martedì, marzo 16, 2010

I sufi di Andalusia

Abdallah ben ja'dûn al-Hinnawi ben Muhammad ben Zakariyya.

Morì a Fez nel 597/1201. L'avevo presentato al mio compagno Abdallah Badr al-Habashî, Questo Maestro era uno dei quattro awtâd grazie ai quali Allâh preserva questo mondo. Egli aveva chiesto ad Allâh di cancellare la sua buona reputazione dal cuore di tutti, in questo modo quando era assente, non era rimpianto da nessuno e quando era presente nessuno gli rivolgeva la parola, quando giungeva in qualche posto non gli davano il benvenuto, non conversavano con lui e tutti lo ignoravano.

Io ero giunto a Fez e mi ricordo che alcune persone, avendo udito parlare di me, volevano incontrarmi. Io, invece, non avevo intenzine di vederli, lasciai la casa dove dimoravo e andai alla moschea. Non avendomi trovato in casa, queste persone vennero alla moschea. Io li vidi giungere e quando mi domandarono dove fossi risposi loro: “cercatelo fino a quando non lo troviate”.
Mentre stavo li seduto, molto ben vestito, improvvisamente vidi il Maestro davanti a me. Non lo avevo mai visto prima di allora. Mi disse: “Che la pace e la benedizione di Allâh siano su di te”, io risposi al suo saluto. Allora egli aprì un libro di al-Muhâsibî, il Trattato sulla conoscenza” me en lesse un passaggio e mi chiese di spiegarglielo. Per ispirazione divina, conoscevo già la sua identitità e il suo maqâm, sapevo che era uno degli awtâd e che suo figlio avrebbe ereditato il so maqâm. Gli dissi, allora chi era e quale fosse il suo nome. Egli chiuse il libro, si alzò e disse: “sii discretissimo perchè nutro affetto per te e vorrei conoscerti meglio. La tua aspirazione è autentica.”
Quindi mi lasciò. Da allora ci incontrammo soltanto quando nesun altro era presente.
Soffriva di un danno alla lingua e parlava con difficoltà; tutavia, quando leggeva il Corano la sua pronuncia era eccellente. Quast'uomo che faceva grandi sforzi sul cammino spirituale era commerciante di henné. I suoi capelli erano sempre in disordine e pieni di polvere, egli ungeva gli occhi di kohl per proteggerli dalla polvere di henné.

Ad-Durrat al-fakhirah

Quando parlava passava per matto, quando sedeva in un'assemblea gli altri si alzavano e se en andavano perché lo trovavano fastidioso. Questo stato di cose gli piaceva molto. Un giorno me en stavo seduto presso il minareto quando ibn Ja'dûn venne a sedersi davanti a me dopo avermi salutato. Aprì un libro di al-Muhâsibî. il Trattato della conoscenza. me en lesse un passaggio e mi chiese di commentarlo. Lo feci. Mi disse: “Compagno, se non smetti, rivelerò a tutti la tua funzione, tu sei uno dei quattro. Mi chiese, allora, di non svelare la sua identitá e promise di fare lo stesso per me.
Ibn Arabi
trad a cura di genseki

A cosa pensavano i due cavalieri nella foresta

Questa poesia di Hugo, tratta dalla raccolta: "Les contemplations" è uno dei pocchissimi esempi di poesia romantica della letteratura francese, con alcuni testi di Nerval. Sembra di udirla con la musica di Schuman o di Wolf.


Cosa pensavano i due cavalieri nella foresta

Oscura era la notte e la foresta cupa
Al mio fianco Herman era come uno spettro
I cavalli al galoppo. Che Dio voglia guidarli!
Le nuvole del cielo sembravano di marmo.
le stelle volavano tra le chiome degli alberiI
Come uno stormo d'uccelli ardenti.

Son gonfio di rimorsi. Spezzato dal dolore.
Lo spirito di Hermann ha perso la speranza.
Son gonfio di rimorsi. Amori miei dormite!
Mentre percorrevamo questo verde deserto,
Herman mi disse: "penso alle tombe socchiuse;"
"Penso" - io gli risposi " alle tombe ormai chiuse".

Egli guarda in avanti ed io guardo all'indietro
I cavalli galoppano in mezzo a una radura;
Il vento porta l'eco di un angelus lontano
"Io vo pensando a quelli che l'esistenza affliggei".
Queli che ancora sono, quelli che ancora vivono"
"Io penso - gli rispondo: "a quelli che son morti".

