soggettivitá e della coscienza.
Se le cose stanno cosí peró, il supremo compimento della filosofia non ha piú nulla a che fare con la vita. È puro oltre, oltre ogni orizzonte, cioé, giacché non vi è orizzonte alcuno ove non vi sia soggettivitá.
La filosofia si compie, si attualizza, finisce con la distruzione del soggetto.
Tra il soggetto e la sua distruzione resta peró "lo sfrigolío" della fiamma. Il compimento non è mai compiuto completamente. Tra il compimento e il suo compiersi resta uno iato.
Questo iato è la spazio della sapienza. Tra coscienza e spirito sta la sapienza, seduta in profonda concentrazione, attenzione, samadhi.
Le parole fiammeggianti di Hegel lasciano lo spazio alla fresca brezza di una poesia di Dogen:
La persona autentica non è
Un individuo particolare
Come l'azzurro profondo del cielo illimitato
Essa è ogni persona
Ovunque nel mondo.
Dogen
domenica, settembre 13, 2009
L'individuo
sabato, settembre 12, 2009
Un Edipo Cristano
La figura di San Giuliano è di quelle che afferrano la fantasia: questo Edipo Cristiano deve qualche cosa a quello greco? È possibile ricostruire attraverso quale cammino?
Certamente il destino di questi due “eroi” diverge molto presto.
Ci afferra lo sgomento di fronte al miracolo finale, all'inaspettata salvezza che pretende, per farsi attuale, la rinuncia alla piú segreta intimitá, al nucleo piú protetto del proprio io: Giuliano ammette il Viandante, il Lebbroso nel proprio letto ed è allora ch'egli si trasfigura nell'Angelo del perdono.
Di questa rinuncia, del carattere carnale, quasi animale della fede di Giuliano resta traccia in tutto il medioevo. Per ospitalitá di San Giuliano si intendeva in quei secoli, infatti un'ospitalitá che giungesse fino all'unione sesssuale.
Oggi quello dell'ospitalitá è un universo morale scomparso, il cui linguaggio si è fatto osceno, inarticolabile.
Nessun Ospitalario si preoccupa di benedire i cadaveri dei tanti disperati che come Flebas il Fenicio fluttuano tra le onde del mediterrane.
genseki
venerdì, settembre 11, 2009
Storia di San Giuliano l'Ospitalario
Ci fu anche un altro Giuliano, che uccise, non sapendolo, entrambi i genitori.
Questo Giuliano era giovane e nobile, un giorno a caccia, inseguiva un cervo che aveva stanato lui stesso. Di colpo, obbedendo a un ordine divino, il cervo si voltò verso di lui e gli disse: “Tu che ora mi insegui sarai l’assassino di tuo padre e di tua madre!” Udendo quelle parole Giuliano si spaventò moltissimo, e temendo non gli capitasse davvero, ciò che aveva udito dire dal cervo, abbandonati di nascosto tutti i suoi compagni se ne partì da solo fuggendo dal suo destino.
Giunse in una regione remota e qui entrò al servizio di un Principe; si comportò in modo così leale in tutte le circostanze, in pace come in guerra che il Principe lo fece cavaliere e gli diede in moglie una castellana rimasta vedova che gli portò in dote il suo castello.
Nel frattempo i genitori di Giuliano addoloratissimi per la scomparsa del proprio figliolo andavano vagando qua e la e lo cercavano con somma diligenza . Finalmente giunsero al castello in cui viveva Giuliano. Giuliano, però, quel giorno, si era allontanato dal castello per qualche sua commissione. Quando la moglie di Giuliano li vide, domandò loro chi fossero e quando essi le ebbero raccontato per esteso la storia del loro figliolo, comprese che si trattava dei genitori del marito, avendone, come credo, sentito parlare da lui di frequente. Pertanto gli accolse benevolmente e per amore del marito cedette loro il prorpio letto e si ridusse in un letticiuolo collocato in un’altra stanza. Venuto il mattino, la castellana se ne andò alla chiesa. Ed ecco che Giuliano giungendo entrò in camera da letto come se dovesse svegliare sua moglie e trovando due persone che dormivano, pensò che dovesse trattarsi di sua moglie con il suo drudo, allora, estratta la spada in silenzio, li uccise entrambi. Uscendo poi di casa vide sua moglie che tornava dala chiesa e, meravigliandosi, le domandò chi fossero allora quelli che dormivano nel suo letto. Ella gli rispose: “sono i Vostri genitori, che Vi hanno cercato per moltissimo tempo e io li ho fatti mettere nel Vostro letto”. Udendo queste parole egli quasi senza conoscenza cominciò a piangere amarissimamente e a dire: “oh misero, che cosa farò! Io che ho ucciso i miei dolcissimi genitori. Ecco si è adempiuta la parola del cervo, e io ho compiuto ciò che volli evitare. Addio dolcissima sorella, perché non troverò pace in nulla, finché non saprò quale penitenza Dio vorrà impormi”. Ed ella rispose: “Non pensare, dolcissimo fratello, di potermi abbandonare e di andartene senza di me, ché se condivisi con te la gioia con te condividerò anche il dolore”.
