Dal testo di Romano Guardini: La coscienza
Abbiamo
dimenticato che quanto riflette lo spirito è di una nobiltà molto
esigente e che il comprenderlo è possibile solo a certe condizioni.
Che i diversi interessi del mondo spirituale esigono di volta in
volta un diverso modo diparlare e di ascoltare; richiedono uno spazio
interiore diverso, nel quale possano svolgersi questo parlare e
questo ascoltar
Il
bene non diventa realtà, se non lo attuo.
Il
bene non è una legge morta. È la vita infinita che vuol essere
inserita in questa realtà. Nella sua pura essenza questa vita è per
noi inesprimibile; appunto perché è infinita e nello stesso tempo
semplicissima. Ma essa vuole assumere una figura terrena, umana. È
ciò che avviene nell’azione morale. L’attività morale ha in sé
qualche cosa di misterioso
Nell’attività
morale si tratta di render reale, umanamente reale quello che ancora
non lo è. Si tratta di dar forma terrena a qualche cosa di eterno e
di infinito.
Ma
poi, con le opere, dobbiamo trasfondere il bene nella realtà,
altrimenti esso resta aspirazione infeconda. Bisogna che ne
imprimiamo la forma nella materia nella realtà che ci circonda:
nella situazione. Ciò vuol dire che dobbiamo afferrare ciò che è
nuovo; quello che qui mi sta attorno: uomini, avvenimenti, cose,
circostanze. Tutto ciò arriva, diviene, si articola, qui, adesso - e
in questo momento bisogna che lo afferri. Devo vedere: che cosa
importa per me tutto questo che mi circonda? A quali cose devo
rivolgere il mio sguardo? Il mio giudizio? Che cos’è qui il bene?
Vedere, giudicare, deliberare, fare tutto ciò;chiaramente,
magnanimamente, ponderatamente, risolutamente; con atto energico e
netto, che abbia sangue e colore, lo slancio del cuore e la sicurezza
della mano -questo significa fare il bene. Agire moralmente significa
quindi creare qualche cosa; non in pietra o in colore o in suono, ma
nella materia reale della vita.
La
vita morale è disertata su larga scala. Le forze creatrici si sono
trasferite al servizio di un’arte raffinata, di un’attività
politica sfrenata, di un’economia pura o di qualsiasi altra cosa. È
tempo che riconosciamo di nuovo che l’attività morale è una
creazione e vi convogliamo di nuovo le vive energie morali.
Così
la coscienza è anche la porta, per la quale l’eterno entra nel
tempo. È la culla della storia. Solo dalla coscienza sgorga
«storia», la quale significa ben altro che non un processo
naturale. Storia significa che, in seguito a libera opera umana,
qualche cosa di eterno entra nel tempo.
Ogni
situazione si presenta una unica volta. Per cui anche quello che deve
avvenire in essa non è mai avvenuto e non tornerà più. Bisogna
dunque che venga divinato e plasmato per la prima volta.
La
coscienza è dunque l’organo per l’eterna esigenza del bene, che
deve venir attuato: la coscienza è per l’uomo come una finestra
aperta sull’eternità. Una finestra però che allo stesso tempo dà
anche sul coro so del tempo e sugli avvenimenti quotidiani. La
coscienza è l’organo, che trae l’interpretazione del
comandamento del bene, eterno e sempre nuovo, dai fatti concreti;
l’organo col quale sempre di nuovo si riconosce in qual modo il
bene eterno ed infinito debba venir attuato nella specificazione del
tempo. È un obbedire e al tempo
stesso
un creare; un comprendere e un giudicare; un penetrare e un decidere.
Da
questa prigionia in me stesso io mi libero soltanto se trovo un
punto, che non sia il mio «io»; una «altezza al di sopra di me».
Un qualche cosa di solido e operante che si affermi nel mio interno.
Ed eccoci arrivati al nocciolo della nostra odierna considerazione,
cioè alla realtà religiosa.
Quel
«bene», del quale abbiamo parlato, che cos’è veramente?
Non
una «legge», che penda affissa da qualche parte. Non una semplice
idea.
Non
un concetto campato in aria. No, esso è qualche cosa di vivo.
Diciamolo senz’ambagi: è la pienezza di valore dello stesso Dio
vivente. La santità
del Dio vivente: ecco il bene.