Le fontane cantavano. Che parole cantavano?
Le querce mormoravano. Che cosa mormoravano?
Gli arbusti susurravano come dei vecchi amici.
Herman mi disse: I vivi non possono dormire,
Vi sono occhi che vegliano, vi sono occhi che piangono."
Io gli risposi "ed altri giacciono addormentati."

Herman riprese allora:. "È la vita sventura.
I morti più non soffrono. Infine sono in pace!
Come invidio le tombe ricoperte di erba
Sulle quali l'autuno fa cadere le foglie
E la notte accarezza con le sue dolci fiamme
Perhé il cielo raggiante calma tutte le anime.

Gli risposi; "silenzio, rispetta il gran mistero!
I morti son distesi nella terra che premi.
I morti sono i cuori che un tempo ti hanno amato
Il tuo angelo estinto! Son tuo padre e tua madre
Non devi rattristarli con amara ironoa
Come attraverso un sogno ci odono parlare.

Victor Hugo
Trad. genseki

venerdì, marzo 12, 2010

Corvacci II

Questa versione di corvacci è molto più oggettiva della precedente.
genseki

*

Inmediatamente volò verso tutti quei corvi
Portato dal vento del latte
Con tutti i rottami di altri, violato -
Manichini rotti, occhi unghie
Le ferite nel petto
E quel vestito poporporino molto caro
Ricamato con lacrime e nocciole
Pascoli biancospino
Le ciliege, le gocce di sangue della passione
Quel tremito che scuoteva il suo corpo torturato
Lo fece precipitare la moltitudine che stava a Sula
Come fosse pioggia di rubini, spilli, l'acqua, il sudore lo spirito
Perfino la lingua lo leccó tutto fino al bordo
E allora si ruppe in mille idiomi porpora
Come Dimitri succhiato Royce
Lo stenditoio dei vestiti dei fiori Estrelle di Sicilia
E I CORVI corvacci a sbattere le alucce nella fronte
In cerca di altre piscine di olio di anice, di ottone
Era la febbre, le spine nelle tempie, la tunica azzurra
Madre
No, non dentro la madre della madre
C'era il vecchio rovere
Quello che apparve repentinamente nel giardino
Quando voltò la testa
Ufficio del Direttore, emozionato
Non c'era prima e ora minaccia il cristallo sporco
Con bollicine di parecchi appena azzurra sul bordo
Tocca con i suoi rami neri di foglie leggermente arancioni
Su cui riposavano i corvi stridenti
Percorso della primavera dei suoi baffi
Proprio come molti piloti da caccia
E quello che aveva perduto gli occhiali.

genseki

Corvacci

Volarono via di colpo tutti quei corvi
Trascinati dal vento di latte
Con tutti gli altri rottami violati
I manichini spezzati, gli occhi i chiodi
Le ferite del costato
E quell'abito viola tanto costoso
Ricamato di lacrime e nocciole
e di tutte le parole abbiette
Quante! Fino al terremoto dette,
Fino al sollevarsi immenso della spalla del mare
In un getto di vomito salato
Una lingua, sapete, verde e gialla
A leccare i pascoli, il biancospino,
Le amarene, le goccioline di sangue della passione
Che scuotendo scuotendo il corpo tormentato
Egli faceva cadere sula folla che lo assisteva
Come una pioggia di rubini, di spilli, di acqua, sudore, spirito
Fino a che la lingua leccò tutto via
E si ruppe poi in altr mille lingue violacee
Che succhiavano la Royce di Dimitri
Lo stenditoio di estrelle con i vestiti siciliani a fiorellini
E i corvi, corvacci svolazzando davanti
In cerca di altre pozze di olio di anice, di ottone
Era la febbre, le spine sulle tempie, la tunica azzurra
della madre
Senza dentro la madre
la madre era quella quercia rossa secolare
Che era apparsa di colpo nel giardino
Quando aveva girato la testa
nell'ufficio del direttore, emzionato,
Prima non c'era e ora minacciava i vetri sporchi
Con tante bollicine leggermente azurrate
Sfiorandoli s¡con i suoi rami neri dalle foglie delicatamente aranciate
Su cui si posarono i corvi stridenti
Lisciandosi i baffi primaverili
Come tanti piccoli piloti da caccia
Che avessere smarrito gli occhiali protettivi.
genseki

Sogno per l'inverno

L'inverno ce ne andremo in un vagone rosa
Con azzurri cuscini
Come staremo bene!
Un nido di folli baci riposa
In quei morbidi angolini.

Chiuderai gli occhi per non vedere oltre il vetro
Le smorfie degli spettri cupi
Arcigni mostri di un branco tetro
Di demoni neri e di lupi.