Allora si ritirarono insieme presso un grande fiume, che molti cercavano di attraversare. Quivi, per fare penitenza fondarono un grande ospedale nel quale ospitavano tutti i poveri che giungevano e traghettavano senza sosta tutti quelli che lo desideravano. Dopo molto tempo, nel cuore della notte, mentre Giuliano, sfinito, dormiva e il gelo era fortissimo, egli udì la voce di un infelice che si lamentava in modo penosissimo chiedendo a Giuliano, con lugubre tono, di poter essere traghettato. Egli udendolo si alzò in tutta fretta e trovando colui che gridava proprio quando era sul punto di venir meno per il gelo lo portò nella sua capanna e accese un fuoco cercando di riscaldarlo. Ma ogni sforzo sembrava inutile, allora, per non lasciarlo morire, lo pose nel suo letto e lo coprì con molta cura. Ed ecco che subito colui che sembrava malato, forse lebbroso, ascese in splendore verso il cielo dicendo: “Il Signore mi manda a te per dirti che la tua penitenza è accetta e tutti e due fra breve riposerete in lui”. Così disparve e Giuliano poco tempo dopo per le buone opere sue e per le elemosine trovò anch’egli riposo nel Signore.
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trad genseki
giovedì, settembre 10, 2009
Antonio Labriola
A Labriola
Lettera a Spaventa.
mercoledì, settembre 09, 2009
De Luce
Ovvero
L’origine delle forme
Di
Roberto Grossatesta
Vescovo di Lincoln
Ho supposto che sia la luce ciò cui solo è possibile di compiere questa operazione di moltiplicare se stessa e di diffondersi immediatamente in ogni parte. Qualunque cosa faccia ciò o è la luce medesima oppure della luce partecipa quando questa agisce per virtù sua propria.
La corporeità dunque o è la luce stessa o è, come detto qualche cosa che produce le dimensioni nella materia in quanto partecipa della luce e agisce per virtù di questa. Ma, invero, non è possibile che la forma prima produca le dimensioni nella materia per virtù della forma conseguente. La luce non è quindi forma conseguente la corporeità ma è essa stessa la corporeità.
Più dettagliatamente i sapienti pensano che la prima forma corporale sia più degna di tutte le forme conseguenti e di essenza più eccellente e più nobile e più simile alle forme che sussistono separatamente. La luce, invero, è di essenza più nobile e più degna e più eccellente di tutte quante le cose corporee e più simile alle forme che sussistono autonomamente, che sono le Intelligenze. La luce è dunque la prima forma corporea.
Ecco allora che la luce che è la prima forma creata nella prima materia moltiplicandosi da sé infinitamente, ovunque egualmente estendendosi, al principio del tempo dilatava la materia che si diffondeva così in tanta per una misura pari a quella dell’intera macchina del mondo senza tuttavia poterla oltrepassare.
L’estensione della materia non poté avvenire per una moltiplicazione finita della luce, perché il semplice moltiplicato per un numero finito non genera la quantità come dimostra Aristotele nel “De Caelo et Mundo”.
E’, invece, necessario che infinitamente moltiplicato generi una quantità finita perché il prodotto di una moltiplicazione infinita di qualche cosa supera infinitamente ciò della cui moltiplicazione è prodotto. E il semplice non è superato infinitamente dal semplice ma basta soltanto una quantità finita per superarlo infinitamente. Infatti, la quantità infinita supera il semplice infinitamente infinite volte. La luce, dunque, che in sé è semplice, infinitamente moltiplicata, estende in dimensioni di grandezza finita la semplice materia.
