giovedì, marzo 17, 2011

Fede II

Hans Urs von Balthasar

Fede

Fede è abbandono della propria intelligenza, abbandono che si può realizzare in modo radicale e duraturo solo se si compie per amore e per fedeltà. Fede è preferire la verità divina ad ogni verità propria, perché Dio è Dio. La fede è l'amore della conoscenza di Dio. Secondo San Tommaso l'amore è il pincipio di ogno merito e in ultima istanza anche di quello della fede, della sua oscurità, della rinuncia che in essa si manifesta e la carità è l'abbandono di ogni volere e di ogni esssere.

Trad genseki

Fede I

Ultimo desiderio

Di quella fede che da nulla sboccia
Dal nulla che la fede volge a spina
Illeso salto di magica bocca
Che con sangue ripaga chi cammina.

Se più rimbalza a noi soltanto tocca
Torre pietre alle sponde del destino,
L'epidermide magica che scocca
Nel corallo d'un arenil divino.

Nel mormorio dei pini siderali
Le nubi per l'inganno ben costrutto
Del corpo, fiore dell'antico spazio.

Alla città di stranezze materiali
Cristalli invia ancor prima del lutto
Non cessa di filar nubi con strazio.

Lezama Lima


**

Trad.genseki

Lezama Lima

Posso guardare

Posso guardare le tue mani preferite
e l'acanto delle tue tempie dorate
posso guardare l'uccello sepolto
dalle fredde ghirlande dell'autunno
Voglio guardare lamine di sabbia
con i fuochi precisi che le infestano
Sto guardando la tua domanda preferita.

Volano le ghirlande e altre sabbie rotolano
Meglio che nella domanda indifferente
- carrozza di mitili e delfini -
Che correva tra consigli d'oro,
Tiepida divenuta rinata
Iride così cocciuto
Da obbligarmi a segnalare i fiumi
Sulla mappa del tuo ricordo,
Freddo scompigliato dal vento.

Se s'approssima dormendo
Estesa e prolungata,
Tra lenzuola che gloria en avvolgono
Proclamandola teneramente
Astraendosi in bianco, prolungandosi
In celeste chiamata al tuo candore
Se mi desto inciampo
Nell'alone che il tuo respiro rende opaco
In quell'umidità novella
Che l'incantato tatto corrompe
E al fervor è carezza.

Se addormentato
La conchiglia recente mezzaluna
Freccia della domanda tua dormiente
Non amplia e non diverte
Pietra semimobile e foglie congedate
Verso il centro della tua città
Arresa e percossa
Dalla tua fuga, dalla mia fuga.

Resto a guardare la tua domanda preferita.

**

Trad. genseki

Juan Larrea

Vestito di foglie morte

Sognami sognami vestito in fretta stella di terra
Coltivata dalle mie pupille prendimi
Per i miei manici d'ombra
Inebriami d'ali di marmo in fiamme stella stella
Tra le mie ceneri
Poter potere infine ritrovare nella mia
Vertigine la statua
Di un eroer di sole con i piedi a fior d'acqua
Gli occhi a fiore d'inverno
Addio al mondo tra i miei sogni d'addio
Gli uomini
Addio agli uomini e ai paesini delle
Loro mani
Ovunque vi sono spade che mi tagliano
A pezzetti
Oh
Cascate di spade
Cascate di spade èe l'ordine in marcia
Son io che cammino su caverne
Che scrichiolano come crani
Nessuno ancora si era annegato
Nessuno allora stava nell'ombra
Oggi sono io ma io non appartengo
A me stesso più di quanto gli uccelli
Che dormono nei miei occhi
Appartengono a loro.