Poi sulla guancia, sentirai un prurito
Un bacetto, come un ragno impazzito
Percorrerà la tua nuca deliziosa

"Cercalo!" - mi dirai inclinando la testa.
Quanto a lungo la cacceremo quella bestia
Che sfugge senza posa.

A. Rimbaud
Trad genseki

Sogno per l'inverno

martedì, marzo 09, 2010

Un bacio

L'ostia dei tuoi denti è canneto
Alla voragine dei miei baci
O mia Kundri, tramestio di tanti ricordi
Di piazze, lampioni arancioni, solitudine
Castelli radiali e cavernosi kebab.
Ogni dente è un cigno per la freccia della mia lingua
Uno ad uno li accarezzo, li assaporo
Come l'euforbia e la graminacea di maggio
Assaporano il filo della falce:
È più di un grido è un volo scorticato
Diglielo per una vota allo spadaro
Sulla tolda del vascello pietrificato.

*

genseki

Trilce

I testi che seguono sono tratti da Trilce e si riferiscono ai nuclei tematici dell'infanzia e del carcere. L'infanzia declinata al futuro e il carcere come corpo carnale del soggetto reificato. I due temi sin uniscono nel componimento LVIII in una dialettica chiusa di speranza senza speranza
genseki

Cesar Vallejo

Trilce

L

Can cerbero per ben quattro volte
Ogni giorno manipola i lucchetti, apre
E chiude il nostro sterno, ammiccando
In modo che intendiamo perfettamente.
Con i fondelli goffi melanconici,
Vecchio ragazzo di trascendentale trascuratezza,
Fermo, è adorabile il vecchietto.
Scherza con i prigionieri, quanto può
I pugni ficcati nelle anche. Il burlone
Rode loro i bei bocconi, sempre però
È ligio al suo dovere.

Tra le sbarre interroga
Inavvertito, issandosi sulla falange
Del mignolino
Sulla traccia di quello che dico,
Di quello che mangio
Di quello che sogno.
Il corvaccio spalanca ogni intimità
E come ci fa male quello che vuole il Can Cerbero.

Con un sistema ad orologeria,
Gioca il vecchio imminente, pitagorico
Su e giù per le aorte, e soltanto
Di sera in notte, di notte
Tollera alcuna metallica eccezione,
Sempre, naturalmente compiendo strettamente il suo dovere.

*

LII

E ci alzeremo quando ne avremo
Voglia, anche se la mamma tutta luce
Ci svegli con canterina bella collera materna.
Noi ce la rideremo ben nascosti
Mordendo il bordo alle tiepide coperte
Di vigogna , dai! Non mi fare il solletico!

Fumo dalle baracche, ah quei monelli
Uccelletti! Si saranno alzati presto per giocare
Con gli azzurratissimi aquiloni,
E tra frantoio e pietra, ci mandano
Il fragrante richiamo della stalla,
Per tirar fuori da noi
Il bebè che non sa ancora l'abbecedario
E che si mette a litigare per i fili.

Un altro giorno vorrai pascolare
Tra le tue cavità onfaloidi
Avide caverne
Noni mesi
I miei sipari
O vorrai accompagnare i vecchietti
A sturare la presa di un crepuscolo
Per che sgorghi di giorno
Tutta quell'acqua che scorre di notte,

E arrivi morendo dal ridere,
E nel pranzo musicale
Mais soffiato, farina con lardo,
Con lardo
Prendi in giro il peone sdraiato
Che anche oggi dimentica il buongiorno
Quei suoi giorni buoni con la B di balordi
Che insistono a scoppiargli al poveretto
Per la culatta della V
Labiodentale che veglia su di lui.

*

LIII

Chi grida le undici non sono le dodici!
Come se le avessero spinte, si affrontano
A due a due undici volte.

Che brutta testata. Si affacciano
Le corone ad udire,
Senza però superare gli eterni
Trecentosessanta gradi, si sporgono
Esplorano invano, ove entrambe le mani
Nascondono l'altro ponte che nasce
Tra gravi scherzi liturgici.

Torna la frontiera a provare
Le due pietre che non giungono a occupare
Una stessa stazione nello stesso tempo.
La frontiera, ambulante bacchetta, che segue
Immutabile, eguale, soltanto
Più lei ad ogni guizzo in alto.

Vedi ciò che è senza poter essere negato,
Vedi ciò che dobbiamo sopportare.
Per quanto ci costi.
Quanto si une in gomiti
Che giungono alla bocca.

*

LVI

Tutti i giorni mi sveglio alla cieca
A lavorare per vivere; faccio colazione
Senza assaggiare nemmeno una goccia, tutte le mattine.
Senza sapere se ce l'ho fatta o mai più
Qualche cosa che schizza dal sapore
O è solo cuore e che è ritornato, lamenterà
Fin dove è il meno peggio.