E’ poi possibile che un insieme infinito di numeri sia proporzionale ad un insieme infinito secondo un relazione numerica o anche non numerica. Vi sono infiniti maggiori e altri minori di altri infiniti.
L’insieme di tutti i numeri pari e di tutti i numeri dispari è infinito e, tuttavia, è maggiore dell’insieme di tutti i numeri pari che è comunque lo stesso infinito perché lo eccede per la quantità di tutti i numeri dispari. Anche l’insieme di tutti i numeri moltiplicati per due a partire dall’unità in avanti è infinito, e similmente l’insieme di tutte le metà corrispondenti ai loro doppi è infinito. L’insieme delle metà dovrebbe essere la metà dell’insieme dei suoi doppi. Allo stesso modo l’insieme di tutti i numeri triplicati a partire dall’unità e andando sempre avanti è triplo rispetto all’insieme dei terzi corrispondenti a questi tripli. E’ così chiaro che ogni tipo di proporzione numerica può essere una relazione tra finito e infinito.
Prendiamo allora un insieme infinito di tutti i doppi a partire dall’unità e un’insieme infinito di tutte le metà corrispondenti a questi doppi, se sottraiamo un’unità o un altro numero finito dall’insieme dei doppi, una volta compiuta la sottrazione non vi è più una relazione proporzionale tra il primo insieme e quanto resta del secondo. Non vi è qui una proporzione numerica perché se restasse una proporzione numerica fra il primo insieme e quanto resta del secondo dopo la sottrazione, quello che è sottratto sarebbe una quota parte di una quota parte, ovvero una quota di parti di una parte di ciò da cui è sottratto. Ma un numero finito non può essere una quota parte o una quota di parti di una quota parte di un numero infinito. Perciò se noi sottraiamo un numero da un insieme infinito di metà non resta nessuna proporzione numerica tra l’insieme infinito dei doppi e quanto rimane dell’insieme infinito delle metà.
Ecco allora che diviene chiaro come la luce attraverso la propria moltiplicazione infinita estenda la materia in dimensioni finite più o meno ampie secondo le diverse proporzioni che si stabiliscono tra l’una e l’altra e che possono essere numeriche oppure non numeriche. Per questo la luce per mezzo della sua moltiplicazione infinita. Se quindi la luce per mezzo della sua moltiplicazione infinita estende la materia per uno spazio di due cubiti raddoppiando la medesima moltiplicazione infinita ecco che la diffonde per uno spazio di quattro cubiti e dividendola per due la amplia di un cubito e così via secondo le altre proporzioni numeriche e non numeriche.
Questa penso fu l’idea di quei filosofi che supposero che ogni cosa sia composta di atomi o di quelli che affermano che i corpi sono composti da superfici, le superfici da linee e le linee da punti. E non si oppone a questa affermazione chi dice che la grandezza si compone soltanto di grandezze. Infatti, quando si definisce la parte si definisce anche il tutto. Detto altrimenti si dice metà quella parte del tutto che presa due volte ci ridà il tutto. Analogamente il raggio è una parte del diametro ma moltiplicato per tante volte quante si vuole non ci ridà mai i diametro e rimane sempre minore di quello. Ancora, l’angolo di contingenza è una parte dell’angolo retto in cui è contenuto infinite volte e tuttavia, se ve lo sottraiamo un numero finito di volte lo rende più piccolo, mentre se sottraiamo un punto dalla linea di cui esso è una parte questa non ne resta in alcun modo diminuita.
Ritornando al mio assunto dico che la luce per mezzo della sua infinita moltiplicazione estende in ogni parte egualmente la materia in forma sferica. Ne consegue per necessità di questa estensione che le parti estreme della materia siano più rarefatte e più diffuse delle parti più interne più prossime al centro. Quando le parti estreme siano sommamente rarefatte ecco che anche quelle interne divengono suscettibili di rarefazione.