Mi
ricordo ancora il luogo, ove un bel mattino mi si affacciò questo
concetto così semplice e pur così celato e sottile: Quando io
dicessi: «l’amore»... e questo amore divenisse pieno e perfetto
in forza, in purezza, in misura, in durata e profondità e quanto al
suo oggetto; ed ora, assolutamente pieno e perfetto incominciasse ad
esistere in sé, divenisse persona; diventasse l’amore stesso per
essenza - che sarebbe questo amore? il Dio vivente! Questa intuizione
mi rese raggiante di gioia!... Il valore, la fedeltà, l’onore, la
bontà, la giustizia, la misericordia... in una parola: «il bene»,
nella sua infinitezza e nella sua pura semplicità - tutto ciò è la
santità vivente di Dio e nient’altro.
La
coscienza è l’organo per il bene; ed è l’organo per Iddio.
Inderogabile
ed essenziale caratteristica della legge morale si è che mi «venga
incontro»; che non sia dunque per me l’«io» stesso.
Là,
dove il nostro essere confina, quasi a dire, col nulla, sta la mano
di Dio e ci regge. Là egli ci parla. Non come una forza
indeterminata o una semplice legge. Non come alcunché di
impersonale, ma come un «io», al quale è possibile rispondere con
un «tu». Dio parla dunque dentro di noi. Ma questo stesso Dio è il
Creatore e il Signore del mondo.
Ovunque
viva un uomo, ivi, in lui, è il centro del mondo.
L’uomo
non ha soltanto un’essenza, comune a tutti i suoi simili; egli ha
di più.
L’essenza
dell’uomo porta in ogni singolo l’impronta terminale di unicità:
è «nome». Tutte le altre cose si trovano già nel tipo della
specie. L’uomo solo è a
priori «singolo». Ma lo è, perché ha rapporto
immediato con Dio. Tutte le cose del mondo sono intrecciate nel
contesto dell’universo e negli ordinamenti della specie; e anzi, in
misura totale. Anche l’uomo vi è inserito, ma solo con una parte
del suo essere.
L’uomo
dunque non ha soltanto un’essenza determinata, ma porta anche un
nome. L’atto divino della creazione, dal quale ho ricevuto la mia
realtà, fu un atto di denominazione.
Non
sono soltanto individuo, ma anche persona. Non porto in me soltanto
un’essenza generica, ma un’essenza che ha l’impronta
dell’unicità: porto un nome. Questo nome l’ho da Dio. Sono nel
mondo, ma non mi confondo con esso. Con ciò che ho di intimo vengo
immediatamente da Dio e sto in rapporto diretto con Lui. Egli mi ha
creato come questa determinata persona. Questo nome che mi ha imposto
non è racchiuso nella natura generica «uomo». Non si sperde
nell’articolazione dell’universo, e Dio solo lo sa. Perciò io
posso conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più
mio, solo ricavandolo di là, dove è custodito, cioè da Dio. I vari
strati del mio essere possono essere portati alla condizione di
realtà cosciente con maggiore o minore facilità. Quanto più nobili
e più profondi, tanto più difficilmente. L’ultimo diventa reale
soltanto nell’incontro con Dio.
Così
pregava Newman: «Ho bisogno che Tu m’istruisca, giorno per giorno,
su ciò che è l’esigenza e la necessità di ogni giorno.
Concedimi, o Signore, la chiarezza della coscienza, la quale sola può
sentire e comprendere la Tua ispirazione. I miei orecchi sono sordi;
non so percepire la Tua voce. I miei occhi sono offuscati; non so
vedere i Tuoi segni. Tu solo puoi affinare il mio orecchio, acuire il
mio sguardo e purificare e rinnovare il mio cuore. Insegnami a star
seduto ai Tuoi piedi e a prestar ascolto alla Tua parola. Amen».
La
forma più ovvia del raccoglimento sarebbe certo l’ordine.
Ordine della vita e del lavoro
quotidiani, degli oggetti in camera e in casa, delle occupazioni nel
corso della giornata e dei giorni; della lettura, dei pensieri e così
via.
L’ordine
raccoglie.
Raccoglimento
significa qui che sappiamo, una buona volta, non tanto fare, quanto
vivere. Avere un’esistenza tranquilla. Un’esistenza piena, libera
dall’ossessione del fare e del volere.
Noi
tendiamo sempre ad una mèta, poi ad un’altra ulteriore, e cosi di
seguito. Sempre verso qualche cosa che non esiste. Sbrighiamo una
cosa e la gettiamo dietro le spalle. Viviamo gli avvenimenti,
rapidamente e già essi non sono più.
Cosi
viviamo sempre scivolando fra quello che non è più e quello che non
è ancora.
Raccoglimento
significa qui creare il presente, sostare e divenir presenti.