Il bambino sarebbe cresciuto sazio di felicità,
o albe,
Di fronte al rimorso dei genitori di non poter cessare
Di condurci dai loro sogni d'amore a questo mondo;
Di fronte a loro che di tanto amore
Si compresero fino a creare
Ci amarono fino a farci male.

Frange d'invisibile tessuto,
Denti che spiano da neutra emozione,
pilastri
Liberati da base e capitello,
Nella gran bocca che voce ha perduta.
Fosforo e ancora fosforo nell'oscurità
Lacrima e ancora lacrima nel mulinello polveroso.

*

LVIII

In cella, nel solido, persino
Gli angoli si rannicchiano.

Sistemo i nudi che si raggrinzano,
Si spiegazzano, si stracciano

Scendo dal cavallo che ansima e sbuffa
Linee di schiaffi e orizzonti;
Spumoso il piede ogni tre zoccoli.
E lo aiuto: dai, animale!

Si prenderebbe meno, sempre meno
Di quanto mi toccherebbe erogare,
In cella, nel liquido.

Il compagno di cella mangiava grano
Delle colline con il mio cucchiaio,
Quando bambino, a tavola dei genitori,
Mi addormentavo masticando

Mormoro a qull'altro:
Torna, esci dall'atro cantone;
Rapido, in fretta, lesto!

E inavvertito, allego, pianifico
Ci sta il pagliericcio sfasciato, pietoso.
Non credere. Quel medico era sano.

Non riderò più, quando mia madre prega
Nell'infanzia, domenica, alle quattro
Del mattino, per i viandanti,
I carcerati
I malati
I poveri.

Nel recinto dei bambini più non picchierò
Coi pugni più nessuno di loro, che, poi,
Ancora sanguinanti piangerebbero:
Sabato prossimo ti darò il mio prosciutto, però
Non mi picchiare!
Non dirò più d'accordo.

In cella, nel gas illimitato
Fino ad arrotondarsi nella condensazione
Chi inciampa là fuori?

César Vallejo
trad. genseki

lunedì, marzo 08, 2010

La terra mi schiaccia

La terra mi schiaccia nel suo pugno di tempestosa angoscia
Che nessuna si muova! Ora si ode il volo di una mosca che si apre il cammino
Unifica la giornata in cerca di un fine
Annodiamo nei fazzoletti i minuti che ci separano!
In alto le mani! Per accogliere l'angelo che sta per cadere
Che sta per disfarsi in neve di lucciole sulle vostre teste
Cielo malato del vento che troppo ha soffiato
Noi, proprio noi pagheremo i dolori i debiti senza numero...

Tristan Tzara

Trad. genseki

domenica, marzo 07, 2010

Teatro

Qual era il senso, il significato dell'affannarsi
Di tutti quei personaggi sul palcoscenico
Sullo sfondo di sole ardente
Tra ardenti graminacee, cereali come spade
All'ombra relativa di poche tamerici
Germinando, amando, fiorendo, tradendo
Ingannati, radicati, supplicando, ronzando
Movendo senza freni desideri e inibizioni
In una contorta scalata al cielo a cavallo
Senza nubi, con pesanti fardelli di nicotina
Sferrando potenti colpi al destino
Ma sempre diffidando dei funghi e dei loro strani poteri
Di dilatare il tempo molto oltre l'orizzonte degli eventi?
Qual era il senso? Il reale? Dietro il telone purpureo
Che ad ogni atto cala come una catarrata di sangue
Sangue sparso da tante spade, sperso tra le spighe
Tra le ginocchia degli ultimi opliti
Premendo la terra della loro e della nostra vergogna.
Era plurale il senso dei loro minuetti
Sempre includeva la luna, i bei modi, l'amido
Il calzascarpe a testa di serpente i mobili color polenta
Della nonna Azzurra nel suo reame di gerani,
Era ambiguo quello sfiorarsi continuo delle ciglia
L'incrociarsi minuziose degli sguardi allo scambio
Del tranvia
Salire e scendere tutte quelle scale
Ferite le palpebre alla vista reiterata dei carciofi
Al mercato del Damm.
Qual era il senso? La vita, forse,
Il cobalto della libertà, il verde colore
Del farsi crescendo di negazione in negazione
Fino a loro stessi, a noi
Cuore per cuore.