In questo modo, dunque, la luce estendendo la prima materia in forma sferica e rarefacendola nelle sue parti estreme, attualizzò perfettamente le possibilità della materia nell’ultima sfera non lasciando in essa nulla che fosse suscettibile di ulteriore impressione. Il primo corpo all’estremità della sfera è tanto perfetto da essere detto firmamento perché nella sua composizione non entra nient’altro che la prima forma e la prima materia. Per questo è un corpo semplicissimo quanto alle parti che ne costituiscono l’essenza e quanto alla grandezza che è massima e non differisce dal genere corporeo che per il fatto che in esso la materia è perfetta soltanto grazie alla forma. Ma il genere corporeo che si trova in questo e in altri corpi, avendo nella sua essenza la prima materia e la prima forma prescinde dalla completa attualizzazione della materia attraverso la prima forma e dalla diminuzione della materia per mezzo della prima forma.
Raggiunta così la perfezione, il primo corpo, cioè il firmamento, diffonde da solo la sua luce da ogni sua parte verso il centro del tutto. Infatti, siccome la luce è a perfetta attualizzazione del primo corpo essa si diffonde necessariamente verso il centro del tutto. Ma poiché la forma nella sua interezza non è separabile dalla materia mentre si diffonde dal primo corpo diffonde con sé la spiritualità della materia del primo corpo. Così dal primo corpo procede la luce che è un corpo spirituale o se si preferisce uno spirito corporale. Dal momento che la luce nel suo passaggio non separa il corpo che attraversa essa immediatamente penetrò dal primo corpo celeste verso il centro. Il suo passaggio non deve essere inteso come un passaggio di qualche cosa che sia misurabile benché istantaneo dal cielo verso il centro del tutto, questo, infatti, non sarebbe possibile, ma il suo passaggio avviene per mezzo della sua moltiplicazione e generazione infinita di luce. Questa luce diffusa dal primo corpo verso il centro raccolse la massa esistente al di sotto del primo corpo; e poiché non poteva diminuire il primo corpo che è completo e invariabile non trovando nessun vuoto dovette necessariamente, per raccogliere questa massa, disgregarne ed estenderne le parti estreme. Così le parti interne della massa divenivano più dense e quelle esterne più rarefatte; e fu tanto grande la potenza della luce che raccoglieva e contemporaneamente disperdeva ciò che aveva raccolto che le parti estreme della massa che si trovava al di sotto del primo corpo furono massimamente rarefatte e assottigliate.
Veniva così formandosi ai margini di questa massa una seconda sfera perfetta e non suscettibile di ulteriore impressione. La completezza dell’attualizzazione la perfezione della seconda sfera dipende dal fatto che la sua luce è generata dalla prima sfera ma mentre in questa è semplice in essa è doppia.
In questo modo, dunque furono prodotte le 13 sfere di questo mondo sensibile: cioè le nove sfere celesti inalterabili, inaccrescibili, ingenerabili e incorruttibili in quanto completamante attualizzate, e le quattro esistenti secondo modalità opposte, ovvero alterabili, accrescibili, generabili e corruttibili in quanto incomplete. E’ chiaro, inoltre che ogni corpo superiore secondo la luce che d sé trae è forma e perfezione del corpo successivo; così come la potenza dell’unità è contenuta in ogni numero successivo all’uno allo stesso modo il primo corpo, in virtù della moltiplicazione della sua luce è contenuto in ogni corpo successivo.
La terra poi contiene la potenzialità di tutti i corpi superiori in quanto in essa è contenuta l’aggregazione di tutte le loro luci. Per questo i poeti è stata chiamata Pan, cioè il tutto; e anche Cibele, che deriva da cubo, per la sua solidità, perché essa è più compatta di ogni altro corpo, Cibele madre di tutti gli dei, giacché in essa sono adunate tutte le luci superne, che non sono sorte da lei per opera sua sebbene sia possibile trarre da lei con atti e operazioni appropriate la luce di qualsivoglia sfera. Così sarà da lei procreato, quasi come da una madre qualunque Dio. I corpi intermedi poi hanno due tipi di correlazioni. Per quanto riguarda i corpi inferiori essi hanno con loro le stesse relazioni che il primo cielo ha con gli altri corpi, per quanto riguarda quelli superiori hanno con essi lo stesso tipo di relazione che la terra ha con tutti i corpi.
Forma e perfezione di ogni corpo è la luce ch’è spirituale e pura nei superiori, più corporea e complessa negli inferiori. Tuttavia tutti i corpi non hanno la medesima forma pur procedendo tutti dalla stessa luce semplice o complessa, così come non l’hanno i numeri benché derivati dalla somma di più o meno unità.