Trad genseki

Mandorla

Dentro una mandorla si aprì
Questa danza di soli
E il concerto delle vele solo
Là dove più terso soffiava l'alito dell'alloro
Dentro una mandorla ti accolse il tempo
La pioggia di latte e ricino di marzo
Le ali straziate al ritmo del biancospino
Dentro una mandorla si aprì
Questa danza di soli e stelle
Di specchi e lune umida come il bacio
Della salvia
Sul punto di lasciar esplodere
Intera la notte dei suoi fiori
L'oscurità lilla dei suoi petali
Dentro una mandorla fosti latte e gemito
Avvolto in sette sudori
Come veli di ninfe miele ombelicale voli di vespe
Stirando con evidente piacere le dieci dita dei tuoi piedi.

genseki

Vicente Huidobro e Juan Larrea

Luigi Nono : No hay caminos, hay que caminar ... (1/3)

VIcente Huidobro

La poesia è un attentato celeste

Sono assente ma nel fondo di questa assenza
È me stesso che attendo
Il mio ritorno
Mi trovo in altri oggetti
Viaggiando spargo un po' della mia vita
La dono a certi alberi a certi sassi
Che mi hanno atteso per molti anni

Poi stanchi dell'attesa si sedettero

Ci sono e non ci sono
Nello stato dell'attesa sono assente e presente
Essi avevano bisogno delle mie parole per esprimersi
Io avevo bisogno delle loro parole per esprimerli
Ecco l'equivoco, l'equivoco atroce

Angoscioso lamentevole
Vado penetrando queste piante
Sto perdendo i vestiti
La mia carne cade a terra
Il mio scheletro lo ricopre la corteccia

Ecco che sto diventando un albero Quante volte mi sono
Covertito in qualche altra cosa
È un processo doloroso e pregno di dolcezza

Potrei gridare ma finirei per spaventare la transustanziazione
Bisogna tacere de aspettare in silenzio.

trad. genseki

Ho parlato

Ho parlato

Ho parlato fino a divenire danno e vento
Mano distesa
Finestra aperta sul bosco disfatto
Ho cambiato parole con perle
Ho cambiato la parola come un serpente la pelle
Ho covato la parola sotto la lingua
Come il testimone custodisce la prima pietra
Quella della condanna -

Ho parlato per levigare la parola
Fino a farla diventare così sottile
Da essere trasparente al silenzio
Ho parlato fino a che il suono delle mie parole
Fu come il fragore della sabbia
Nell'incendio

Ora ogni fiore è rintocco di campana
Ogni foglia un brivido
In silenzio ora ballo tra la cenere.

genseki

Vicente Huidobro

Vicente Huidobro

Incoronazione della morte

Moriva una colomba sotto i grandi alberi del mondo
Che amara è l'aria nei paesi che sfilano davanti a me
Le nuvole di congedano tra piccole lacrime in cerca
Di un appoggio celeste
Moriva la rosa tremante sul suo piedistallo. Quante leggende
Furono cantate su toni diversi alla sera
Il canto si diffondeva nelle stanze più oscure
Moriva la colomba-in-fiore e il figlio poneva il suo dolore in petto
Al mondo
Partiva nell'aria la colomba-in-fiore e un profondo silenzio cadeva
Sui sentieri
Voglio parlarvi degli occhi della morte. Dell'ultimo respiro
Dei modi di morire che differiscono come differiscono i modi di camminare
Figlio che vuoi fare del tuo dolore passeranno i mesi e gli anni verranno
Altre primavere
Il corteo dei soli e delle stelle con tanto spirito e voci ben scelte
Ho meso tutta l'anima in quest'ultimo sospiro, allora che sarà di me?
Terra senza alberi cuore senza erbe e senza colombe
Come puoi camminare tra le altrui speranze
Che voce solenne è sorta dalla mandorla che canta
Questo era mio che non conosco
Il mare si riempie di anime e le rose ascoltano e le sabbie
Non sanno che fare, che dire
Così si muore con una lieve brezza tra i denti un tremito
Nei petali un riflesso di rugiada extraumana nei
Capelli dolenti e rassegnati
Che voce solenne entra in questo albero di memoria
Fragile come il fumo, come le corde dell'arpa
Che pianto millenario di tribù nella notte e di età
Perdute avvolge i petti dei secoli
Che latrato di caciatori di fortune assassinati nei boschi oscuri
Che singhiozzo orrendo caduto di colpo sotto il letto.
Il sorriso era una cosa dell'alba
L'altra riva dell'amarezza. Il tempo dei semi
Porta scintille nelle sue spade una cappa di gloria sulle spalle
Il sorriso era cosa da magnolie, da bucato
Nel fiume tra la schiuma
Il sorriso era cosa da frutta e finestre aperte era cosa
Da colori sparati nel sole
Oh sospiro dei morti oh anima figlia di mille rose
Perché mi hai sfogliato mentre andavi sfogliandoti fior -di-colomba
Giunge eccolo il sospiro. Tutto è inutile oh vento dall'altra sponda
Ansioso di trovare il suo posto parte il sospiro
Con esso me en vo' spingendo le porte della morte.