*

genseki

Biunità divina

Seyyed Hossein Nasr

Se Ti chiamo,
Sei colui che invoca il Tuo stesso Nome,
Come potrebbe la Tua unicità accettare il mio io come un Io?
La Tua Ipseità soggiace a ogni io che ti invoca;
Oltre l'io e il tu
Del noi e del loro
Del lui e del lei
Oltre tutti i nomi
Sta il Tuo
L'Unico.
Tutti i soggetti si fanno eco della Tua Unicità,
Perchè solo Tu puoi profferire questo Io
Che le creature usurpano come loro.
Ci sono un io e un Tu,
Ma la Tua Unicità comprende entrambi
Mentre la Tua immagine sullo specchio dell'anima mia
Esclama:
“O Tu che sei il mio io,
Salvami da questa dualità!
Che la Tua Unicità regni
In questo istante eterno
Porto sicuro dell'allora e dell'adesso.
Como posso dirTi Tu,
Se io non sono e Tu sei Io?
Lascia che per l'ultima volta brilli questa verità,
Permetti he la Tua Unicità
Faccia a pezzi questo Io pretenzioso
E riveli infine l'Uno che comprende
L'Io e il Tu.

Trad. a cura di genseki

Place Dauphine


Nadja



Quello che segue è un percorso alll'interno del romanzo Nadja di André Breton. Il percorso passa attraverso diverse tappe secondo la successione delle pagine o in ordine abbastanza casuale. Nadja è lo sventurato oggetto nelle mani di Breton che la modella con una violenza e un cinismo indecifrabili per farne l'incarnazione della possibilità surrealista. Nadja è l'opera d'arte voluta da Breton e scolpita nella sofferenza di una ragazza malata. Si tratta del sacrificio umano surrealista. Quello stesso sacrificio che Bataille teoricamente più, o forse è meglio dire meno, scrupoloso di Breton descrisse ma non giunse mai a realizzare.
Nadja è cosciente per tutto il tempo della violenza che Breton esercita su di lei ed egli, con perfetta onestá artistica non lo cela. Nadja è un storia gotica, un testo del Guignol, una malattia morbosa illuminata da qualche lampo notturno d'amore.
L'arcangelo sulla soglia di questo paese dei supplizi è naturalmente:

Rimbaud

Ove Rimbaud appare come il Verbum il dio della deriva e dello splendore dell'immaginario.

Il potere incantatorio che Rimbaud esercitò su di me intorno al 1915 e che a partire da allora si è distillato nella sua quintessenza in qualche rara poesia come Devozione, è forse, allora ciò che mi ha consentito, un giorno in cui passeggiavo solo sotto una pioggia battente, di incontrare una ragazza, che per prima mi rivolse la parola e senza tergiversare, appena dopo pochi passi si offrì di recitarmi il “Dormeur du Val”. Era una cosa davvero inaspettata, fuori stagione.

A questo passo di Nadja Breton aggiunge nel 1962 la nota seguente:

La parola “incantatorio” deve essere intesa letteralmente. Per me il mondo esteriore corrispondeva in ogni istante al suo mondo, che per dirlo piú chiaramente lo quadricolava: sul mio percorso quotidiano al margine di una città che era Nantes, si stabilivano folgoranti corrispondenze con il suo. Un angolo di villette, la linea dei loro giardini, io riconoscevo tutto questo come attraverso il suo occhio, creature apparentemente ben vive che, all'improvviso scivolavano nella sua scia.

Sul lavoro

Qui Breton tratta credo più direttamente del lavoro “poetico”, ma non necessariamente. La concezione del lavoro che sviluppa nelle linee che seguono egli afferma doverla al suo incontro con Nadja.

… e, soprattutto che non mi si venga a parlare di lavoro, voglio dire del valore morale del lavoro. Sono obbligato ad accettare l'idea del lavoro come necessità materiale, e in questo senso sono estremamente favorevole a una sua migliore e più giusta ripartizione. È già abbastanza che le sinistre necessità della vita mi obblighino a lavorare, ma, per favore, non mi si obblighi a crederci, a riverire il mio o quello degli altri. Questo, poi, giammai.
Preferisco ancora una volta avanzare al buio piuttosto che volermi credere uno di quelli che procedono in piena luce.
Non serve a niente essere vivi per tutto il tempo in cui si lavora. L'avvenimento dal quale ciascuno ha il diritto di aspettarsi la rivelazione del senso della propria vita, questo avvenimento che forse io non ho ancora trovato ma sul sentiero de quale cerco me stesso, non lo si compra con il lavoro...