Con questa frase è chiarita l’idea di quelli che dicono “tutte le cose sono uno in virtù della perfezione di una luce” e di coloro che dicono “le cose molteplici sono tali in virtù della differente moltiplicazione della sola luce”.
Poiché, poi, i corpi inferiori partecipano della forma di quelli superiori, un corpo inferiore a causa della partecipazione alla forma del corpo superiore è in grado di ricevere il moto dalla stessa virtù motoria incorporea da cui è questo è mosso. Per questo la virtù motoria dell’intelligenza o dell’anima che muove la prima suprema sfera con moto continuo muove anche tutte le altre sfere celesti inferiori con il medesimo moto. Ma quanto più in basso si trovano tanto più debolmente ne ricevono il movimento, perché quanto più una sfera è bassa tanto meno pura e più debole è in essa la prima luce corporea.
Sebbene, poi, gli elementi partecipano della forma del primo cielo, non sono tuttavia mossi dal motore del primo cielo con moto continuo. Sebbene partecipino di quella prima luce, purtuttavia non obbediscono alla prima virtù motoria perché la loro luce è debole, impura e lontana da quella del primo corpo e perché la loro materia ha densità che è principio di resistenza e di disobbedienza. Alcuni ritengono tuttavia che la sfera del fuoco ruoti di moto continuo e portano come prova la rotazione delle comete e dicono che questo moto influisce persino sull’acqua del mare generandovi le correnti. I veri filosofi, tuttavia, affermano che la terra è immune da un tale influsso.
Allo stesso modo le sfere che si trovano dopo la seconda sfera, che contando a partire dalla terra è detta ottava, dal momento che partecipano della sua forma hanno tutte in comune con essa il moto, e ne hanno anche, oltre questo, uno loro proprio.
Dal momento che le sfere celesti, in quanto perfette, non sono suscettibili di rarefazione e di condensazione in esse la luce non spinge parti di materia lontano dal centro in modo che si rarefacciano né verso il centro in modo da farle addensare, per questo tali sfere celesti non ricevono, dalla virtù motoria intellettiva, un moto verso l’alto e neppure uno verso il basso ma solo un moto circolare. Questa riverberando su di loro nel suo aspetto corporeo le spinge ad una rivoluzione corporea.
La luce che è in loro, invece spinge gli elementi incompleti e suscettibili di rarefazione e di condensazione verso il centro per condensarli o lontano da esso per rarefarli. Per questo essi sono mobili verso l’alto oppure verso il basso.
Nel corpo supremo, che è il più semplice di tutti i corpi vi sono quattro costituenti, cioè la forma, la materia, la composizione e il composto. La forma in quanto semplicissima vale come unità, la materia per la sua duplice possibilità, quella di essere impressionabile e ricettiva e quella di essere densa, proprietà quest’ultima fondamentale della materia si manifesta per prima cosa e principalmente in modo binario e perciò le è assegnata una natura binaria. La composizione ha in sé la trinità. Perché in essa appare la materia formata, la forma materiata e la proprietà stessa della composizione che distinta sia dalla materia sia dalla forma si trova in ogni composte ciò che è composto oltre questi tre è compreso come quaternità. Lo si trova nel primo corpo nel quale esistono virtualmente tutti gli altri corpi, come appunto quaternità, perciò, fondamentalmente il numero di tutti gli altri corpi non può superare la decina. Infatti, l’unità della forma, la binarietà della materia, la trinità della composizione e la quaternità del composto prese insieme costituiscono la decina. Per questo la decina è il numero dei corpi delle sfere del mondo, poiché, sebbene la sfera degli elementi sia quadripartita, resta tuttavia una per la sua partecipazione alla corruttibile natura terrestre.
Ne deriva che la decina è il numero dell’universo perché è un tutto perfetto ciò che in sé contiene forma e unità, materia e binarietà, composizione e trinità e composto e quaternità. Non vi è bisogno di aggiungere un quinto costituente perché ogni perfetta totalità è nella decina.
Da ciò si vede chiaramente come che le sole cinque proporzioni presenti nei quattro numeri uno, due, tre e quattro bastano a costituire la composizione e la concordia di ogni composto.
Per questo queste cinque sole proporzioni bastano a produrre l’armonia della musica dei gesti e delle danze.
Qui termina il trattato della luce del Vescovo di Lincoln.
trad. genseki