Trad genseki

lunedì, febbraio 28, 2011

 
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Le rose dei tuoi petali

Per primi furono i colori a deformarsi
Ritirandosi nelle loro forme geometriche
Poi la neve che con lo sguardo obliquo
Fissava la fuga del branco sull' eisberg
Pericolosamente inclinato della speranza
La lingua penzoloni, tra le nuvole di vapore degli aliti
Cercava la soglia il branco
La soglia tra parola e voce
La tua voce fu la prima a scomparire
A ritirarsi come un cucciolo nella tana della memoria
Raggomitolata nel suo tiepido pudore
Nella sua speranza rassegnata
Anche la corsa del branco era soffice
Le zampe frusciavano sul velluto del ghiaccio
Anche le rose dei tuoi petali erano gelate
E le labbra che non mi baciarono mai
Poi fu lo sguardo ad occultarsi
Tra le pieghe della notte stellata
Restò allora il tuo passo
Il tuo passo che chiedeva tenerezza
I tuoi gesti che la rifiutavano
E le tue parole che divoravano i baci
E la corsa arruffata di tutto il branco
Nell'ansia della luna
Nell'attesa del serpente
La corsa verso il limite ove tutto stinge
per primi i colori poi le dita
E le forme con tutte le loro unghie
E i sorrisi riposti nel carillon
Con la collana di perle false
Con la collana di denti di latte
Nel velluto rosso che il tempo
Va trasformando in farina.

Poi spalancasti gli occhi senza voce
Non avevano più voce i tuoi occhi
La voce gli aveva abbandonati
Nello stupore di uno spasimo di luce

Come dire che amavo l'mpossibilità del tuo amore?
Più profonda di qualsiasi amore
Amavo l'impossibilità di amarti e di essere amato
E in questa negazione ho posto la mia fedeltà
e l'ho tradita teneramente di non poterla smarrire.

È una notte di luna e di ghiaccio
Questa notte di stupore di occhi spalancati
Di oceani come stelle fredde
La cerimonia della fiducia, quella del sogno
Non forniscono protezione in questi casi
Comunque non avresti potuto sopportarne lo sforzo
Dentro l'occhio sbarrato si smarrì la tua voce
Un bosco, una foresta di voli, la separava ormai
Dagli altri rintocchi
Avevi appena finito di ordinare le tue cose nell'armadio
Avevi predisposto tutto con limpida speranza
La morte non osavi sperarla
Non osavi chiedere il suo abbraccio.

*

Una tempesta di campane pesava sulle nostre tempie
Come una corona
Ma fu dei tuoi occhi l'ultimo rintocco

Smarrita la tua voce si guardava intorno
Tra il brusio di tutte quelle foglie
Mentre il dentro diventava il fuori
E tutte le fotografie si accartocciavano
Al fuoco al sangue

Ma questa volta era la parola a udire
La parola ad ascoltare le tue pupille.