Il primo ritratto di Nadja

… vedo una giovane, vestita molto poveramente, anch'ella mi vede. Avanza a testa alta, a differenza degli altri passanti. Così gracile che pare appena gravare il suolo nell'andare. Un sorriso impercettibile sembra errare sul suo viso. Truccata in modo curioso, come chi, avendo cominciato dagli occhi, non ha avuto tempo di finire. Il bordo degli occhi, tuttavia, troppo nero per una bionda. Il bordo, non la palpebra (un tale effetto lo si ottiene solo passando con cura la matita sotto la palpebra. (...)
Non avevo mai visto occhi così. Senza esitazione rivolsi la parola alla sconosciuta, aspettandomi il peggio, ne convengo. Ella sorrise, ma molto, misteriosamente, direi come se la sapesse lunga, anche se allora non potessi saperlo io,

L'apparizione di Nadja preparata dalla rivelazione di Blache Derval-Solange, (è come se Nadja uscisse fuori da Blanche-Solange, come se si duplicasse da lei) richiama certe atmosfere stilnoviste, o forse preraffaellite e forse perfino francescane. L'osservazione che Nadja e pare appena toccare il suolo richiama alla mente le rappresentazioni pittoriche gotiche in cui i personaggi paiono come sospesi con le punte dei piedi rivolte verso il baso in diagonale su sfondi d'oro chiaro.

Ancora sul lavoro
p. 34

La maggior parte dei viaggiatori sono persone che escono dal lavoro. Ella si siede in mezzo a loro, ella cerca di sorprendere sul loro volto quello che può costituire l'oggetto delle loro preoccupazioni. Pensano, per forza a quello che appena cessato di fare fino all'indomani, e poi a quello che gli aspetta la sera, che li rilasserà o li renderà ancora più ansiosi. Nadja guarda qualche cosa in aria: - “Ci sono brave persone”. Ancora più emozionata di quanto io mi sforzi di non apparire. Questa volta mi irrito: - “Ma no, le cose non stanno così, questa gente non è interessante per il fatto di sopportare il lavoro o altre miserie. Come potrebbe elevarli una vita così se la rivolta non è forte in loro più forte? Adesso, Lei o nota, del resto, non ci vedono. Odio, con tutte le mie forze, questo servilismo che mi si vuole proporre come un valore. Compiango l'uomo condannato a questa pena, che, in generale non vi si può sottrarre, ma non è la durezza della sua condizione che mi muove a compassione, bensì solo e soltanto il vigore della sua protesta. Io so che presso il forno di un'officina o di fronte a una di quelle macchine inesorabili che impongono tutto il giorno, con intervalli di qualche secondo, la ripetizione dello stesso gesto, o in qualsiasi altro luogo e sotto gli ordini meno accettabili, o in cella, o davanti a un plotone d'esecuzione, ci si può sentire liberi, ma non è il martirio che si subisce che crea questa libertà. Questa libertà piuttosto uno svincolarsi permanente e, inoltre, perché questo svincolarsi sia possibile bisogna che i vincoli non ci strozzino come invece avviene con molti di coloro di cui Lei parla. La libertà, tuttavia, è anche, forse umanamente molo di più, la meravigliosa serie dei passi che è consentito all'uomo di fare senza vincoli, Questi passi costoro li saprebbero fare?, Ne hanno almeno il tempo?, Il cuore? Brava gente? Si, come coloro che si fanno ammazzare in guerra …
Quanto a me, io confesso che per me questi passi sono tutto. Dove vanno? Questa è la vera domanda. Finiranno per descrivere un cammino e su questo cammino, forse, potrà apparire il mezzo per liberare dai vincoli o aiutare a liberarsi coloro che non hanno potuto seguirlo. Solo allora sarà bene aspettare un po', senza però tornare indietro.”

Questa lunga perorazione rabbiosa e ribelle potrebbe parere fuori luogo, non saprei spiegare perché a me non lo sembra se non ricorrendo al dubbio argomento autobiografico che ha messo è successo diverse volte di pronunciare simili perorazioni in situazioni astrattamente analoghe e anche peggio.

Nadja non cercò di contraddirmi... portò invece il discorso sulla sua salute, molto compromessa .

Secondo ritratto di Nadja

Abbastanza elegante, in rosso e nero, un cappello ben scelto che si tolse, lasciando scoperti i capelli avena che avevano rinunciato al loro incredibile disordine, porta calze di seta e scarpe perfette.

Nella descrizione precedente non si trova nessuna osservazione sul colore e neppure sul disordine dei capelli di Nadja. Il disordine dei capelli, evidente simbolo della deriva, appare invece qui dove Nadja si presenta in forma ctonia, come quasi una divinità della soglia.

Place Dauphine

Place Dauphine è uno dei luoghi più profondamente ritirati che io conosca, uno dei peggiori terreni vaghi che vi siano a Parigi, Ogni volta che mi ci sono trovato ho sentito che poco a poco la voglia di andare altrove mi abbandonava, ho dovuto discutere con me stesso per liberarmi da una stretta dolcissima, troppo gradevolmente insistente e sfibrante. Inoltre ho abitato per qualche tempo un hotel che dava su questa piazza: “City Hôtel, in cui il via vai a ogni ora, di giorno e di note è sospetto per chi non si accontenta di soluzioni troppo semplici),

Veggenza

Lo sguardo di Nadja fa il giro delle case, ora: “La vedi quella finestra lassù? È nera, come tutte le altre. Guarda bene. Fra un minuto si illuminerà. Sarà rossa.

Place Dauphine spaventa Breton e Nadja un sentimento di paura, dice Nadja: “Che orrore! Lo vedi quello che succede tra gli alberi? È il vento azzurro? L'azzurro è il vento, il vento azzurro. Una sola altra volta ho visto passare il vento azzurro sotto questi stessi alberi...”

Il getto d'acqua

Verso mezzanotte, eccoci alle Tuileries, ove ella desidera che ci sediamo un momento. Davanti a noi sprizza un getto d'acqua di cui sembra seguire la curva. “Sono i tuoi pensieri e i miei, Vedi da dove partono tutti, fino a dove si innalzano, e poi è ancora più bello quando ricadono, poi si fondono all'improvviso e di nuovo risalgono e poi ancora questo slancio spezzato, questa caduta... e così via, indefinitamente”. Io esclamo: Nadja, che strano! Dove sei andata a prendere proprio questa immagine che si torva rappresentata quasi nella stessa forma in un'opera che tu non puoi conoscere e che ho appena letto?”

Nadja

… ella è pura, libera da ogni legame terrestre, … ella appartiene appena, ma meravigliosamente alla vita. Tremava, ieri, di freddo forse. Vestita così leggera.

Un bacio

Bacio con rispetto i suoi denti bellissimi e ella dice, con gravità e lentamente, la seconda volta in una tonalità più alta della prima: “La comunione avviene nel silenzio...La comunione avviene nel silenzio.”. Mi spiega che questo bacio le lascia la sensazione di qualche cosa di sacro, ove i suoi denti “stavano al posto dell'ostia”.

giovedì, marzo 04, 2010

Il segreto

Qualunque fosse il segreto

Qualunque fosse il segreto, il nostro
Queste parole non l'avrebbero mai rivelato
Come ogni segreto non aveva parole adeguate
Per essere svelato
Ogni parola, piuttosto era un nuovo velo
Posto a negare la sua manifestazione.

genseki

martedì, marzo 02, 2010

Mani? Ciotole

Un tempo pensavo che le mie mani
Fossero ali piuttosto che mani
Attesa o resto di un volo.
O rami, ricordi diretti della benedizione del sole
E della suzione minerale.
Ora vedo che le foglie delle palme sono lame
Non mani, che menano fendenti alla luce sorgiva
dei limoneti. Tagliano di netto, l'innocenza dei primi voli.
Le ali dei colombi sono come il fruscio di una tunica
Che cade da un corpo profumato
(Sognó di rose, di gelsomino, tutta la notte passata tra la rucola)
In nome dell'Altissimo, non spezzeró il collo alla ghiandaia.
Il martin pescatore resta in euilibrio sui fili della luce.
Guardo le mie mani, ora come ciotole,
Le riempio dell'acqua fangosa che bevo con le capre
Annaffio l'aloe vera
Ho le unghie spezzate.

genseki

Dove caddero le loro mani

Sono mani cadute laggiú
Dove la città declina, si stinge
Sbocca delta di cemento
Nell'azzurrità dei canneti
Nel volo di cromo degli sciami di mosche
Tra le lame di palmizi stinti
mani abbandonate con le palme all'insú
a raccogliere come catini la pioggia
Maleducata del marzo impallidito
Mani che furono strette altrove
dagli dei di bronzo di cui portarono i sigilli
Il sole le disincarna in ali d'uccelli bianchi
Caduti alla riva del volo.
Le bietole e il tarassaco crescono tra dito e dito
Mani che giacciono aperte laggiú
Dove la cittá è un grido
E il sole sembra appoggiarsi
Ai fianchi madidi del monte.