Non furono le tue dita a sfiorarmi le tempie
Altrove scostandomi dalla fronte i rami del sicomoro

genseki

Juan Larrea

Dente per dente

Nel paese del riso la cenere precede il fuoco
La neve precede gli uccelli
Le lacrime i loro troni

Quello che all'inizio è speranza camminando si fa orma
Quello che accade lascia separati i colori
Ma soggetti a un qualche oscuro inganno

Per perdere la vita non vi èe che un motivo il cielo
Le bocche hanno l'odore del desiderio di scoprire un bel delitto
Un caffé non è mai lontano

Uniti da una medesima tendenza
Quando l'alba paga le sue nubi con la vita
Uniti come monete nel prezzo di una donna nuda
Le membra di un uomo non vi lasciano niente da desiderare
Come eclissi parziali
Assoli d'arpa
Come spari nel vento
Come fiammifferi

III

Tanto progresso introdotto nella
Nostra pallida nevralgia miseria di stufa
Senza dolore senza domatore senza
Nulla di simile al ventre materno
A occulti tesori

Vecchi lupi di speranza fumando
All'origine delle lacrime lontano dalle
Montagne che sanguinano dal naso dei fiori
Amarezza rimpiazza le ulcere di ceralacca
I granchi nelle notti di pioggia
Le donne perdute in ogni
Imboscata di freddo che
Si sporge ancora dai rami mascherati di statura
Merci luminose delle sue ginocchia
Disposte a cadere al bordo del'ombra in fiamme
Come gru di impulsi sinceri
Catena degli incompresi sempre

Da “Oscuro Dominio”
trad. genseki
 
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Per Il volo possibile

Il solo volo possibile fu quello delle tue iridi
Ma non vi arrise il sorriso
No, sfuggente alla piena libertà del dolore,
Si stancava per tutti noi
Per le foglie caduche
Per i gattici novelli
Per le piume smarrite – solo per sé non aveva rimpianti -
Ora il tuo sguardo è rame e fragore
La tua voce stridula richiama
Il germano che vola sul greto tra la nebbia
All'altro capo di nessun telefono
Ti distendo le mie parole
Come tante mancanze vuoti intermittenze
Sei pioggia di campane ora
Nubifragio di rintocchi misericordiosa
A tutti i viventi alle loro lacrime grata
Tu che amarezza piegasti a tenerezza
Ora consoli
L'arida disperazione che si screpola in lamenti
Sei pioggia e mormorio e carezza – ora -
E riva di un mare dolcemente violetto
Come la luna che fu
A te non culla
Ma falce


genseki

giovedì, febbraio 24, 2011

Berg Violin Concerto pt 1 - Frederieke Saeijs

Alla mamma

Novellamente foglie d'olivo

Altro vento si disfa anche più chiaro

Ancora appena appena più chiaro

In questo sospiro dorato, di tromba o zampogna

E tutte quelle pelli che pendono dai pali

Con macchie di sangue rappreso,

Pelli di coniglio, pelli di lepre, di fauno, di leprecauno

Pelli di lucciola e di bisonte, e pelli conciate

Con il minio, con la cenere

Con succo di felci, con calce, con caolino

Aspettando un vento che apra la porta

La porta del monte, quella dell'arcobaleno

In una pioggia fitta di aghi, in un mulinello di conifere

L'osteria dove ci eravamo fermati a bere

Sporgeva pericolosamente inclinata

Sul burrone accanto al cedro, sul lago

E non vi era maniera di fermare il tempo

Lanciato giù per i foschi tornanti

Anche se era evidente che ogni gesto

Era infinito immobile nel sempre;


Ora sei tu nella libertà cava della foresta

Nello spazio incalcolabile del nulla

Noi qui i prigionieri delle posate,

Della teiera, delle briciole sul capodimonte

Noi qui strettamente contenuti nei limiti opachi

Dell'essere

Della vita

Non possiamo più conoscerti

Non possiamo udire il graffiare delle tue unghi sottili

Sulla pellicola sferica dell'esistenza come cinque lune d'argento

Affilate

Come dieci lune pallide sottili svelate alla fine in un sibilo solo


Avresti voluto tu abbandonarti nel grembo fresco di Kannon

Udire con le sue mille e mille orecchie

La solitudine e il dolore del mondo

E mutarti, rivelata a te stessa compassione universale che non godesti


Il vento risveglia lo splendore dell'erba

mescola rosmarino e mimosa in un solo abbaglio

A una svolta si sciolgono i capelli

Come grandine battono sull'eternit le perle di Proserpina


Da un angolo hai visto il mondo

Dal tuo angolo senza pretendere più di uno sguardo

Dal mondo e sul mondo

Scontrosamente certa di non poter pretendere altro che quella insicurezza

Di bambina amara per sempre

In un bosco di mandorli su prati di prezzemolo, sfogliando la fredda

acidità

Del croco

Grano a grano, magra, tu ferita dalla nebbia


Lui averbbe dovuto essere li lei con il suo cappotto blu

Lui biondo e con la febbre, lei con le bende virginali

Ritta sulla luna, sul serpente con la tua valigia nella mano

Piena di foto, adesso, di cioccolato e di speranza.


Dove si erano smarriti?


Le dita delicate delle fave escono dalla terra

A liberare le anime dei morti recenti

de è tutta una festa di nebbia che tintinna, che trilla

Sbronza d'api come fibbie sul broccato delle crucifere


Avresti dovuto essere per un momento la mia bambina

Cercare la mia mano con gli occhi spalancati

Avrei asciugato le tue lacrime se cadendo ti ferivi le ginocchia.


Avrei asciugato le tue lacrime, sai?

Morendo mi sveli alla morte mi spalanchi la sua porta

C'è vento

I tuoi occhi non li riconosco

Sono di rame i tuoi occhi adesso


Il vecchio barbuto getta i remi sul fondo del suo palustre barcone

I fiori qui sono acidi come il gelo della primavera

La tua moneta la stringi contro il petto

Nelle manine la serri per non dargliela

Cerchi le tue lacrime che fuggono su su per le funi di pioggia come insetti opachi

Gli occhi del vento hanno pupille come ali di bronzo

Che si aprono e si serrano con fragore.


Adesso posso percorrere tutti i sentieri

Nella febbre incipiente del disgelo

Sono un seme, lo sai? piantato dalla tua morte.


Trilce XVIII

César Vallejo




Da Trilce


XXVIII




Ho fatto colazione da solo, senza


Madre, senza supplica, senza serviti, senz'acqua,


Senza padre che, nel facondo offertorio


Delle pannocchie chieda del suo ritardo


Di immagine, per le maggiori fibbie del suono.




Ma come avrei potuto far colazione. Come servirmi


Da piatti tanto lontani tali cose,


Ora che si è spezzato il focolare stesso


Quando madre neppur s'affaccia alle labbra


Come avrei mai potuto mangiare nonniente.




A casa di un buon amico ho fatto colazione,


Con suo padre appena tornanto dal mondo,


Con le sue zie canute che parlano


Con piccoli rintocchi di porcellana,


Bisbigliando da tutti i loro vedovi alveoli;


E con franche posate d'allegro tirritero


Che sono a casa loro. E allora grazie!


Che male mi dolsero i coltelli


Di questa mensa fin su nel palato.




Abbuffarsi è così a queste mense ove si gusta


Amor alieno e non il prorip amore


Ecco che si fa di nuovo terra la brocca che MADRE non porge


Colpo sferra la dura deglutizione; il dolce,


Fiele; olio o funebre caffé.




Quando spezzato giace il focolare


E dalla tomba non esce l'invito materno


Scura, scura la cucina, la miseria d'ampre.



César Vallejo
Trad. genseki