genseki

Le mani della Giovanna

La Giovanna ha mani forti
Mani brune che il sole ha conciato
Pallide come le mani dei morti
Non son le mani della Juana.
Vi ha forse spalmato le creme
Dei pantani del piacere?
Si saranno immerse nelle lune
Delle lagune bianche e serene?
Hanno bevuto da cieli barbari
Immobili su gambe che innamorano?
Hanno forse arrotolato sigari?
O fatto contrabbando di diamanti?
Sui piedi ardenti delle madonne
Sono andate a sfogliare fiori d'oro?
È sangue nero di belladonna
Che nelle palme esplode e dorme.
Con queste mani cacciava i ditteri
Di cui risuonano azzurramenti
Nell'albeggiare verso il nettareo?
Distillano veleni queste mani,
Quale fu il sogno che le sorprese
In un momento di spossatezza?
Sogno d'immense asie inaudite
Di kenghavar o di Sionne?
Con queste mani non vende arance
No, non si scurirono sui piedi santi
Lavando fasce e pannolini
Per accecati bambini obesi
Non sono mani di una cugina
Di un'operaia di fronte spessa
Che brucia nel bosco che olezza
Di fabbriche, inebriato il sole dalla pece.
Sono mani che piegano le schiene
Sono mani che non farebbero alcun male
Ancora piú fatali delle macchine
Molto piú forti di un cavallo intero
Sono mani, fornaci che ribollono
Che sferzano come brividi di febbre
La loro carne canta la marsigliese
E giammai canterebbe l'Agnus Dei.
Sono mani che vi strozzerebbero
Donne malvage che le mani infami
Delle nobili dame schiaccerebbero
Le mani piene di cipria e di carminio
Splendore di mani amorose
Rivolta il cranio dei capri
Per falangi leggendarie
Il gran sole crea rubini
Macchia della canaglia
Le oscura come vecchi seni.
Il dorso di queste mani è l'altare
Che bacia ogni rivoluzionario.
Impallidirono, che meraviglia!
Sotto il gran sole carico d'amore
Sul bronzo della mitraglia
Attraverso Parigi insorta!

A volte o mani consacrate
Al polso ove tremano i baci
delle nostre labbra per sempre ubriache
Stridono catene di anelli chiari!

Allora un soprassalto strano
Ci coglie fin nel profondo
Quando vi vogliono rendere pallide
Insanguinandovi le dita!

Rimbaud
trad. genseki

lunedì, marzo 01, 2010

Mani

Le mani

Le mani di due speci lottano nella vita
van sbocciando dal cuore, sgorgano dalle braccia,
Saltano per sboccare nella luce ferita
A colpi, a graffi.

La mano è lo strumento dell'anima, il messaggio,
Il corpo trova in essa il ramo combattente;
Con le mani levate fate una mareggiata
Uomini della mia gente.

Giá vedo l'alba delle mani pure
Di chi lavora sulla terra o sul mare,
Come una primavera di allegri dentature,
Di dita mattutine.

Duramente abitate dal sudore,
Rintoccano le vene fin dalle unghie rotte,
Costellano lo spazio di palchi e di clamori,
Di lampi e gocce.

Conducono le zappe, conducono i telai;
Monti e metalli mordono, rapiscono ascie e querce,
Erigono, se vogliono, perfino, in mezzo al mare
Miniere, borghi e fabbriche.

Mani sonore, mani oscure e lucenti
Le ricopre una pelle di corteccia invincibile
E sono inesauribili sorgenti generose
Di vita e di ricchezza.

Come se con le stelle lottassero le polveri,
Come se con i vermi lottassero i pianeti
La specie delle mani lavoratrici e chiare
Lotta con altre mani.

Ferocemente strette in banda sanguinaria
Avanzano al cadere dei cieli vespertini;
Livide mani, ossute, mani sterili
Paesaggio di assassini.

Non han suonato, non cantano, hanno le dita afone,
Svolazzano in silenzio, vagliano, si propagano
I velluti non tessero, non tagliarono i tronchi
Molli, oziose procedono.

Impugnan crocifissi, afferrano gioielli
Che appartengono solo a quelli che li fecero
Nei crepuscoli muti assorbono i sonori
capitali di aurora.

Orgoglio di pugnali, armi per bombardare
Con calici, delitti, con morti in ogni unghia;
Esecutrici pallide dei neri desideri
Che l'avarizia impugna.

Chi laverá le mani fangose che raggiungono
L'acqua e la disonorano arrossano ed infangano?
Nessuno lava mani che in pugnali s'accendono
Che nell'amore si spengono.

Le mani laboriose di quelli che lavorano
Cadranno su di voi con i denti e i coltelli
Le vedranno amputate i tanti sfruttatori
Sulle loro gincchia.

Miguel Hernandez
15 febbraio 1937

trad genseki